Relazioni tenute in occasione della Presentazione del libro

L’Orologio della Torre di San Marco in Venezia

di Alberto Peratoner

(Venezia, Cafoscarina, 2000)

Venezia, Ateneo Veneto, 6 giugno 2001, ore 17

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Carmelo Vigna

(Università Ca’ Foscari di Venezia)

Introduzione

Gentili Signore, gentili Signori,

grazie per essere venuti.

Come da programma, viene oggi a voi presentato il libro di Alberto Peratoner L’Orologio della Torre di S. Marco in Venezia, edito dalla Cafoscarina (Venezia 2000). Due relatori sono qui accanto a me: il dr. Sandro Sponza, della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia e il sig. Loris Volpato, Presidente della Società Orafa Veneziana, società che raccoglie anche gli orologiai di Venezia. Prima di dar loro la parola e poi far seguire i vostri interventi, mi permetto di esporvi alcune brevi considerazioni introduttive.

Dico subito che io non sono uno specialista in fatto di orologi. Penso però d’aver qualche titolo ad intervenire, perché mi intendo di… Alberto Peratoner, che è un mio carissimo e bravissimo allievo e collaboratore e amico presso l’Università di Ca’ Foscari. Alberto non è, infatti, soltanto un esperto di orologeria e non è soltanto l’ultimo "temperatore" dell’Orologio della Torre di S. Marco; Alberto è anche un eccellente studioso di cose filosofiche, e precisamente uno specialista di prim’ordine quanto agli studi pascaliani.

Cito questa sua competenza scientifica per spiegare la singolare natura di questo suo libro sull’Orologio della Torre: un libro che rivela l’assoluta competenza del "temperatore", ma anche un libro che rivela la forza dello storico, cioè del narratore ben addestrato al lavoro di ricerca di livello universitario. La pagina ha l’asciuttezza del rendiconto dei fatti, lo stile ha il rigore dei riferimenti alla documentazione d’archivio, compulsata di prima mano, l’insieme ha il fascino della scrittura bella, misurata, ma anche attraversata da una nascosta passione.

La passione di Alberto si raccoglie tutta nella perfezione del contenuto di questo saggio: nella perfezione della narrazione storica, nella perfezione della catalogazione completa delle componenti del meccanismo dell’orologio, nella perfezione della descrizione del funzionamento dell’orologio, nella perfezione dei disegni delle parti dell’Orologio. Le cose curate alla perfezione sono sempre e infallibilmente i nostri oggetti d’amore. In questo caso è facile capire: Alberto è stato "temperatore" dell’Orologio della Torre per circa 11 anni; ma Alberto ha convissuto con l’Orologio della Torre da quando era bambino. Suo padre è stato per quarant’anni temperatore dell’orologio e così suo nonno… La Torre è stata fino all’altro ieri la sua casa, ma è stata anche la casa della dinastia dei Peratoner per ben 82 anni. Impossibile non portare nella mente e nel cuore questa storia. E questa storia di famiglia è stata tradotta da Alberto nella storia dell’Orologio della Torre, come una enorme colata lavica si deposita e prende forma raffreddandosi in una pietra dura, compatta, inattaccabile. Ma anche affascinante nella sue volute naturali.

Dunque: mettete la lunga, familiare dimestichezza di Alberto con l’Orologio, mettete la sua competenza di scienziato rigoroso, mettete la sua eleganza di scrittore di polso, mettete la sua passione di custode di un monumento storico che ci è invidiato da tutto il mondo, e avrete in mano gli ingredienti principali di questo libro, non voluminoso, ma di grande qualità. E anche importante dal punto di vista bibliografico. E’ infatti il primo lavoro completo sull’orologio della Torre e la sua storia da 140 anni a questa parte.

L’Orologio sta ora vivendo una stagione tormentata, sottoposto, come è stato, ad un restauro che si dichiarava "conservativo" e che conservativo non è, tali e tante sono le alterazioni grossolane e arbitrarie già introdotte. Alberto, assurdamente estromesso dalla Commissione che sovrintende ai lavori di restauro, ha lottato e lotta da par suo contro questo scempio, con interventi autorevoli che hanno suscitato scalpore e ottenuto il consenso dei competenti. Spero che questo suo libro sulla storia dell’Orologio, volutamente privo d’ogni riferimento ai lavori in corso, serva a risvegliare l’interesse non solo per la storia dell’Orologio, ma anche e semplicemente per l’Orologio, così da contribuire a salvare da manomissioni ingiustificate e maldestre un monumento di storia veneziana.

Do ora la parola ai Colleghi.

Sandro Sponza

(Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici - Venezia)

Prima Relazione

Ho conosciuto Alberto Peratoner, cui mi ero rivolto per aiuto, in occasione dell’intervento sull’orologio della basilica dei Santi Giovanni e Paolo.

Intervento in cui bisognava aggiungere una macchina, ad un quadrante che non indicava più le ore se non dalla fine del secolo XVI, almeno dal 1867, in quanto quella macchina che, forse, ma ne dubito, esisteva ancora a quella data, era andata distrutta dalle fiamme della notte del 15 agosto, quando, con tutta la cappella di Lepanto e del suo arredo decorativo, andarono, anche, bruciate due pale, una di Giovanni Bellini ed una di Tiziano, lì, provvisoriamente sistemate in occasione del loro restauro.

Un intervento, quindi, quanto alla macchina del tempo non di restauro ma di aggiunta: il restauro vero si limitò al recupero della leggibilità della pittura murale che circoscrive il quadrante circolare, ove ampie zone erano state dipinte a secco e non a fresco e, di conseguenza, presentavano vaste lacune. Questo perché anche chi, nel tempo, vi intervenne con maldestri, antichi restauri, già non sapeva più il significato di quegli oggetti e di quegli arnesi che qualificavano le quattro figure dipinte sui vertici del riquadro che circoscrive il cerchio dove ruota la lancetta, ma sarebbe meglio dire (ed ecco perché ancora si dice così) la sfera, quella solare, ché era il sole, allora, che girava intorno alla terra, e, di conseguenza intorno al diametro del quadrante, lambendone, col suo moto circolare, le ore del giorno e della notte dipinte od incise o apposte su di esso.

Anche gli ignoti "restauratori", insomma, avevano perduto quella "chiave di lettura", spazzata via dalla rivoluzione copernicana prima e galileiana poi, cosicché essi reintegrarono gran parte di quelle lacune interpretandole "ad libitum", senza che loro fossero noti il significato e la funzione di quegli ormai poco leggibili o quasi scomparsi strumenti iconografici.

L’indagine per identificare quelle quattro figure, man mano che approfondivo il problema in relazione con quel sistema geocentrico che era stato, per millenni, fondamentale per la misura dello spazio e del tempo, mi appassionò, aprendomi a nuove domande e a tentare di risolverle con antiche, da secoli dimenticate, risposte: e se, lentamente anche quei personaggi, così a prima vista ostici ed incomprensibili, si venivano via via individuando, ciò si dovette al recupero di tanta parte della nostra cultura, della nostra storia, perfino della nostra preistoria, quando la misura del tempo era vitale, nell’accezione testuale del termine, ed era stata la fondamentale ricerca della speculazione greca, romana, medioevale con le implicazioni per la storia del pensiero, la storia dell’arte, la storia della tecnica, la storia tout-court.

Questo dico perché questa stessa concezione è quella che guida i due Ranieri, padre e figlio, quando ricevono la commissione di costruire l’Orologio della Piazza, quello che sarà "el più bello de Italia" e che, diversamente da quello dei Santi Giovanni e Paolo, tranne che per brevissime interruzioni, continuò a funzionare ininterrottamente per mezzo millennio, via via trasformandosi alle diverse istanze della misura del tempo, che è come dire alle diverse interpretazioni del mondo, ed alle diverse realtà, tecnologiche, sociali ecc. che esse implicano.

Io non ho, però, pur essendomi proposto, fatto parte della commissione per il restauro anche se, devo dire, la cosa mi sarebbe piaciuta, proprio per quanto ho detto sopra, non essendone stata, stranamente, coinvolta la Soprintendenza dove lavoro.

D’altra parte il volume di Peratoner, così come è stato pensato e scritto, all’attuale restauro non accenna minimamente poiché si limita a fornire un profilo storico e tecnico di quest’orologio, così articolato ed ampio da far sì che, pur limitandosi a questi punti, anzi, solo, praticamente, al primo di essi, a chi parla la materia basti ed avanzi.

L’autore mi ha chiesto di parlare da lettore, magari attento, magari qualificato, magari storico dell’arte ed io, da storico dell’arte, a ciò mi atterrò.

Due, se escludiamo quest’ultimo, che è, direttamente o indirettamente che sia, il motivo per l’uscita di questo volume che qui viene presentato, sostanzialmente, furono i grandi interventi successivi a quelli della costruzione dell’orologio della piazza: quello, sulla metà del Settecento, del Ferracina e quello, giusto un secolo dopo, del De Lucia: il primo cui si deve la sostituzione della macchina del tempo imperniata sul "foliot" con quella che misurasse il tempo sfruttando l’isocronia del pendolo e il secondo che apportò, in base alle esigenze di una più puntuale lettura del tempo, che oggi ha bisogno dei nano-secondi, il secolo scorso dei cinque minuti, ed ancora più indietro sì e no delle ore, altri accorgimenti, tra cui, fondamentale, fu quello delle "tàmbure", cioè quei parallelepipedi dodecagonali che suddividevano il giorno in dodici ore e l’ora in dodici parti e che occupavano (ed occupano) gli spazi, opportunamente limitati da grate amovibili, da dove uscivano e rientravano, dopo l’omaggio alla Vergine, per l’Epifania e per la "Sensa", i tre Magi preceduti dall’Angelo, senza, quindi, eliminare nulla del preesistente, ma integrandolo, sviluppandone le potenzialità, col riutilizzo di spazi ormai del tutto inservibili e desueti, quali i quattro occhi di bue concepiti per contenere quattro astrolabi, che però vennero ben presto eliminati, forse già prima degli inizi del secolo XVIII, termine certo "ante quem". Tutto ciò e ben altro sappiamo leggendo questo volume, meglio il suo capitolo concernente la descrizione e la storia di quest’orologio, trattato con una prosa così lineare, perfino, a volte, discorsiva, così da non risultare né ostica né noiosa: noi possiamo seguire passo passo, accompagnati da Peratoner, tutte le vicende di quest’orologio, dal momento della sua costruzione (la pianta prospettica del de Barbari è datata, giusto, all’anno successivo) fino ad oggi e la ragione è semplice: ogni parola viene soppesata, calibrata, così da cadere al punto giusto, ad avere quel significato e solo quello: quella, insomma, che sembra essere semplicistica ovvietà è, invece, chiarezza, precisione, profonda conoscenza della materia di cui si sta trattando, ma anche amore per questa materia. Per rendersi conto di questo, basterà leggere, con l’autore, il primo paragrafo di questo avvincente racconto: quello per cui "l’orologio della Torre di San Marco si presenta quale complesso e prezioso risultato di una serie di stratificazioni succedutesi nei cinque secoli della sua storia, corrispondenti alle diverse fasi di costruzione, restauri e rimaneggiamenti". Non c’è una parola fuori posto: ognuna ha una sua precisa valenza, un preciso significato e, man mano che questa storia si dipana, tutto sembra evidente, elementare, scontato: se solo si abbia la pazienza di controllare, però, le note, ci si rende conto non solo della complessità degli argomenti trattati, ma anche vastità di erudizione con cui essi vengono affrontati: l’autore deve parlare non solo della "macchina del tempo", ma anche di uno dei monumenti più noti e più fotografati del mondo, di un edificio che non qualche centinaio di migliaia ma qualche miliardo di persone ha visto, vuoi davvero, vuoi, almeno, in cartolinao al cinematografo e lo fa inoltrandosi, senza timori reverenziali, nel campo degli storici dell’arte, dove, ugualmente, si muove a suo agio, vagliando, correttamente, le fonti, ma traendone anche le sue conclusioni: è, ad esempio, il "maggiore e più coerente riscontro stilistico con le opere del Coducci", quello che gli fornisce l’occasione di discutere le varie ipotesi sull’autore dell’edificio della Torre, non tanto nel testo, lineare e succinto, quanto, piuttosto nelle note a piè pagina, qui, come altrove, esaurienti, complete, precise, aggiornatissime e che si riferiscono alle diverse attribuzioni prodotte: per rendersene conto basta solo ricordare che trentotto pagine di testo, fotografie comprese, sono corredate da tre pagine di bibliografia e da una pagina e mezza di rimandi alle fonti d’archivio; ancora è lo storico dell’arte che parla quando ripropone, correttamente citando il Molmenti ed il Planiscig, che, prima di lui l’avevano suggerita, la paternità di Paolo Savin per i due Giganti (figg. 14-18), i due cosiddetti "mori" che di moro hanno, soltanto, la patina scura del bronzo e che, ci informa Peratoner, non sono il primo esempio di automi semoventi in Venezia che assolvano alla funzione di battere le ore. Ancora è lo storico dell’arte che indica "verosimilmente" in Alessandro Leopardi l’autore della Madonna col Bambino, cui i Magi, preceduti dall’Angelo trombettiere, fanno riverenza. Angelo e Magi, di cui, invece, ci viene fornito anche il documento originale della fattura pagata l’8 aprile 1755 a "Gio Batta Alviero intajador" che li eseguì, presumibilmente, molto simili ai precedenti.

E’, appunto, la ricerca d’archivio, lo spoglio della fonte, anche e soprattutto manoscritta, l’elemento cardine che dà la "substantia" a questo saggio: ricerca che riscopre, ex novo, tutto un secolo, il XVII, tralasciato dall’Erizzo, che fu l’unico, prima di Alberto Peratoner, a pubblicare, nel 1860, uno studio monografico sulla storia dell’Orologio (lasciatemi chiamarlo, familiarmente, così, come quando, a qualcuno, magari poco pratico di Venezia, per essere sicuri di ritrovarsi, si dà appuntamento, proprio e sempre, "sotto" di lui).

Peratoner è l’unico punto di riferimento per la storia di esso lungo tutto questo secolo: da quell’Andrea degli orologi che promette di "tenerlo giusto con l’arte vera dell’horologio solare", passando per "Fedrigo del relogio" cui s’icastra una mano negli ingranaggi, per il giovane Cosmo, semiclandestino "temperatore", per Giambattista Santi, che, involontariamente, in una sua relazione, ci fornisce una "summa" di quella che era la misura del tempo aristotelico-tolemaica, per la grande stagione della famiglia Serena che con gli Zini, i Doria ed i Peratoner appunto, fu tra quelle che più a lungo custodirono, conservarono e regolarono questo strumento, per, infine, Bortolo Natter che propone: "giudico bene che per adesso si possi fare una tal opera moderna e nova", lasciandoci immaginare che, finalmente, il pendolo galileiano sta per essere accettato anche nella conservatrice Venezia.

Peratoner, è, però, anche l’unico punto di riferimento per gli ultimi centoquarant’anni della storia di quello e ci fornisce, così, di conseguenza, l’assoluta certezza che la citazione archivistica che ci produce è di prima mano, è stata, davvero, ricercata e vagliata. I documenti, quindi, che, dal 1860 in poi, sono attualmente conservati nell’Archivio storico comunale alla Celestia, sono stati presi in considerazione solo da lui che, per la prima volta, qui, li pubblica o li riassume.

Emergono, però, poi, dalla lettura di questo volumetto, anche vicende anteriori alla pubblicazione della monografia dell’Erizzo, che ci fanno intravedere quali fossero le tendenze, il gusto, le impostazioni ideologiche di chi, in quel momento, aveva in cura questa straordinaria macchina del tempo, da sempre orgoglio dei Veneziani: interessante e curiosa ho trovato, ad esempio, la proposta, anche questa riportata integralmente, dell’alfiere di vascello dell’imperial regia marina de Wüllerstorf di collegare con un filo di rame, interrato di due o tre pollici, ed impeciato, la specola, allora ai giardini, alla loggia del Sansovino, ove sarebbe stata costruita una campana ed il congegno per muoverla, cosicché l’impulso, partito dall’estremo limite di Castello (allora S. Elena era né più né meno che una delle tante isole dell’estuario) attraverso, prima l’attuale Viale Garibaldi, poi l’omonimo rio terà (allora la riva che fu "dell’Impero" e che oggi è quella "dei Sette Martiri" ancora non c’era), raggiungesse piazza San Marco e la loggetta e segnalasse, così, all’orologiaio-temperatore le eventuali anomalie dell’Orologio della Torre consentendone le necessarie correzioni: anomalie di funzionamento che esso certamente presentava e, in proposito, non è casuale che, pochi anni dopo, si renda necessario l’intervento del De Lucia.

Questa improbabile soluzione, che, poi, non ebbe seguito, perché il Quarantotto che, con quanto ne consegue, incombeva e che fa luce su quella curiosa commistione di idee romantiche ed illuministe, forse di matrice napoleonica, presenti, allora a Venezia, prevedeva, persino, che questo filo di rame dovesse scavalcare i ponti, dove già c’erano e perfino (non c’era, allora, il ponte dell’Arsenale che verrà poi costruito dal Miozzi, il secolo dopo, su di una riva appositamente allargata), attraversare, sott’acqua, il rio dell’Arsenale o delle Galeazze.

Molti altri, poi, sono i fatti, anche antichi, che "vengono a galla", tralasciati nella pur accuratissima monografia dell’Erizzo: fatti meschini di ingiustizie, dove i motori sembrano essere l’invidia, la malevolenza, la rivalità, dove, per emarginare l’erede dei costruttori, si inventano false accuse e si producono false testimonianze: l’accenno a quel documento di una decina di fogli reperito dall’autore all’Archivio di Stato circa le testimonianze della sostanziale correttezza della gestione dell’Orologio da parte di Girolamo, figlio di Giancarlo Ranieri, accusato di furto, a nulla servono per contrastare le tesi di chi, invece, propalava, protetto dall’alto, insinuazioni sulla sua onestà, perfino sulla sua esistenza in vita.

Questi archivi sono stati setacciati con attentissima cura e con scrupolosa attenzione tanto che questo volumetto, pur così agile (e, volutamente tale è perché, altrimenti, non so quanti si accingerebbero ad affrontare un argomento così tecnico e, apparentemente, poco accattivante), rappresenta, oggi, lo "stato dell’arte" di quanto si sappia e si possa sapere su questo tema, su questa materia, su questo monumento, su questa macchina, su chi l’abbia avuta in cura. Lo storico Alberto Peratoner, ma anche il trentatreesimo e l’ultimo degli orologiai-temperatori che si succedettero e vissero in quella torre è il primo a fornircene la lista, completa ad annum, senza la pur minima soluzione di continuità, che copre mezzo millennio di storia.

Alberto Peratoner, però, è anche un tecnico e il capitolo sui Lineamenti esplicativi sulla composizione ed il funzionamento…, esemplare negli schemi e nei disegni, anche se complesso - perché complesso capolavoro di meccanica è quello cui assolve quest’orologio nelle sei partizioni in cui esso si compone - è, ugualmente, comprensibile e chiaro, perché è essenziale. Certo non si può affrontare questo capitolo con superficialità o leggerezza: basta, però, una scrupolosa attenzione, quella stessa cui ti obbliga la costruzione di un puzzle, per comprendere la logica del sistema, la sua articolazione, il suo composito funzionamento ed anche per chi, come, me, non è un tecnico, tutto, alla fine, risulta intelligibile se vengo aiutato, come lo sono stato, proprio da quegli schemi e disegni che l’autore stesso ha, di suo pugno, eseguito.

Non potrò, invece, dir nulla circa il Catalogo dei componenti meccanici e strutturali di quest’orologio: sono però, in grado di capire che le cinquantasette pagine di cui esso si compone che descrivono i 2707 componenti di cui è formato il complesso danno la misura della precisione, del rigore, della diligenza di questo lavoro e, quasi rovescio della stessa medaglia, confermano ed avvallano quelle qualità di storico che Peratoner evidenzia nella prima parte suo saggio.

Di storico, dicevo, dove, tuttavia, talvolta, emerge, qua e là, quasi per caso, in una frase, in un termine, anche quale sia stato il "cursus studiorum" del dr. Peratoner: quando, proprio nell’introduzione egli si riferisce all’Orologio, alla macchina intendo, come al "principio formale" della struttura architettonica che lo contiene. Osservazione, questa, che viene ribadita, poco dopo, quando, accennando alla firma e alla data che i due artefici della macchina del tempo posero sul fregio della trabeazione del portico verso la piazza, il "filosofo" Peratoner sottolinea la "preminenza dell’orologio sulla torre, del contenuto rispetto al suo monumentale alloggio e rivestimento".

E’ l’Orologio, il "contenuto", quello che dà la forma alla Torre, ne qualifica e giustifica gli spazi e le misure (fig. 31), ne è, insomma, la "causa".

E’ proprio questo il concetto che Peratoner vuole rivendicare a questo monumento: un concetto che è, anche, il suo credo. Esso, però, lo potrebbe indurre, oggi, soprattutto, vedendo questo suo credo svilito, ad altre considerazioni, altre riflessioni, altre valutazioni che esulerebbero dal campo, strettamente storico e tecnico che si era proposto e che, con onestà intellettuale e deontologia professionale e scientifica ha perseguito.

Loris Volpato

(Presidente Società Orafa Veneziana)

Seconda Relazione

Quando il Prof. Alberto Peratoner m’invitò a prender parte alla presentazione del Suo libro ne fui lusingato, ma nel contempo, mi chiesi quale apporto avrei potuto dare e cosa avrei potuto aggiungere relativamente ad un’opera che è il frutto di una conoscenza vissuta e di una preparazione storica e soprattutto tecnica profonda, alla quale si aggiunge una capacità espositiva che consente la comprensione delle tematiche che l’autore espone anche a quanti non siano specificatamente preparati nella materia.

Mi domandai ancora, cosa avrei potuto dire di più di quanto non avrebbero detto due qualificati studiosi quali il Prof. Carmelo Vigna e il Dott. Sandro Sponza.

Accettai comunque perché quale Presidente della Società Orafa Veneziana, il sodalizio che fin dai primi anni del 1900 raccolse l’eredità dell’antica Corporazione degli Orafi, Gioiellieri, Argentieri, Diamantieri e Orologiai, non potevo perdere l’occasione per manifestare pubblicamente a Peratoner la gratitudine per un lavoro tanto prezioso e completo - in quanto spazia dalla Storia alla Tecnica - di un monumento tanto insigne quale la Torre dell’Orologio di San Marco.

Un lavoro che è anche un atto di omaggio a generazioni di Orologiai Temperatori, ignorati o quasi, ai quali dobbiamo la conservazione dell’Orologio Marciano.

La bibliografia della materia specifica non è molto ampia, anzi come dice il Dott. Piero Pazzi nel suo Dizionario Aureo "le misurazioni del tempo e delle ore, nella civiltà veneziana, è un tema vastissimo, inesplorato e pochi sono gli studi fatti attorno a questo argomento (…) nulla però vi è che accenni a particolari orologi monumentali, sia dal punto di vista tecnico che da quello storico-artistico, come pure (continua il Pazzi) inesistenti sono gli studi nei quali si menzionano i nomi degli artigiani …" ecc.

E dunque ben bisognava rendere atto della validità, sotto tutti gli aspetti, che il libro L’Orologio della Torre di San Marco in Venezia ha e del fatto che esso viene a coprire un vuoto immeritato in un campo tanto affascinante e su un oggetto che per secoli ha scandito le ore della nostra storia.

D’altra parte, giova ripeterlo, il libro per il chiarissimo modo espositivo si presenta da solo e quindi il compito di quanti lo presentano e vorranno sostenerne la diffusione è molto facilitato.

LE CARATTERISTICHE:

L’opera, sostanzialmente si divide in due parti fornendo, nella prima, notizie in ordine allo sviluppo del progetto, dell’esecuzione della Torre, delle sue parti architettoniche e decorative e degli esecutori, assegnandone la paternità all’arch. Mauro Codussi, contribuendo così al definitivo superamento dell’attribuzione (pur autorevolmente sostenuta da molti, per tanto tempo) del monumento a Pietro Lombardo (Enciclopedia Italiana, ad esempio) e illustrando le varie fasi della realizzazione dell’Orologio vero e proprio; dalla commissione della macchina a Gian Carlo Rainieri (lettera del Doge Agostino Barbarigo del 16 giugno 1496) (Gian Carlo figlio di Gian Paolo), degli interventi correttivi, manutentori e sostitutivi succedutisi nel tempo, dilungandosi sui due INTERVENTI PIU’ INCISIVI: quello del 1757 di Bartolomeo Ferracina, che portò alla sostituzione della vecchia macchina e fu completato nel 1759 con il ripristino del meccanismo della processione dei Re Magi e quello affidato dal Comune di Venezia al Prof. di meccanica Luigi De Lucia, che realizzò anche la visualizzazione numerica delle ore e dei minuti e assicurò il funzionamento dell’Orologio fino alla revisione degli anni 50 ad opera della Ditta Peratoner.

E ancora, in quella che definiremo la seconda parte, il libro si addentra nel discorso tecnico e nell’ampia catalogazione dei "COMPONENTI MECCANICI E STRUTTURALI" - ben 2707! - ottenuta in base alla formulazione di un "SISTEMA ALFANUMERICO IN CODICI TRIPARTITI" che ha permesso la relativa "Classificazione sistematica capace d’esprimere la concezione modulare dell’orologio e descriverne le funzioni distintamente".

Infine il volume si conclude con alcuni prospetti grafici che descrivono analiticamente il funzionamento di ogni singola sezione dell’Orologio, una novità assoluta che non ha riscontro in altre monografie dedicate all’orologeria monumentale!

Un lavoro immane che solo un grande professionista poteva produrre e fa sorgere naturalmente una domanda: perché non si è voluto approfittare di tanta professionalità e per quale ragione il Prof. Peratoner di fatto fu escluso dalla commissione per il restauro, nonostante che nella presentazione della stessa tenutasi a Palazzo Ducale, l’Assessore alla Cultura del Comune di Venezia Prof. Mossetto in un primo tempo (gennaio 1997) lo avesse incluso?

Penso che questa sia una domanda legittima ed è la stessa che si pone l’Horological Journal di Londra nell’articolo di Renato e Franco Zamberlan intitolato Un restauro controverso e pubblicato nel numero di febbraio del c.a., dal quale affiora una serie di preoccupazioni.

Una di queste, con la quale dobbiamo misurarci sempre più spesso, quella dell’esclusione delle più autentiche residue forze professionali e culturali che la città sa ancora esprimere, costantemente ignorate dagli amministratori veneziani che non si riconoscono minimamente in quanto scriveva nel 1685 un funzionario della Serenissima di quel tempo riferendosi all’orologio di San Marco.

GIACOMO FEDRIGO scriveva: "… NIUNO PUO’ MEGLIO IN QUELLA MACCHINA OPERARE DI CHI NE HA PER TANTI ANNI IL MANEGGIO, E L’INTERA COGNITIONE; E CHI PRETENDESSE ALTERARLA, O AGGIONGERVI, LA DISORDINAREBBE AFFATTO, E PERDEREBBE QUELLA STIMA, CHE HA PER LA SUA ANTICHITA’, ET OTTIMA COSTRUTTIONE ACQUISTATA, E CHE PASSA CON STUPORE GLORIOSA PER TUTTO L’UNIVERSO."

Giacomo Fedrigo, amministratore veneziano d’altri tempi fu buon profeta nel temere che altri si sarebbero comportati altrimenti, e noi amaramente dobbiamo riscontrare che ai nostri giorni il mondo professionale riscontra una sempre maggiore difficoltà nel rapporto con gli enti pubblici.

Arti e mestieri in conseguenza di ciò ne soffrono e con essi ne patiscono le attività.

Scompaiono i lavori più tipici e a Venezia sono già scomparse tante delle arti più congeniali, non ci sono più smaltatori, filigranisti, incisori, doratori, sbalzatori, mosaicisti, fonditori, ecc.

Un mondo che godeva di spazi persino nell’ambito della Biennale che ne ospitava le esposizioni al Padiglione Italia, mentre oggi non si vogliono trovare gli spazi neanche per esposizioni collaudate e qualificate come ORO DI VENEZIA, che a suo tempo fu ospitata nell’Ala Napoleonica e alla Biblioteca Marciana, dove ebbe 35.000 visitatori e realizzò assieme alla mostra delle opere dei gioiellieri contemporanei retrospettive importanti e pubblicazioni dovute ad illustri studiosi come Elena Bassi, G. Mariacher, Luisa Crusuar, Fulvio Maria Scavia, Ileana Chiappini Di Sorio, ecc.

Né, continuando con l’elencazione degli inaccettabili comportamenti di chi dovrebbe favorire anche il mantenimento delle espressioni professionali, proprio in vista della conservazione del patrimonio artistico della città, si riesce a dar vita alla Scuola degli Orafi e Orologiai per evitare lo spegnersi di quelle arti che tanto s’identificano con la nostra cultura e le nostre tradizioni, pensiamo alla Pala d’Oro e, per restare nel tema, all’Orologio Marciano.

Per questa scuola ci battiamo da anni, ma il "Laboratio delle arti minori" per la città è ancora un miraggio.

E se da noi più che altrove nessuno è profeta in patria e si ricorre costantemente all’accaparramento di esperti esterni, si dovrebbe anche dare qualche spiegazione sui criteri che ispirano queste scelte.

Come, con riferimento ai restauri dell’Orologio di Piazza San Marco si dovrebbe rispondere esaurientemente alle contestazioni e alle osservazioni e sulla tipologia degli interventi alla macchina e sui ritardi in ordine all’edificio da troppi anni avvolto in impalcature che cominciano a mostrare i segni del tempo.

La Torre fu costruita fra il 1496 e il 1499, in un tempo inferiore a quello trascorso dall’inizio degli attuali e non ancora conclusi!

Finisco ringraziando ancora il Prof. Peratoner e l’Editore per aver realizzato quest’opera che diverrà sempre più un punto di riferimento per quanti vorranno conoscere l’Orologio di San Marco e per quanti avranno il compito di farlo funzionare.

E mi congratulo vivamente perché da questo libro, assieme all’ampiezza della documentazione e alla profonda conoscenza della materia trattata, emerge partecipazione più sentita per le sorti della città e l’opera finisce per essere un’autentico atto d’amore del suo autore (l’ultimo dei Temperatori) per Venezia.

Alberto Peratoner

Intervento complementare

Ringrazio innanzitutto il Presidente e i Relatori per le cose veramente belle e per me commoventi che hanno espresso sulla qualità del libro, nonché per la cordialità e la passione manifestate.

Come autore devo dire che tale ‘fatica’ è stata premiata, in fieri, dall’emozione della scoperta dei numerosi documenti inediti che la ricerca d’archivio ha fruttato. In particolare mi colpì l’ottenimento del risultato della ricostruzione della serie continua degli orologiai temperatori, miei predecessori: mi colpì in quanto non credevo neppure io di raggiungerlo! E invece col tempo notai che, mentre all’Archivio di Stato scorrevano davanti ai miei occhi le grandi pagine dei volumi in folio dei registri della Procuratia de Supra, degli atti di assunzione degli Orologiai de Piazza e, ancora, all’Archivio della Celestia, le carte dei contratti stipulati a cavallo tra Ottocento e Novecento ed altri interessantissimi documenti, venivano man mano colmandosi tutte le lacune, e potevo ammirare la storia di questa incredibile successione ininterrotta ricostituirsi integralmente.

Desidero ora sottoporvi soltanto tre precisazioni in merito alla natura di questo Orologio, ovvero tre considerazioni che possano, in certo modo, unificarne la lettura e l’osservazione.

L’immagine che vedete - no, non abbiamo sbagliato diapositiva - [viene proiettata una veduta di una fiancata rocciosa di una montagna, precisamente il costone NNE del M. Chiadin presso le Sorgenti del Piave] ritrae l’affioramento di una successione sedimentaria nettamente stratificata: si tratta della cosiddetta Formazione a Bellerophon presente nelle nostre Dolomiti e depositatasi nel Permiano medio, intorno a 245 milioni di anni fa: una successione alternata di gessi evaporitici da precipitazione di sali in un ambiente di basse lagune costiere soggette a forte evaporazione e calcari pelagici neri nei cicli di trasgressione marina.

Ebbene, l’Orologio della Torre di Piazza San Marco è esattamente questo: è la somma o il risultato complessivo delle stratificazioni storiche depositatesi nel corso dei cinque secoli che ha attraversato. Così, come l’identità di una determinata montagna è nell’integrità di tutte le sue stratificazioni geologiche (e a nessuno verrebbe in mente di eliminarne la parte sommitale per puro arbitrio), così l’identità di questo Orologio monumentale consiste nell’integrità del complesso di tutte le stratificazioni storiche accumulatesi l’una sull’altra, compresa l’ultima che meriti di chiamarsi tale, quella realizzata dal De Lucia nel 1858-1860, ben centoquarant’anni fa.

E’ interessante notare che l’Orologio, strumento finalizzato alla misurazione del tempo, si è fatto segnare a sua volta dal tempo, dal suo scorrere in questi cinque secoli lungo i quali ha svolto tale funzione: ha raccolto, infatti, e conglobato in se stesso, con le stratificazioni di cui parlavamo, i segni che ogni epoca ha impresso nella sua complessa meccanica, cosicché l’Orologio, nello scandire i secoli, ne ha raccolto le caratteristiche, se ne è man mano rivestito e ne conserva ora la memoria, una memoria storica che parla di quelle epoche, di quei secoli attraversati, e tale memoria è accessibile ad un attento studio della sua configurazione complessiva e dei documenti che ci rimangono.

Ancora, nulla comprenderemmo di questo Orologio se trascurassimo il fatto, già questa sera notato dal Dott. Sponza, che esso puo essere descritto come la causa o il principio formale dell’edificio della Torre, come ebbi modo di scrivere, il che significa che esso non è stato ‘gettato’ dentro un edificio già costruito indipendentemente dalla sua destinazione d’uso, ma che l’edificio gli si è, per così dire, modellato attorno, disponendosi in relazione alle sue funzioni e articolazioni.

Aggiungerò soltanto che la chiarezza espositiva della trattazione è, sì, spontanea, come è stato detto, grazie alla grande familiarità con l’Orologio, ma pure funzionale ad un profondo desiderio del cuore: che quante più persone possano addentrarsi in questo oggetto, nella sua storia ma anche nella sua interessantissima articolazione meccanica, e conoscerlo e apprezzarlo quanto merita di essere conosciuto e apprezzato.

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