Ospitalità nella famiglia

 

ne "Il miracolo dell'ospitalità" di Don Giussani

 

edito da PIEMME RELIGIO,2003, www.edizpiemme.it

 

Di Claudio Risé

 

Da Tracce, agosto 2003

 

 

Questo libro è particolarmente prezioso, ed attuale, perché oggi domina la patologia dell'inospitalità. Nessuno accoglie più nessuno: neppure sé stesso. Il testo di don Giussani esorta a non cadere in quest'abisso, proponendo una visione radicale, ed insieme del tutto quotidiana, dell'ospitalità. Una visione ben diversa da quella che si è poi affermata, negli anni successivi alla nascita di questi saggi, nel 'discorso' dominante sull'ospitalità. Un discorso (anziché radicale e concreto come quello di Giussani), contemporaneamente generico ed astratto, certo funzionale alla retorica del 'politicamente corretto', ma lontanissimo dal rivelare come l'ospitalità ci interpelli in ogni rapporto, nella verità della vita di tutti i giorni. Giussani inizia col citare, come 'esempio scandaloso', per il tema dell'ospitalità (riservato, nel discorso poi affermatosi, a relazioni meno primarie ed intime), quello del rapporto tra uomo e donna, tra moglie e marito. Inizia in sordina, ma poi vi insiste sempre di più, in ogni saggio, fino a citare come necessario punto di partenza, ed insieme obiettivo, dell'ospitalità l'accoglienza di sé ("la prima missione è quella con la moglie e con il marito, anzi, meglio, la prima missione è con sé stessi", pag. 114). Ora, la tendenza della cultura dominante, espressione di un buonismo di maniera, è oggi ­ si diceva - proprio quella di proclamare l¹ospitalità universale, ma non accogliere, di non ospitare nessuno proprio a livello delle relazioni primarie. A cominciare da quella con sé stessi. E quindi, poi, una volta rifiutata l¹accoglienza a sé, nessun altro può essere

veramente accolto. Non per niente la nostra è stata chiamata (Cristopher Lash), la cultura del narcisismo. Ma il narciso è appunto colui che non si accetta per quello che è, non si mette a confronto col mondo, preso com'è da una falsa immagine ideale, grandiosa, che gli impedisce di amarsi veramente, e quindi di amare. Tutte le patologie esemplari del malessere d'oggi, ad esempio quelle dei comportamenti alimentari, il non mangiare, o mangiare troppo, così come, naturalmente, l'uso di sostanze stupefacenti, o le forme maniacali di chirurgia estetica, rientrano in questa non ospitalità. Così come siamo non ci andiamo bene: ci vogliamo diversi, aderenti a  un¹immagine ideale che, come quella di Narciso, più cerchiamo di afferrarla e più ci sfugge. E in questa rincorsa ci sfugge la vita, la vita di noi come siamo, come il destino, e Dio, ci hanno voluti. In questa non accettazione di sé, è già iscritta la non accettazione dell'altro, dell'altra. Non accettandoci, non ospitandoci, rendiamo impossibile la vita e lo sviluppo di quel soggetto che è poi chiamato ad accettare, ad ospitare, l'altro, l'altra. Nasce così, prima o poi, il rifiuto o l¹abbandono (o la presa di distanza affettiva) di quel compagno, di quella compagna, dall'ospitalità verso la quale dipende la continuazione e lo sviluppo della vita, dell'amore, nella società. A ragione Paolo, nella lettera agli Efesini, mette in relazione l'amore coniugale con l'amore di sé. I due formano una carne sola, e: "Nessuno mai ha preso in odio la propria carne" osserva Paolo. Quindi come uno ama sé stesso, ama anche l'altra parte del proprio corpo, quell'altro/a che ha accolto come marito, e moglie. Ciò, però, non è più vero, proprio perché molti hanno in odio la propria carne. Nel paese che per solito indica dove va l'Occidente, gli Stati Uniti, un matrimonio su due finisce in divorzio (due su tre, è la previsione tra dieci anni). Da noi, per ora, uno su quattro si spezza con una separazione, il cui ritmo, però, aumenta velocemente, specie nelle regioni più agiate, e nelle coppie più ricche. Negli Usa, il 75% dei divorzi è chiesto dalle mogli. Da noi, per le separazioni, un po' meno; ma anche qui la percentuale aumenta ogni anno. E' come se la figura che più incarna, nel proprio corpo, l¹ospitalità, la donna, non volesse più ospitare. Come se l'accoglimento dell'altro fosse sempre più vissuto come opposizione all'affermazione di un sé individuale, tanto più bisognoso di imporsi all'esterno, quanto meno ama, ed accetta sé stessa nel profondo, nel privato, nella ricca trama degli affetti quotidiani, svalutata e ridotta a noiosa routine. In questo, il modello psicologico dell'anoressia, una caratteristica malattia dei nostri anni, è straordinariamente eloquente. Chiusa all'altro, fino ad arrivare a sopprimere con l'assoluta indisponibilità psicologica la stessa fertilità femminile, ed il suo ciclo, la personalità anoressica è però straordinariamente attiva, ed efficiente nel lavoro e nella carriera. I personaggi di culto della donna in carriera, cui si intitolano premi largamente mediatizzati, sono spesso donne affette da questa patologia. D'altra parte, l'uomo di questa donna inospitale, non è davvero capace di

accoglienza più di quanto lei lo sia. Per accogliere, occorre naturalmente essere, essere ben sicuri del proprio sé, del proprio esserci. Ed occorre anche saper stare, proprio nel senso, letterale, e simbolico, di essere dotati di stabilità. Spesso mariti e padri mi raccontano il classico scenario dello sfascio familiare che si avvicina: la nuova storia della moglie, la loro ­ dei padri-mariti - rabbia e sconcerto, le angosce dei bimbi, a volte già preadolescenti, fortemente bisognosi dell'unità della famiglia, ed, in essa, della presenza paterna che li accolga e diriga al mondo e alla società. Ma quando io poi chiedo: allora lei cosa conta di fare? raramente (anche se oggi molto più di una volta), raramente mi sento rispondere: quella è la mia famiglia, i miei bambini, la mia donna, io lì resto. Disorientato, umiliato, pieno di rancore, il marito-padre si lascia spingere rapidamente fuori di casa, incapace di accogliere il disorientamento della moglie, di aiutarla ad andare al di là di qualcosa che si rivela poi sempre di breve respiro. Questo padre-marito é troppo instabile e disorientato a sua volta, per essere il fermo testimone e difensore della continuità familiare. Anche perché, sempre più spesso ormai, egli stesso, il marito-padre, è a sua volta figlio di un padre assente. O perché espulso dalla famiglia da una vicenda analoga, o perché autoeclissatosi per lasciarsi assorbire totalmente nel lavoro, nella carriera, nel denaro, pensando che famiglia e figli avessero bisogno di quello, e dimenticandosi invece della necessità dell'affetto, della presenza, dell'ospitalità appunto. E questa lontananza del marito-padre dal proprio padre terreno, lo rende poi lontanissimo dalla

figura del Padre (quel 'padre nostro che sei nel profondo di me, da cui io nasco e io sono', che don Giussani qui fortemente richiama), cui tutta la vicenda della vita e del suo sviluppo rimanda. Quest'uomo senza padre, il fatherless di cui parla la psicologia americana (ma anche, in Italia, i miei libri, e i lavori di pochi, valorosi colleghi), è anche lontano da Dio, e dunque inadeguato nel crescere e difendere la vita. E', questo sbiadimento paterno, una specificità del nostro tempo, e del nostro mondo d¹Occidente. Mai, nella storia umana, il figlio era stato così lontano dal padre, mai il padre così lontano dalla sua responsabilità di iniziatore ed educatore al mondo ed alla società. Nel mio lavoro quotidianamente vedo, e quando parlo, e scrivo,  testimonio, l'impressionante distruzione di vita e di orientamento prodotta da questa

lontananza. L'allontanamento del padre, realizzato con tecniche giudiziarie, principalmente   il divorzio, o economiche, attraverso il superlavoro è (assieme all'aborto) il modo principale con cui questa società conduce il suo attacco alla famiglia che a parole assicura di voler difendere. Merito non piccolo di questi testi è quello di ricordare come il contesto sociale, che nasce dal potere, non possa che "essere ingiusto verso un fenomeno così originale come la famiglia", di come, dice Giussani, "tenderà a strumentalizzarla, per affermare il proprio scopo, più che quello delle persone che compongono la famiglia, e quello della famiglia stesso: realizzare il disegno di Dio". E' necessario tenere ben presente questa sorta di radicale polarità, tra potere e famiglia, tra le figure burocratiche del dominio e del controllo, e le Figure umane dell'accoglienza e dell'amore. Altrimenti è impossibile capire come mai, nell'occidente di oggi, il principale alleato di tutte le forze e pulsioni distruttive che sfasciano la famiglia, ed in essa la vita, sia proprio il potere, e il contesto sociale da esso ispirato. I dispositivi legislativi e giudiziari, perfetti ed implacabili nel dividere, la donna dall'uomo, i figli dai genitori, sono assenti nel difendere l'unione, nel conciliare il dissidio. E nel proteggere la vita: se una madre accecata vuole uccidere la creatura

che ha in sé, nessun padre potrà salvarla, a nessuna condizione. La sua parola per la vita non sarà ascoltata da nessun giudice, da nessuno di quegli accurati funzionari dell'ortopedia dell'anima (come la chiamò Michel Foucault), che lo Stato moderno mette a disposizione per sostituire l'ascolto dell'anima, e la devozione ad essa. Un altro aspetto prezioso di questi testi, anche dal punto di vista psicologico, è il loro sottolineare che l'ospitalità è un miracolo. Non una pratica virtuosa, un'avanzata realizzazione politico-civile, no: un vero miracolo. Essa, come l'amicizia di cui parlava Simone Weil (e che a dire il vero molto le rassomiglia) ha "la natura della grazia". Il rischio, infatti, in tema di ospitalità, è che anch'essa, come tutto, venga secolarizzata, staccata dal senso religioso, ridotta a civilizzazione. Quella però, non è l'ospitalità, è il suo travestimento da "buone maniere", non privo di aspetti strumentalizzanti verso la persona ospitata. Quanti bimbi sono stati adottati per moralismo, che copriva superficialmente il bisogno di nascondere un vuoto nella relazione coniugale, una mancanza di ospitalità tra i coniugi ? Inutile dire che queste ospitalità simulate, il cui valore sul piano morale non sta certo a me, né qui né altrove, giudicare, hanno poi esiti psicologicamente problematici: non risolvono (a meno che intervenga il miracolo, ma per fortuna accade anche questo), i problemi della coppia, e ne creano degli altri alla persona che viene accolta. Perché? Perché senza la grazia, il miracolo, nessuno è veramente accolto come persona, ma tutt'al più come prolungamento di un "progetto familiare", segnato più dalla prepotenza dell'ego che lo ha elaborato che dalla generosa accoglienza del Padre. E qui naturalmente siamo già di fronte al mistero della diversità come fonte di amore, che si realizza attraverso quel processo che Giussani chiama qui crudamente, ma autenticamente, il perdono. Contrariamente alla superficialità, e all'ipocrisia di qualsiasi codice di buone maniere,

Giussani ha il coraggio della verità   scomoda: la diversità deve prima essere 'perdonata', per poter poi essere accolta, amata. Deve essere perdonata, dal punto di vista psicologico (questa é la mia parte, ma è naturalmente una parte 'minore' rispetto alla complessità dell'esperienza), perché ogni diversità è una sfida innanzitutto al nostro ego, ma poi, più profondamente, alla nostra identità. Identità di genere, uomo/donna, identità culturale, di classe, nazionale. Accogliere la sfida dell'alterità ci fa crescere, come persone. Ma, per accoglierla, dobbiamo prima perdonare lo sfidante, con la sua irritante diversità. Anche i nostri sogni (come la nostra vita), sono pieni di questi episodi. Mentre dormiamo, veniamo sfidati da ogni sorta di diversi: zingari, bambini, personaggi strampalati, grotteschi, miserabili. Ma se (già nel sogno), invece di fuggire dinanzi a loro, li accogliamo, o ci lasciamo abbracciare, una nuova sequenza si apre nella vita psichica, e spirituale: quella dell'accoglimento, dell'integrazione anche, di quella diversità rappresentata dal personaggio inquietante (che naturalmente è già dentro di noi), e della sua ricchezza.

E allora, quando avviene il miracolo, quando davvero ospitiamo l'altro, amandolo nella sua diversità, nel suo essere persona, altra da noi, si compie l'altro evento, anch'esso della natura della grazia: il fatto che noi si sia finalmente noi stessi. Paradossalmente è proprio il diverso, nella sua alterità, che, chiamandoci a un incontro dotato di senso, ci consente di cogliere l'immagine profonda   di noi. Non più narcisi persi dietro sfuggenti immagini ideali, non più despoti impegnati a disporre degli altri, e neppure bimbi famelici, bisognosi di possedere e divorare. Bensì umani aperti dall'altro, figura dell'Altro divino, all'esperienza dell'accogliere e dell'amare, del donare, e del ricevere, senza possedere.  L'esperienza fondante dell'essere uomini,

fratelli, figli del Padre.

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