Gianni Guasto

Abuso e mondo interno: trauma, difese, devastazione, mentalizzazione.

 

1. Introduzione.

Qualsiasi processo riparativo di un abuso sessuale vissuto nell’infanzia parte da una narrazione, che può consistere anche soltanto in un abbozzo comunicativo, e che si connota come tentativo di condividere l’esperienza traumatica con un interlocutore diverso dall’abusante, e, allo stesso tempo, di ristabilire una relazione trofica[1] con una figura adulta.

Per poter raccontare un’esperienza vissuta, occorre però essere in grado di attribuirle senso, poiché ciò che è senza significato ha la caratteristica dell’inenarrabilità.

Secondo lo psicoanalista W. R. Bion, la capacità di attribuire senso all’esperienza viene acquisita dal neonato grazie ad una particolare qualità empatica della madre, chiamata rêverie.

Tutte le esperienze spiacevoli, sia che provengano dal mondo esterno, oppure dal mondo interno, sono vissute dal neonato come insopportabili perché prive di significato. In questo stadio sono definite da Bion “elementi beta”, e, poiché non sono adatte all’attività onirica e al pensiero che ne consentirebbero l’elaborazione, il loro destino è quello di essere evacuate attraverso tutti i meccanismi espulsivi (pianto, grido, flatulenza, defecazione, minzione, rigurgito) di cui il piccolo essere dispone.

In condizioni favorevoli, tali output vengono proiettati in un “contenitore”, costituito dall’apparato mentale materno, in grado di contenerli e di restituirli trasformati in elementi provvisti di significato (elementi alfa), finalmente adatti ad essere pensati e/o sognati.

Tale processo (funzione alfa[2]) è reso possibile dalla capacità di rêverie della madre, che è in grado di immaginare per essi un significato e di comunicarlo al bambino, attraverso tutti gli strumenti a disposizione (linguaggio verbale, linguaggio extraverbale, dialogo tonico).

Quando ciò avviene, il bambino, oltre ai significati delle proprie esperienze, introietta un “oggetto buono” (Klein), materno, capace di assisterlo per sempre, consentendogli soprattutto di tollerare l’angoscia[3].

Il fallimento della funzione alfa genera vari disturbi nel bambino, che può risultare carente o del tutto privato di tale fondamentale apporto, oppure essere addirittura reinvaso dagli stessi elementi prima proiettati nella madre e da essa più o meno violentemente respinti; in questo caso, il bambino sperimenterà uno stato emotivo che Bion chiama “terrore senza nome”.

Bambini che non possono fruire di un adeguato rifornimento di elementi alfa, sono destinati a continuare a funzionare con modalità proiettive, nella lunga e frustrante ricerca di un contenitore che possa soddisfare le loro esigenze basilari.

Quando si accinge a diventare genitore a sua volta, colui o colei che ha visto frustrati i propri tentativi di consegnare alla propria madre le cattive esperienze, per ottenerne in cambio liberazione ed appagamento, non disporrà di sufficiente spazio interno per poter accogliere le proiezioni del proprio bambino, con la conseguente creazione di un circolo vizioso in grado di danneggiare più generazioni.

Se la descrizione di tali meccanismi rende sufficiente ragione del fenomeno della trasmissione intergenerazionale delle attitudini a trascurare i bambini, o ad esercitare su di loro le più diverse forme di violenza, ne consegue che, tra le molteplici qualità che tale forma di malaccudimento compromette nel bambino, assume particolare rilevanza la futura difficoltà ad esercitare la funzione genitoriale.

Non di rado, se la frustrazione di tale primario bisogno infantile sarà stata particolarmente severa, il soggetto diventato adulto continuerà a proiettare i propri contenuti mentali dovunque sia possibile, a prescindere dall’idoneità del contenitore.

In qualche caso la funzione di ricettacolo potrà essere assegnata al bambino, che si troverà suo malgrado a  svolgere un’impropria ed involontaria funzione genitoriale nei confronti di coloro che dovrebbero accudirlo. Si realizzerà cioè l’inversione del flusso delle proiezioni.

La psicoanalista Gianna Polacco Williams ha studiato approfonditamente i problemi clinici legati all’inversione del flusso della funzione alfa[4].

Secondo la studiosa, l’intrusione di elementi proiettivi nel “ricettacolo”[5] costituito dall’apparato mentale di un bambino produce danni molto gravi, che possono manifestarsi in diversi modi: da un atteggiamento generalizzato di chiusura nei confronti di “qualunque cosa possa penetrare all’interno attraverso qualunque orifizio”[6], ivi compreso il cibo (sistema difensivo “vietato l’accesso”, o “No-entry Syndrome”, connesso con stati anoressici), alla completa passivizzazione dei soggetti più “porosi”[7], all’incistamento degli input traumatogeni come “corpi estranei mentali”, fino alla destrutturazione dell’apparato mentale, a causa dell’introiezione di un  “oggetto materno” che anziché fornire senso e contenimento, “riversa caos, disorganizzazione e angoscia nel mondo interno”[8].

L’effetto vistosamente tossico di tale introiezione ha consentito all’Autrice di formulare l’ipotesi di una funzione omega, collocabile all’estremo opposto dello spettro, rispetto alla funzione alfa.

Laddove la funzione alfa produce, attraverso l’introiezione di elementi trofici (gli elementi alfa), un nutrimento emotivo capace di dar luogo alla crescita di un oggetto materno internalizzato che sarà in grado di far fronte alla separazione e di presiedere all’individuazione, il suo fallimento darà luogo a fenomeni di intossicazione di vario grado: dalla reintroiezione degli elementi beta proiettati nel contenitore e da esso respinti (“terrore senza nome”), alla devastazione dell’apparato mentale determinata dall’invasione indiscriminata di proiezioni dalle quali il bambino non è in grado di proteggersi (funzione omega), alle situazioni pur sempre gravi e clinicamente rilevanti nelle quali il bambino riesce a strutturare sistemi difensivi quali la No-entry Syndrome o l’incapsulamento dell’esperienza traumatica come corpo estraneo.

 

2.  Il destino dell’esperienza di abuso sessuale nei bambini

Nelle situazioni  di abuso sessuale in danno di un minore, la relazione tra adulto aggressore e bambino vittima appare caratterizzata dalla proiezione massiccia di contenuti mentali adulti (desideri e fantasie sessuali, residui delle fantasie edipiche dell’infanzia dell’aggressore, o sue indigerite esperienze traumatiche precoci) che intrudono nello spazio mentale del bambino senza che egli possa dare loro significato.

La nostra esperienza clinica ci porta ad ipotizzare che in tali casi le conseguenze dell’inversione del flusso alfa dovute alla proiezione  nel bambino dei desideri incestuosi degli adulti, dia luogo a fenomeni clinici del tutto simili a quelli che Polacco Williams riscontra nell’ambito degli eating disorders.

L’impossibilità di mentalizzare[9] adeguatamente le esperienze traumatiche, rende ragione degli imponenti disturbi della rappresentabilità e della memoria, che le vittime di abuso sessuale presentano in rapporto all’evento.

Di fronte alle rivelazioni che i bambini producono in relazione alle esperienze di abuso sessuale, gli osservatori debbono confrontarsi con esposizioni spesso incoerenti, soggette a ripetute ritrattazioni, o a parziali distorsioni, e persino costellate di “elementi strani, improbabili e fantastici” (Everson)[10].

Ciò accade frequentemente anche nelle dichiarazioni riferite ad esperienze di abuso realmente verificatesi, e la presenza di aspetti incoerenti o contraddittori nella narrazione non implica necessariamente la sussistenza di un falso positivo, di una dichiarazione non veritiera o di un fenomeno di induzione.

L’esperienza di abuso sessuale nell’infanzia è infatti, per le ragioni sopra menzionate, indicibile.

L’intrusione di un elemento estraneo all’esperienza e alle aspettative implicite nello sviluppo infantile determina con frequenza fenomeni scissionali e di incapsulamento.

L’esperienza incestuosa non può infatti essere adeguatamente metabolizzata dall’apparato mentale, non può associarsi ai contenuti mentali preesistenti, né essere confrontata con esperienze non traumatiche. L’esperienza incestuosa non può essere dimenticata, né compiutamente ricordata.

La possibilità di rappresentarla da parte del soggetto (soprattutto di quello in tenerissima età) è condizionata all’instaurarsi di una relazione empatica con un adulto capace di ascolto e di tutela (Roccia e Foti)[11], ed ha comunque anche in questo caso le caratteristiche della discontinuità per la difficoltà che il minore incontra nell’entrare in contatto con il ricordo.

Nella relazione terapeutica il transfert assume spesso le caratteristiche dell’assimilazione del terapeuta all’abusante, e del riversamento su di esso dell’aggressività in precedenza passivamente  incamerata.

 

Scopo di questo lavoro è quindi quello di illustrare, attraverso alcuni esempi clinico-peritali, il percorso lungo il quale il ricordo dell’esperienza di abuso affiora, o il suo rimanere escluso  dalla memoria.

Tale problema è visto da me nella prospettiva del raggiungimento della “pensabilità” o “mentalizzazione” di pensieri prima irrapresentabili per le ragioni fin qui esposte.

Parlando del caso di Piera, descriverò un frammento di una psicoterapia che presi in carico ben prima di sospettare la presenza di un abuso pregresso nell’anamnesi della paziente.

Durante il corso delle sedute i ricordi affiorarono gradualmente, fino a diventare intollerabili al punto che la paziente decise di interrompere la terapia, per poi tornarvi due anni più tardi.

Nel caso di Anna,  documenterò le fluttuazioni del ricordo in una bambina abusata in tenera età, che, dopo la rivelazione alla madre e il conseguente appannarsi dei ricordi in assenza di interlocutori istituzionali capaci di empatia, riuscì a ripensare compiutamente l’esperienza nel corso di una serie di consultazioni terapeutiche nelle quali la psicologa assistette ad una vera e propria “mentalizzazione allo stato nascente”.

Nel caso di Teresa, infine, descriverò l’amnesia post-traumatica di una bambina abusata dal padre e ri-abusata dalla “sordità” istituzionale.

 

3. L’incesto e la memoria della specie

Qualsiasi interscambio sessuale tra adulto e bambino rimanda invariabilmente alla rappresentazione dell’incesto, anche se vi sono notevoli differenze tra abuso intra- ed extrafamiliare.

Anche se in quest’ultimo caso si verificano atti che possono arrivare al rapimento e talvolta sfociano nella soppressione della vittima, l’abuso intrafamiliare contiene un attacco distruttivo al cuore del patrimonio affettivo individuale interno, che è stato giustamente definito un “Soul Murder” (Shengold, 1979[12]).

Ciò é riferibile a parecchie ragioni, sopra le quali sembra campeggiare la rottura del patto etologico di non belligeranza tra le generazioni che rende possibile la sopravvivenza delle specie animali.

Le ragioni dell’impensabilità dell’esperienza incestuosa, della sua inassimilabilità ai contenuti mentali preesistenti (poiché nessuno di essi è in grado di fornirle senso) sono molteplici e rimandano ad aspetti di natura filogenetica, oltreché ad esperienze individuali.

Gli antichi attribuirono all’incesto (così come al parricidio) un valore di evento fondamentale, capace di determinare la crisi dell’ordine cosmico.

Per questa ragione l’incesto è un’esperienza non assimilabile né digeribile da parte della famiglia umana ancor prima che dal soggetto individuale.

Se si osserva quale importanza tragica venga attribuita all’incesto dal mito greco, se si tiene presente che l’antropologia moderna colloca la proibizione dell’incesto all’origine della cultura, e se si rammenta quale ruolo venga ad assumere la rappresentazione dell’incesto nel modello di sviluppo dell’apparato mentale che ci è stato consegnato dalla psicoanalisi attraverso l’identificazione del complesso edipico, possiamo cogliere come l’incesto sia sedimentato nella memoria della specie come un elemento distruttore (ciò che di due torna a fare uno, attraverso l’annullamento della differenziazione insita nella nascita), che alberga nella nostra mente con caratteristiche di inafferrabilità.

L’incesto non è infatti classificabile come una variabile indifferente relativa alla scelta dell’oggetto, una parafilia assimilabile ad altre atipie dell’orientamento sessuale, ma si caratterizza come manifestazione di diniego dell’individualità alla sua radice: ed é probabilmente questa la ragione che ne ha fatto una sorta di “delitto fondamentale” nella storia dell’umanità.

 

3.1 L’esperienza incestuosa e il silenzio dei genitori interni

Quando un bambino viene abusato da entrambi i genitori o quando l’abuso di uno solo non è seguito da un atto di protezione da parte dell’altro, quando la famiglia viene meno ad ogni dovere di tutela, per il bambino crolla l’universo delle relazioni di protezione.

La percezione di tale perdita fondamentale è assimilabile alle angosce primigenie di essere abortiti, di cadere senza fine, di rottura del sacco amniotico, di taglio del cordone ombelicale.

Essa coincide con la temuta esperienza di solitudine posta idealmente all’uscita del canale del parto, laddove “potrebbe non esserci nessuno”.

Un bambino abusato in famiglia e non adeguatamente protetto, qualora abbia la capacità di strutturare sistemi difensivi, andrà incontro all’oscuramento dello spazio mentale virtualmente preposto ad amministrare la consapevolezza dell’esperienza traumatica, che si configura come area cieca, paragonabile ad una capsula fibrosa che avvolge, nei tessuti, un corpo estraneo incistato[13].

La cecità dell’area descritta corrisponde anche al venir meno di una funzione di accudimento da parte delle figure genitoriali internalizzate, che, da quel momento, cessano virtualmente di vivere, o entrano in uno stato di letargia[14].

 

4. Corpi estranei incapsulati: uno scorcio di psicoterapia

Piera, una ragazza diciassettenne, era stata ricoverata presso un reparto di psichiatria in seguito ad ingestione di una dose eccessiva di psicofarmaci. Al momento della sua dimissione mi fu inviata per una psicoterapia dal prof. M., lo psichiatra che l’aveva assistita durante il ricovero.

Fin dal primo incontro, la ragazza descrisse il suo gesto come reattivo all’abbandono da parte di un giovane con il quale aveva avuto una non troppo lunga relazione sentimentale.

In verità, il dolore per la delusione amorosa ebbe durata piuttosto breve: già dalle prime sedute, Piera cominciò a mostrare un vivo interesse per la relazione terapeutica e per il senso di protezione che da essa sentiva di ricevere.

Nelle prime settimane mi parlò di un disturbo bulimico di cui aveva patito in una non meglio precisata epoca recente, e che, con scarsa convinzione, dichiarava cessato.

Anche rispetto al fenomeno del vomito che seguiva l’iperassunzione alimentare era piuttosto vaga, e, dietro mia richiesta, mi disse che si trattava di un fenomeno spontaneo.

Fin dalle prime sedute, descrisse quasi di sfuggita certi suoi ricordi infantili legati alla sessualità dei genitori.

La contiguità della sua con la loro stanza, e la possibilità di ascoltare quanto vi avveniva, l’aveva messa presto al corrente di una conflitto genitoriale legato alla sessualità. Della madre ricordava parole di rifiuto nei confronti del padre, espressioni di incerto significato che suonavano come “se Piera sapesse…” e una sensazione quasi fisica che il padre stesse facendo a lei “quello che faceva alla madre”.

La vaghezza di tali espressioni ricordate in maniera oltretutto frammentaria non mi consentì di formulare alcuna ipotesi. La facilità con cui la ragazza aveva ascoltato (o immaginato?) i dialoghi connessi con la sessualità dei genitori poteva essere espressione di una comunissima forma di curiosità edipica, come d’altronde l’impressione descritta in termini quasi cenestesici relativa al sentirsi oggetto di attenzioni sessuali da parte del padre poteva essere niente altro che una fantasia erotica, anche se molto (troppo?) connotata in senso fisico, al limite con l’illusione corporea o con il (falso?) ricordo.

D’altra parte, in Piera non si percepiva un’animosità ostile nei confronti dei propri genitori. Se si fosse trattato di un’isterica in preda a sensi di colpa per i propri desideri edipici,  e al conseguente desiderio di incolparne colui che ne era stato l’oggetto, si sarebbe dovuto percepire un particolare piacere nell’accusare il padre. Invece questo non accadeva: ci si trovava continuamente in presenza di un ricordo che timidamente iniziava ad affiorare e che subito si arrestava.

La mia emozione controtransferale fu in quel periodo ferreamente improntata al bisogno di tacere, di non precipitare, neppure dentro di me, giudizi circa l’eventuale abuso, di provare a condividere quel sentimento di incertezza che la ragazza stava sperimentando. Avevo paura che un passo falso avrebbe potuto compromettere tutta la terapia.

La curiosità di Piera nei confronti della sessualità dei genitori era d’altronde ben giustificata, in quanto la ragazza era da tempo convinta che ci fosse un mistero circa la sua nascita. Ella aveva un padrino, Giuseppe, con il quale intratteneva un intenso e affettuoso rapporto filiale. Era praticamente certa che tra Giuseppe e la madre vi fosse stata una relazione (dubitava di aver visto qualcosa), e sospettava fortemente che l’uomo fosse il suo vero padre.

Dopo un riesame dei miei appunti ricordai di aver avanzato mentalmente tale ipotesi fin dal primo colloquio, quando la ragazza aveva descritto il suo entourage familiare senza entrare nei dettagli.

La psicoterapia proseguì per circa otto mesi, in assetto vis-à-vis, con frequenza di una seduta la settimana.

Con modalità che mi sorpresero, le associazioni di Piera si avvicinarono sempre di più al tema dell’abuso sessuale.

Inizierà una seduta chiedendo: “Che cos’è la personalità multipla[15]?”, e motivando la domanda con il fatto di aver assistito ad un film intitolato, per l’appunto, “Personalità Multipla”. Successivamente inizierà a fare fugaci riferimenti al tema, connotati da un chiaro desiderio di evadere immediatamente da esso.

Piera, nel frattempo, continuava a parlarmi con passione e genuino interesse autoesplorativo dei suoi rapporti con la madre, donna fragile, frustrata, in preda a sensi di colpa, e timorosa del mio giudizio (in ragione del quale invitava Piera a “non raccontare proprio tutto”); della diversa considerazione che oggi aveva del fidanzato per il quale aveva tentato il suicidio e che ora vedeva come un bamboccio strumentalizzato da una madre ansiosa di apparire giovane e di piacere ai coetanei del figlio, con  i quali consumava volentieri droghe sintetiche; del “padrino” (“che forse è mio padre…”), con il quale manteneva un tenero rapporto di confidenza filiale apparentemente non connotato da sessualizzazione, con i successivi partners con i quali instaurava relazioni poco durature, e con i suoi ripetuti tentativi di trovare un’occupazione stabile. Parlò anche delle sue aspirazioni frustrate, della sua determinazione nello studiare il latino da autodidatta pur essendo stata costretta, dopo il ricovero ospedaliero a lasciare l’istituto tecnico, frequentato di malavoglia.

In mezzo a queste riflessioni mai banali o superficiali sulla propria vita, continuano ad emergere con dolorosa perseveranza frammenti di ricordi o di associazioni inerenti l’incesto.

Tacciono le espressioni di desiderio di dipendenza dal terapeuta, che all’inizio comparivano spesso, seppure in termini un po’ enfatizzati, e ritornano con insistenza i motivi della presunta doppia paternità (“credo che Giuseppe sia mio padre, ma non ne sono sicura”, ripete più volte ad ogni seduta), e contemporaneamente si fa strada un tema che lascia supporre un interesse sessuale attuale da parte del padre nei suoi confronti.

Afferma ripetutamente che il padre,  quando le sta seduto vicino, le sussurrerebbe con flebile voce sospirante: “Piera! Piera!”. Interrogata, non riesce a dire come spieghi tale comportamento.

 

Piera accetta senza evidenti scompensi la separazione estiva, facendo coincidere le vacanze con un impegno lavorativo stagionale in un’altra regione. Torna puntualmente al rientro, ma prosegue il trattamento solo per poche settimane.

Durante tale periodo fa un cenno fuggevole ad un ricordo che sarebbe emerso nel corso dell’estate: quando la madre lavorava la notte come infermiera, lei dormiva accanto al padre, nel letto matrimoniale. Lui le toglieva le mutandine e le cospargeva una crema sulla regione pubica…...

 

Piera ora non ricorda bene, sente l’esigenza di fermarsi. Non commento.

 

Per alcune sedute non viene, poi mi fa telefonare da una mia collega che è anche (lo ho appreso dalla paziente) la sua madrina. Piera ha deciso di interrompere la terapia perché soffre troppo durante le sedute, e non sa come dirmelo.

Per interposta persona, faccio sapere a Piera che comprendo e rispetto la sua decisione, e che tuttavia la invito a chiamarmi, non appena si sentirà di farlo di nuovo.

Non la sento più per due anni, e neppure la collega - madrina, con la quale di tanto in tanto collaboro, sembra averne notizie precise.

Nella primavera del 2000 la collega mi richiama, dicendomi che Piera è stata da lei, confidandole di aver bisogno di sostegno psicologico e di non sapere a chi rivolgersi. La collega le ripropone il mio nome, e la reazione di Piera sembra sollevata, anche se tenta di giustificare tale decisione: in fondo io conosco già la sua storia, non ci sarà bisogno di ricominciare da capo la fatica del narrare….

Torna, e di primo acchito stento a riconoscerla: appare appesantita nel fisico, ed ha una capigliatura malamente tagliata e tinta di un improbabile color nero. La cosa mi sorprende perché Piera ha sempre avuto capelli biondi lunghissimi, molto belli: apprenderò con stupore che ha tagliato e colorato lei stessa i suoi capelli pochi giorni prima di tornare da me.      

Fin dalle prime sedute, Piera appare stanca e provata. Non ha ritrovato quel desiderio un po’ famelico ma anche carico di promesse che aveva sperimentato (e mi aveva fatto sperimentare) durante la “luna di miele psicoterapeutica” che aveva contrassegnato quasi per intero il periodo precedente.

Ritorna con fatica sulle cose dette in passato, e io questa volta parlo di più, ricostruendo i suoi racconti che ricordo bene e i suoi dubbi di allora, che sembrano, da quell’epoca, aver fatto poco cammino. Mi spingo anche a parlarle di qualcosa che credo che lei sapesse fin da allora, anche se non me ne aveva mai parlato.

Riferendomi al periodo precedente, osservo come, poco lontano dalla sala d’aspetto nella quale attendeva l’inizio delle sedute, fosse rimasto esposto per lungo tempo un manifesto che annunciava un convegno sui bambini sessualmente abusati, nel quale io ero indicato tra i relatori. Penso che lei, che era stata inviata a me come ad un terapeuta disposto ad occuparsi di una ragazza che aveva tentato il suicidio e non come ad un esperto in abusi sessuali, doveva aver appreso che mi occupavo di tali problemi dalla lettura di quel manifesto. Disse di sì, e ricordò quello che aveva pensato dopo il primo momento di sconcertata sorpresa: “ecco perché il prof. M. mi ha mandato proprio da lui: il prof. M. ha intuito la verità![16]”.

Già: ma quale verità? Se provava a dirsi che cosa poteva aver intuito il dott. M., non poteva che continuare a rimuginare gli stessi dubbi che aveva prima di lasciare la terapia. Le dissi che lei era venuta volentieri da me fintanto che aveva potuto sperare che quella “verità” fosse presente nella mente del prof. M. e nella mia. Ma non appena aveva cominciato a sentirsi invasa da quelli che ormai considerava (per avermeli affidati) i “miei” pensieri, quando fu raggiunta dal ricordo del padre che le spalmava la crema sulla regione pubica, pensò che quella sorta di “delega” che mi aveva affidato non poteva servire a tenerla al riparo dai ricordi che io, ai suoi occhi, minacciavo di restituirle.

In effetti, se ripenso al vissuto controtransferale di quella prima tranche terapeutica, devo riconoscermi un bisogno del tutto interno e persino eccessivo di “neutralità”. Di una neutralità tuttavia, che coincide solo in parte con la necessaria neutralità psicoanalitica, e che assomiglia di più alla pretesa asepsi di certi periti eccessivamente preoccupati di lasciare eccessiva libertà alle proprie intuizioni creative perché schiacciati dal senso di colpa per le conseguenze penali che i loro accertamenti diagnostici  producono a danno di chi abusa dei minori.

Altrove ho scritto[17] come io consideri un tale eccesso di neutralità come il prodotto di un’ideologia difensiva destinata a produrre ulteriori danni in bambini già vittimizzati.

Tale atteggiamento non è quindi congeniale al mio modo di pormi quale Consulente Tecnico d’Ufficio, e, in fin dei conti, neppure al mio modo di intendere il ruolo di psicoterapeuta[18].

L’emergenza in me di un vissuto tanto inconsueto è quindi prova della sua natura controtransferale, in risonanza con il dramma inconscio di Piera, che appare divisa tra il desiderio di risolvere il rovello di Edipo: “che cosa è realmente stato, e con chi, e da parte di chi?”, e il timore di scoprire il delitto del quale, evidentemente, sul piano inconscio, si ritiene responsabile.

Scrive Ferenczi che il bambino abusato introietta il senso di colpa dell’abusante[19]: è questo senso di colpa che Piera teme di incontrare, e che, diversamente da un “normale” senso di colpa conseguente a “normali” fantasie edipiche, non può essere rimosso, né trasformato in sintomo isterico come accadeva alle pazienti di Freud e di Breuer. Questo “non-ricordo” non può essere rimosso, dimenticato, e neppure ricordato. Rimane lì, come un corpo estraneo conficcato nella carne con la quale non potrà mai fondersi, e dalla quale non può essere espulso.

 

Con l’inoltrarsi di una stagione precocemente calda, la trascuratezza che si era evidenziata fin dal momento in cui ci eravamo rivisti, si propone con sempre maggiore evidenza, man mano che le calure estive invitano a spogliarsi.

Durante le sedute di Luglio, Piera viene in seduta mostrando un eccesso di nudità, che non si accompagna ad atteggiamenti patentemente seduttivi e che forse è più trasandato che provocante. Con l’espandersi del suo corpo, il seno è diventato particolarmente prosperoso, e lei sembra portarlo quasi con fatica, come se la carne, debordando senza che lei faccia nulla per contenerla, le risultasse quasi estranea. Ciò non significa che dentro di lei non ci sia anche una fantasia inconscia di ripetere nel transfert un incesto, inteso forse come un prezzo da pagare, come una dolorosa necessità implicita nei rapporti fra un  padre e una figlia, ma il suo atteggiamento non può definirsi propriamente erotizzato o seduttivo, né d’altra parte corrispondente ad un criterio di normale fair-play nei confronti del proprio medico.

 

Durante questa seconda tranche di sedute (che, al momento in cui scrivo questo articolo, è interrotta per le vacanze estive), Piera mi ha raccontato di aver intrecciato una nuova relazione sentimentale, nella quale i rapporti sessuali sono resi difficili dalle sue ingravescenti crisi d’ansia, che l’hanno indotta a cercare nuovamente le mie cure.

In particolare Piera, (che durante la prima tranche soffriva di bulimia con vomito provocato) mi racconta ora di venir colta durante i rapporti sessuali da violente crisi di panico, che, talvolta, si accompagnano alla compulsione a ficcarsi le dita in gola.

 

Ho descritto altrove[20] Giovanna, una ragazza da me conosciuta all’età di diciassette anni, all’epoca in cui aveva trovato la forza di denunciare gli abusi subiti ad opera del padre quando aveva otto anni.

Al momento delle operazioni peritali, Giovanna presentava un quadro di bulimia psicogena,  accompagnata a vomito autoindotto, in occasione del quale cospargeva le dita di dentifricio prima di usarle per stimolare il faringe. Quando la ragazza descriveva l’andamento del proprio disturbo comportamentale non mi diceva mai: “questa settimana ho/non ho mangiato in quel modo”, ma piuttosto: “questa settimana ho/non ho vomitato”. In breve mi accorsi che delle due fasi del ciclo che caratterizzava il comportamento compulsivo, l’aspetto del vomitare prevaleva nettamente, quanto a risonanza emotiva, sull’altro, giungendo a concludere che Giovanna non vomitava perché aveva mangiato troppo, ma mangiava in maniera smodata per poter vomitare, nel tentativo di espellere qualcosa di non meglio precisato. Questo “qualcosa” era certamente l’esperienza di abuso, della quale tentava di liberarsi anche se in forma reificata, proprio perché al suo interno non aveva potuto essere metabolizzata, nemmeno come esperienza negativa, data l’assenza di un apparato psichico materno  che potesse provvederla di significato[21].

 

Se si osservano le crisi di panico che insorgono in Piera in prossimità del coito, caratterizzate dal bisogno compulsivo di infilarsi le dita in gola, e le si confrontano con la peculiarità dell’eating disorder in Giovanna (mangiare per poter vomitare, anziché vomitare per poter mangiare), non si può far a meno di pensare alla percezione di un corpo estraneo incistato.

Il tentativo quotidiano di riempirsi lo stomaco per poter vomitare è per Giovanna legato alla speranza di poter espellere un oggetto misterioso di cui non riesce a liberarsi; per Piera il legame tra l’autoinduzione del vomito e il corpo estraneo è ancora più difficile da conoscere.

Mentre Giovanna ricordava benissimo gli abusi subiti dal padre ed era in grado di raccontarli, Piera mantiene il ricordo in un’area intermedia della coscienza, in un cono d’ombra dal quale continuamente emerge e nel quale è ogni volta oscurato.

Vi è in entrambe le ragazze l’idea che un’ulteriore incorporazione possa scacciare la precedente. La filastrocca inglese che parla di questo bizzarro rimedio, ci avverte che, alla fine, si muore[22].

Mentre Giovanna, che è conscia dell’incesto, percepisce seppure confusamente il carattere potenzialmente tossico del dito che introduce in gola, e per questo lo cosparge ogni volta di dentifricio, Piera nega tutto: non sa se il padre abbia abusato di lei, afferma con poca convinzione che il vomito bulimico è spontaneo, prova un impulso ingovernabile di cacciare le dita in gola come se non sapesse quello che sta facendo.

 

 

5. Anna: la rivelazione allo stato nascente

Seguendo il percorso del processo di mentalizzazione in Anna, una bambina abusata dal padre intorno all’età di due anni e mezzo, si può avere un’idea chiara delle fluttuazioni della rappresentabilità cosciente dell’esperienza del trauma.

Su Anna, l’abuso era stato preceduto da un prolungato lavoro preparatorio, durante il quale l’azione del padre era stata caratterizzata da un progressivo e ingravescente attacco alla relazione diadica in forma seduttiva, con svalutazione della figura materna[23].; essendo la madre fortemente ambivalente rispetto alla risoluzione del legame simbiotico con la propria madre, il risultato di quell’operazione intrusiva era stato un parziale ritiro reciproco della madre e della bambina dal legame post-natale. Attraverso tale breccia della relazione primaria, si fece strada l’azione seduttiva del padre, tendente a risucchiare la bambina in una relazione “pseudo-diadica” fortemente denotata in senso parassitario.

All’inizio, Anna trascorre un lungo periodo dominato dall’innamoramento, dall’eccitazione sessuale, e dalla condivisione del segreto con il padre, rispetto alla madre, vissuta come “rivale”, come “addormentata[24]”, e come “potenzialmente pericolosa se solo si risvegliasse”[25].

Dopo quella prima fase si ha un primo periodo critico, costituito da angoscia pervasiva, pavor nocturnus, incubi, regressione del linguaggio, di durata limitata (due settimane) a cui fa seguito un periodo più tranquillo, durante il quale, tuttavia, la bambina cerca insistentemente di più il contatto con la mamma lanciandole anche segnali espliciti che vengono incompiutamente raccolti. Si giunge così ad un secondo momento critico, nel quale la bambina mima esplicitamente, sulla madre, alcune delle performances sessuali nelle quali il padre la coinvolge, eliminando ogni dubbio ed ogni residua esitazione dalla mente della donna, che da quel momento diventa totalmente protettiva.

Dopo un precipitoso e drammatico allontanamento dalla casa coniugale da parte di madre e figlia, ha inizio un periodo della durata di un anno circa, nel quale, su incarico del Tribunale per i Minorenni, i servizi territoriali sottopongono il nucleo a monitoraggio.

Gli operatori dei servizi sono emotivamente impreparati a reggere l’impatto delle rivelazioni di Anna e mantengono (nonostante cospicue evidenze testologiche) un atteggiamento di diffidente prudenza, di fronte alla quale entrambi i genitori di Anna sono messi, sostanzialmente, sullo stesso piano, perché l’angoscia di essere chiamati a decidere se sia stato il padre a commettere abuso o la madre ad istigare la bambina a mentire (secondo quanto affermerà la tesi difensiva), sottrarrà loro ogni spazio mentale utile ad entrare in contatto emotivo con Anna.

Durante questo periodo, Anna continua ad incontrare il padre alla presenza di educatori ed entra in uno stato di “latenza”[26] nel quale nulla sembra accadere, anche se la sua sessualità appare connotata da atteggiamenti di attrazione verso gli uomini adulti.

La madre si rivolge allora ad una psicoterapeuta privata, la dottoressa Roberta F., in presenza della quale Anna produce, con impressionante espressività, una rivelazione che dura parecchie sedute e che può essere definita una “mentalizzazione allo stato nascente”: in essa l’autenticità della comunicazione è tale da non lasciare dubbi per l’intensità della partecipazione emotiva e per la coerenza degli aspetti conflittuali che vi si evidenziano.

Di fronte a Roberta, Anna si comporta come se stesse scoprendo in quel momento quanto le è accaduto, come se una luce si facesse strada improvvisamente dentro di lei.

Il ricordo dell’abuso, e i contenuti aggressivi di esso, emergono prepotentemente e richiedono di essere evacuati con forza in un contesto che ora, trovata la sintonia giusta con un ascoltatore adeguato, è permeato da una coinvolgente aura narrativa.

Anna si comporta come se la mamma non sapesse niente e come se dovesse continuare a non sapere niente.

Il valore di scoperta della narrazione comporta la messa tra parentesi della pur dettagliata “prova d’orchestra” effettuata un anno prima di fronte alla madre che, pur decisa ad affrontare fino in fondo la verità, era annichilita dal dolore e dal sentimento di colpa per non aver compreso prima quanto stava accadendo alla figlia.

All’interno del “contenitore – Roberta” tutto rinasce e si compie. Dopo aver raccontato a lei nel corso di più sedute, tutto ciò che era dentro di Anna è diventato vero -cioè pensabile- perché finalmente condiviso in una forma non precaria né attaccabile.

Al Ctu[27] che dovrà riascoltare la stessa narrazione circa un anno più tardi, Anna racconterà una storia “sottovetro”: asciutta, essenziale anche se dettagliata, poco partecipata emotivamente, che potrebbe, per un osservatore frettoloso o spaventato, prestarsi a dubbi di inautenticità[28].

 

6. Ricordare per poter guarire, guarire per poter dimenticare

6.1

Memoria e oblio sono centrali nella clinica del trauma da abuso sessuale.

In un ruolo del tutto analogo a quello esercitato, nella tragedia sofoclea, da tutti i personaggi cui Edipo chiede spiegazioni, gli interlocutori che si assiepano attorno al bambino abusato possono essere risucchiati da un’emozione controtransferale che li spinga, come Giocasta, a dire:

 

“non te ne occupare; tutti questi inutili discorsi non volerli neppure ricordare”[29]

 

La suggestione alla dimenticanza avviene, sulla scorta di un bisogno degli adulti, in forme più o meno scientifiche, o più o meno ingenue.

Tra queste ultime si annoverano le perizie di coloro che eliminano ogni spazio di intimità nel quale possa svilupparsi una rivelazione.

L’assunto ideologico del “tanto, prima o poi bisogna dimenticare” spinge molti colleghi ad un atteggiamento privo di empatia nei confronti dei bambini, che si sentono  scoraggiati dal rivelare le loro esperienze ad un perito distratto ed emotivamente lontano.

Il risultato può essere il seguente:

 

Teresa, una ragazza ventenne, si presenta spontaneamente ad un centro di consultazione per adolescenti, lamentando un problema di anorgasmia.

Alla psicologa che la accoglie, il primo colloquio appare piatto e anaffettivo, come se la ragazza mantenesse un atteggiamento di siderale distanza dalle proprie rappresentazioni mentali.

Solo verso la fine del colloquio, come ricordando all’improvviso un argomento che rischiava di dimenticare, Teresa racconta un fatto molto curioso.

Da quando i genitori si sono separati, lei vive con la madre e due fratelli.

Con una certa frequenza va a visitare il padre, che vive assieme alla nonna paterna di Teresa.

In occasione delle recenti festività natalizie, Teresa è andata dal padre per i soliti scambi di auguri e di regali.

Di fronte al regalo della nonna, prima ancora di sfasciarlo, Teresa ha una reazione che a lei stessa appare inspiegabile: in preda ad un’improvvisa crisi d’ira, lo rifiuta, senza riuscire a fornire alcuna spiegazione della sua rabbia. Il padre si inquieta a sua volta, apostrofandola in malo modo: le dice che è un’isterica, una bambina viziata, una maleducata. Le dice che a causa di queste sue bizzarrie, quando era bambina, “lo ha quasi mandato in galera”. Di fronte a questa affermazione, Teresa non capisce, si turba profondamente, chiede spiegazioni, ma ottiene soltanto altri improperi e l’invito, “se proprio non ricorda”, a chiedere spiegazioni alla madre.

Tornata a casa, si rivolge alla madre, che senza dire nulla, tira fuori da un cassetto un corposo fascicolo giudiziario e lo consegna a Teresa.

Apprenderemo poi che Teresa in quarta elementare, pochi mesi dopo la separazione dei genitori, aveva manifestato certe difficoltà scolastiche, in seguito alle quali, le insegnanti avevano consigliato di far sottoporre la bambina ad osservazioni psicologiche.

Ben presto, alla psicologa che l’aveva presa in carico, Teresa aveva raccontato che il padre, durante i fine settimana che trascorrevano assieme, era solito dormire con lei, toglierle le mutandine e toccarle i genitali.

La psicologa fece denuncia al Tribunale per i Minorenni, che nominò un C.T.U..

Il Consulente del Giudice riuscì a convincere i periti di parte a non presenziare agli incontri con i genitori “per non metterli in imbarazzo”, e vide la bambina, in un unico colloquio, soltanto a sei mesi dall’inizio delle operazioni peritali.

La stessa delicatezza mostrata per i genitori non fu dal CTU accordata alla bambina, che fu vista in presenza dei consulenti di parte.

Quando Teresa si trovò di fronte ai periti, ebbe parole di forte risentimento verso la propria psicologa perché ciò che le aveva raccontato “avrebbe dovuto rimanere un segreto tra loro, mentre invece lo aveva detto al padre”. La cosa non rispondeva letteralmente a verità, ma era un fatto che la presenza de visu del consulente del padre poneva Teresa in uno stato di obbiettiva intimidazione.

Nell’unico colloquio peritale, la bambina fu genericamente evasiva sui racconti che erano all’origine del procedimento giudiziario: non li confermò e neppure li smentì. Le conclusioni del Perito furono ampiamente volte a dichiarare che il fatto non sussisteva e che la bambina doveva aver certamente male interpretato il significato di normali accudimenti paterni, rispetto ai quali il padre avrebbe dovuto comportarsi, per il futuro, con maggiore riservatezza.

 

L’amnesia post-traumatica di Teresa è certamente la conseguenza di un accertamento peritale volto esclusivamente a seppellire l’evento abusante, indipendentemente dal grado di consapevolezza che il Consulente Tecnico d’Ufficio ebbe del proprio agito. La grave trascuratezza e la scorrettezza metodologica che caratterizzarono lo stile di lavoro del Ctu[30], funzionarono da elemento dissuasore, e a Teresa, che non poteva contare su una madre capace di coinvolgimento psicologico, non restò che seppellire dentro di sé ogni traccia mnestica dell’accaduto.

Ai primi due incontri con la psicologa del centro di consultazione per adolescenti, non ne seguirono altri, perché Teresa non trovò il coraggio di affrontare il doloroso lavoro di ripresa dei contatti con il proprio passato, e non sappiamo quindi se a quegli episodi di abuso, ne siano seguiti altri.

E’ possibile tuttavia, che l’atteggiamento del Ctu, seppur improntato a solidarietà adultocentrica[31], abbia funzionato come una parzialmente volontaria e silenziosa reprimenda, adatta a contenere gli impulsi incestuosi del padre, ma assolutamente dannosa, perché a sua volta traumatogena, nei confronti della minore.

 

La rivelazione di un abuso, per quanto generica, incompleta, discontinua o incoerente, rappresenta sempre, per un bambino, un tentativo di risanamento (oltreché di ricostituzione del legame protettivo interrotto dall’esperienza traumatica)  del proprio apparato mentale.

Quando un bambino inizia a rivelare ad un adulto di esser stato abusato da un genitore, ciò significa che la sua speranza in un’entità “superiore” protettiva non è andata completamente distrutta nella rottura catastrofica del legame filiale, e l’occasione di un’apertura di credito nei confronti del mondo adulto non può essere assolutamente disattesa pena la reiterazione del trauma, tanto sul versante abbandonico, quanto su quello dell’intrusione di elementi estranei.

Nel caso di Teresa, è possibile (anzi probabile) che l’atteggiamento del C.T.U. abbia funzionato come argine alla pedofilia paterna.

Nell’ipotesi, non escludibile, che al procedimento giudiziario non siano seguiti ulteriori abusi sessuali, l’indulgenza del Perito nei confronti del padre potrebbe aver implicato il seguente sottinteso: “noi diamo un altro nome a ciò che hai fatto, ma tu non lo fare più”, mentre per la bambina, oltre ad una prova di inaffidabilità del mondo adulto, vi fu, al posto di un atteggiamento di ascolto empatico (Roccia, Foti[32]), l’intrusione di un’interpretazione arbitraria dell’accaduto, capace di farla dubitare delle proprie percezioni, al fine di favorire la dimenticanza.

Il risultato fu il seppellimento del ricordo di una doppia offesa, e un atteggiamento di irrimediabile sfiducia, oltreché nel mondo adulto, anche nelle qualità del proprio apparato mentale.

 

6.2

Il ristabilimento della possibilità di pensare l’esperienza traumatica, e, più in generale, della possibilità di pensare, è certamente l’obiettivo primario di un’azione psicoterapeutica volta a riparare il danno instauratosi con il trauma.

In questa prospettiva, il recupero del ricordo e il ristabilimento della verità contro l’azione falsificatrice della propaganda minatoria esterna[33], e, a maggior ragione contro quella che deriva dagli elementi introiettati nel corso della relazione filiale o para-filiale con l’abusante, rivestono un ruolo fondamentale nel processo terapeutico.

Buona parte delle psicoterapie di derivazione catartica (in primo luogo la psicoanalisi degli esordi) hanno  identificato nel ristabilimento della memoria il principale e forse unico procedimento atto a restituire ad integrum.

Ciò, naturalmente, non è vero, e le fluttuazioni della memoria nel caso di Anna[34], sono un utile quanto comune esempio di ciò.

A proposito dei rapporti tra rievocazione e guarigione, Anne  Alvarez osserva come la “vecchia teoria della cura nasca dal concetto di difesa, conflitto, e risoluzione”. Così la grandiosità è una difesa dall’insicurezza, la maniacalità dalla depressione, l’arroganza dalla paura. La “tendenza smascherante” che la psicoanalisi ereditò dal tardo Romanticismo, ebbe un ruolo di primaria importanza nella costruzione di una teoria e di una tecnica terapeutica, fintanto che le scoperte bioniane non permisero di comprendere meglio i meccanismi di formazione del pensiero. [35]

Siamo perciò d’accordo con l’Autrice, laddove ella afferma che “un pensiero diventa pensabile solo attraverso un processo molto lento e graduale, che non può essere accelerato”, e che “bambini frammentati e spenti possono aver bisogno di mettere insieme i frammenti di se stessi per avere un senso dell’Io, del Tu, e dell’Egli, molto prima di poter comprendere che “Egli (qualcuno) ha fatto questo a me, e io sento che non doveva”[36].

Per queste ragioni la Alvarez propone, accanto alla necessità di valorizzare il ruolo del ricordo anche quella relativa all’importanza del dimenticare.

Se consideriamo infatti le esposizioni dei disturbi della memoria, così come vengono presentati nella trattatistica scientifica neurologica e psichiatrica, osserveremo che la minore disponibilità di dati clinici non consente di riservare ai disturbi ipermnesici altrettanta attenzione di quella riservata alle amnesie.

Ciò ha per conseguenza il costringerci a mantenere una concezione puramente difettuale della funzione dell’oblio, e in questo senso abbiamo un debito certamente maggiore con uno scrittore come J. L. Borges che non con i neurofisiologi, per averci fatto riflettere sul ruolo essenziale che l’oblio ha nell’economia del funzionamento mentale.

La lettura delle vicende di Ireneo Funès[37], un uomo illetterato, che avendo riportato un trauma cerebrospinale in un incidente con un cavallo, fu afflitto per l’intera esistenza, oltreché dalla paralisi, anche dalla condanna a ricordare ogni istante della sua vita passata[38], ci aiuta a riflettere sulla limitatezza di una concezione non soltanto psicobiologica, ma anche culturale, che si preoccupa solo della conservazione della memoria, la cui perdita ci avvicina alla morte e ci fa sentire inferiori alle macchine che creiamo, e sulla necessità di considerare la mente come uno spazio finito, che non può essere illimitatamente intasato di rifiuti.

Le osservazioni di Anne Alvarez relative alla teoria del dimenticare sono quindi preziose non soltanto per gli psicoterapeuti che intendano cimentarsi con le sindromi post-traumatiche, ma anche per chiunque debba affrontare il compito “impossibile” di diagnosticare un abuso.

E’ la Alvarez stessa, tuttavia, ad avvertirci che “una teoria del dimenticare, contrapposta a quella del ricordare rappresenta un’ipersemplificazione grossolana, e quindi falsa”[39].

Ciò è soprattutto vero, se si tiene conto del fatto che la diagnosi e il trattamento del bambino abusato non possono prescindere da un intricato terreno relazionale che ruota attorno al bambino con modalità spesso convulse e non di rado potentemente (o spaventosamente) intimidatorie.

In tale contesto, la possibilità che il bambino riveli in forma il più chiara e il meno contraddittoria possibile diventa motivo di forte preoccupazione per lo psicologo che vede il bambino spesso violentemente minacciato da istanze sociali che tendono a falsificarne la rivelazione, e a dimostrare che si sbaglia o che è stato istigato a mentire.

La presa d’atto di questa realtà, ha persino contribuito ad abbattere molte barriere di scuola: secondo M. Malacrea[40], nella clinica dell’abuso le differenze tecniche si assottigliano e tutti gli approcci appaiono accomunati da un’ottica, in qualche misura, familiare: “anche se il modello teorico di riferimento dell’autore è orientato all’individuo e all’intrapsichico, tutti considerano indispensabile (almeno fintanto che i piccoli pazienti vengono curati in prossimità degli eventi traumatici) occuparsi di più protagonisti dell’abuso e delle loro relazioni reali”[41].

D’altra parte, anche la fase di diagnosi clinica, il lavoro peritale e quello terapeutico, tendono ad avere tra loro confini sfumati.

Mentre si procede al lavoro diagnostico occorre anche fornire sostegno, creando legami empatici solidi, e forse inevitabilmente duraturi, mentre è molto raro che una psicoterapia possa aver inizio soltanto quando ogni istanza giudiziaria è conclusa e l’esigenza di proteggere il bambino da interventi intimidatori esterni, che possono raggiungere livelli di gravissima violenza, sia del tutto assente.

 

6.3

Ma oltre agli inevitabili punti di accordo con Anne Alvarez, devo però aggiungere di non essere del tutto soddisfatto di alcune riflessioni dell’Autrice in ordine al materiale riportato, non perché mi sembrino errate, ma perché non complete, quantomeno rispetto alla necessità fortemente sentita dall’Autrice di proporre un approccio terapeutico capace di rispettare i tempi del bambino.

A proposito del caso di Alan, un bambino schizofrenico borderline, probabilmente abusato dal fratello, ed egli stesso molto violento, che era in trattamento psicoanalitico presso il dottor P., la Alvarez ci fornisce interessanti descrizioni cliniche, a mio avviso non esaurientemente interpretate.

Nel descrivere quello che lei stessa giudica un errore tecnico del dott. P., che di fronte ad un’articolata sequenza associativa contenente anche una rappresentazione di transfert aggressivo, si era limitato ad interpretare quest’ultima senza rappresentare l’angoscia di essere aggredito che il bambino stava descrivendo, l’Autrice tralascia di entrare nel merito dello specifico tipo di aggressione che il bambino paventa, e che sembra essere caratterizzata da uno wash-out della mente che si può reperire nell’immagine di “Dio che fa il lavaggio del cervello al diavolo”.

Alan fa alcune associazioni che la Alvarez non correda di alcuna interpretazione, pur definendole “molto strane”: il bambino fa giochi di parole parlando di un buco (hole), “che può diventare un alone (halo), e l’alone può diventare sacro (holy)”; Dio fa il lavaggio del cervello al diavolo, e lo mette in prigione, e Alan parla come se questo Dio “crudele” fosse egli stesso; poi prende da un cassetto un vecchio disegno e chiede al terapeuta che, se vuole completarlo, può farlo, che egli, il terapeuta, “è libero come un uccello”, aggiungendo che quest’espressione è una “metafora” (sic), che la metafora è un modo di dire che non deve essere interpretato alla lettera, così come se il terapeuta facesse per colpirlo e lui rispondesse “per questo morirai”,  ciò non significherebbe che Alan ha intenzione di pugnalare il terapeuta.

La successiva interpretazione è tutta incentrata sul desiderio inconscio di Alan di pugnalare il terapeuta, ed ha, a mio avviso, il torto di spostare l’attenzione della coppia su di un terreno diverso da quello proposto dal bambino.

Se osserviamo l’immagine di “Dio che fa il lavaggio del cervello al diavolo”, le tre parole inspiegabilmente associate (holy, halo, hole) ci appaiono, al di là delle assonanze fonetiche, suscettibili di una ricostruzione plausibile: il “buco” (hole) rievoca la condizione di vuoto mentale dei bambini gravemente abusati e la possibilità che esso diventi un “alone sacro” (un’aureola come quella di Dio?) sembrerebbe indicare la necessità di disporre di uno schermo protettivo che renda la mente “sacra”, cioè inviolabile, e anche la paura di Alan che quel buco possa continuare ad essere invaso da terribili proiezioni svuotanti da parte di un diavolo che necessita di essere a sua volta lavato nel cervello e imprigionato. Il successivo sentimento di colpa legato alla sensazione di essere lui quel Dio crudele, sembrerebbe indicare il grado di confusione tra la percezione di sé come vittima e la sua rappresentazione dell’abusante.

Il problema della persistenza dell’angoscia di essere invaso dalle proiezioni esterne sembra di gran lunga l’aspetto prevalente della comunicazione emotiva di Alan, e il lavoro dell’analista non avrebbe dovuto limitarsi ad insistere di più sulla paura di Alan di essere pugnalato, che non su quella relativa alla sua aggressività[42], ma piuttosto a ricercare una condivisione dell’angoscia devastante che il bambino ha di essere espropriato dei contenuti di pensiero da parte di un analista, “libero come un uccello”  di fare di lui tutto ciò che vuole. Anche in inglese la parola “bird” (uccello) è usata quale riferimento penieno: una “metafora”, per l’appunto.

Più avanti, nella descrizione del caso di un altro bambino, che all’età di due anni era stato penetrato analmente, Alvarez ne descrive l’angoscia relativa all’emergere di ricordi del trauma, quando cercando di parlare al suo terapeuta di una “focaccia” (bun), gli sfuggì la parola “deretano” (bum), e per questo ebbe una crisi di sconforto.

“In tali momenti, sostiene Alvarez[43], ritengo che la parte di personalità che cerca di dimenticare la violenza, debba ricevere più attenzione della parte che non può contribuire al ricordo[44]. Poiché, giustamente, l’Autrice ritiene che non si debba colludere con i tentativi di negare ciò che è accaduto, suggerisce che si debba “distinguere tra i tentativi di superare e quelli di negare”, cosa “più facile a dirsi che a farsi”[45].

Già: ma poiché “la parte che tenta di dimenticare” è ancora soggetta ai terribili attacchi degli elementi del trauma a suo tempo incorporati, come si può “permettere ai bambini di dimenticare” se non enucleando quegli elementi che continuano ad attaccare dall’interno? Non si potrebbe in questo caso dire che parlare della buona focaccia (bun) è bello e piacevole, ma che “bum” continua ad impedirlo? E non è forse riduttivo definire gli elementi a carattere persecutorio “parte che non può contribuire al ricordo”? Non si tratta forse  di un’istanza incorporata che perseguita sadicamente il bambino, dalla quale il bambino ha bisogno di essere difeso? O non è forse vero che nascondendo l’esistenza dei persecutori alle vittime dalla persecuzione, l’analista corre il rischio di essere scambiato per un agente della “propaganda” interna? E non sarà possibile che, ancora una volta (come già è accaduto nei confronti di tutti gli adulti che hanno ignorato l’abuso) il bambino non si senta invitato a re-ingoiare il corpo estraneo, come se il terapeuta non potesse o volesse entrare in contatto con esso?

 

7. Conclusioni

Ho voluto, in questo lavoro, riflettere su alcune esperienze cliniche, mie, di altri colleghi, e persino di maestri.  Spero che i rilievi critici nei confronti di tutti, e in particolare di questi ultimi, non abbiano tradito l’originaria e per me impervia aspirazione all’umiltà quale presupposto per la conoscenza.

D’altra parte, il mio lavoro diagnostico e terapeutico nei confronti dei bambini abusati é largamente debitore del pensiero di Gianna Polacco Williams, nei confronti della quale ho un’ansietà opposta, che è quella di bene interpretare e di non estendere indebitamente (con tutti i rischi di semplificazione che ne conseguono) il pensiero di un’Autrice fortemente impegnata nello studio dei disordini alimentari più che in quello degli abusi sessuali.

Spero anche di essere riuscito a rendere partecipe il lettore dell’enorme rilevanza etica che il lavoro con i bambini traumatizzati assume, per il fatto che noi tecnici apparteniamo ad un mondo adulto che ha molte probabilità di continuare ad essere traumatogeno nei confronti dei bambini abusati.

Spero inoltre di essere riuscito a mantenere viva e fedele l’ispirazione psicoanalitica del mio approccio: la psicoanalisi ha avuto con la psicotraumatologia clinica un rapporto conflittuale al quale non è certamente estranea l’origine, a torto contestata, del complesso di Edipo dalla teoria della seduzione.

Gli sviluppi del pensiero di Bion consentono oggi di osservare, oltre alle relazioni interne, anche una relazionalità che si potrebbe definire “inter-inconscia”, essendo improntati allo studio degli effetti sulla mente dei bambini delle proiezioni di un mondo adulto che non riesce ad elaborare gravissimi conflitti infantili.

 

 

 

8. Post-Scriptum 2006

Rileggendo a distanza di anni questo lavoro, mi rammarico di non aver avuto all’epoca una più chiara consapevolezza della grande lezione di Sàndor Ferenczi, lezione che non  consiste solo nell’opera scritta, ma nell’ intera vita di questo pioniere della psicoanalisi.

Com’era stato preconizzato dallo stesso Freud all’indomani della morte del suo “Paladino e Gran Visir Segreto”, nessuno psicoanalista può fare a meno di considerarsi allievo dell’Ungherese, e tutti gli siamo debitori anche nei casi come il mio, nel quale la condivisione dello spirito che aveva animato la scoperta della “Confusione delle Lingue tra adulti e bambini”, e la forte convinzione che la psicoanalisi non potesse essere estranea a tale ricerca, hanno preceduto la consapevolezza dell’opera che aveva reso possibili tali intuizioni. Ma quello di ispirare la riflessione senza apparire é stato per lungo tempo il destino di Ferenczi.



[1] Definisco “trofica” la relazione con una figura parentale o sostitutiva capace di contenimento, e quindi di “nutrimento” emotivo; una relazione “tossica” è invece quella con un genitore proiettivo, parassitario, svuotante.

[2] Bion, W. R., (1962), Learning from Experience, Heinemann, London, (tr. it.: Apprendere dall’Esperienza, Armando, Roma, 1972).

[3] In Invidia e Gratitudine (1957, trad. it. Martinelli, 1969), Melanie Klein osserva come il senso di integrazione, stabilità, sicurezza interiore, sia conseguente all’introiezione di un “oggetto buono che ama e protegge il Sé, e viene amato e protetto dal Sé”. La teoria bioniana relativa alla “funzione alfa” rappresenta lo sviluppo di tale formulazione kleiniana, attraverso l’identificazione della funzione di questo oggetto introiettato,  che consiste nel rendere i contenuti mentali pensabili, comprensibili, e quindi tollerabili.

[4] Williams Polacco G., (1997) Internal Landscapes and Foreign Bodies: Eating Disorders and Others Pathologies, London, Duckworth (trad. it.: Paesaggi interni e corpi estranei. Disordini alimentari ed altre patologie, Bruno Mondadori, Milano, 1999).

[5] G. Williams Polacco sottolinea il fatto che il termine “contenitore” qui risulterebbe inadeguato, perché l’apparato mentale del bambino non può disporre delle risorse emotive adatte a funzionare in tal senso.

[6] Williams Polacco G., (1997), op. cit.

[7] Parimenti, nei bambini sessualmente abusati, si riscontra frequentemente una sindrome da adattamento post-traumatico, connotata da identificazione con l’aggressore e suo assecondamento masochistico.

[8] Williams Polacco G., (1997), op. cit.

[9] mentalizzare = rendere pensabile

[10] Everson, M. D., (1997) Understanding bizarre, improbable, and fantastic elements in children’s accounts of abuse. In : Child Maltreatment, 2, pp. 134 – 149. Trad. it.: La comprensione degli elementi strani, improbabili e fantastici nei racconti d’abuso dei minori. In:  Maltrattamento e abuso all’infanzia, vol. 1, n. 1, Aprile 1999.

[11] Roccia C., Foti, C., (1994) L’abuso sessuale sui minori: educazione sessuale, prevenzione, trattamento, Unicopli, Milano.

[12] Shengold, L. (1979), Child abuse and deprivation: soul murder, in: Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 22, 553-559.

[13] Una descrizione di “incapsulamento” dell’esperienza traumatica, dove i contenuti relativi all’esperienza traumatica non si mescolano all’ordinario materiale onirico e non vengono integrati nel resto della vita normale, è presente anche in: Hartmann, E. (1984),  The Nightmare, Basic Books, New York.

[14] Nei giochi di di Anna (vedi oltre) al momento della rivelazione, quando il segreto diventa condiviso (e dopo che la madre reale ha assunto un atteggiamento protettivo) compare all’improvviso la bambola-mamma che, molto arrabbiata, dice: “e il colmo è che mi avete svegliata!”

[15] Nella letteratura scientifica internazionale, la cosiddetta “Sindrome da Personalità Multipla” o MPD, inclusa nel DSM III-R, è stata spesso posta in relazione con abusi sessuali subiti durante l’infanzia.

[16] Il reparto presso il quale Piera era stata ricoverata fa parte del Dipartimento di Scienze Psichiatriche dell’Università, di cui il prof. M. è uno stimato docente. Questa circostanza aveva certamente favorito in Piera l’instaurarsi della convinzione di essere stata valutata da medici dotati, proprio perché universitari, di particolare perspicacia clinica, che avevano potuto “leggere” la sua esperienza di abuso al di là delle condizioni cliniche che la ragazza presentava al tempo del ricovero.

[17] Guasto, G. (1998): Il trave e la pagliuzza: le emozioni del ctu di fronte al minore abusato, in MinoriGiustizia, n. 2/98, Franco Angeli, Milano

[18] Circa il possibile misconoscimento di fatti traumatici in analisi e la loro confusione con fantasie edipiche molto è stato scritto. Si veda in proposito il bell’articolo di Franco Borgogno (1999) “Spoilt Children. L’intrusione e l’estrazione parentale come fattore di distruttività”. In : Psicoanalisi come percorso, Bollati Boringhieri, Torino; e il libro di Alice Miller “Il bambino inascoltato”, Bollati Boringhieri, Torino..

[19] Ferenczi, S.: Confusione delle lingue tra adulti e bambini (Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione) Relazione al XII Congresso di Psicoanalisi, Wiesbaden, Settembre 1932.

[20] Guasto, G (1998).: L’adultocentrismo nel trattamento istituzionale e terapeutico dell’abuso sessuale sui minori, in: Rompere il Silenzio, n. 1. 1998, Torino

[21] Dal momento dell’inizio delle operazioni peritali, fino alla condanna definitiva del marito, la madre di Giovanna fu pervicacemente ostile alla figlia, arrivando a dichiarare per tre volte, in sede di Ctu, che la Giovanna, per aver denunciato il padre, avrebbe meritato di “essere picchiata a morte”.

[22] “I know an old lady who swallowed a fly /I wonder why she swallowed that fly /Perhaps she'll die /I know an old lady who swallowed a spider /That wiggled, and jiggled, and squiggled inside her /She swallowed the spider to catch the fly /I wonder why she swallowed that fly. /Perhaps she'll die(…) I know an old lady, who swallowed a horse: she died, of course”.

Per riuscire ad espellere la mosca (accidentalmente?) inghiottita, la vecchia signora continuerà ad ingoiare animali sempre più grandi, fino a mandar giù un cavallo. Morirà, naturalmente.

[23] Non sono portato a credere che l’azione destrutturante messa in opera dal padre nei confronti della diade prima che la sessualizzazione traumatica avesse inizio, sia interpretabile come una fase semplicemente preparatoria all’abuso. Io penso piuttosto che l’incesto sia stato lo sviluppo e l’approfondimento di una propensione relazionale paterna fondata su un bisogno psicotico di fusionalità, che si accompagnava anche ad aspetti di invidia per la generatività femminile, come testimoniava la straordinaria competenza nel nursing che l’uomo aveva acquisito a dispetto della buona, anche se ambivalente, disposizione della moglie a relazionarsi con la bambina.

[24] Dal resoconto delle osservazioni cliniche della dott. R.F.: “La  “bambola – mamma ripete più volte la frase: “E il colmo è che mi avete svegliata”. La frase è pronunciata dapprima con fastidio, poi con un tono emotivo connotato da rabbia.”

[25] Le virgolette non riproducono qui parole della bambina, ma servono ad enucleare dei pensieri che furono ben presenti, anche se non contemporaneamente, nella mente di Anna.

[26] Il termine è qui usato in senso ampio, senza specifici riferimenti al “periodo di latenza” inteso come fase dello sviluppo psicosessuale, rispetto al quale, tuttavia, si può intravedere una debole somiglianza.

[27] Il Ctu è il Consulente Tecnico d’Ufficio, nominato dal Giudice.

[28] La questione pone un delicato problemi di diagnostica peritale: se sia cioè corretto far riferimento in maniera esclusiva e preminente alle rilevazioni acquisite in sede di Ctu, oppure se non si debba in questi casi assumere quale fondamento di scientificità lo studio dei tempi e delle fasi del processo di mentalizzazione dell’esperienza traumatica, che non necessariamente coincidono con quelli degli accertamenti giudiziari.

[29] Sofocle, Edipo Re, in: Tragici Greci, I Meridiani, Mondadori, Milano, pag. 195.

[30] Consistente nell’aver fatto attendere per tanti mesi la bambina, che era al corrente del fatto che i genitori andavano a parlare di lei; averla vista in presenza del consulente del padre; non aver neppure tentato di approfondire le risposte evasive che la bambina forniva ai quesiti, aver limitato gli incontri ad un solo colloquio, non aver dato alcun peso alla rabbia che la bambina manifestava nei confronti della psicologa colpevole, secondo lei, di aver “fatto la spia”.

[31] Sul concetto di adultocentrismo si veda Foti C. , "Per una critica dell'adultocentrismo"' in Rompere il silenzio, n.1-2 maggio 1998. L 'intero fascicolo della rivista è dedicato al tema "L 'adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti".

[32] Roccia C., Foti, F., op. cit.

[33] ad essa, come nel caso di Teresa,  possono sommarsi elementi di abuso istituzionale.

[34] Anna raccontava alla psicologa l’esperienza vissuta, temendo che la madre sentisse ciò che lei stessa le aveva già raccontato, perché il “sonno” della madre, all’epoca in cui quest’ultima non sapeva, era ancora per la bambina un’esperienza priva di significato.

[35] Alvarez, A. Violenza sessuale sui bambini. Il bisogno di ricordare e il bisogno di dimenticare, in  Il compagno vivo, Astrolabio, Roma, 1993, passim

[36] Alvarez, A., op. cit.

[37] Borges, J. L., Funès, o della Memoria, in: Finzioni. Tutte le Opere di JLB, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1984.

[38] “egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata”, Borges, op. cit.

[39] Alvarez, ibid.

[40] Malacrea, M. (1998) Trauma e Riparazione, Raffaello Cortina , Milano

[41] Oltreché, dal mio punto di vista, delle relazioni interne

[42] il tema dell’aggressività primaria è centrale nell’impostazione teorica della scuola di Melanie Klein, impostazione che peraltro condivido. Tuttavia, un’eccessiva ridondanza interpretativa in tema di istinto di morte, comporterebbe in questo caso il rischio, evidenziato da un importante psicoanalista kleiniano come John Steiner, di far sentire il paziente trascurato da un analista maggiormente attento alle proprie teorie che non alle comunicazioni  del paziente stesso.

[43] Alvarez, ibid.

[44] La sottolineatura è mia (NdA).

[45] Alvarez, ibid.