L’ALTRA VACANZA
Il fatto. Macinano centinaia di chilometri a piedi verso i santuari che hanno segnato la storia del continente. Soprattutto giovani, ma anche padri e madri di famiglia, d’ogni provenienza e condizione sociale Lo psicanalista Risé: non è fitness spirituale, ma la dimostrazione dell’insopprimibile esigenza di trovare fuori di sé le risposte alle grandi domande dell’esistenza Mettendosi in cammino verso una meta. Parlano i protagonisti
L'estate dei pellegrini: in cammino verso la Meta
di Maurizio Blondet
da Avvenire, 6 agosto 2004
Quasi trentamila a Santiago de Compostela per il pellegrinaggio alle radici dell'Europa cristiana. Più di tremila a Czestochowa. Oltre ventimila a Medjugorjie che da 15 anni ospita un pellegrinaggio sulle tracce della Vergine. E poi altre migliaia che in questi giorni stanno animando numerosi appuntamenti in varie località d'Italia e d'Europa. Non sono alieni quelli che, in questi giorni d'agosto, dedicano un pezzo di vacanza al cammino, alla preghiera e alla meditazione. Sono giovani «normali», anche se poco raccontati dai mass media, che hanno deciso di prendere la vita sul serio e di interrogarsi sulle domande che contano. Quelle che non vanno mai in vacanza.
«Ne sento parlare sempre più di frequente, e qualcuno l’ho anche conosciuto. Partono, non per lidi esotici o vacanze d’evasione, ma per un pellegrinaggio. Tipicamente, a Santiago de Compostela, ma anche verso altre mete storiche».
Claudio Risé, noto psicanalista, è autore di un saggio, Felicità è donarsi (Sperling & Kupfer), il cui sottotitolo spiega molto: «Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro». In questa straordinaria voga per i pellegrinaggi vede una conferma delle sue intuizioni. «Il soggetto della tarda modernità soffoca ormai nella chiusura narcisistica, nello scrutamento nevrotico del proprio io – dice –. E in una fase della vita sente il bisogno di andare a scoprire cosa c’è fuori di sé». E sceglie di diventare pellegrino?
«È questo il fatto notevole. Persone il cui stile di vita non è religioso, e le
cui motivazioni coscienti non sono spirituali, scelgono però percorsi religiosi.
Giovani, ma non solo. Parlo di quarantenni e cinquantenni di buon livello
sociale, che potrebbero scegliere itinerari culturali o artistici. Invece
scelgono pellegrinaggi, e per di più su percorsi consacrati dai secoli».
E perché? Anch’io conosco giornalisti e manager che quest’anno "vanno a Santiago". Non sarà una moda, come quella dei cibi biologici, una sorta di fitness spirituale?
«È il contrario. Appunto la destinazione "religiosa" lo indica: chi va a Santiago o ad altri santuari è spinto dal bisogno di cercare "fuori da sé", e ciò implica, in manierà più o meno cosciente, un riferimento al trascendente. La scelta del santuario comprende questo profondo simbolismo, verso il trascendersi».
La Chiesa ha sempre visto il pellegrinaggio come un percorso di rinascita.
«E lo diventa anche per quelle persone che ho detto: un percorso fisico e simbolico di rinascita spirituale».
Faccio l’avvocato del diavolo: non sarà che per tanti giovani andare a un santuario, a un concerto rock, a un’adunata col Papa, è un po’ lo stesso? Che il bisogno è quello giovanile di fare massa, di essere, conformisticamente, "dove sono tutti"?
«No, qui proprio la scelta del santuario indica qualcosa di diverso. L’itinerario, qui, è consacrato dalla tradizione, con tutta la potenza che la tradizione ha. È un percorso comunitario, non solo dell’oggi, ma dei secoli. È ritrovarsi sulla via percorsa da una comunità millenaria. Mentre nei branchi giovanili della tarda modernità si è soli, qui si incontra ciascuno, ogni altro pellegrino, singolarmente».
L’incontro è un vissuto comunitario?
«Precisamente».
E con quali risultati i suoi pazienti tornano dal pellegrinaggio?
«Paradossalmente, in questo "andare fuori da sé", uscendo dal mondo asfittico
dell’ego, trovano un rapporto sano con se stessi. Più meditativo, più
silenzioso, più concreto».
Più concreto?
«Il pellegrino non è il turista post-moderno, inscatolato nell’erranza organizzata, dove non incontra altro che se stesso. Il pellegrino impara il valore del "passo dopo passo", il mal di piedi, la stanchezza fisica. Riscopre le esperienze elementari del corpo, dell’incontro con gli altri "viandanti": i quali non sono degli "sconosciuti", ma persone che fanno la stessa via».
E quelli che frequentano le palestre, non scoprono anch’essi il loro corpo?
«Quello è il contrario. È la nevrotica "cura della propria immagine" del narcisista tardo-moderno. Il guardarsi ansioso allo specchio, scrutando i segni inevitabili delle modifiche che porta l’età; lo stesso impulso che induce all’abuso della chirurgia plastica. È l’eterno guardarsi allo specchio di Narciso. E il mondo di Narciso è un mondo poverissimo. Senza corpo - senza i limiti della corporeità, accettati serenamente - e, alla fine, persino senza sesso. Narciso ama solo se stesso, e non può amare».
E il pellegrinaggio sarebbe una reazione al narcisismo raccomandato dalla pubblicità?
«Non solo dalla pubblicità. Pensi che è uscita una rivista nuova, creata da un
collega psicanalista, che si intitola Per Me". Invece, la soluzione
all’infelicità è l’esatto contrario: Per Te. Che era il titolo che volevo dare
al mio libro».
In che senso?
«Nel senso che donare è la ricetta per vivere felici. Il mondo chiuso del narcisista è un mondo di povertà. Le abbondanze sono "fuori" di noi, con gli altri, con l’Altro».
Ma questo è difficile da far capire al narcisista. Forse anche il linguaggio comune sbaglia, quando parla di "sacrificarsi per gli altri". Come se andare verso l’altro fosse un "sacrificio".
«Ed è questo che scoprono tanti nel pellegrinaggio a Compostela o altrove. Il "sacrificio" che ci libera dalla nostra ossessiva difesa del presunto benessere, che invece è un dannatissimo malessere. La scoperta che la felicità è donarsi, che il mondo vivente, con tutta la sua energia, è pronto ad accoglierci, se facciamo solo "il sacrificio" di andargli incontro».