In silenzio davanti alla tv 

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 26/11/05. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Nel mio matrimonio non ci si diverte più. Quindici anni insieme, stima, affetto, due figli: tutto bene, ma è scomparsa l’allegria. Sia per me, che per mia moglie. Non riesco a capire se è colpa dei figli, cui bisogna badare molto. O del lavoro. O dell’invecchiare: passati i quaranta, la bellezza se ne va, e arrivano acciacchi e stanchezze. Così, di ritorno dal lavoro, dopo una cena veloce e bambini a letto, TV e un whisky per addormentarsi  più in fretta. Ma quanto può durare?"

Renato, Trieste

Caro amico, ha ragione di preoccuparsi. Dietro questa routine apparentemente tranquilla e senza problemi, lei intuisce un pericolo, anche se non sa che nome abbia. Proviamo a dargliene uno, per capirci meglio. Dietro la situazione da lei descritta si intravede un termine della psicologia clinica: depressione. Cos’è che ha messo in moto un processo così pericoloso, anche se nascosto? Nella sua lettera non si parla di patologie familiari, di traumi intervenuti nel corso degli anni, insomma di “qualcosa che non va”. Ma è proprio, questo, forse, il problema. Vale a dire l’idea che i nemici della salute affettiva di una relazione, e di quella  psichica dei suoi componenti, debbano essere solo problemi e traumi. Mentre invece, per solito, quelli vengono dopo. Prima, la grande minaccia in ogni relazione è lo smettere di meravigliarsi per la presenza dell’altro, per la sua compagnia, per la sua diversità da noi. Il vero guaio è lo smarrimento dello stupore di essere insieme, di cominciare insieme la giornata, di concluderla insieme, sfiorandosi. Quello stupore che ci aveva reso così felici nel momento dell’innamoramento. Lei dirà: ma come facciamo a stupirci per qualcosa che si ripete, uguale, tutti i giorni? In realtà, ciò che tende a rendere tutto uguale, è il mantenere lo sguardo fisso al proprio io. Siamo noi che siamo, più o meno, uguali, se non ci lasciamo cambiare dall’incontro con gli altri. Se teniamo fisso lo sguardo ai nostri gesti, alle nostre sensazioni, tutto si chiude, e diventa ripetitivo, uniforme. Ma se invece, ritrovando lo sguardo ingenuo degli inizi (che è sempre lì, anche dopo anni), riusciamo a ri/vedere l’altro, ad accorgerci di lui, tutto cambia e si rimette in movimento. Perché l’altro è diverso, non è l’immagine raddoppiata dell’io. L’altro rompe la nostra solitudine, la nostra monotonia, ci regala (se lo accettiamo, se ce ne accorgiamo) un incontro sempre imprevedibile, ricco di sorprese. Questa inaspettata “alterità”, diversità, rappresenta dalla moglie, o dal marito, si moltiplica poi, se li guardiamo veramente, nei figli. Che non sono cose da portare o prendere dalle scuole, o dalle palestre, ma , innanzitutto,  esseri misteriosi, sconosciuti, fin da quando nascono. E gran parte del nostro rapporto con loro consisterà proprio nel cercare di intuire (dai loro gesti, dai loro sguardi, dalle loro parole) chi sono veramente, ed aiutarli a diventarlo. Quando invece non guardiamo più la sorprendente, imprevedibile ricchezza della diversità degli altri, le relazioni familiari si ammalano. E si annuncia, minacciosa, la depressione.

Claudio Risé

   

Torna all'Archivio Psiche Lui Anno 2005

Vai al sito www.claudio-rise.it