Diritti o gesti d'amore?         

Dalla rubrica  "Psiche lui" di Claudio Risé, in Io Donna, allegato al "Corriere della Sera", 3/03/07. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

   

"Ho 18 anni e da uno sto con una ragazza, che credo di amare. Però mi fa impazzire con ‘sta storia del diritto. Parlando con lei, ogni cosa finisce col “è mio diritto”, “è tuo diritto”, come se stare insieme fosse ripetere il codice. Naturalmente, anch’io mi accorgo, e rispetto, i suoi e miei “diritti”. Solo che non li vedo come diritti, ma come aspetti dell’essere, che se l’altro ti vuole bene, naturalmente ti riconosce. Con gioia, e non perché un diritto lo stabilisce. Per me è importante la differenza. Ma lei non capisce". 

Pan, Milano

Caro amico, la sua lettera fornisce un’ampia casistica per far capire il suo problema. Per esempio: che lei passi la domenica con la ragazza, è un “diritto” dell’amica, o un gesto d’amore da parte sua? Oppure quando un amico le ha passato un SMS affettuoso ricevuto dalla sua amica, che ha reagito ripetendo ossessivamente: “non avevo il diritto”, e lei a consolarla: ”stupidate le facciamo tutti”.  La sua ragazza tende a sviluppare un attento e completo codice dei diritti, che poi devono essere assolti in automatico. Lei, invece, preferisce vedere ognuno di questi momenti come un dono, un gesto d’amore che ognuno di voi fa, o che con stupore riceve dall’altro, magari quando aveva già messo in conto di rinunciare agli amici, o alla gita in canoa. Io penso che la sua strada sia la più difficile, ma anche, alla lunga, la più redditizia, quella che consente alla coppia di crescere di più. E’ infatti attraverso l’apprendimento di questa difficile grammatica, la grammatica dell’amore, che impariamo a conoscere meglio noi stessi, l’altro, e la molto appassionante arte di stare insieme. Mentre il diritto, categoria sacrosanta e indispensabile alla convivenza umana, non si fonda sull’amore, ma su altri criteri: la giustizia, la salvaguardia di interessi, l’opportunità. E proprio rispetto al primo punto, la giustizia, lei dice una cosa molto interessante, anche se un po’ eversiva. Mi scrive nella sua lettera: “Io penso che l’amore non c’entri niente con la giustizia, e col diritto. Non è stato giusto per mia madre sacrificarsi per mio padre tutta la vita, né per lui sopportarla con le sue interminabili lamentale, né per entrambi vivere, in fondo, per noi, i loro figli. Però l’hanno fatto, e da lì è nata la nostra storia famigliare; una storia anche tremenda, però bellissima”. Questo è vero  per la maggior parte delle famiglie,  e delle storie personali. La bellezza, quello che la persona sente poi come “pienezza” della vita, prende forma proprio da questo scarto tra le categorie normative ( giustizia, interesse, opportunità), e l’amore, il dono di sé, l’attenzione all’altro per come è realmente, e non come “dovrebbe essere” in base a principi astratti e uguali per tutti. Dallo sviluppo dei  “dispositivi normativi”, come li chiamava Foucault, sono nati dei sistemi  oppressivi, dei quali sappiamo a memoria le norme, ma in cui non sappiamo più riconoscere i nostri affetti, e i nostri desideri. Se ha coraggio, provi pure a smontare il meccanismo. Può essere un’idea.

Claudio Risé

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