La terapia del fiume 

Dalla rubrica  "Psiche lui" di Claudio Risé, in Io Donna, allegato al "Corriere della Sera", 18/02/06. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

   

“Incominciavo a soffrire di attacchi d’ansia, claustrofobia, mi controllavo in continuazione per vedere se per caso non avevo qualche malattia. Poi ho scoperto il Ticino. Il fiume largo, i boschi intorno, il freddo d’inverno, la natura da jungla d’estate. Rapidamente, i sintomi sono scomparsi. Ed io ho cominciato a passarvi le mattine del sabato, poi tutto il giorno, mentre mia moglie preferisce lo shopping in città. Godo di quel silenzio. Però mi chiedo anche se non sono egoista  verso mia figlia, 13 anni”.

Federico

 Caro amico, la sua lettera, che ho qui riassunto, descrive perfettamente come molto spesso si sviluppa oggi il disagio psichico dell’attacco  d’ansia, col suo corredo di fobie, sotto l’influenza di una vita in gran parte artificiale, che ci rende  insicuri del nostro corpo, e impauriti di fronte ad ogni cosa. Lei ci mostra anche come la natura pressochè incontaminata, com’è il Ticino in molte zone del suo corso, sia in grado a volte di guarire questa malattia dell’ipercivilizzazione, sicuramente di curarla. A condizione però di sapersi immergere in questo mondo naturale, in silenzio, ascoltandone la forza, e lasciandosene penetrare, come ha fatto lei. Si tratta di una terapia, senza esperti e senza lettini (se non di foglie, quando si è stanchi, e ci si ferma per una merenda), che ci rimette in contatto con le forze degli elementi della natura primordiale: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco (che lei, racconta,  accende con cautela, tra i sassi della spiaggia). Essi ci guariscono perché sono  gli stessi elementi della vita che scorre anche dentro di noi, e farne un’esperienza profonda li riattiva anche nel nostro corpo – psiche. Dove si erano assopiti sotto il frastuono e l’ansia degli impegni di lavoro, di una vita quotidiana tra il cemento, e dove il nostro corpo e i nostri sensi, le mani, l’udito, la voce, si esprimono maneggiando in continuazione soprattutto macchine: il  telefono, il computer, l’automobile, il fax, il video. Prigioniero di questa gabbia tecnologica e cementificata, il nostro corpo–psiche non respira, e  comincia ad aver paura. Raramente, però, ce ne accorgiamo. Questa paura, non registrata dalla coscienza, che non sa come “rubricarla” nelle categorie consuete, si deposita così nell’inconscio. E da lì riemerge, improvvisamente, sotto forma d’attacco d’ansia, di panico, o travestita da fobia. Quest’ultima, di solito è riferita anch’essa al corpo, e ruota attorno al timore (che è il volto represso del desiderio) delle forme elementari della vita,  come i batteri, che lei temeva di raccogliere stringendo una mano, o spingendo la maniglia di una porta. L’incontro, che lei ha inconsciamente cercato, col fiume tra i boschi, ha aperto le porte di questa gabbia artificiale, e lei ha potuto uscirne, ritrovando il suo corpo, tranquillo. Si goda pure qualche ora di silenzio e di solitudine, sapiente cura di una società ipercivilizzata. Ma non privi, dopo, la figlia dal venire iniziata dal proprio padre alla meraviglia e alla forza risanatrice della natura primordiale.

Claudio Risé

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