Associazione

“Amici del Sindacato delle Famiglie”

 

 

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IL COSTITUIRSI DELLA PERSONALITA’ UMANA E DELL’IO

 

 

 

LA SOCIETA’ “GRANDE MADRE”

E I FIGLI SENZA PADRE

 

 

 

Prof. Claudio Risé

Professore di Sociologia presso l’Università dell’Insubria

 

 

 

Introduce

Prof. Marco Cangiotti

Professore di Filosofia presso l’Università di Urbino

 

 

 

 

Pesaro 05.11.2003

 

 

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 Prof. Marco Cangiotti

 

Ringrazio gli amici del Sindacato delle Famiglie per avermi offerto un’occasione così significativa di incontro non solo letterario, ma personale con il Prof. Claudio Risé e anche per l’incontro allargato con tutti voi.

Sono un po’ imbarazzato perché avendo qui un autore così importante di un libro così bello mi sembra un po’ di rubare il tempo. Ho cercato di non essere servo inutile della situazione pensando che cosa potessi fare, non certo parlare del libro, abbiamo qui l’autore, sarebbe stato sciocco, addirittura presuntuoso e comunque inutile fare una recensione del libro. L’unica cosa che posso tentare di fare nel breve giro di pochi minuti è quello di provare a funzionare da portone di ingresso: l’introduzione.

Ognuno di noi sa che per entrare in una casa sarebbero problemi se non ci fosse la porta, certo si può passare dalla finestra; abbiamo un episodio evangelico in cui hanno addirittura scoperchiato un tetto per fare entrare una persona a contatto con Nostro Signore. Io vorrei funzionare un attimo da introduttore.  

Questo è il senso delle rapide osservazioni per entrare in qualche modo da una delle possibili aperture per il confronto vivo con l’autore e con il suo libro.

Io partirei facendo questa osservazione: c’è un elemento che qualunque cosa noi uomini possiamo pensare o fare non possiamo assolutamente cambiare; si tratta del fatto che io, e quindi ciascun uomo, non c’ero prima della mia nascita, io, e con me ciascun altro uomo, non sono la causa e il responsabile dell’inizio della mia stessa esistenza. Questo è un dato innegabile e che nessuno potrà mai modificare.

La tradizione ha sintetizzato questa, che è una condizione umana universale, con una parola: il concetto di creatura. Io sono una creatura perché qualcun altro, o forse qualche cosa d’altro mi ha posto nell’essere e, fra l’altro, mi ci ha posto senza che io glielo abbia chiesto. Ha deciso per me prima che io ci fossi e il risultato sono io.

Strettamente connesso con questo primo elemento deriva direttamente il secondo elemento immutabile, che non è a nostra disposizione: qualunque cosa io, l’uomo, possa fare, possa pensare o possa dire, non posso evitare la mia morte. Così come non sono stato la causa del mio inizio, non potrò nemmeno evitare il fatto che ci sarà una fine. La posso rimuovere, normalmente non ci penso, sogno, come dice Freud, di essere immortale, ma in realtà so bene che dovrò morire.

E così l’inizio e la fine di ciò che io sono, anche se è duro a riconoscersi, non mi appartengono, nel senso che su di essi non è per me possibile alcun atto di volontà, alcun controllo. E’ vero che quando ne parlo con i miei studenti qualcuno obietta a volte che per quello che riguarda la morte io potrei controllarla anticipandola attraverso il suicidio, però quel che io dico è un’altra cosa, io dico che non posso sottrarmi ad essa.

Inevitabilmente dunque l’uomo, se è serio con sé stesso, appare a sé stesso quel che è, con le parole della tradizione: è una creatura, dipende dall’atto del suo Creatore, e questo è vero sia Esso Qualcuno o qualcosa.

Se questa è l’inevitabile condizione umana, il problema centrale, primario, decisivo, che ognuno di noi uomini ha è quello di identificare in qualche modo la sua origine: da dove vengo? E’ un problema grosso perché non è indifferente se questa origine è un Qualcuno, cioè un volto, oppure qualcosa, cioè qualcosa che non ha volto. Tutta la storia umana è nella sua vera profondità, quella che non appare certo in televisione, la storia di questa ricerca dell’origine o, detto in altri termini, tutta la storia umana è la storia del rapporto, la storia del legame con la propria origine. Ma dire la storia del legame con la propria origine introduce un altra grande parola della tradizione, oggi molto rimossa: legame, religio, la storia umana è storia religiosa. L’uomo, in quanto creatura dipende, cioè è fatto, da un legame con qualche cosa d’altro da sé, per questo forse la definizione più esatta dell’uomo è questa: l’uomo è un essere religioso, homo religiosus, perché è costituito da un legame, non da altro. E così la storia umana è la storia di questo rapporto, la storia della religione, lo ribadisco: non di questa o quella religione, ma della religione, se è storia degli uomini. Per questo motivo ciò che definisce ogni uomo nel suo livello più semplice, ma più radicale è ciò che una persona cara a molti di noi come uomo e come autore, Don Luigi Giussani, ha chiamato il Senso Religioso: il concetto di Dio, nella sua basilare significanza, nel suo concetto di fondo, è esattamente il concetto dell’origine, il creatore a cui io debbo me stesso. Questo è il livello profondo dello statuto antropologico dell’idea di uomo de “Il Padre: l’assente inaccettabile”. In esso però questa originale condizione si presenta già evoluta, e, come dice il titolo, all’origine, al Dio a cui tutto il mio senso religioso mi dirige, è dato un nome, non è qualcosa, è già Qualcuno, è Qualcuno che, pur senza entrare in pasticci di identificazione (siamo uguali, ecc..), mi è in qualche modo affine. Lo chiamiamo il Padre, per l’appunto; se mi è padre io sono affine a lui. La comparsa di questo nome, Padre, come nome appropriato per l’origine, non è però nella storia umana frutto del genio umano, bisogna dirlo con chiarezza, al massimo il genio umano lo ha presentito, ma non l’ha saputo nominare con esattezza. La comparsa di questo nome è stato invece un dono dello stesso Padre che a noi uomini ha voluto rivelarsi; è stato un dono di una divina rivelazione, che è avvenuto in un luogo preciso nell’avvenimento cristiano, nella grande tradizione ebraico–cristiana che culmina con l’avvenimento cristiano. Ed è da questa tappa che il corso della storia umana è cambiato: se la storia umana è storia religiosa, nel momento in cui il nome viene pronunciato, l’uomo comprende la sua identità.

E’ da qui, mi pare, che il libro di Risé prende avvio. Però non spaventatevi, non è un libro di teologia, non è un libro che si dedica a chiarire meglio il tema del Padre divino. Per capire cos’è questo libro io propongo quello che ho fatto io per capirlo, un ultimo passo.

Dicevamo: io sono una creatura, ma allora per capire chi io sia debbo scoprire di chi io sono, dunque non è priva delle più gravi conseguenze per me l’identità di colui da cui io sono stato posto nell’essere e così, quando con il cristianesimo il creatore si è rivelato come Padre, nello stesso tempo noi abbiamo ricevuto la più importante informazione, come ricorda anche Giovanni Paolo II, su noi stessi: l’uomo è stato rivelato a sè stesso perché gli è stato detto che lui è figlio. Non solo ha un nome l’origine, ma avendo un nome l’origine, Padre, abbiamo un nome anche noi, figli. Si tratta non di un’identità metafisica astratta, ma qualcosa che ha a che fare con il tessuto vivo, che è carne, che è ossa, che è sangue del mio stesso essere, talmente vivo che basta pensare a questo per rendersene conto: ogni uomo è nato solo perché l’atto creatore del Padre Celeste è passato attraverso l’atto generatore del proprio padre umano e pertanto, se la mia identità dipende dalla risposta alla domanda “di chi io sono”, la mia identità dipenderà dalla mia relazione con quel padre umano che per me è stato il veicolo generativo attraverso cui è passato l’atto del Padre che mi ha creato.

Riflettere perciò sulla vicenda della paternità umana, come questo libro fa, diventa decisivo per comprendere in profondità la vicenda della nostra vera identità. Per questo motivo io credo che questo libro sia un libro non di teologia o di antropologia filosofica, cioè un libro di filosofia dell’uomo. E’ vero, non è giocato sul versante della fondazione, ma è giocato sul versante dell’esperienza, quello che uno specialista definirebbe il versante fenomenologico concreto. E qui sta anche la sua ricchezza perché diventa, questo libro, una illuminazione del nostro tempo presente, ci fa capire che cosa succede oggi. In questo libro dunque si parla davvero di noi e oggi ce n’è bisogno. Perché? Perché Risé ha scritto questo libro?

Leggendolo io ho capito questo e ve lo comunico: l’uomo è qualcuno che appartiene, è appartenenza al Padre creatore celeste, ma solo attraverso il padre generatore umano. E’ però accaduto nel nostro presente (non è accaduto ieri l’altro, è accaduto oggi, ci riguarda) che l’uomo abbia rifiutato di appartenere al Padre Celeste coinvolgendo in questo rifiuto anche l’appartenenza che lo lega al padre umano. Ma, come dice il grande poeta Eliot in uno dei suoi Cori da la Rocca, in realtà non è accaduto questo: l’uomo non ha cessato di appartenere, è accaduto che, volendo rinunciare alla sua appartenenza al Padre, ma essendo fatto della sua appartenenza (perché se io sono, sono perché qualcuno mi ha posto) ha semplicemente cambiato il titolare di questa appartenenza. L’uomo, in quanto uomo, non può cessare di appartenere a qualcuno; per cui il rifiuto del padre, l’uscita dalla relazione padre - figlio che costituisce l’uomo, ha prodotto nell’uomo moderno non l’indipendenza, non il fatto che non appartiene più, ma ha prodotto un cambio di appartenenza. L’uomo, per sua stessa natura, è di qualcuno, se non è del Padre entra, come è entrato, in una relazione di appartenenza con qualcun altro. Con chi? Eliot dice con un padrone e ci da anche i nomi: denaro, lussuria, potere. La Bibbia, molto prima di Eliot, definiva ciò che si sostituisce al padre quando l’uomo rifiuta il padre, con il nome di idolo. L’uomo appartiene all’idolo. Quindi, invece del rapporto padre – figlio, si è creato nel tempo presente il rapporto fra signore – servo, perché se io appartengo al padre, la mia identità è quella del figlio, ma se io appartengo al signore, la mia identicità è quella del servo, non si scappa. E quale sia la perdita a cui siamo andati incontro da figlio a servo, da figlio a schiavo, è evidente. Allora c’è un immenso compito che ci aspetta, non più rinviabile: sia quello di ritornare alla consapevolezza di essere figli di un padre e non servi di un padrone, sia di penetrare con il massimo di lucidità tutto il degrado a cui ci ha condotti la condizione di servi dentro la quale siamo caduti rifiutando il padre.

Ecco perché a mio giudizio è stato scritto questo libro ed ecco perché ce n’era davvero bisogno.

 

 

 

 

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Prof. Claudio Risé

 

Desidero ringraziare gli amici del Sindacato delle Famiglie di Pesaro, ringraziare voi amici pesaresi che siete qui a discutere su questo tema, ringraziare molto caldamente il Prof. Cangiotti per questa sua introduzione che è stata veramente la porta a quello che io ho voluto dire con il libro e che cercherò di presentarvi qui questa sera.

Rapidamente, perché, mi piacerebbe molto che utilizzassimo questa serata a fondo e quindi che chi tra voi ha letto il libro potesse intervenire, discuterne, proporre le sue obiezioni, fare le sue richieste, insomma che sia un incontro davvero costruttivo, in cui ci scambiamo qualche cosa.

Racconteremo dopo, come sia accaduto quello che il Prof. Cangiotti ci ha raccontato prima, questo rifiuto di appartenenza bilaterale, perché oltre e più che figli che hanno rifiutato di appartenere a un padre, i padri hanno rifiutato di essere titolari di questa appartenenza, che voleva dire formazione, dono, un' enorme responsabilità, a cui il padre si è gradualmente sottratto.

Prima però volevo riassumervi come io vedo la figura del padre, che nel frattempo è stata, in questo processo di smarrimento, edulcorata e molto svirilizzata. Guardate come si parla del padre oggi sui media: il padre è diventato una figura sentimentale, qualche volta affettiva, spesso economica, ma se ne sono persi i fondamenti costitutivi.

Un fondamento è quello di cui ci ha parlato il Prof. Cangiotti poco fa ed è la figura del creatore. Il padre è il creatore, è colui che consente l'inizio della vita. Il padre è alla nostra origine e come tale è anche colui che ci consente di guardare verso il nostro destino. Perché se noi non abbiamo un origine, non sappiamo da dove veniamo, se abbiamo trasformato il padre da figura di creatore ad una figura di supporto sentimentale o di funzionario sociale, che deve adempire in qualche modo a questa funzione all’interno della famiglia e della società, se non sappiamo che noi veniamo da quello lì, non sapremo neanche identificare il nostro obiettivo, il nostro percorso, il nostro futuro. Se non siamo collegati con le radici, non possiamo nemmeno gettare i nostri rami nel cielo, le due cose sono strettamente legate e, quindi, questa edulcorazione della figura paterna si è tradotta in un taglio della storia dell’uomo dal lato dell’origine e, necessariamente, dal lato dello sviluppo.

L’altro aspetto che mi sta a cuore è che il padre svolge attivamente (e qui rientriamo nel tema “Il costituirsi della personalità umana e dell’io”) un ruolo centrale, un ruolo scomodo ed assolutamente impopolare): il padre è colui che porta nel figlio l’esperienza della ferita, l’esperienza della perdita.

Lo scenario che esprime compiutamente per ogni tempo e per ogni individuo questa vicenda è l’esperienza che si produce sul Golgota: il Figlio che viene colpito nel nome del Padre. In questa vicenda fondatrice della nostra civiltà, e della nostra storia personale e collettiva, vediamo con precisione il significato della figura del padre: il padre è colui che ti conduce alla ferita, che ti inizia al senso del dolore. Che ti fa morire perché tu possa risorgere, trasformarti. Come dice don Giussani: "se la vita non è resurrezione, è uno scivolare triste verso la morte". O, come scrive Cordes: “Nell’azione salvifica di Gesù diventa visibile lo stesso Padre che ha tanto amato il mondo da dargli il proprio figlio per la nostra salvezza”. Il padre insegna e testimonia una conferma, una rassicurazione, ma anche una perdita, una mancanza, una fatica. Le esperienze più profonde, a cominciare da quella dell’amore, prendono origine e forma proprio in quella della perdita.

Della ferita fa anche parte una esperienza costitutiva essenziale della vita umana, e di nuovo della nostra civiltà e cultura cristiana, ed è l’esperienza del male, altrimenti inesplicabile e psicologicamente sterile. In uno scritto molto profondo nato da un dialogo con don Luigi Giussani, “Il senso della nascita”, Giovanni Testori ricorda che l’uomo deve riconoscere il dolore del proprio male come dignità e spiega come questo riconoscimento sia legato alla relazione col padre. Se manca la relazione con il padre tutta l’esperienza della ferita (che è quella che poi Freud chiamava laicamente, ed anche un po’ ossessivamente, l’esperienza della “castrazione”), e, più in generale, l’esperienza del male, diventa inesplicabile.

Il padre è colui che passa al figlio il sapere di trasformare la ferita e la perdita, da esperienza distruttiva, in un passaggio indispensabile alla costruzione della personalità. E' nel dolore, nella difficoltà, nello smarrimento, che la personalità si fortifica, e trova i suoi percorsi di crescita. A trasmettere questo sapere è il padre.

Ma perché il padre testimonia della ferita, della perdita? Com’è che avviene fenomenologicamente, nella storia dell’individuo, questa vicenda? Avviene perché il padre infligge, o dovrebbe infliggere, la prima ferita affettiva e psicologica nella vita dell’individuo, indispensabile perché l’io venga a formarsi: quella di rompere la simbiosi con la madre, in cui l’individuo, se tutto va bene, si trova dal momento in cui viene concepito, ad alcuni anni dopo la nascita, diciamo tre, meglio se cinque, e anche oltre. E se non interviene un padre (che in tutti i popoli tradizionali interveniva di solito verso gli otto anni) a prendere questo figlio e a toglierlo dalla simbiosi con la madre (che è una vicenda psicologica, ma anche una vicenda psico-organica: i due corpi erano fusi da molto tempo e la simbiosi continua a presentare degli elementi fusionali sui sottili confini tra psiche e corpo), se il padre non viene a prenderlo, il figlio rimane nella simbiosi. Abbiamo allora la formazione, che è nostra esperienza quotidiana oggi, di personalità pseudo - adulte, che in realtà adulte non sono perché non sono mai state separate dalla madre.

Questo non vuol dire che rimangano necessariamente legate in modo fusionale alla madre naturale. Spesso accade anche questo, ma più spesso, nel tentativo di continuare a ricostituire dei legami di dipendenza di cui l'individuo non sa fare a meno, la persona rimane dipendente dagli amici, dalla società, dal sistema dei consumi, cui l’individuo non riesce a sottrarsi, e nei confronti dei quali l’individuo non riesce a porsi come soggetto. La relazione coniugale poi, se si riesce ad arrivarci, tenderà a riproporre, e per entrambi i generi, le stesse caratteristiche di fusionalità e di dipendenza, le stesse fantasie di possesso (di cui parla molto bene Giussani nel suo Il miracolo dell'ospitalità), che caratterizzano il rapporto madre-bambino. Quindi l’Io non si è formato, perché non c’è mai stato un Io che abbia potuto rivolgersi al mondo riconoscendolo come un “Tu”; l’io è sempre rimasto immerso in questa simbiosi, perché nessun padre l'ha mai interrotta in un rito che risponda alle stesse finalità dei "riti di iniziazione" praticati dai popoli tradizionali.

Simbolicamente (e quindi psicologicamente) sono molto interessanti questi riti di iniziazione. Uno dei più classici e dei più famosi, raccontato dallo storico delle religioni Mircea Eliade, è quello del gruppo degli uomini che raggiunge il gruppo delle donne, che a loro volta stringono a sé i bambini, naturalmente ritualmente, perché sanno bene cosa sta per accadere; gli uomini strappano alle madri i bambini e li alzano offrendoli a Dio. Questo è uno dei riti che esemplifica bene cosa fa il padre: prende il figlio alla madre e lo offre a Dio, lo sposta dalla dimensione orizzontale ( ritorniamo qui all' immagine della croce), cioè parallela alla terra, al mondo delle necessità e dei bisogni materiali, e lo mette nella dimensione verticale, della comunicazione col divino e col Padre Celeste.

Cosa succede quando questa esperienza del padre, come testimone della ferita, non avviene? In termini di costituzione dell’Io, esso non può definirsi nella sua interezza, ed autonomia da un altro soggetto affettivo (la madre) che rimane dominante nella sua natura di fornitore di appagamenti. Questo io dipendente, che caratterizza il figlio/a senza padre, non potrà poi reggere alcuna ferita. Per esso, ogni perdita non è più introduzione a una nuova condizione esistenziale adulta, che lo mette in grado di interloquire, di scambiare con il mondo, e con Dio, ma solo un' insopportabile, ingiusta, violenza. Non c’è infatti stata l'esperienza fondatrice del padre, che, ribadendo la sua responsabilità di creatore e il suo legame di appartenenza e di originarietà nei confronti del figlio, trasmette il sapere, e la pratica della ferita e della perdita come processo costitutivo della personalità.

Ed ora qualche parola sul perché il mio libro si intitoli “Il Padre: l’assente inaccettabile”. La nostra società occidentale, come voi sapete forse, è chiamata ormai convenzionalmente dalla sociologia, psicologia e antropologia, società senza padre, perché è la prima società nella storia del mondo che ha provato a rompere i due aspetti del rapporto figlio-padre, quello di co/creazione, e quello di testimonianza della perdita come esperienza fondativa.

Qualche parola su come si è svolto questo processo, unico nella storia del mondo, poi vedremo le conseguenze e le cifre.

La prima tappa è costituita dal "processo di secolarizzazione", cioè il tentativo che si sviluppa da un certo punto in poi, più marcatamente dall’Illuminismo: nella nostra società si prova (fatto unico all’interno di qualsiasi altra società) a separare la vita dell’uomo dall’esperienza del sacro . Da un certo punto in poi si dice che l’universo dell’uomo, della vita umana, può tranquillamente concentrarsi sulle cose, sulle acquisizioni, sogli oggetti, sulla vita sentimentale, e che l’universo del sacro è un' altra cosa, con cui l’uomo può o meno avere relazione, é un optional. Questo processo di secolarizzazione  interrompe il rapporto dell’ uomo in Occidente con il Padre divino. Il Padre è qualcuno con cui noi possiamo interloquire oppure no, di cui possiamo ricordarci oppure no, non è più presente in ogni momento nella vita umana e non è più il riferimento del mondo simbolico da cui derivano, in Occidente, le identità e le appartenenze. E’ qualcuno a cui possiamo o no rivolgere i nostri pensieri, che possiamo o no coinvolgere nella nostra vita.

All’interno di questo processo, ed in particolare sulla questione del padre, gioca un ruolo fondamentale la riforma protestante, e la figura di Lutero. Egli rompe l’unità dell’esperienza umana tra regno di Dio e regno del mondo, e sposta in questo secondo ambito, cioè nel regno del mondo, l’esperienza dei figli e del matrimonio, istituto che Lutero ritiene che appartenga esclusivamente all’ordine terreno. E' Lutero che secolarizza, come riconosce l'antropologia religiosa, il matrimonio e la famiglia. Il processo di secolarizzazione era già in atto, ma il realizzatore della secolarizzazione nel campo della famiglia è Lutero, con la riforma protestante; è lui che statalizza in qualche modo la paternità, cioè comincia a fare del padre quel provvisorio, avventizio, funzionario statale che, perdendo sempre più rilievo, continua ad essere fino ai nostri giorni. Ciò toglie al padre ogni aspetto di riflesso del Padre Divino, che conferiva al padre enormi responsabilità, naturalmente, ma da cui derivava il suo specifico significato all’interno dell’ordine simbolico di una società non secolarizzata. Lutero sostiene che il divorzio non riguarda la Chiesa, ma lo stato. E’ ancora Lutero che chiama sua moglie, in famiglia, "Dottor Kate", trasferendole una parte molto rilevante dei ruoli educativi che fino ad allora erano stati svolti dal padre. Come osserva l’antropologo  Dieter Lenzen poche generazioni dopo di lui, nessuno sapeva più, quanto meno nella tradizione protestante, cosa avesse significato paternità prima. Questo è un punto di svolta decisivo all’interno di questa vicenda.

La progressiva perdita di significato del padre continua con la rivoluzione industriale, successiva all’illuminismo e alle rivoluzioni borghesi, in cui il padre all’interno della famiglia, diventa un amministratore, e sempre di più rinuncia alla sua caratteristica di creatore, e di iniziatore ed educatore.

Il passaggio del padre da formatore della personalità a contributore e rifornitore di alimenti avviene all’interno del processo di industrializzazione, durante il quale, non dimentichiamoci, vengano ribadite alcune posizioni fondamentali del processo di secolarizzazione, cioè che le sterline sono più importanti dei riti religiosi, e che la cosa più sacra cui bisognava stare bene attenti era lo sfruttamento del denaro (B. Franklin). Quindi un processo, quello della rivoluzione industriale in cui i valori economici prendono il sopravvento, insieme con una visione complessivamente materialista, sulle domande e anche sulle risposte di tipo più spirituale.

All’interno di questo processo succedono alcune cose abbastanza importanti che ricorderò per immagini.

Una scena autobiografica raccontata da David Herbert Lawrence, che vive nel momento del compimento della società industriale, descrive il padre che ritorna a casa la sera dopo il lavoro nelle miniere, sporco, per il quale è pronta una tinozza nella cucina perché possa lavarsi. Il padre si spoglia, il figlio guarda questo uomo vigoroso che ha lavorato tutto il giorno, pieno di carbone; lo guarda ammirato e pieno di amore, e la madre, che è maestra, lo prende da parte e gli dice: “Vedi quell’uomo sporco, tu non dovrai mai essere come lui, tu dovrai diventare un intellettuale, un signore”.

In questa posizione, che non è solo della madre di Lawrence, ma è la posizione di buona parte della società protestante, che è la punta di diamante della società della industrializzazione occidentale, la separazione dal padre assume dei dati culturali e quasi razziali: il padre diventa il rappresentante del lavoro manuale, del lavoro fisico, maschile, diventa una figura forte solo fisicamente, ma debole dal punto di vista culturale, valoriale, delle "buone maniere", svalutata, nei confronti della quale il giovane viene sollecitato a separarsi.

Questo, come vediamo in tutta la produzione letteraria di Lawrence, che da questo punto di vista è molto chiara, crea una scissione fortissima nell’essere umano occidentale in generale, tra il mondo dell’istinto, ed il mondo della cultura industriale, che diventa poi quella del consumo. Ma l’istinto è anche il mondo della relazione con la natura, e quindi il mondo dove si trova Dio. Ricordiamo i molti passi in cui Giussani riferisce della scoperta di Dio attraverso l’incontro con la natura, cioè di qualcos’altro che ti interpella sulla questione della creazione e del tuo destino come creatura. Se tu togli tutto questo, e gli sostituisci quello che i tedeschi hanno chiamato “processo di civilizzazione” che ruota attorno a comportamenti di buone maniere, a modi di comportarsi, non c’è più né la forza della natura e del corpo, né la forza e la luce di Dio, che quella natura e quel corpo hanno creato. L’individuo diventa così prigioniero di un mondo fabbricato, fatto di modelli di comportamento in cui non ci sono più né appartenenze, né interlocuzioni personali profonde sui destini personali. Ci sono solo modelli prefabbricati  di comportamento, che sono poi dei modelli di consumo. E qui siamo già a quella che nei miei libri io chiamo società “grande madre”, la società dei consumi.

Un passaggio rilevante che vorrei ricordare è quello delle due guerre mondiali del secolo scorso durante le quali gli uomini stanno lontani da casa per molti anni, spesso muoiono, e quindi non tornano mai a casa; in quegli anni sono le donne che si devono occupare dei figli. Gli uomini che tornano dopo la seconda guerra mondiale trovano poi un mondo sostanzialmente cambiato, appunto la società “grande madre”, in cui ai vecchi modelli produttivi, modellati sull'unità produttiva familiare, strutturati su una trasmissione di sapere padre-figlio, si è completamente sostituita la corporation, una unità produttiva impersonale in cui non c’è nessuna trasmissione di sapere, anzi i saperi vengono continuamente modificati, per cui ogni detentore di sapere, compreso il padre, è una figura provvisoria, qualcuno che per breve tempo dispone di un sapere utile che poi sarà destinato ad essere rapidamente sostituito.

Come funziona questa società grande madre, che si esprime attraverso la figura della grande corporation? Funziona come nei miti della grande madre, aumentando il suo potere attraverso la soddisfazione dei bisogni. E’ una società estremamente attenta a soddisfare bisogni, anche a suscitarne di nuovi e soddisfarli attraverso prodotti di consumo, e attraverso questo aumentare il proprio potere, ridurre i cittadini a quei servi di cui il Prof. Cangiotti parlava prima.

Questa questione del soddisfacimento del bisogno ha un grande rilievo, sia dal punto di vista della costituzione dell’Io, sia quindi dal punto di vista della formazione spirituale. Cosa succede infatti nel mondo dove tutto è consumo, e dove il funzionamento dell’individuo viene deformato a richiesta di bisogni perché vengano soddisfatti? Succede una cosa decisiva sia dal punto di vista psichico, sia dal punto di vista spirituale, sia dal punto di vista della libertà. Accade cioè che in quel mondo non ci sono più desideri, perché il mondo materno, primario, della soddisfazione del bisogno, è antagonistico al mondo della produzione del desiderio, che è il mondo in cui l’individuo viene introdotto dalla iniziazione paterna. Perché un desiderio si produca occorre che l’individuo sia libero dal bisogno, altrimenti non può investire sul desiderio, se è ancora preso dal soddisfacimento del bisogno. Il desiderio è il risultato della libertà: appunto per questo il risultato del rapporto con il padre, dice Giussani, è la libertà. La libertà viene dalla relazione con un padre che te la insegna, magari contrapponendoti un modello che tu non hai e costringendoti a misurarti con questo modello; è lì che formi la tua libertà. Ma se questo non avviene e tu sei preso dentro un circuito dove c’è solo la soddisfazione del bisogno, alla libertà di desiderare non arrivi mai, perché sei coatto ad appagarti, a soddisfarti. Non reggi la distanza dall'appagamento in cui si forma il desiderio. E qui vi posso dare la mia testimonianza: la maggiore patologia di oggi non è quella di avere dei desideri sbagliati, ma è quella di non avere affatto desideri, è quella di non sapere qual’è il tuo desiderio, è quella dello spegnimento di qualsiasi desiderio all’interno di un universo che si chiude nella soddisfazione del bisogno, nella continua recezione di bisogni da soddisfare.

Ma questi, come sappiamo, sono infiniti, e infinite sono quindi le ferite da reggere dal mancato appagamento di quei bisogni. Il testimone della ferita però, il padre, non c'è più, o se c'è non fa più il suo mestiere. E' così che il mancato appagamento del bisogno diventa tragedia. 

Su questo c’è purtroppo una grandinata di dati e di statistiche agghiaccianti: se il padre è colui che testimonia della ferita, la società senza padri è quindi una aggregazione di persone incapaci di reggere le ferite della vita e dall’altra parte incapace di desiderare di formulare dei progetti. Allora, per esempio, secondo statistiche americane, che sono le più precise, il 90% di tutte le persone senza dimora e dei figli fuggiti da casa non avevano un padre in famiglia, il 70% dei giovani delinquenti ospitati in istituzioni statali venivano da famiglie dove non c’era il padre, l’85% dei giovani che si trovano in carcere sono cresciuti senza padre, il 63% dei giovani che si tolgono la vita hanno dei padri assenti. E potrei continuare sulle tossicomanie, ecc. In qualche modo questa ferita di non avere colui che ti insegna la ferita e ti consente di reggere la ferita, in una società che moltiplica i bisogni, ed anche la difficoltà di soddisfarli tutti, ti porta in una condizione di progressiva e devastante emarginazione. Naturalmente questi dati non vanno letti in termini causali, secondo una rigida connessione causa effetti. L'individuo senza padre rimane libero di costruire il proprio destino. Ma il rischio che non lo faccia è molto elevato.

Questa è una situazione estrema che non ci può né lasciare indifferenti né consentirci di guardarla come se fosse una questione psicologica, una questione di genere, una questione che possiamo catalogare e mettere in un cassetto di una qualche categoria conoscitiva, per poi sbarazzarcene subito dopo. Questo lo dico anche come cristiano: la questione del padre è una questione centrale in un mondo che vive una situazione estrema, una situazione che lo mette di fronte alla sua capacità di lasciare che la vita umana continui e si sviluppi, oppure si autoliquidi, all’interno di un processo perverso che trasforma tutto in consumo, compresa la generazione. Che, come voi sapete, può oggi essere realizzata via internet, cliccando sul sito “man not included” (uomo non previsto) dove qualsiasi donna può chiedere il seme in virtù delle qualifiche e delle caratteristiche che desidera, colore degli occhi, particolarità fisiche, comprese quelle richieste dalle due signore lesbiche inglesi che l’anno scorso, essendo loro non udenti, hanno chiesto un figlio che non avesse l’udito e l’hanno regolarmente avuto.

Siamo qui alla soglia tra vita umana e liquidazione della vita umana, siamo alla soglia tra senso e non senso, tra corpo creato e corpo fabbricato, tra individui liberi capaci di provare desideri, e schiavi che possono soltanto assolvere degli stimoli al soddisfacimento di bisogni attraverso una rete di soddisfacimenti di consumo. Io credo che questa situazione ci interpelli in modo definitivo, non accantonabile perché da essa dipende la continuazione di una vita autenticamente umana, che sappia trovare il proprio senso e che sappia parlare con Dio.

 

Domanda:

Questa ferita inflitta dal padre al figlio è anche una ferita che il padre infligge alla figlia? Come mai non riconosce alla donna una capacità, ugualmente come il maschio, di potere detenere il senso del sacro molto potente e trasmetterlo ai figli, e nello stesso tempo il rapporto con la natura?

 

Risposta:

La ferita riguarda anche la figlia, e nel libro ne parlo. E’ decisivo che la bambina esca dalla simbiosi con la madre proprio per poter vivere la relazione padre-figlia, che è la prima esperienza per la figlia di una relazione con altro da sé. Quindi a seconda che il padre tolga la figlia dalla simbiosi con la madre, la figlia che poi diventerà una donna, potrà o no avere una relazione piena e feconda di autentica apertura con altro da sé. Freud che, come sapete, pone la situazione edipica, quindi la triangolazione padre-madre-figli come momento centrale nello sviluppo dell’individuo, solo nei suoi ultimi scritti dichiara che ciò, che egli chiama la realizzazione dell’Edipo, e quindi lo staccarsi dei figli dalla madre attraverso la relazione (particolarmente conflittuale per il maschio) con il padre, molto spesso per le donne non accade mai, e che allora per la donna la relazione con la madre continua ad essere dominante. Queste donne, osserva Freud, passano la prima metà della loro vita, infanzia e giovinezza, a litigare con la madre, poi, se riescono a sposarsi, incominciano a litigare con il marito esattamente come litigavano con la madre prima, perché proiettano sul marito una figura materna da cui non si sono mai completamente separate. Quindi la separazione attraverso una vera e propria ferita, che la donna di solito non vuole, della figlia dalla madre è un momento costitutivo della formazione della personalità della donna.

La relazione della donna con il sacro e con la natura: io credo che la donna sana, lontana dai modelli della società di cui abbiamo parlato, abbia delle enormi ricchezze nella comunicazione con la natura, e col sacro. Io ho scritto un libro, intitolato “Le donne selvatiche. Forza e sapere del femminile”, pubblicato da Frassinelli, dove mi sono avvalso della preziosissima collaborazione di mia moglie che, essendo una selvatica dei boschi del Tirolo, mi ha aiutato a raccogliere questa saga in parte perduta, diffusa invece dalle Alpi a tutto il nord Europa. Vi si racconta di una donna che viene dal bosco, il contadino la vede, se ne innamora, la porta a casa nel maso, lei si occupa del maso, fa i figli, insegna al contadino tutti i segreti della terra che lei conosce, e di solito chiede il rispetto sul segreto del suo nome, che simboleggia il nucleo più profondo, anche religioso, della personalità. Di solito il marito lo vìola, perché vuole farsi bello con gli amici, perché non regge questa cosa di non dire in giro il nome della donna, e allora la donna se ne va e allora il maso va in rovina. E’ una saga molto curiosa e molto antica, tramandata fino agli inizi di questo secolo, dove è chiarissima questa questione del sapere femminile circa la natura e circa un sacro naturale, la natura che la donna vive come sacra, che però è sempre vissuta dal lato specifico del femminile, che è la ricchezza della generazione, della riproduzione e della conservazione della vita. Questo è il sacro con cui la donna ha una relazione fortissima, ed é un aspetto molto importante del sacro.

Quello con cui la donna ha una relazione solo indiretta, che passa dallo spirito, è quello del sacro che passa dalla perdita, dalla ferita e dalla morte[1], perché così come il padre, l’uomo, è il testimone della ferita, la donna è la testimone della vita e della continuazione della vita, e dell'appagamento dei suoi bisogni. E' questa la complementarità, simbolica e psicologica, dei due generi e delle due vocazioni. Ognuno di essi ha bisogno dell’altro perché la vita continui. Infatti, naturalmente, se c’è una valutazione troppo forte sul tema, maschile, del sacrificio e della ferita, della privazione, questo rischia di portare ad uno spegnimento della istanza vitale e della conservazione della vita. D'altra parte se c’è un investimento unilaterale sulla conservazione della vita, e non c’è l’esperienza della testimonianza della ferita e della morte, non può svilupparsi l’esperienza del rinnovamento, e non c’è il fatto dell’azione innovatrice. Sono due aspetti che devono vivere insieme, devono amarsi confliggendo. Nessuno deve prevalere, ed ognuno deve rispettare il campo dell'altro, come previsto sacralmente nella creazione dell'uomo e della donna, e delle rispettive differenze.

La testimonianza grande dell’accettazione sacrale che caratterizza il femminile è il Magnificat, è Maria: io sono qui, accetto la vita, compresa qualsiasi cosa vi accada, compresa la morte che accadrà, la morte di croce del Figlio che lo Spirito ha generato dentro di me. Questa è l’esperienza mariana: un' esperienza verginale, di madre vergine, una esperienza che quel maestro di gran parte delle persone che sono qui, don Giussani, soprattutto negli ultimi tempi, ha richiamato ripetutamente come di particolare importanza e significato non solo per tutta la Storia, ma per il mondo di oggi. Io da psicologo, nel mio piccolissimo, nei miei libri precedenti ho sempre insistito sulla indispensabilità della figura della Vergine nella storia maschile, proprio come dimensione femminile, libera dal rischio materno del bisogno di possesso del figlio, comunque aperta all’accoglimento di una esperienza di ferita che si da nel campo maschile, dal padre al figlio, ma di cui lei è pronta a farsi ricettacolo.

 

Domanda:

La sua frase: “Perché un desiderio si produca bisogna che un individuo sia libero dal bisogno” mi spinge a chiederLe: come si fa a non sentire la mancanza di ciò in cui tu credi, che magari è vero, che ti manca? E’ una grazia riconoscerlo perché la società ti porta a farti credere che ti manca tutto.

 

Risposta:

Ma se tu credi, ed è vero, ciò in cui credi non ti manca: lo vivi già come desiderio. Certo, desideri viverlo con maggiore pienezza, con una devozione più completa: ma questo è già, assolutamente, un desiderio. La verità è fuori dall' appagamento e dal consumo, come è fuori dal possesso. Fa già parte dell'esperienza della libertà, che è quella che ti consente di riconoscere quella verità, e di desiderarla ardentemente.

Tutta la vicenda della produzione e del riconoscimento del desiderio, che poi è la vicenda della libertà, è una vicenda di grazia perché se non c’è la grazia non succede niente. Il padre, anche se è li, non viene visto né come fornitore di appartenenza né come testimone della ferita e quindi portatore di libertà. Per esempio la psicologia può descrivere una fenomenologia di eventi, ma poi perché gli eventi vadano da una parte piuttosto che da un'altra ci vuole la grazia di Dio. Jung diceva per esempio che il paziente può guarire Deo concedente (se Dio lo consente); certo l’analista deve essere bravo, ma Dio deve essere d'accordo perché altrimenti non guarisce nessuno.

Per esempio  la grazia, anche se male usata, nella mia storia ha avuto di sicuro un ruolo. A me ha sempre fatto piacere fare la tara su quello che mi dicevano di pensare, a quello che la società mi induceva a pensare, fare la tara ai bisogni e ai comportamenti che la società mi consigliava di avere. Questo mi ha sempre dato una grande energia. E' stata una  grazia anche nascere mentre scoppiava la guerra e Milano bruciava: è più facile la vita di chi ha avuto una vita difficile rispetto a chi ha avuto una vita facile; se ti capita di passare in mezzo alle bombe è più facile che tu ti tenga più stretta la libertà rispetto ai nostri figli che sono venuti su in mezzo ai soldi e al benessere, su questo non c’è alcun dubbio. Ma la grazia è sempre lì, a cercare di liberarci dai bisogni che ci rendono schiavi. E’ capitato persino a mio figlio più piccolo, quando un paio di anni fa si usavano i pokemon, le magliette dei pokemon, un feticcio straordinario; ha fatto un camping con un gruppo cristiano simpatico nel sud-tirolo, in un bosco, dove hanno letto la vita di San Paolo, tra mille sciaguratezze quotidiane e poi, alla fine, a uno di loro è venuto in mente di mettere lì dei rami e di bruciarli, uno ci ha buttato sopra la maglietta dei pokemon e poi alla fine hanno bruciato tutte le magliette dei pokemon, e non se n’è più parlato. Il bambino, l’essere umano ha la vocazione alla libertà, non c’è niente di eroico alla ribellione dei consumi, c’è piuttosto una questione di vitalità, questo si, infatti loro erano tutti piuttosto sporchi, indisciplinati, bambini vitali; se questa vitalità fosse stata coperta sotto tonnellate di saponi e di shampoo di “bisogna fare così, bisogna fare cosà”, di sicuro le magliette dei pokemon non le bruciavano più.

 

 

Domanda:

Vorrei che parlasse un po’ di più di quello che lei nel libro ha identificato come la “fabbrica del divorzio”. La questione del divorzio evidenzia l’assenza del padre?

 

Risposta:

Ringrazio molto di questa domanda, anzi mi scuso di non averne parlato nell’introduzione perché valeva veramente la pena di parlarne (e nel libro dedico ad essa uno dei capitoli più ampi). In effetti uno dei grandi elementi dell’assenza del padre oggi è l’istituto e la cultura del divorzio. Vi darò anche qui alcuni dati della società americana, che è un po’ il pesce pilota della nostra. In America oggi un matrimonio su due finisce con un divorzio e la previsione è che nel giro di quindici anni due su tre finiranno così, seguendo la progressione delle richieste di divorzio. In Italia, come voi sapete, siamo a livelli minori, ma con una progressione fortissima negli ultimi anni. Il 75% dei divorzi è chiesto dalle mogli, le quali si vedono affidare in oltre il 90% dei casi i figli e la casa. Anche questo dato, della maggioranza delle donne nella richiesta di separazioni/divorzio, in Italia è minore, ma in fortissimo incremento, specie nelle zone a maggior reddito femminile.

Questo padre, di cui viene chiesta l’espulsione, viene chiamato in America, nel comune discorso politico-mediatico “padre disposable” (come voi sapete disposable sono tutti gli oggetti "usa e getta", come le siringhe).

In questa situazione questi padri che perdono la casa, hanno dei forti disorientamenti sia fisici, che logistici, che finanziari: perdono molto spesso il lavoro e sono loro stessi tra i principali partecipanti alla crescita degli homeless.

Questo è certamente uno dei grandi drammi della nostra società. La cacciata del padre dalla famiglia, con il divorzio, è l’elemento principale oggi in Occidente, insieme al rapimento dei padri da parte delle grandi corporation, che determina l’assenza del padre.

Su questo fenomeno, che io ho appunto chiamato la fabbrica dei divorzi, si è organizzato un giro economico straordinario di avvocati, psicologi, assistenti sociali, tutto un personale specializzato che vive sulle sezioni del diritto di famiglia nei tribunali, sullo sviluppo dei divorzi, ed è quindi interessato a che i matrimoni saltino e le famiglie finiscano. Questo è il fenomeno non solo affettivamente più disgregante, ma anche economicamente più pericoloso della società occidentale. In America si è calcolato che il costo dell’apparato della fabbrica dei divorzi è superiore a tutto quanto speso dallo stato federale per l’assistenza e l’educazione delle tossicodipendenze e dell’alcolismo. Si tratta di una fetta di reddito nazionale rilevantissima che viene sprecata in un fenomeno completamente distruttivo. Da questo punto di vista è assolutamente desolante, e ritengo sia un fenomeno che ci interpelli molto vigorosamente, il fatto che mentre in America l’amministrazione Bush è sicuramente e dichiaratamente preoccupata di questa situazione così come della situazione dell’aborto e della diffusione dell’aborto tra minorenni e così via, in Italia si discuta su come spianare ancora di più la strada alla distruzione della famiglia.  Mentre nel mondo occidentale più avanzato il disastro comincia ad essere chiamato con il suo nome, da noi in Italia oggi, addirittura da forze di governo, come le varie onorevoli di Alleanza Nazionale, Mussolini, Santanchè, o dalla cattolica Livia Turco e così via, viene proposta una riduzione degli anni necessari che devono passare tra separazione e divorzio, viene proposto cioè di cancellare questa intercapedine di tempo che può consentire ai due di ritrovarsi. Da sondaggi fatti tra le coppie, e che cito nel libro, si rileva che una percentuale molto elevata di coppie che dieci anni prima avevano dichiarato di essere sul punto di divorziare, intervistati dieci anni dopo hanno dichiarato: “Meno male che non abbiamo divorziato perché abbiamo ritrovato la nostra intesa e stiamo bene”. Naturalmente anche nella frequenza dei divorzi rientra il tema della ferita. Se due si sposano non sarà certo tutto rose e fiori, certamente litigheranno, certamente succederanno cose difficili tra di loro. Ma certamente lo sviluppo della loro personalità umana sarà misurata dalla loro capacità di far fronte a queste difficoltà.

Dobbiamo anche aver chiaro, credo, che questi esponenti politici che spingono verso un aggravamento della disintegrazione della famiglia non sono né persone comuni, che vivono la realtà della vita di ogni giorno, né autentici esperti, che discutono e decidono sulla base di un autentico sapere antropologico e sociale. E' bene sapere, invece, che gran parte della legislazione riguardante la legislazione sulla famiglia, già fin dalle leggi sul divorzio e aborto degli anni 70, è opera di quello che è stato chiamato il "circo politico mediatico". Vale a dire non una classe politica, ma persone che si impegnano su questi temi come dei professionisti del circolo chiuso e fortemente autoreferenziale dello spettacolo politico mediatico, su cui vivono, perché è la loro unica professione e la loro unica competenza.

Il livello di distruttività della nostra società oggi è arrivato a dei punti così estremi che noi non possiamo che convertirci, proprio nel senso letterale della parola, cioè dalla direzione in cui stavamo andando dobbiamo girare e tornare verso il centro dell’uomo, verso il centro di noi stessi.

D'altra parte, solo quando la personalità è a rischio di dissoluzione può veramente cambiare, può veramente rigenerarsi. Ricordo che Muccioli, che conoscevo, soprattutto all’inizio della sua esperienza, non prendeva ragazzi a San Patrignano fino a quando non avevano completamente rotto i ponti con tutto, fino a quando non avevano perso tutto, perché soltanto quando avevano toccato il fondo erano veramente disponibili a cambiare.

Al di fuori delle Vispe Terese del circo politico-mediatico italiano, nel resto del mondo occidentale si sa che cosa ha prodotto la cultura del divorzio, la cultura dell’aborto; cosa ha prodotto proprio in termini di vita umana, di qualità della vita, di vite umane distrutte.

Quello che io posso dirvi è che vedo proprio nel funzionamento dell’organismo sofferente quello che Jung chiamava “l’istinto di guarigione”, cioè l’organismo tende a guarire, non tende ad ammalarsi, la malattia è un incidente di percorso, l’organismo vuole crescere, come certi alberi che hanno a metà del tronco una ferita dentro: a volte la ferita è anche molto profonda, ma si vede che l’albero poi, crescendo, ci ha costruito intorno ancora della corteccia, e sopra ci sono cresciuti dei rami.

Io credo che la nostra società sia arrivata ad un punto abbastanza estremo per poter andare oltre e per poter modificare la propria direzione; anche perché queste cose a cui bisogna rinunciare sono poi soltanto delle cose miserabili, soltanto dei dolori, delle pseudo libertà produttrici di sofferenze, e di patologie per noi e per i nostri figli.

Alla fine del Sacro Romano Impero c’era da riflettere su che cosa si stava liquidando, ma oggi non vedo perché dovremmo pensarci due volte a liquidare la cultura del "talk show”, o del "reality show"!

Siamo arrivati ad un punto estremo che consente una qualche rigenerazione, questa rigenerazione certamente passerà da gravi turbamenti e modificazioni politiche e sociali, in cui saremo tutti interpellati e coinvolti, e da cui uscirà forse anche un nuovo profilo dell’uomo padre e della donna madre.

 

 

Domanda:

E’ la prima volta che sento un concetto riferito al padre così profondo. A livello di vita familiare (mamma, figli, figlie, padre) può fare alcuni esempi che spieghino in cosa può consistere questo fatto di non allontanare i figli dalla ferita, ma di dargli la dignità di accostarsi al dolore?

 

Risposta:

La questione della televisione, per fare un esempio: è difficile uscire da questo circuito di bisogni indotti, schiavizzanti e profondamente deprimenti dal punto di vista culturale e spirituale, senza sbarazzarsi di alcune cose; tra queste cose io metto la televisione. Togliere alla famiglia la televisione e ridurla ai minimi termini ai figli, credo che sia una bella ferita, ma una ferita da cui un padre non si può esonerare. O la televisione o lui. La televisione è una figura espulsiva del padre, è un oggetto rappresentante tutto ciò che espelle il padre, rappresenta la vita come consumo, come divertimento continuato, come annullamento della riflessione del silenzio, come abolizione delle ferite per sempre. E' un oggetto la cui cultura squalifica la figura del padre, e tutti i padri di cui la televisione parla sono descritti come dei cretini, gli uomini che essa seleziona e presenta, per esempio in gran parte dei telefilm, non sanno parlare, oppure si accusano di essere, in quanto maschi, portatori di tutti i vizi e di tutti i peccati possibili immaginabili. Quindi il padre deve cacciare la televisione da casa sua, e questa è una bella ferita.

Un'altra ferita da reggere, e impartire, riguarda la questione della cultura della droga leggera: la gran parte dei padri e dei nonni della mia generazione a Milano ci tengono a farsi le “canne” coi loro figli perché in questo modo loro si sentono amici dei figli e non padri, si sentono più giovani. Su questo il padre deve avere una posizione molto precisa e deve intervenire subito sulle droghe leggere perché sono svianti nella loro attenuazione e negazione della vita, ferita compresa, sono lo sballo, sono il travestimento e quindi sono la vera droga, il veleno, la sostituzione di una realtà virtuale, falsa, alla realtà reale, concreta. Il padre che si oppone alla televisione o che si oppone alla “canna” o alla discoteca come estasi, è guardato come un matto a Milano dagli altri padri coetanei: “Credi di poter costituire una società perfetta?”. Non lo so cosa costituisco, do la mia testimonianza perché mio figlio sperimenti una rinuncia costitutiva della personalità umana e dell’io . Questo è il mio mestiere di padre, poi me ne vorrà, me ne sarà grato, chi lo sa? Questo è il dono che io devo fare e come tutti i doni non aspetto niente in cambio, accetto forse un rancore anche per tutta la vita, ma questo devo fare.

 

 

Domanda:

Mi interesserebbe sapere che tipo di rapporto ha avuto lei con suo padre, perché se fosse stato qualche cosa di difficoltoso sarebbe come un punto da cui partire, un qualche cosa di positivo.

 

 

Risposta:

Questo è il mio decimo libro che scrivo sull’uomo, e in ognuno c’era sempre un capitolo in cui parlavo del disagio maschile, e ne riferivo l'origine all'assenza del padre come figura iniziatica. Il primo di questi libri, Parsifal, è la storia di un figlio senza padre. Quattordici anni fa, quando ho iniziato a scrivere su quest'argomento, era evidente e chiaro che chi stava peggio erano gli uomini, non osavano nemmeno venire in analisi, oppure, se venivano, erano mandati dallo psichiatra o dalla moglie. C’era, in loro e nella società, un' assoluta sconoscenza circa i loro gravissimi problemi.

Di mio padre dirò questo, che spiega, come per tutti, gran parte di quello che ho fatto dopo: era una persona buonissima, che, interpellato da me su qualsiasi argomento, rispondeva: “Tu fai come ti dice la tua mamma”. Questo è stato mio padre. Un uomo carissimo che non ha assolutamente fatto il suo mestiere, che mi ha fatto provare con mano come era necessario che il padre invece desse un'altra risposta.

L’educazione paterna deve comunque essere una educazione al rischio della libertà. Lontano da qualsiasi ipotesi relativista di pensiero debole che non mi riguarda, credo però che l’educazione al rischio vada affrontata, dal padre, sia quando si trova in una posizione di certezza, sia anche da una posizione personale più dubbiosa, e più di ricerca. Questo non deve dire rinuncia a passare all’altro il testimone della ricerca e della fede, e della possibilità di trovarla . Tu devi trasmettere il coraggio di cercare la verità sia quando sei sicuro di averla trovata, sia quando non lo sei. E', comunque, il tuo mestiere.

 

Domanda:

Nel suo libro lei scrive: “Diventerà allora visibile come allo smarrimento della nozione di paternità in Occidente si accompagni la perdita della trasmissione dell’identità maschile”, e cita nella nota il suo Essere Uomini che tra l’altro è un bellissimo libro. Cosa significa questo praticamente?

 

Risposta:

Nel caso del figlio, se il padre, non fa il suo mestiere di testimone della ferita, e di tutto quello che abbiamo detto, il figlio non può neppure riconoscere la sua identità di genere perché il padre è anche il referente della tua identità di genere, è il modello maschile. Se il modello maschile non fa il suo mestiere, e quello femminile occupa tutti gli spazi educativi, tu, maschio, non sai più chi sei.

Io seguo una rubrica su “Io donna”, il supplemento del sabato del Corriere della Sera, una pagina che si chiama “Psichelui” in cui rispondo su argomenti maschili, prevalentemente a uomini. In realtà quelle pubblicate riguardano gli argomenti più vari, perché non posso parlare sempre della stessa cosa, ma il 90% delle lettere che ricevo sono di giovani maschi che raccontano di un padre assente, di un padre che non c’era, di un padre che non ha detto mai come la pensava, generalmente svalutato dalla madre, che era la vera figura forte, e mi descrivono di come loro si ritrovino oggi in gravissime incertezze circa la loro identità sessuale e il loro orientamento sessuale. Non sanno cosa gli piace, non sanno se vogliono fare famiglia o vogliono diventare omosessuali, e loro stessi molto spesso dicono: “Mi rendo conto che nella mia ricerca verso altri uomini molto probabilmente io sto semplicemente cercando mio padre”.  E quando arrivano a dire questo è già molto.

Quando il padre non c’è come interlocutore in tutti i sensi che abbiamo detto, creatore e testimone della ferita, iniziatore e così via, il figlio maschio, oltre a non avere tutte queste cose, si ritrova privato della sua identità di genere.

 

 

 


 

[1] Maria, come moltissime mistiche, ha invece una forte relazione con le ferite, e la morte di Cristo. Ma Maria, prima di essere madre, è Vergine, e proprio in quanto tale prescelta dallo Spirito per essere madre.

 

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