Il "mamma-dipendente"

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 12/11/05. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

"Ho 34 anni, sono sposato da un anno. Mia madre si è separata da mio padre che avevo quattro anni. Mi ha cresciuto lei. Ora  mi accorgo (anche perché mia moglie me l’ha fatto notare), che non sopporto il suo atteggiamento verso di me, in particolare quando non approva ciò che faccio. Non sopporto  il suo giudizio negativo, tuttavia, se non si occupa della mia vita, mi irrito profondamente, fino a non riuscire a dormire. Di che si tratta, e come uscirne?"

Mario, Sesto San Giovanni

Caro amico, la sua educazione, svolta tutta sotto l’ala protettrice della madre, l’ha resa dipendente dalla figura materna. E, come spesso capita, non solo da quella: la personalità non autonoma, infatti, tende a stabilire rapporti di dipendenza anche verso altre cose e persone, oltre alla figura della madre. A lei è capitato, come mi racconta nella sua lettera, di scivolare in una dipendenza da droghe, prima leggere, poi pesanti, tutte. Una lunga, dolorosa odissea che l’ha portata nell’adolescenza, in una faticosa, ma ricca, esperienza di comunità, dove in sette anni, è stato capace di uscire da quella schiavitù feroce. Ed ora il lavoro, il matrimonio, una nuova vita. Dove tuttavia si mostra ancora, seppure in una posizione non centrale, la dipendenza originaria. Quella dalla madre di cui inconsciamente cerca lo sguardo, temendone tuttavia l’invasione, e non sopportandone la disapprovazione. Sembrerebbe quasi che faccia fatica ad accettare fino in fondo di essere un soggetto separato da lei, con una propria vita e proprie scelte, che non necessariamente coincidono con quelle materne. In realtà si tratta della cicatrice della vecchia ferita, non di una malattia ancora attiva nel suo organismo. Oggi, che lei ha costruito una propria vita professionale ed affettiva, le ragioni della sua ricerca dello sguardo materno, per poi punirlo quando arriva, mi sembrano altre. Più superficiali, ma per certi versi più persistenti. Si tratta dell’aggressività che sempre  è suscitata da un oggetto d’amore, una persona amata, che ci renda dipendente da lei. Soprattutto se si tratta della madre, dotata, inoltre, dell’enorme potere simbolico di averci dato la vita, e, nel suo caso, anche della responsabilità di aver allontanato l’uomo che alla generazione di quella vita ha dato l’impulso iniziale. Noi odiamo, sempre, e a lungo, l’oggetto d’amore verso il quale siamo diventati  dipendenti, perché la dipendenza nega la più profonda vocazione umana: quella verso la libertà.  Ecco perché lei sente ancora il bisogno di aggredire sua madre, reagendo ai suoi interventi, o sollecitandoli quando non vengono: è come se cercasse di punirla per un’infanzia, e soprattutto un’ adolescenza, nella quale è mancata, un’esperienza interiore di libertà. Quella libertà, e protezione da un materno avvolgente, che il bimbo chiede inconsciamente al padre. Oggi, la presa di coscienza della natura per certi versi ”postuma” dell’aggressività verso sua madre, cicatrice di una ferita ormai superata, potrà aiutarla a liberarsene. Non ne ha più bisogno.

Claudio Risé

   

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