Ansie quotidiane

 

Dalla rubrica info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 9/10/04. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

Gli attacchi di panico nascono spesso dalla paura di diventare adulti responsabili. Che spinge a trovare una via di fuga di fronte a qualsiasi prova richiesta dalla vita.

 

"Ho trentatre anni, sposato con due figli piccoli. Da circa 20 soffro di  attacchi di panico,  accompagnati a ansia e depressione che hanno ostacolato i miei studi universitari (sospesi nel 1998), e il mio lavoro. Le terapie non hanno dato risultati. Gli attacchi   si manifestano   quando sono da solo ed in automobile, quindi ormai non giro più in macchina se non per brevi tratti ben conosciuti oppure accompagnato. Nel marzo scorso   un nuovo  psichiatra,  mi ha proposto di "sistemare ciò che avevo in sospeso", cioè  finire l'università: sei esami. La cosa, mi ha appassionato ed impaurito allo stesso tempo. Io trentacinquenne con moglie e figli in mezzo a ventenni, e professori che ti guardano di traverso. Adesso dopo 5 mesi, due esami  sostenuti e quattro rimasti, la situazione si fa  pesante".

Marcello

Caro amico, il fatto è che negli attacchi d'ansia, come quelli che lei descrive, si manifesta appunto il desiderio di fermarsi, di non affrontare le prove e le incognite della vita, di ripiegare su sé stessi. La paura del cimento, che ci impegna in una fatica il cui esito è ignoto, ci porta ad escludere dalla nostra strada tutto ciò che non controlliamo (o pensiamo di controllare) perfettamente. E' così che, per lei come per tanti altri, "la vita è  diventata molto limitata" come mi scrive nella sua lettera. A questo incessante ripiegamento è importante che la terapia opponga un atteggiamento diverso, magari supportato con   quello di riprenderci gradualmente le autoaffermazioni  cui abbiamo rinunciato, ed altre, che  diventeranno i nostri  prossimi obiettivi. L'ansia (che a volte apre la strada al panico), è in fondo quella di diventare adulti, autosufficienti, capaci di assumersi la responsabilità delle proprie vittorie, e delle proprie sconfitte. Per questo è difficile che una terapia diventi veramente efficace se non si crea un'alleanza tra medico e paziente nel capovolgere l'atteggiamento di quest'ultimo verso la vita, da una posizione essenzialmente passiva, ad una gradualmente sempre più attiva. Da una perenne richiesta di comprensione ed accudimento, all'assunzione del rischio e della fatica in prima persona. La sfida propostale dal suo medico  corrisponde senz'altro (oltre ad altri aspetti che possono essere emersi nella terapia), a questa esigenza di cambiamento di direzione, in assenza del quale l'ansia continua a farla da padrona. Certo, per affrontare positivamente la situazione è necessario anche non "sovrainvestire" su queste prove. Non è vero che, come mi scrive nella sua lettera: "ogni appello degli esami rimasti sia un evento definitivo per la mia vita, una sorta di ultima spiaggia, di "o di qua o di là" ". In questi esami non c'è nulla di eccezionale: essi sono, semplicemente, prove della vita, come molte altre. Fanno parte, come ciò che verrà dopo, della vita quotidiana, non dell'eccezionalità. Vederli come straordinari è invece un modo di costringersi a rifiutarli. Oltre ad alimentare il proprio narcisismo, di persona che non fa mai le cose quotidiane, di tutti, ma sempre cose particolari, eccezionali appunto. A volte nel bene, ma più spesso nel male, secondo il modello dello "sconfitto favoloso". Mi sembra dunque che valga la pena, come il suo medico le ha proposto, di "rimettersi in pista", di rientrare nel circuito vitale, anche partendo da questi pochi esami che le mancano  per concludere un percorso formativo in cui ha investito molti anni, e tante energie. 

Claudio Risé

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