Tra due litiganti

Dalla rubrica info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 4/10/03. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

Spetta al padre fare da mediatore nei conflitti fra madre e figlia. Ma non sempre ci riesce. Soprattutto se vede nella moglie una donna debole, da difendere.

 "Mi colpisce quanto lei dice in una sua risposta sui valori che il padre deve istillare ai figli: la stima di sé, l'essere se stessi, l'impegno nell'affrontare le prove della vita. Ho quasi 30 anni. Mio padre mi ha sempre guidata, mi ha sostenuta in tutto e per tutto, era il mio dio e lo ringrazio. Ma da quando, verso i 24 anni, ho cercato di affermare la mia identità, di impedire che si sostituisse a me nelle mie scelte di vita, si è allontanato e ha perso la stima che aveva per me: raramente parliamo di cose serie senza scontrarci. Il nostro rapporto è peggiorato anche a causa dei conflitti che ho con mia madre, emotivamente instabile. Lui la difende perché la considera più debole e non si accorge che mi aggredisce in continuazione, forse perché ha dovuto sacrificarsi per me. Così io mi sento smarrita, confusa. Se non ci fosse il mio ragazzo, probabilmente sarei sempre in preda a quello stato di depressione che mi prende quando sono sola in casa con mia madre. So che l'unica strada è andarmene. Ma anche questo un pò mi spaventa". Stella, Milano

Cara amica, quelle su cui suo padre è caduto sono, infatti, due prove cruciali della paternità, nel rapporto coi figli. La prima è accettarne la personalità quando questa si definisce, di solito dopo l’uscita dall’adolescenza. E’ allora che, se è andato tutto bene, il padre scopre che il figlio è un’altra persona, diversa da lui. Ciò dovrebbe rallegrarlo perché è la prova che la sua guida non è stata soffocante, ha consentito al nuovo individuo di crescere e di formarsi come personalità autonoma. Quando però la spinta del possesso prevale sul piacere del dono compaiono invece rancore e diffidenza nei confronti del figlio che ha osato essere sé stesso. L’altra prova è quella che si pone al padre quando deve mediare nel conflitto tra i figli, ed una compagna amata ma, per diverse ragioni, instabile e reattiva verso di loro. Anche qui la difesa della personalità dei figli, appena formatasi, anche grazie al suo aiuto, dovrebbe essere privilegiata, in omaggio al rispetto della vita che viene, su cui non bisognerebbe scaricare il peso delle stanchezze e insoddisfazioni degli adulti. Spesso invece il padre, o per quieto vivere, o per un’ansia spesso eccessiva verso la debolezza della moglie, finisce col costruire, assieme alla compagna, uno sbarramento difensivo verso i figli, diventando psicologicamente espulsivo nei loro confronti, e verso tutto il “nuovo” che essi portano con sé. Nella sua lettera si intravede però anche un altro aspetto. Spesso la figlia utilizza il conflitto con la madre per “avere il padre tutto per sé”, mettendo in scena in questo modo un “complesso di Elettra” non completamente risolto. Come l’eroina greca, la figlia sente il padre tradito e umiliato dalla madre, non leale verso la figura paterna, con la quale è in continua competizione.  Ma il padre, allora, difende la moglie, e delude così la figlia che si sente ingiustamente rifiutata. Nell’attuale situazione sociale che tende a prolungare all’infinito l’adolescenza, questo conflitto tende a permanere a lungo, anche in età in cui la figlia dovrebbe ormai aver accettato da tempo l’appartenenza del padre alla madre, ed aver indirizzato il suo affetto ad un altro uomo. Possibilmente visto, non come un “ragazzo”, ma come un adulto col quale costruirsi una vita autonoma dalle figure genitoriali. Ecco perché, cara amica, sono d’accordo con lei: uscire dai suoi guai passa dall’uscire da casa, e costruirsi una propria famiglia. Nella quale cercare di evitare gli errori dei genitori.

Claudio Risé

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