Il bello delle soap       

Dalla rubrica  "Psiche lui" di Claudio Risé, in Io Donna, allegato al "Corriere della Sera", 16/12/06. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

   

"Mio marito (siamo sposati da più di 30 anni) è un uomo brillante, ama tutte le arti. E' interessato all'attualità politica, sociale e finanziaria, alle tecnologie moderne, sempre molto ben informato su tutto. Svolge un lavoro autonomo, tecnico ma  creativo, che lo appaga. Quando la sera rientra dal lavoro, chiacchieriamo un po' della nostra giornata poi, in attesa della cena... si fionda sul divano e si guarda il reality di turno, qualsiasi sia, e dopo cena non si perde una puntata della soap opera. Perché?"

Teresa –Milano

Cara amica, lei si chiede, e mi chiede: “cosa gli danno di bello queste trasmissioni”?  Dovremmo girare la domanda anche a lui. Però forse è sbagliato pensare che suo marito cerchi (e trovi) in quelle produzioni “qualcosa di bello”. Le soap opera,  infatti, non vogliono offrire il bello, ma il diverso rispetto a ciò che già si ha. Nascono in piena depressione economica, sponsorizzate dalle case che producono detersivi (per questo si chiamano “soap”), per portare nella dura vita delle casalinghe americane delle storie differenti dalla loro giornata. I reality show, molto dopo, offrono un’esperienza simile: chiunque può partecipare della vita quotidiana di un divo (eventualmente fabbricato per l’occasione) e della sua sostanziale vuotaggine. Ciò consola l’afflitto, rassicura l’emarginato, incuriosisce l’isolato, la cui vita si svolge senza grandi storie, e con pochi personaggi. Sì, ma che c’entra con mio marito (si chiede lei), che è realizzato, ipersociale, artisticamente colto ed esigente? C’entra in quanto momento di evasione senza pretese, ritualizzato (alla stessa ora di ogni giorno), che non chiede una partecipazione speciale, e non offre, appunto, nulla di specialmente coinvolgente ed impegnativo. L’uomo attivo, e realizzato,  ma anche stanco della giornata, cerca spesso, la sera dopo il lavoro, un momento di banalità anonima, che compensi l’attività e la creatività delle ore precedenti, scaricando tensioni e interessi intensamente vissuti. Il tono psicologico di questi momenti di “distensione”, è quello di una leggera depressione, funzionale a bilanciare entusiasmi ed impegni, a volte un po’ dopati (magari semplicemente  con troppi caffé), assunti nella giornata. Reality e soap hanno spesso questa funzione, oggi,  per manager e intellettuali. La stessa che, per le stesse categorie, era svolta fino a cinquant’anni fa dalla visita serale al casino: un tuffo nella banalità e nella finzione affettiva, che compensava una giornata spesso troppo intelligente ed espressiva. In tutto ciò, certamente, non c’è nulla di grandioso ed entusiasmante, e criticare le pratiche evasive dei maschi impegnati di ieri e di oggi è facile come sparare su un’autoambulanza.  Dal punto di vista psicologico però, occorre ricordare che (purtroppo, forse) l’equilibrio nasce sempre da un bilanciamento di opposti. Una vita creativa e impegnata ha anche bisogno di momenti pressoché privi di significato, così come quella tendenzialmente alienata ha sete di momenti ricchi di senso.      

Claudio Risé

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