Troppo bravo        

Dalla rubrica  "Psiche lui" di Claudio Risé, in Io Donna, allegato al "Corriere della Sera", 24/11/07. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Due figli. Il più piccolo, 27 anni, l’ho spinto fuori da casa. Faceva quel che voleva, caos e disordine. Ora ha trovato un monolocale vicino al lavoro, ci invitiamo reciprocamente, e io e la madre ci sentiamo più stimati e apprezzati. Il più grande, 31 anni, diversi fidanzamenti falliti, per cui non né vuole più sapere di ragazze è invece tutto casa e lavoro. Ordinato,  aiuta la madre a far la spesa, pulizie, manutenzione di casa. Mi preoccupa di più. Che fare?"

Un lettore 

Caro amico, anche a lei, come a molti altri, tocca constatare che a volte, nei figli, l’ordine  personale, e la correttezza verso la famiglia ritardano l’emancipazione, e una vita personale felice, più delle intemperanze di una giovinezza sregolata. E’ un paradosso affrontato anche da molte leggende e scritture religiose, ad esempio la parabola del figliol prodigo: come se occorresse perdere i valori e la serenità familiare, per poterla poi ritrovare, attribuendole il giusto valore. Mentre il figlio “bravo”, quello che si è sempre attenuto alle regole familiari, appare come prosciugato in quest’obbedienza, meno capace di relazionarsi col mondo, e meno curioso di conoscerlo e di trasformarlo. Nella sua lettera, lei mi racconta dell’esasperazione cui l’avevano portato le intemperanze del figlio minore. Una ribellione che probabilmente aveva proprio la funzione di “farsi buttar fuori di casa”, aiutando quindi padre e madre a costringere il figlio a prendersi  la responsabilità della propria vita. Coi suoi classici risultati: una maggior sicurezza; una dignità personale garantita da un’autostima prima impossibile; stima e affetto per i genitori, prima vissuti come autorità ingombranti. L’allontanamento del figlio ormai adulto dalla casa dei genitori, anche coi suoi fatali conflitti, è dunque un dono di libertà e di responsabilità che, come nel caso del suo figlio minore, può dare una svolta sia nelle sue relazioni col mondo, che in quelle con la famiglia d’origine. La fatica del figlio maggiore non solo ad andarsene, ma anche a “segnare” una minima differenza personale dallo stile di vita e dalla proposta familiare e della madre, indica invece una situazione di dipendenza affettiva dalla figura materna che sembra aver pesato sia nelle ripetute delusioni sentimentali, che nell’apparente decisone di “chiudere” con le donne, evidentemente giudicate non all’altezza dell’irraggiungibile figura materna. Il figlio che non si ribella mai al padre (evidentemente non vissuto come ostacolo alla relazione con la madre), e che non crea una distanza da una madre devota e premurosa, rischia di far fatica a costruire un futuro personale. Lo spazio affettivo ed intimo  rimane così occupato dalla figura materna, così come quello ideativo e pubblico dalla figura paterna. Questa doppia dipendenza viene più facilmente interrotta quando il padre si decide a riprendersi la moglie nella sfera della propria personale intimità, facendo sparire quelle zone ambigue tuttora presenti nella relazione madre-figlio, che, appagandone i bisogni, impediscono a quest’ultimo di andarsene.   

Claudio Risé

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