SI PARTE O NON SI PARTE ?
L’esperienza di un nostro soldato in Afghanistan
Il passaporto era pronto, ma gli ordini dall’alto ogni giorno diversi: ”Si parte o non si parte?”. A casa stringevamo i denti sperando che Andrea rimanesse in Italia. Lui, invece, pur consapevole del pericolo, non voleva rinunciare a questa esperienza. Intanto era arrivato l’ordine definitivo: “Partenza per l’Afghanistan, il giorno 7 febbraio”. Gran confusione a casa e un sentimento indefinito a metà tra paura, orgoglio, ansia e serenità. Andrea si faceva vedere calmo (è una sua caratteristica innata) per una missione che riusciva quasi ad entusiasmarlo. Gli amici gli preparavano una festa a sorpresa e lo salutavano con un sincero “In bocca al lupo!”.
Il suo contingente, che porta il nome di un rapace, “Nibbio”, avrebbe operato nell’ambito della missione “Enduring Freedom” con lo scopo di combattere il terrorismo e di spodestare i militanti di Al Qaeda che fanno capo a Bin Laden.
Dopo lo scalo negli Emirati Arabi, gli alpini atterravano in Afghanistan, terra martoriata da anni e anni di miseria e di guerriglia.
Un inizio e un impatto difficili, scoraggianti: lasciavi la ricchezza e il benessere occidentali per trovarti in un mondo ai limiti della sopravvivenza.
Niente luce, niente gas, niente riscaldamento, non un’autostrada, non un negozio, un clima arido e avverso, qualcuno possiede un asino con cui caricare le merci da portare al mercato, qualcun altro ha un fazzoletto di terra che regala un po’ di grano per sopravvivere. Uno stato di confusione politica e civile di cui sono vittime i bambini, sempre in cerca di acqua e di un pezzo di pane, le donne, segregate e maltrattate, i più deboli, che lavorano per un dollaro al giorno (lì il denaro non ha valore). Per non parlare poi delle condizioni igienico - sanitarie, che sono pessime: una semplice puntura d'insetto può provocare piaghe insanabili.
La guerra, la fame e la miseria inaspriscono ulteriormente le rivolte che giornalmente scoppiano tra tribù rivali.
Per noi a casa i giorni sembravano non passare mai, quel conto alla rovescia iniziato dal giorno stesso della partenza sembrava scorrere troppo lento. Le notizie dei telegiornali non erano confortanti e, almeno per i primi tempi, le possibilità di comunicare con Andrea abbastanza ridotte. Trascorsi una ventina di giorni i soldati attivavano la loro base e rendevano possibili i collegamenti telefonici e telematici. Andrea ci rassicurava sempre e ci raccomandava di non lasciarci impressionare dai telegiornali. Certo non potevamo fare lunghe chiacchierate, ma ci bastava sentire una voce serena. Sentivamo sempre la sua mancanza, ma, soprattutto nei giorni di festa, quando ci riunivamo tutti a casa e il suo posto a tavola era vuoto, il senso di nostalgia diventava più forte.
Alla fine di giugno, finalmente, Andrea tornava a casa con un grosso bagaglio di esperienze e un accresciuto senso di umanità, come un eroe.
Oggi, quando gli anziani di Ortona lo incontrano per strada gli rivolgono orgogliosi mille domande. ”Anch’io ho fatto la guerra!”, dicono e, commossi, si rivedono in Andrea, giovani militari partiti per la seconda guerra mondiale.
Francesca Di Benedetto