Il nome del padre

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 03/09/05. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Ho 37 anni ed un bimbo di due. Col padre ho interrotto ogni dialogo  dalla gravidanza; quindi  non l'ha riconosciuto. Vivo con i miei, il bimbo come figura maschile ha il nonno. Inoltre, un caro amico lo segue  quotidianamente, senza contare gli zii ed altri amici. Per ora, è allegro e intelligente, ma temo problemi dalla scuola d'infanzia. Occorre uno psicologo per presentargli l'assenza del padre? A volte si rivolge a me chiamandomi papà".

Lucia

Cara amica, rispondo a lei, ed insieme alle lettrici che mi hanno scritto lettere molto simili. Tratto comune delle vostre lettere è una rottura col padre naturale durante la gravidanza, il suo allontanamento, e l’interrogativo su come presentare al bimbo chi sia suo padre. Anche dalla sua lettera, come nelle altre, sembra trasparire l’idea, forse per qualche tempo accarezzata, di poter accantonare  il problema del padre, sostituendolo. Idea, più o meno conscia, che ha colto evidentemente anche il bimbo, se a volte la chiama papà. Questa fantasia ha poi lasciato spazio alla consapevolezza che la vita porrà comunque  al bambino la questione dell’esistenza del padre. Da cui le vostre lettere. Nelle quali di frequente compare la questione se una “cura”, o consulenza  psicologica, possa ovviare al problema. Il lavoro psicologico può senz’altro aiutare le mamme, e i loro compagni, a chiarire cosa fare nell’interesse del bambino. Non può però sostituire quel dato naturale, biografico, ma anche simbolico, che è  il padre. E’ per questa stessa considerazione che il governo inglese ha, nell’aprile 2005, modificato le norme che regolavano la fecondazione eterologa, prescrivendo l’obbligo della pubblicità, su richiesta del figlio, del nome del donatore esterno. Insomma un bambino ha bisogno di sapere chi sia suo padre. Anche per ragioni mediche: è meglio sapere, quando è possibile, l’eredità, anche genetica, di cui siamo portatori. Nei molti casi dunque, come mi sembra il suo, in cui la rottura col padre è avvenuta, per ragioni interne alla coppia, all’inizio della gravidanza, credo opportuno verificare se si possa rivedere la situazione. Non per ricostituire la coppia, né, quasi sempre, per ottenere un riconoscimento; ma per poter dire più tardi al bambino il nome del padre. Quella riguardante il padre è un’informazione, ripeto, centrale per la crescita del bimbo, e la sua  individuazione come persona.  Né penso che sia interesse del bambino sostituire il nome del proprio padre, se noto, anche se criticabile e censurabile,  con una terapia.   Questo per quel che riguarda il padre naturale: se c’è, non è mai un buon affare ( anche perché è impossibile), farlo sparire. Nella sua lettera, però, c’è anche il “caro amico”, che ha fatto da padrino al bimbo, e che lo segue quasi quotidianamente. Una dedizione davvero importante, che farebbe pensare ad un forte legame di sentimento, forse anche con lei. Se così fosse (e nei casi simili al suo in cui c’è una figura maschile di riferimento affettivo presente), è bene dare anche a questi compagni la dignità, e la responsabilità di padre, anche se simbolico e non naturale. I padri non sono mai troppi.  

          Claudio Risé

   

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