Selvatici,
saremo salvi
Da
Area, aprile 1998
Il
Selvatico é colui che si salva, diceva Leonardo da Vinci. Con l'uomo della
selva Ernst Junger entrò in relazione relativamente tardi nella sua vita,
quando appunto si aprì anche per lui la questione della salvezza. Non certo
quella personale, della vita, o dell'anima: questioni cui fu indifferente,
giacché il suo sentire fu sempre transpersonale, centrato non sull'Ego ma sul Sé.
(Le questioni dell'Io non lo interessavano, per questo Ralph Dahrendorf, che ama
teneramente il proprio Io, lo accusò di "mostruosa insensibilità.")
Si trattava piuttosto di ritrovare una prospettiva di salvezza (nel senso di
"vitale") quando ormai i primi attori dell'opera di Junger: l'Operaio,
e la sua controfigura sacrificale del Milite Ignoto, dopo aver spadroneggiato
per mezzo secolo avevano lasciato
dietro di sé macerie, rovine, morte, ma soprattutto schiavitù. Una schiavitù
che si andava facendo più pervasiva, implacabile (Junger lo capì subito) dopo
la fine della seconda guerra mondiale, che del resto non era affatto finita.
Certo l'epica bellicosa era esaurita, ma non il processo che aveva portato alle
guerre mondiali, ed in esse si era amplificato fino ad esiti apocalittici: quel
continuo, incessante espandersi dell'apparato industriale e tecnologico, che
continuava (anche attraverso guerre minori) a stendere il reticolato d'acciaio
dell'Operaio sulla terra, sulle sue antiche culture, distruggendole una dopo
l'altra. In quel momento si apre per Junger una diversa visione. Quella,
appunto, del Salvadego, della via al bosco, che salva. Quella che infatti si
apre, come mostra Holderlin (nel
suo trattato Das Werden im Vergehen), quando la "patria tramonta" ed
allora "dalla stirpe che resta, e dalle forze della natura, che sono
l'altro principio reale, si formi un mondo nuovo". Le forze della natura,
Junger le aveva già intraviste, e amate, nel loro avanzare dopo le battaglie di
fuoco promosse dall'universo meccanico e tecnico dell'Operaio. Aveva allora
notato che " La guerra crea anche un'altra natura, più selvatica. Le
maglie della rete delle trincee sono piene di erbe alte, perché i campi aperti si
coprono di una vegetazione nuova, e completamente diversa. Le piante selvagge,
che per solito crescono isolate tra i cereali, hanno vinto... questo deserto è
un soggiorno apprezzato dagli uccelli, come le pernici, di cui si sente spesso
lo strano richiamo nella notte." Questo irrompere del mondo selvatico sui
campi aperti della guerra annuncia l'"altra parte" verso la quale sarà
vitale andare quando appunto il delirio manifatturiero dell' Operaio avrà
distrutto tutto, a cominciare dalla libertà. Quell'al di là, che é poi la
selva, il bosco, che riapre la dimensione dell'immaginario, del sogno, quindi
della vita, anche se appena pre/sentita. "L'altra sponda é avvolta in una
densa nebbia, e soltanto a tratti dall'oscurità giungono luci e suoni.
" (Irradiazioni. Diario 41-45 ). Ma giungono. L'"altra
sponda" istituisce un passaggio. Come in Holderlin (nell'Inno Andenken)
"Su lente passerelle/Spirano brezze cullanti/ Grevi di sogni dorati".
La nuova visione, per Junger allora, ma soprattutto per noi oggi, é quella di
passare, sulle "lente passerelle", al di là degli automatismi e delle
rigidezze dell'Operaio, e ritrovare la Wildnis, quella selvatichezza, che la
coazione alla manifattura, alla fabbricazione (ormai é chiaro: era artificio e
non opus alchemico), non ha ancora completamente ucciso, fuori di noi, e
soprattutto dentro di noi. Per fortuna ogni bimbo, malgrado il politically
correct e le "buone maniere" , basta che chiuda gli occhi e sente
(come descrive perfettamente Rilke
nelle Duinesi) "l'oscura compagnia..le liane striscianti..in strozzante
rigoglio, in forme dallo slancio ferino...l'originaria foresta." Che é
orrida, ma gli sorride :"di rado hai sorriso così teneramente tu,
mamma." Anche tu, mamma società, mamma Operaio che nel frattempo sei
diventato l'azienda, il Megastore, e spari ancora, continui a distruggere, anche
se più subdolamente, da scaffali stracolmi di prodotti, da manifesti sorridenti
maternamente. E allora si passa al bosco.
Come del resto, si é sempre dovuto fare. Come Parsifal, quando lascia la
madre, ma lascia poi anche Artù, con la sua Ginevra, compìta, ma falsa.
Come persino Gesù bambino, quando non ne può più neppure lui, e
ricorre al Selvatico pagano, il Cristoforo, per farsi portare al di là del
fiume. Perché solo il Selvatico porta al di là, e quindi salva. Ma "di là"
dove? Come passare alla "Selva", e diventare "selvatici ",
se di foreste non ce ne sono più, o quasi? E' dunque solo una visione
consolatoria, quella del "ribelle" di Junger? O un tardivo pentimento
per aver prima amato il "milite del lavoro"? Oppure una selva solo
interiore, come quella che si spalanca davanti al bimbo di Rilke? Non direi. Un
altro, più giovane amante della Wildnis-selvatichezza, l'antropologo Hans Peter
Duerr (protagonista di una spettacolare disputa col cantore della "civiltà
delle buone maniere" il sociologo Norbert Elias), raccontò come la Wildnis
e il bosco lui li trovò bambino, giocando tra le sterpaglie alte che crescevano tra le macerie di Dresda. Il
bosco é il primordiale che irrompe, il non convenzionale, la natura viva e
"scorretta". Anche i deserti metropolitani sono pieni di selve
risuonanti, purché noi ci si entri come sulle "lente passerelle/grevi di
sogni dorati", e non come in un niente. O in un tutto di prodotti, che é
poi la stessa cosa. Allora l'orrido della selva ci sorriderà. E noi lo ameremo.
E saremo salvi. Perfettamente selvatici.
Claudio
Risé