Sono un padre carcerato 

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 22/05/05. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Mesi fa ho ucciso mia moglie con due colpi di pistola, mentre dormiva. Da oltre 15 anni soffro per una “depressione bipolare”, che, pur curata, era peggiorata. Mia moglie m’aveva detto che mi avrebbe lasciato. Eravamo sposati da 29 anni. Sono preoccupato per mio figlio, con me attento e premuroso: gli ho ucciso la madre, sono in carcere, e lui si è caricato di tutti i problemi pratici conseguenti alla tragedia. Come aiutarlo?"

Giovanni, Torino

 

Caro amico, la sua preoccupazione per suo figlio, così come la cura del figlio nel venirla a trovare e nel seguire scrupolosamente i suoi problemi di recluso, dimostrano la saldezza del vostro rapporto. D’altra parte  la relazione  tra genitori e figli, in quanto rapporto primario, legato alle origini della vita, è, in sé,  in grado di affrontare le prove dell’esistenza, compresa la malattia e la morte. Ciò che continua ad avvenire tra di voi, quotidianamente, con la vostra intesa e i vostri gesti di attenzione (che è poi amore), l’uno per l’altro, dimostra che la profondità del vostro rapporto era più forte dei turbamenti per la sua malattia, e per la successiva tragedia. Lei sente forte il senso di colpa per aver ucciso la madre di suo figlio e, come mi scrive “aver inesorabilmente amputato” la vostra famiglia, e questo è giusto, qualsiasi sia la conclusione cui arriverà la perizia psichiatrica in corso. Proprio il suo senso di colpa infatti, oltre che il dolore per la morte di sua moglie, può mantenerla in contatto col dolore di suo figlio: entrambi piangete lo stesso lutto, che lei vorrebbe non aver mai provocato. Ma, quando viviamo con profondità e verità i nostri affetti, a cominciare da quelli primari, con i genitori, e con i compagni che ci scegliamo per la vita, ci accorgiamo anche che non ci sono rapporti  innocenti e senza colpe, anche se naturalmente alcune hanno effetti particolarmente devastanti. Alla personalità è richiesto  di amare l’altro così com’è, con le sue colpe, nella sua verità.  Questa è la prova che si pone, oggi, anche a suo figlio; il quale d’altra parte, sembra reggerla molto bene, anche, come lei mi scrive, con l’aiuto della giovane, e valorosa moglie. La quale ha perso il lavoro presso la vostra azienda di famiglia, ora in liquidazione, mentre il figlio si è preso in casa la nonna ultranovantenne, il cane suo e di sua moglie, e deve affrontare problemi fiscali e amministrativi, oltre che le sue vicende giudiziarie. E soprattutto, come lei dice, per il suo gesto “è diventato orfano di madre” e, lei aggiunge, “in un certo senso, anche di padre”. Ecco, questo non è vero, ed è sbagliato che lei lo pensi. Un padre recluso non è un padre mancante, o assente. Lo testimonia la frequenza, e l’intensità, dei vostri incontri, e delle vostre comunicazioni. Lei può dare, e mi pare che lo stia facendo, a suo figlio un insegnamento prezioso, che fin dalle più antiche testimonianze dell’umanità è stato proprio del padre: come affrontare con dignità, ed insieme cuore, la tragedia che la vita, a volte, ci mette davanti. 

         Claudio Risé

   

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