Ugo Foscolo - Opera Omnia >>  Dello scopo di Gregorio VII




 

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ESTRATTO DA UN'OPERA DEL PROFESSORE HEEREN PREMIATA DALL'ISTITUTO DI FRANCIA, E DA ALTRI SCRITTORI RECENTI

Chiunque legge gli storici che trattarono del medio evo nota con maraviglia che Gregorio VII viene più spesso accusato dagli scrittori cattolici e difeso dai protestanti. Il sig. Planck di Gottinga, nel quarto volume della sua Storia della costituzione della Chiesa Cristiana, pubblicato l'anno 1806, parlò con l'esattezza, l'abbondanza e l'amore che gli sono propri intorno al carattere di Gregorio VII, al sistema teocratico da lui stabilito e agli effetti che ne derivarono. Quattro anni dopo il sig. Heeren, Professore di storia nell'università di Gottinga, esaminò lo stesso argomento in un libro coronato dall' Istituto nazionale di Francia, e che ha per titolo Saggio sulla influenza delle Crociate. Contemporaneamente il sig. Villers, noto per altre opere, in un Saggio sull'influenza della riforma di Lutero, dimostrò che, fra le cause che la produssero, la più antica e forse la più possente si fu lo stato di schiavitù in cui il mondo cristiano era caduto per l'assoluta dominazione de' papi. Ma dal sig. Heeren Gregorio VII è pur sempre considerato non solo come un grand'uomo, ma ben anche come un principe che ebbe degli ottimi fini, e che, se danneggiò la tarda posterità, recò ad ogni modo infiniti vantaggi al suo secolo.

Nel medio evo i diversi Stati d'Europa erano divisi di governo, di costumi e di leggi; ma avevano in Roma e nella sua possente gerarchia un centro comune che gli attraeva quasi per riunirli sotto un solo dominio. Però lo storico che volesse esporre lo stato politico di que' tempi in Europa dovrà pur sempre tener d'occhio alla gerarchia della Chiesa romana.

« L'Italia e la Francia (scrive il sig. Villers), e segnatamente la confederazione degli Stati componenti l'Impero germanico, erano nel medio evo, or per via di trame politiche, or con la minaccia e la violenza delle armi, tratte a parteggiare nella lotta perpetua tra i successori de' Cesari e i successori di Pietro. Gli uni e gli altri affettavano eguali diritti su Roma; e tutta l'Europa teneva come ragione invincibile e santa che il signore di Roma dovess'essere necessariamente signore dell'Impero; tanto la venerazione per le antiche dominazioni è difficile a perdersi! Svanita la gloria di Roma, le restò il magico nome, grande ancora a' dì nostri, venerando e terribile allora. Pareva che si combattesse contro i decreti del Cielo e si ricalcitrasse a' destini, se non si concedeva alla città che fu metropoli del mondo lo stesso potere, o almeno lo stesso titolo.

Sì fatta questione, derivante dal nudo nome di una città, era sciolta in proprio favore da ciascheduna delle due parti con argomenti di puro nome. I successori di Carlo Magno si chiamavano Cesari; e perchè gli antichi Cesari erano stati imperadori di Roma e Roma la metropoli dell'Europa, pretendevano che il monarca il quale a avesse titolo di Cesare dovesse incontrastabilmente regnare sopra Roma e l'Europa. Questo argomento fu per lunghissimo tempo tenuto per invincibile.

Il diritto de' papi aveva men evidenti ragioni; non per questo era men venerato. Siccome Roma era la naturale dominatrice dell'universo, e il principe che aveva avuta la sua sede in Roma era capo dell'Impero, dovea, secondo la corte romana, venire la direttissima conseguenza che il Vescovo di Roma dovess'essere il capo della Chiesa ».

Appena si crederà che sì fatti argomenti abbiano per più secoli insanguinata tutta l'Europa e divise l'Italia e la Germania e le città e le famiglie in Guelfi e Ghibellini. Questi nomi servivano poscia ad altri partiti; ma a le prime armi furono date a' Guelfi dal papa, e a' Ghibellini dagl'imperadori con l'intento di pervenire alla monarchia illimitata del territorio anticamente governato dagl'imperadori romani.

Or vedremo, nelle considerazioni del sig. Heeren, per quali avvenimenti e con quali mezzi la Chiesa rimanesse per più secoli superiore in questa contesa.

Vent'anni avanti la prima Crociata s'era maturata nel governo ecclesiastico una mutazione per cui acquistò nuova forma, e s'armò di tanta preponderanza nelle cose civili, ch'ei fu considerato come anima della politica europea durante i due secoli delle Crociate. Anzi queste guerre sante furono uno de' primi effetti della mutazione del governo ecclesiastico. L'uomo che le aveva concepite meditate ed apparecchiate, morì prima che si cominciasse ad intraprenderle; ma l'Europa obbedì quasi per più di duecento anni alla voce che usciva perpetuamente dal tumulo d'Ildebrando.

Quest'Ildebrando era infatti un uomo straordinario. La storia lo ha infamato ed onorato sotto il nome di Gregorio settimo, pontefice massimo de' Cristiani. E non pertanto, malgrado sì fatta disparità di giudizii, il condannarlo o l'assolverlo non è cosa sì malagevole, da che le sue confessioni, con le quali egli si presenta al tribunale de' posteri, stanno tutte negl'inestimabili libri delle sue lettere (1) i quali comprendono il corso di nove anni. In essi ci rivela francamente le sue mire, e quasi ogni pagina, quasi ogni parola, di que' volumi è animata dall'unico e perpetuo pensiero della suprema potestà della Chiesa e di Roma. Ond'è impossibile che i posteri con que' libri alla mano s'ingannino sul vero scopo del loro autore. Bensì la cagione delle varie sentenze sovr'esso deriva dall'essere stato Gregorio VII considerato non tanto secondo il suo secolo, quanto secondo il nostro. Ciò che dovrebbe oggi essere esecrato come una usurpazione contro il genere umano, poteva a que' tempi essere lodato ed accolto come solenne e santissimo beneficio. Ed è prima legge della giustizia storica il giudicare ogni uomo, non già con le assolute norme metafisiche del vero, del retto e del giusto, bensì con l'esame de' tempi ne' quali visse e degli avvenimenti che lo costrinsero ad operare.

Ildebrando sapeva di vivere in età ferrea, e lo diceva e lo scriveva sovente; e gli annali di que' tempi lo mostrano. (2)

« Il sistema feudale deviava dagli ordini che l'avevano a principio fondato. La maggior parte de' regnanti perdeva vigore ed autorità; i grandi e possidenti de' feudi tendeano soltanto a rendersi indipendenti; gli altri erano schiavi: non si vedeano se non violenze esercitate o sofferte e scelleraggini di ogni specie. Gli stessi ministri della religione, possedendo e governando feudi, erano non solamente accusati di complicità nella comune oppressione, ma ben anche accusati come crudelissimi tra gli oppressori ».

Tale è la rapida, energica esposizione del professore Heeren. A noi per,altro non pare che basti a far conoscere il secolo d'Ildebrando, nè a manifestare le cause che lo mossero ad operare.

Un autore, nostro concittadino, meditando su le storie patrie, ha vedute nei fatti di que' tempi, se non tutte, almeno le origini principali della potestà temporale de' papi. Ecco le sue parole. « Morto Carlo Magno, l'impero crollava per la sua mole, e andò dopo vent'anni diviso alla schiatta de' Capeti, a' Sassoni e agl'Italiani. E quantunque il titolo imperiale si rimanesse a' re d'Alemagna, era nondimeno affettato anche da' Berengarii aspiranti al dominio di Roma. Ebbe l'Italia per mezzo secolo, da Luigi di Puglia, sino al terzo Berengario lombardo, sei principi indipendenti. Se non che la violenza del loro governo, l'ambizione irritata de' papi ch'essi vollero imprudentemente avvilire con l'armi, trassero la Chiesa e i baroni dell'Italia meridionale a tramare con Ottone I; ed egli, occupata l'Italia, la divise in feudi imperiali e saziò l'avidità de' suoi capitani e de' nobili: si nominò Cesare Augusto, ed adulò la vanità della nazione mentre le toglieva l'indipendenza: finalmente si fe' consacrare imperadore dal sommo pontefice, e si procurò la venerazione de' popoli; e liberando la religione da' sacerdoti contaminati di vizi, protesse i riformatori, che cacciarono i papi eletti da' Berengari e gli antipapi, e, difendendo la chiesa, la dominò.

Ma lasciò anch'egli a' suoi successori vastissimi stati, poche leggi fondate su la giustizia e mantenute dalle armi, e quindi debole autorità. Perchè i luogotenenti da lui posti al governo delle provincie tornarono ad arrogarsi signoria assoluta e perpetua di terre, d'uomini e di città, giurisdizione di moneta e di taglie, proprietà di corpo su tutti gli agricoltori, giudizio di sangue su' loro vassalli, arbitrio di alleanza e di guerra con gli altri baroni; onde il nerbo dell'erario e della milizia stava tutto in quest'aristocrazia militare che divideva i regni occidentali in signori armati e in servi venduti; e ciascheduno, secondo l'ambizione e le forze, concedeva o negava gli aiuti richiesti dal supremo principe dello Stato. Or quando la forza, la necessità e l'ignoranza spengono la giustizia, la religione sottentra e prevale.

Gli oppressi nell'estrema sciagura, gli oppressori nel perpetuo rimorso doveano volgersi al cielo; tanto più che in sì fatta violenza di stato civile e politico le mutazioni doveano essere rapidissime e frequenti, e gli oppressori diventavano oppressi. Inoltre, o per ignoranza di mente o per debolezza di cuore, i monarchi stessi dalla religione trascorreano nella superstizione e nel fanatismo; e i sudditi seguivano i principi, i quali non aveano in loro potere nè scienze nè lettere da esercitare gl'ingegni e le passioni de' popoli. Se non che il Cristianesimo, mentre avea congiurato co' barbari per dannare alla obblivione assai libri de' grandi intelletti dell'antichità, avea, con la lingua latina e le dottrine teologiche, serbate vive in Roma alcune reliquie dell'umano sapere. Però all'aristocrazia militare gli imperadori contrapposero il clero, concedendogli investiture perpetue di terre, privilegi ed immunità, ed ogni giurisdizione civile. Ed egli, per mantenerla ed accrescerla, stabilì (siccome il Robertson vide sapientemente) il diritto canonico, con che diede sembianza d'umana giustizia alle liti criminali e civili, sottoposte sino a quel tempo alle sentenze arbitrarie de' nobili, alle prove inefficaci del giuramento ed agli eventi del duello e del fuoco. Ebbe così il sacerdozio, dalla necessità de' monarchi e dalla miseria de' popoli, molti aiuti alla podestà temporale. Anzi, mentre s'arricchiva e s'armava, trovò i deboli e gli schiavi apparecchiati alla superstizione, i principi vassalli alla ribellione, gli eserciti al fanatismo, e tutti alla libertà. E il potere imperiale opponeva a sè stesso, senza avvedersi, una forza più occulta, più mite e più efficace e collegata col capo della religione, che sedeva fuor d'Alemagna.

Ma questa forza divenne palese quando, spento il lignaggio d'Ottone, i papi praticarono e ottennero che l'Impero divenisse elettivo. Tre de' sette Elettori erano Arcivescovi e Cancellieri, l'uno d'Alemagna, l'altro delle Gallie e 'l terzo d'Italia; e l'imperadore eletto doveva essere confermato dal papa. Onde dalle discordie, proprie sempre delle elezioni, e dalla preponderanza ecclesiastica, assai vicari de' Cesari pigliarono pretesti di fare assoluti d'omaggio i loro feudi, e molte provincie in Italia si ordinarono in principati e in repubbliche, sottraendosi agl'imperadori non confermati dal sommo pontefice. E quando i principi vassalli non valevano a difendere le loro usurpazioni dalle forze imperiali, le rassegnavano in dono alla Chiesa. Così Gregorio VII, uomo toscano, proteggendo i popoli prima ribelli e poscia indipendenti d'Italia. ebbe alleati e difensori de' paesi a lui ceduti da Roberto Guiscardo nel regno di Napoli e dalla contessa Matilde in Lombardia. La violenza aveva insanguinato per due secoli il genere umano; l'ignoranza l'aveva accecato; Gregorio VII ne profittò: fu egli dannoso o utile agli uomini ? Questo quesito non può essere sciolto se non da chi imprenderà a trattare filosoficamente la storia d'Italia sino al pontificato di Clemente VII, dalle mani del quale cadde per sempre lo scettro con che Ildebrando cominciò a governare l'Europa dal tempio ». Fin qui l'autore italiano, le osservazioni del quale ci sembrano atte ad illuminare il discorso del professore di Gottinga. Questi nondimeno pende a credere che Gregorio VII si proponesse di farsi non tanto signore assoluto, quanto riformatore del mondo cristiano.

Ildebrando sentiva in sè stesso l'ingegno e l'animo atti a sì nobile impresa. La natura avealo dotato della rarissima proprietà d'innalzarsi oltre il suo secolo, di penetrarlo, di giudicarlo, di conoscerne le forze e i difetti, di profittare delle une e degli altri per condurre facilmente a termine ciò che dianzi appariva quasi impossibile. Ma in tutti i secoli le cose che sembrano impossibili all'universalità de' mortali riescono agevoli agli uomini di tal tempra; onde spesso ciò che si chiama temerità non è se non l'azione tranquilla e sicura di un intelletto veggente e di una volontà pertinace ed energica. E Ildebrando aveva in parecchi incontri potuto conoscere le condizioni del mondo e gli umori de' suoi contemporanei. Aveva adempiuti importantissimi uffici in vari, paesi; e vent'anni innanzi il suo pontificato, che durò dall'anno MLXXIII al MLXXXV, egli era già una delle menti che governavano la gerarchia di Roma.

Questo papa trovò per altro molti degli antichi ostacoli abbattuti da' suoi predecessori, nè sappiamo come questa osservazione sia sfuggita al dotto scrittore tedesco. « A' pontefici faceva assai guerra l'ambizione del popolo romano, il quale in prima si era servito dell'autorità di quelli per liberarsi dagl'imperadori: di poi ch'egli ebbe preso il dominio della città e riformata quella secondo che a lui parve, subito diventò nemico ai pontefici, i quali molte più ingiurie riceverono da quel popolo che da alcun altro principe cristiano. E nei tempi che i papi facevano colle censure tremare tutto il ponente, avevano il popolo romano ribelle.... Venuto adunque al pontificato Niccolò II, come Gregorio V tolse a' Romani il poter creare l'imperadore, così Niccolò li privò di concorrere alla creazione del papa, e volle che solo la elezione di quello appartenesse ai cardinali ». Questo passo è nel primo libro delle Storie di Niccolò Machiavelli, il qual autore profondamente notò che, se l'animo e il potere del popolo non fossero stati franti dalla politica degli antecessori di Gregorio VII, e se il diritto di eleggere il papa fosse rimasto a' cittadini, Ildebrando avrebbe vanamente tentato di ampliare l'autorità della Chiesa; da che, per dominare su gli stranieri, bisogna pur sempre cominciare ad essere assoluti padroni nella propria città.

La corruzione della Chiesa era in que' secoli sì antica, sì universale e sì conosciuta, che l'imperadore Enrico III aveva gran tempo innanzi tentato di riordinare la religione per mezzo degli antecessori di Gregorio VII; ma la morte ci s'interpose. Gregorio assunse l'impresa dell'imperadore, ma non già come ministro degli altrui voleri; anzi, per compirla più grandemente, concepì l'idea di fare gl'imperadori e tutti i popoli cristiani stromenti della riforma ch'ei meditava. Chiunque leggerà le sue lettere rimarrà certo ch'egli era sempre invaso da questo pensiero: doversi costituire il vicario di Cristo superiore ad ogni umana possanza. (3) Trattavasi di piantare in modo da non potersi più muovere questo principio dell'autorità de' pontefici. Ciascheduno di essi avrebbe, d'indi in poi, potuto, secondo le forze e le circostanze, desumere le conseguenze più consentanee a' bisogni ed al carattere de' tempi. Infatti assai volte i successori d'Ildebrando usarono e abusarono delle sue massime, e forse più ch'ei non aveva antiveduto. Ad ogni modo egli presentiva che, prevalendo il principio dell'assoluta superiorità della Chiesa, tutto era vinto. E Gregorio non solo pareva convinto profondamente dell'utilità, ma ben anche persuaso sinceramente della giustizia e verità del suo principio; persuasione che gli cattivò l'opinione del mondo. Allo spirito d'ispirazione e di missione divina univa egli sovente un'eloquenza patetica, invocando l'aiuto e la compassione degli uomini. La sua lettera a Ugo, abate Cluniacense (lib. II, 49), ov'e' dipinge il deplorabile stato della cristianità e l'imminente bisogno di una riforma, incomincia così: « Oh fosse possibile che tu pienamente sapessi quanto e perpetuo e rinnovantesi travaglio mi cruccia, e, crescendo quotidianamente, mi esanima! Sarei, se non altro, sicuro che i martirii dell'anima mia muoverebbero la tua fraterna pietà; che il tuo cuore, con profusione di lagrime, supplicherebbe Gesù, per cui tutto fu fatto, che tutto regge, acciocchè a me, povero mortale, tendesse la mano, o almeno con la solita sua misericordia liberandomi dalla vita, mi togliesse da tanta miseria. E spesso ne l'ho pregato ecc ».

Scopo principale e perpetuo di Gregorio VII, fu: 1°. di rendere l'autorità del papa illimitata sopra la Chiesa: 2°. di render l'autorità ecclesiastica in tutto il mondo cristiano superiore all'autorità civile.

Secondo il sig. Heeren, il papa assai prima di quell'epoca era stato riconosciuto capo della Chiesa nel solo Occidente; ma la storia ecclesiastica, accertata da irrefragabili documenti, mostra che la sua autorità si estendeva anche nell'Oriente: non però illimitata, da che la Chiesa era una monarchia temperata dall'aristocrazia de' prelati e de' concili; antico edifizio che Gregorio non poteva atterrare ad un tratto; ma lo minò con due leggi di certissimo effetto; l'una su le Investiture, l'altra sul celibato degli ecclesiastici.

La celebre controversia suscitata da quest'illustre pontefice su le investiture derivò direttamente da' suoi progetti di riforma. Egli e tutti i suoi contemporanei vedevano che la corruzione universale emanava dal clero, il quale, come più infetto degli altri, doveva essere prima degli altri guarito. E tale vent'anni innanzi era stata l'intenzione d'Enrico III. Ora, la prima fonte della corruzione del clero era la simonia. Il traffico de' beneficii ecclesiastici commetteva tutti gli uffici e le dignità della Chiesa a mani mercenarie ed indegne; traffico vergognoso e funesto quanto quello delle indulgenze che alcuni secoli dopo fu causa alla riforma di Lutero.

E qui giova di riferire un paragone de' protestanti (non assurdo per avventura, come potrebbe forse parere a principio) tra Ildebrando e Lutero.

« Lutero, dicon essi, rovesciò l'edificio innalzato da Gregorio VII. Ma, con tutta quest'apparente opposizione, l'uno e l'altro tendevano a una riforma e volevano forse le medesime conseguenze. Furono animati da pari spirito, da pari coraggio, da pari forza per abbattere gli ostacoli che si frapponevano alla loro impresa. Solamente il riformatore tedesco non ebbe in dote l'accortezza dell'italiano e non agì misuratamente ed a filo a filo; cosa forse aliena dal carattere leale e vivacissimo di Lutero. Pur l'uno e l'altro toccò la meta; e questa è una delle tante prove che, ove si tratti di rivoluzioni, la forza di carattere può bastare senza l'astuzia.

Del resto, l'indignazione contro la simonia degli ecclesiastici appare ardentissima in tutte le lettere di Gregorio VII. Il contrastare a' progressi del male non sarebbe bastato: bisognava tagliarne ed arderne la radice: bisognava distruggere una volta per sempre il diritto che i principali pastori, segnatamente i vescovi e gli arcivescovi, s'erano arrogato di vendere i loro beneficii. Vero è che in Inghilterra ed in Francia le dignità pendevano dai voti de' Capitoli metropolitani, e in Germania erano conferite dagl'imperadori; ma ciò non toglieva che se ne facesse mercimonio. Quei che assumeano gli uffici e le dignità della Chiesa venivano da per tutto considerati vassalli del principe; tanto più che a quasi tutti que' beneficii erano aggregati de' feudi, i quali dipendevano dal sovrano. Aggiungi che in que' tempi vassallaggio era l'unica idea possibile di subordinazione; nè gli uomini potevano concepire che si potesse vivere in società senza essere padroni assoluti o servi tributari degli altri. Quindi il diritto d'investitura per via del pastorale e dell'anello; cerimonia che simboleggiava la dipendenza feudale. Annullando le investiture, si sottraevano gli ecclesiastici all'obbedienza e al vassallaggio verso la potestà secolare. Ma Gregorio non pronunziò mai in termini formali: Che gli ecclesiastici non riconoscessero alcun feudo da veruno de' principi laici e che non prestassero omaggio, nè giuramento di fede. Sì fatta legge emanò da Urbano II, alunno e successore (4) di Gregorio VII; e fu sancita l'anno 1095, appunto in quel concilio di Clermont che stabilì le crociate: veggasi il canone XVII, nel volume X del p. Labbeo, pag. 508. Ne episcopus vel sacerdos regi vel alicui laico in manibus ligiam fidelitatem faciat. Ma anche prima di questa legge, che dichiarava solennemente la Chiesa indipendentissima dallo Stato, Gregorio VII aveva, e con l'esempio e con altri decreti particolari e con gli anatemi contro la simonia, sciolti indirettamente gli ecclesiastici da ogni dovere verso la potestà temporale. E come mai sarebb'egli giunto a governare dispoticamente la Chiesa, ove i suoi membri avessero dovuto in alcuna parte dipendere dai principi laici?

Ma questa indipendenza politica degli ecclesiastici come cittadini sarebbe riuscita precaria, ov'essi avessero continuato a dipendere dalla società per mezzo degli obblighi di marito e di padre. Quindi la legge di Gregorio VII che impose ad ogni individuo della Chiesa di vivere in celibato.

Se quest'idea fosse stata affatto nuova, egli non avrebbe ardito forse di manifestarla; ma il pregiudizio ascetico che ascriveva a santità la continenza èra già invalso ne' chiostri, donde aveva penetrato nell'opinione e nelle abitudini del clero secolare, senza per altro avere ricevuta una solenne sanzione. E Gregorio, che conosceva gli uomini ed il suo secolo, non creò mai nuovi mezzi, ma si giovò costantemente di quelli che erano inerenti all'indole del suo tempo. Sembra pure che quest'opinione sul celibato risultasse dal convincimento e dalla coscienza del pontefice, e che la sua pietà, bene o male intesa ch'ella si fosse, cospirasse con la sua politica. Questa congettura è avvalorata dal vedere con quali modi, pieni di santo zelo e di magnanima indignazione, egli parla nelle sue lettere del matrimonio de' preti, ch'ei tratta, senz'altro, di schietta fornicazione. (5) Nondimeno ei conobbe ad un tempo i vantaggi che il celibato dovea produrre all'autorità del principe della Chiesa; e n'è prova la maravigliosa perseveranza e il rigore inflessibile con che attese all'esecuzione di questa legge. L'abolizione delle investiture sciogliea la Chiesa da ogni dipendenza; e l'abolizione del matrimonio dava al sommo pontefice un grandissimo numero di sudditi, sparsi in tutta la superficie della terra; uomini sciolti d'ogni obbligo di famiglia, di legge civile e di patria.

Di quante e quali conseguenze fossero pregni questi nuovi principii, la storia del governo pontificio ce lo dimostra pel corso di molti secoli, da que' tempi sino a' dì nostri. La somma dell'autorità ecclesiastica fu d'indi in poi concentrata nel papa, del quale i vescovi e gli arcivescovi (anzi che essergli coadiutori) divennero dipendenti ciechi e vassalli, che ad ogni contraddizione potean essere puniti come ribelli. Le leggi sulla simonia bastavano sole a dare ragioni o pretesti al pontefice onde sommetterli alla più rigorosa censura. Il p. Thomassin nel suo libro classico Vetus et nova Ecclesiæ disciplina, (6) e molto più il signor Planck nell'opera da noi citata espongono, il primo storicamente e il secondo,filosoficamente, una serie di circostanze e di decisioni in casi controversi, e di consuetudini passate in diritto (come, per esempio, quella di conferire il pallio); le quali tutte contribuirono coll'andare degli anni a riempiere ed ampliare il disegno di Gregorio VII. Il corso di un secolo, piuttosto che menomare in alcuna parte, aveva anzi rinvigorito il governo dispotico de' pontefici; poichè sotto Innocenzo III i papi usavano arbitrariamente de' tesori e delle dignita della Chiesa, della quale essi erano divenuti assoluti padroni. Ed ecco come Gregorio VII toccò il primo punto di sottomettere la Chiesa al pontefice.

Rispetto al secondo punto, che doveva determinare la preminenza della potestà ecclesiastica verso la temporale, o, per parlare più schiettamente, statuire il pontefice sovra i principi ed i monarchi, Gregorio VII vide sapientemente che, fra queste due potestà non potendovi essere perfetta eguaglianza, il primo che si fosse aggiudicata alcuna superiorità su l'altro l'avrebbe accresciuta e perpetuata. Il sistema d'una scambievole indipendenza tra l'altare e il trono può essere speciosissimo in teoria: ma chi giudica le cose dall'esperienza de' secoli vede che, ove la religione non comanda alle leggi di un popolo, è necessariamente forzata a servire; il che si dica delle leggi rispetto alla religione. Onde la teoria d'eguaglianza tra la religione e le leggi è rigettata dalla pratica e dalla natura degli uomini. Come mai due potestà sempre presenti tra loro, sempre prime per proprio istituto non contenderanno di preminenza? Videro i nostri contemporanei la sublime teoria della mutua indipendenza del potere legislativo ed esecutivo divenire chimerica tosto che venne applicata, quantunque la voce di tutti i filosofi l’abbia tant'anni innanzi predicata come l'unico mezzo alla libertà degli stati ed alla grandezza de' popoli. Ma Gregorio ci trae d'ogni dubbio intorno al suo modo di risolvere sì fatta questione; nè si può dire che la fortuna gli abbia dato nelle mani l'autorità sovra i principi: egli stesso se l'arrogò; e prima di operare, ne avea ragionato; i suoi principii secondano i suoi interessi; le sue opere sono concordi alle sue parole: sapeva ch'ei doveva o comandare o obbedire. S'egli avesse trovati principi grandi, forti, intelligenti, avrebbe obbedito: trovò invece monarchi superstiziosi, deboli, ciechi, e comandò. Nè pago del fatto e dell'usufrutto di questo dominio, volle stabilirne il diritto, e perpetuarlo e trasmetterlo a' suoi successori. Formò delle sue azioni e delle sue pretese un corpo di giurisprudenza teocratica. L'epistola XXI del libro VII è un esemplare di eloquenza e di ragionamento. Vide che niun oggetto è pari, niuno simile all'altro, niuno indipendente nell'immensa natura; ma tutti o mediatamente o immediatamente subordinati più o meno l'uno all'altro: paragonò la potestà temporale e la spirituale a' due grandi luminari del firmamento; pretendendo che la gloria e lo splendore del cielo si trasfondesse nel pontefice, il quale poteva quindi diffonderla ne' regnanti, appunto come il sole comparte la sua luce alla luna.

Torniamo a ripetere che gli uomini e le istituzioni vanno considerate nel secolo in cui nacquero; a pag. 152 di quest'articolo a si è osservato che la forza dell'opinione religiosa doveva prevalere, da che la forza delle leggi e delle armi era annichilata. I regnanti potevano essere naturalmente buoni; ma, non essendo forti, era impossibile che fossero giusti. Noi non possiamo determinare precisamente sino a qual segno Gregorio VII intendesse a principio di produrre la sua sovranità sovra i principi e di giovarsi della forza ch'egli aveva preoccupata per adempiere le sue mire; ma il fatto si è ch'egli ne usò per dare al mondo una giustizia qualunque, e per governare i popoli, che i monarchi non sapevano reggere. E conobbe che, s'ei si fosse contenuto ne' discorsi, nelle esortazioni e ne' ragionamenti, si sarebbe in brevissimo tempo, ed al più tardi dopo la sua morte, perduto il frutto che si poteva sperarne. Bensì, poich'ebbe santificate le ragioni della guerra contro la potestà temporale, s'affrettò a suscitarla; onde, quando si vide fermo nel seggio pontificale, ei medesimo la intimò, eleggendo d'essere assalitore egli primo in un conflitto ch'era inevitabile, tanto più che dalla vittoria pendeva la forza e la sicurezza del potere de' papi. Onde provocò la celebre controversia sulle investiture per sciogliere gli ecclesiastici d'ogni obbligo di vassallaggio e di fede verso i loro principi naturali, e non sì tosto si sentì vicino alla vittoria, che incalzò violentemente l'imperadore Enrico IV; e come profondissimo conoscitore degli uomini, tenne le stesse pretese, ma per vie più miti, contro Filippo I, re di Francia. E qui è da notarsi che non tanto la lite in sè stessa, quanto il modo con che fu trattata da' contendenti stabilirono la superiorità del pontefice sopra i monarchi. Gregorio uscì in campo con parole autorevoli, ispirate e imperiose. Primo incominciò a chiamare i monarchi figli della Chiesa: rare erano le lodi ch'essi potessero impetrare dal loro padre spirituale, frequenti ed amarissime le censure, violentissime le minacce e severe le punizioni. Terribilissima fra le punizioni era l'anatema, che assolveva i sudditi dal giuramento di fedeltà; astuta via di deporre indirettamente un sovrano legittimo e liberissimo dal suo trono. D'allora in poi il pontefice si aggiudicò il diritto di governare il clero degli altri stati e di disporre delle terre che ne dipendevano, senza che i principi potessero in verun modo interporsi; anzi, per essere certa della fede de' principi e de' popoli verso il cielo e il primo ministro del cielo, Roma mandò Legati che invigilassero e tenessero sommessi i monarchi. E in ciò pure Gregorio VII si valse d'antiche forme, animandole di nuove intenzioni; da che, affettando la suprema autorità dell'imperadore Carlo Magno, imitò l'esempio de' missi regis. I cardinali plenipotenziari di un padrone onnipotente parlarono ed operarono non solo in nome del loro committente, ma pel diritto eziandio delle loro proprie persone inviolabili e sacre. È vero, come scrisse l'abate Fleury, che la giurisdizione delle legazioni romane non fu definitivamente istituita se non dopo Gregorio VII; (7) ma le esagerate pretese che coll'andar del tempo questi ecclesiastici ambasciatori promossero, sarebber elleno insorte, o avrebbero prevaluto mai senza i privilegi e la straordinaria potestà di cui quel pontefice rivestì i suoi legati? Egli primo, egli solo fondò l'edificio che i suoi successori, con tentativi or prosperi ed or infelici, si studiarono d'erigere e di perpetuare. Per lui solo fu accolto e mantenuto come principio di giustizia il paradosso, inaudito sino a quel tempo in tutte le storie, che i troni fossero feudi del tempio, e i principi vivessero vassalli del sacerdozio. Il paradosso rimase per propria natura combattuto perennemente; ma, per l'indole cieca e piena di contraddizioni del genere umano, sì fatta pretesa fu giustificata dal fatto, ed il fatto fece che il paradosso paresse verità incontrastabile. Il diritto di coronare gl'imperadori e le conseguenze di questa consuetudine radicarono ne' popoli dell'Europa l'opinione che l'imperadore non potesse governare senza il beneplacito del pontefice. Nondimeno questa cerimonia non valse mai a costituire l'Impero come feudo della Santa Sede. Ma dove il fatto non corrispondeva alle pretese, i pontefici tentarono di tenerle vive pur sempre con le parole. E quando il carattere, la fama e l'ineluttabile forza di un sovrano giungevano ad atterrirli, essi si schermivano con distinzioni e definizioni teologiche, e senza rinnovare le loro pretese le dissimulavano per allora, ma serbandone le parole come stromento che le rivendicasse per l'avvenire. Federigo I significò apertamente che s'abolisse la parola beneficium usata da Adriano IV nell'incoronarlo. Il papa se ne scusò allegando che questo vocabolo non suonava che benefactum. Ma la Chiesa nello scomunicare i successori di Federigo si valse pur sempre del vocabolo beneficium per trattare l'Impero come suo feudo. Frattanto, al tempo di Gregorio VII, Napoli e la Sicilia furono conferite formalmente a' principi di Normandia, quasi possessioni della Santa Sede. La Ungheria, (8) la Spagna (9) e la Corsica furono considerate e governate come dominii del papa. L'imperadore e il re di Francia vennero scomunicati, e il primo non impetrò l'assoluzione se non dopo una vergognosa e terribile penitenza. Scandalo celebre nella storia; tanto più che taluni vedono nel contegno del pontefice certa maligna efferatezza di cuore piuttosto che un'assoluta necessità di ragione politica. In questa opinione è anche l'illustre storico del regno di Carlo V. (10) Gli autori ecclesiastici, anzi che giustificare la severità del pontefice, la esaltano a cielo; e i più discreti compiangono Enrico IV, che abbia costretto l'animo pietoso del pontefice ad una inumanità indispensabile. Solo il sig. Heeren tra' protestanti asserisce che dalle parole di Gregorio si deduca evidentemente ch'egli confessi di essersi comportato con eccessivo rigore. Ma l'accusa e la condanna di feroce arroganza è appunto fondata da Robertson su le stesse parole che dal professore di Gottinga furono assunte come prove di apologia; tanto è incerta la sentenza degli storici su le intenzioni e le passioni per cui gli uomini agiscono! Certo è però che Gregorio stesso in una lettera diretta a' Germani espose le cause ed i modi dell'assoluzione d'Enrico IV, e della penitenza che il Vicario di Cristo gl'impose: alla qual lettera rimetteremo gli uomini che bramassero di giudicare secondo l'animo loro. (11) A noi, dopo d'averla letta e considerata, parve di scorgervi la compiacenza della vittoria e l'intenzione che quel terribile esempio atterrisse per l'avvenire i nemici ed animasse i partigiani del sommo pontefice. Infatti egli in essa lettera va stimolando sempre più gli arcivescovi, i vescovi, i duchi,i conti e tutti i principi della Germania a rimanersi propugnatori della fede; il che suona ribelli al loro sovrano. E gia gli ecclesiastici più ragguardevoli di Germania s'erano armati contro Enrico IV, suscitando sua madre, sua moglie e perfino i suoi figliuoli a calpestare le leggi della natura e sbranare le viscere del loro re. Vero è che nell'epistola di Gregorio VII vi sono queste parole, dalle quali il sig. Heeren, benchè non le riferisca letteralmente, ha fuor di dubbio congetturato certo pentimento nel papa:

« Per tre giorni, davanti alla porta del castello ov' io dimorava, egli, deposta miserabilmente ogni pompa regale, scalzo, coperto di lana, stavasi scongiurando, nè cessando mai d'implorare con dirottissime lagrime l'aiuto e la consolazione dell'apostolica misericordia. Quanti erano quivi presenti o n'udirono intorno la fama si compunsero di tanta pietà, che con molte supplicazioni e con pianto intercedevano per lui; anzi tutti mostravansi stupefatti dell'insolito rigore della mia mente; e taluni, esclamando, lo apponevano non già all'apostolica gravità, bensì a crudeltà di tirannesca ferocia ». (12) Quest'ultime parole sono invece apposte da Robertson ad arroganza. A noi pare che Gregorio le abbia studiatamente scritte quasi a difesa, e come per lasciar traspirare ch'egli fu, malgrado il suo cuore, costretto a tanta severità. Nè si può contendere ad Ildebrando certa virtù virile e magnanima, spesso fanatica, talvolta superstiziosa, ma non ipocrita mai; tanto in lui la natura prevalse all'educazione monastica e all'istituto della sua vita. Nè crediamo ch'egli abbia, per naturale durezza di cuore, trattato sì acerbamente un principe che gli stessi fautori della Chiesa chiamano savio e giudizioso, (13) e che gli annali della Germania rappresentano come dotato di singolari virtù e di nobilissimo ingegno. (14) Ogni azione di Gregorio VII, e questa principalmente, fu diretta dalla politica, alla quale pospose l'umanità e l'equità. S'egli avesse più moderatamente usato della vittoria, è indubitabile che la potestà secolare sarebbe risorta alla vendetta con più vigore, e i pontefici si sarebbero difesi con meno coraggio. Ed Enrico tornò ad armarsi per rivocare i suoi perduti diritti; ma i popoli erano già divisi, ed una fazione diffusa in tutta l'Europa si atteneva al pontefice, appunto perchè pochi anni innanzi l'aveva riconosciuto potente. Robertson stesso, che appone ad arroganza più che a politica il contegno di Gregorio VII, conchiude: Quest'atto d'umiliazione avvilì la imperiale dignità. (15) E prima di lui il Macchiavelli aveva notato: ch'Enrico fu il primo principe che incominciasse a sentire di quale importanza fossero le spirituali ferite. (16) Le censure erano armi usate dai papi sino da due secoli prima di Gregorio. Ma questi solo e primo conobbe che, se la ferita non era profondissima, nè tale da lasciare una cicatrice perpetua, la Chiesa avrebbe vanamente combattuto in una contesa nella quale essa non era sostenuta dalla giustizia.

Appare da molti fatti, che Gregorio sapeva quando poteva imprendere arditamente e quando no. Allorch'egli ebbe a che fare con Guglielmo Conquistatore, parlò con maggiore moderazione. (17) Nè già comandando soltanto. ma or predicando, or esortando, or pregando, non lasciò luogo d'Europa libero dal suo predominio. Molte sue lettere sono dirette a' re di Danimarca e di Svezia. (18) Concede il trono di Moscovia a un figliuolo del duca Demetrio, notificando tal donazione a' congiunti di lui. Si studiò di aggregare alla sua la Chiesa greca e l'armena, nè sfuggirono alla sua vigilanza le reliquie della Chiesa d'Africa. Così Anzir, re di Marocco, concesse che un vescovo latino sedente alla cura de' pochi cristiani viventi ne' suoi stati andasse a Roma a farsi consecrare dal papa. Gregorio gli scrisse ringraziandolo. La qual lettera lascia più d'ogn'altra conoscere tutta la forza ad un tempo e l'avveduta arrendevolezza del suo carattere. (19) Parlando ad un re Maomettano si mostra sicuro « ch'egli avesse mandati molti doni ed alcuni schiavi sciolti al pontefice per riverenza a S. Pietro, principe degli Apostoli: che Dio avesse illuminato a quest'opera magnanima e pia quel Sovrano, Dio che illumina omnem hominem venientem in hunc mundum. Noi, » aggiunge Gregorio, « ci dobbiamo, più che gli altri, vicendevole carità, da che, quantunque in guisa diversa, crediamo e confessiamo ad ogni modo lo stesso Dio ». E finisce supplicandogli dal cielo « lunga vita e beatitudine eterna nel seno d'Abramo »; augurio che concorda tanto col Vangelo quanto con l'Alcorano.

Ma le Crociate, ideate ed architettate da Gregorio VII, mantennero per più di due secoli la vittoria alla potestà spirituale, da che la guerra fra l'altare ed il trono non poteva avere se non brevissima tregua. Egli colse la prima occasione che gli si parò innanzi per farsi anima e mente di un'impresa gloriosa e militare, onde raccogliere tutte le forze d'Europa sotto il vessillo della Chiesa. Non sì tosto udì, per rumore di fama, che gli Emiri Seldjucki, allora regnanti in Gerusalemme, angariavano i pellegrini d'occidente, ch'egli chiamò alle armi l'Alemagna e l'imperadore. Scrisse ch'egli avea da per sè pronto un esercito di cinquantamila guerrieri, di cui volea farsi capitano egli stesso. (20) Con impresa sì ardita riduceva tutto il mondo cristiano sotto le sue leggi. Già l'imperadore d'oriente s'era obbligato (ove le armi latine gli avessero racquistate e restituite le provincie perdute nell'Asia) di condurre la Chiesa greca al giuramento d'obbedienza verso il patriarca di Roma. La Siria agevolava la conquista dell'Armenia e la riunione di quella Chiesa. Oltre questi vantaggi immediati delle Crociate, la cristianità s'abituava a riconoscere e venerare nel suo pontefice il principe supremo degli eserciti, e a non veder ne' monarchi se non se altrettanti capitani che militavano in nome e per gli ordini della Chiesa.

Gregorio non vide piena l'opera sua; ed ei ben s'accorgeva, che essendo pervenuto alla sede pontificale sul declinar della vita, non avrebbe potuto fornire da sè solo l'impresa, che aveva incominciata e condotta con sì profonda sapienza. E vedeva ad un tempo che ogni vittoria gli provocava novelli assalti, e lo traeva a più aspri combattimenti, per cui avrebbe finalmente soggiaciuto non tanto alle forze de' suoi nemici, quanto alle fatiche e all'età. Ond'egli stabilì il suo sistema su la natura dell'uomo e su lo spirito del suo secolo superstizioso e guerriero. E contrappose tanta costanza alla vecchiaia e tanta previdenza alla morte che le avversità, le quali ei patì negli ultimi anni della sua vita, anzi che abbattere l'animo suo e scemargli fama e possanza, gli giovarono a segnalare la sua caduta e a far venerando il suo sepolcro e sacro il suo nome. Bastava che i suoi successori calcassero le vie ch'egli primo avea aperte e segnate: veramente i papi che gli successero lo secondarono, appunto perch'egli aveva lasciati ad essi i mezzi. I cardinali, a' quali era commessa la elezione de' pontefici, doveano necessariamente conoscere che la loro grandezza e il dominio che avevano acquistato pendeva sempre dall'uomo al quale verrebbe fidata la somma del governo ecclesiastico. Quindi in quel secolo raramente si vedeva assunto al papato chi non fosse dotato di sapere, d'ingegno e d'ardire. E se pure talvolta alcun sacerdote più atto all'altare che al trono riportò la tiara, ei trovò negli uomini che lo attorniavano la forza che gli mancava e quell'armonia e pertinacia di volere che, come fu onnipotente contro tutte le nazioni per lungo tempo nel senato dell'antica Roma, così dominò dal Vaticano le opinioni e quindi le forze de' popoli. E questo dominio, incominciato da Gregorio, salì gradatamente al colmo dopo cent'anni nel pontificato d'Innocenzo III, il quale, contendendo con Federigo II, trovò un emulo più terribile d'Enrico IV, e quindi n'ebbe più gloria. Dopo di che la Chiesa si rimase potente per altri cent'anni, finchè Filippo il Bello, trasferendo la sede pontificale in Avignone e togliendole di governare civilmente Roma e di dirigere le città d'Italia, cominciò a sgominarla.

In que' duecent'anni la potestà spirituale fu onnipotente, ma non avendo mai un giorno solo di possessione sicura e tranquilla. E la sua fortuna non crebbe se non perchè nelle Crociate, che durarono per que' due secoli, trovò forze alla lotta perpetua contro la potestà civile. La Chiesa senz'armi governava nell'Asia gli eserciti d'Europa; e i monarchi non potevano volgere apertamente le loro vendette contro i pontefici. Così una lite per cui si contendeva della signoria del mondo dipendeva più dalla tempra d'animo e dall'ingegno de' combattenti, che dalla forza e dalla sorte dell'armi: esempio unico nella storia del genere umano.


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(1) Epistolarum Gregorii VII lib. IX. Vedi il tomo X de' Concilii del P.Labbé e il VI delle Collezioni del C. Arduino.

(2) Epistolarum Gregorii VII lib. I ep. 42 - Lib.2, ep.49. – Guglielmo di Tiro, pag.634.

(3) Abbiamo già detto che in tutte le lettere di Gregorio VII trovasi questa idea: leggasi, tra le altre, l'epist. XXI del lib. VIII.

(4) « E appresso Gregorio VII, che morì nella città di Salerno, fu fatto Papa Vittorio, il quale non vivette più che sedici mesi, e fu avvelenato; e poi fu eletto Urbano II ». Gio. Villani, lib. III, cap. 21

(5) Epis. Greg. VII Pont. Max. in collect. supr., lib. II, ep. 49.

(6) Lione, 1705: 3 vol. in-fol.

(7) Discorso IV.

(8) Greg. Epist. lib. II 13; 63.

(9) Id., lib. I, 7, lib. IV, 28.

(10) Robertson, Introduz. sez. III, not. 40.

(11) Epist. lib. IV ep. 12 in collectione concil. Philip. Labbei, et Gabr. Cossartii, Soc. Iesu, Tom. XII, pag. 388-389. Edit. veneta, 1730.

(12) Questo è appunto il passo citato dal Robertson in originale, ma con alcune varietà di lezione; perch'ei lo trasse da un libro di Fra Maria Fiorentini, autore della vita della contessa Matilde.

(13) Gio. Villani, Ist. Fior., lib. IV, 22.

(14) Annal. German. ap. Struvium, I, p. 325.

(15) Introd., loc. cit.

(16) Stor. Fior., lib. I, [XV].

(17) Epist., lib. V 19, VII, 23.

(18) Lib. II, 51, VIII, 11.

(19) Epist. lib. III, 21.

(20) Greg. epist. lib. II 31 e 37.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ugo Foscolo - Opere - Tomo II", edizione diretta da Franco Gavazzeni, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1981







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