La ricchezza del dolore 

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 1/10/05. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Ho 21 anni, e  un anno e mezzo fa ho iniziato una terapia. Abbiamo rivangato il mio passato, analizzato tutto l'analizzabile. Ora conosco la mia psiche, le mie paure, e la sofferenza provata nell’ infanzia, con un padre inesistente e una  madre, vicina alla psicosi, che  alternava depressioni a feroci aggressività. Non riesco però a staccarmi dal mio dolore, al quale sono legato. Forse perché é tutto ciò che ho".

Samuele

Caro amico, non credo che la terapia le chieda di voltare del tutto e per sempre le spalle al dolore. Si tratterebbe di un’operazione effettivamente impossibile, costringendoci alla quale otterremmo solo il risultato di rimanere fermi, dinanzi ad un ostacolo impossibile  da saltare. Non solo perché il dolore è una parte ineliminabile dell’esperienza di vita, che inesorabilmente ne aggiunge del nuovo, a quello già accumulato nell’infanzia e adolescenza. Ma soprattutto perché, come lei oscuramente percepisce dichiarando di non volerlo lasciare, nel dolore attraversato c’è comunque un valore. Quello di una prova che è stata superata, visto che siamo ancora vivi. Ed il valore dell’ampliamento della coscienza e del sentimento che proprio l’attraversamento di quei dolori ha provocato e consentito. Quello che ci sta davanti, in particolare dopo un processo psicologico di autoriconoscimento ed appropriazione della nostra storia, non è dunque l’abbandono del dolore. Ma piuttosto la sua integrazione dentro la nostra esistenza di oggi e di domani, un’esistenza che, per svilupparsi con slancio, non può non porsi, come lei accenna nella sua lettera, l’obiettivo della felicità. La felicità,  e il riconoscimento del dolore attraverso il quale siamo passati, e che ci ha in qualche modo costituiti come esseri umani, non sono momenti opposti tra loro, ma aspetti della vita che dobbiamo diventare capaci di integrare, di coniugare uno con l’altro. Perché la felicità reale, non quella della pubblicità o delle “fast psycologies”, dipende innanzitutto dalla capacità di riconoscere i dolori attraversati come un aspetto straordinario, anche se terribile, della bellezza  e ricchezza della nostra vita. Non si può, dunque, “lasciare il dolore”, per “entrare nella felicità”: la felicità è un sentimento totale, che noi proviamo di fronte alla nostra vita, dolore compreso, quando ne abbiamo riconosciuto il senso. Non si tratta dunque di “abbandonare il dolore”, ma piuttosto di lasciare la posizione psicologica del lamento e della protesta, in cui noi rimaniamo (e non possiamo non farlo), fino a quando non abbiamo capito che quel dolore ci ha, assieme ad altro, costituiti come persone, ed è quindi elemento integrante della nostra ricchezza. Si tratta di passare dall’attesa (vana e impossibile) di risarcimenti per le sofferenze attraversate, alla costruzione quotidiana e generosa di momenti che diano felicità e benessere, a noi agli altri. Occorre spostarci da un atteggiamento di richiesta (diretta sempre, più o meno consciamente, all’immagine materna), ad un’offerta di noi stessi, e del nostro valore all’altro, agli altri, al mondo. 

Claudio Risé

   

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