Ugo Foscolo - Opera Omnia >>  Della servitù dell'Italia




 

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DELLA SERVITÙ DELL' ITALIA
 
DISCORSI QUATTRO.



DISCORSO PROEMIALE.

-- o --

                                                                                                          Posuit sapientia signaculum labiis
   meis;  exasperantes  irruerunt in
   animam  meam:  et  ecce fregi  si-
   gnaculum, ne confundantur justi
   et participes mei mecum, propter
   praevaricationem inimicorum Je-
   rusalem.
Ex Aureoli archiepiscopi Epitome
   folius  sacrae Scripturae, ad lit-
   teralem sensum.

SENATORI, che avete scritto il libro senz'autore, col titolo: Sulla rivoluzione di Milano seguìta nel giorno 20 aprile 1814; sul primo suo Provvisorio Governo; e sulle quivi tenute adunanze de' Collegj elettorali: --Memoria Storica con documenti. Parigi, novembre 1814:

I. Io Ugo Foscolo mi sperava che voi, come vecchi, e sperimentati oggimai della indegnità de' clamori, avreste, dopo la rovina del Regno d'Italia, sagacissimamente taciuto; nè so ch'altri, se pur non era gazzettiere o sì fatto venditore di novelle, avrebbe mai rotto il silenzio. Perchè, e a chi mai sarebbe importato di professarsi storico dell'Italia presente? Non già agli stranieri, da che, paragonando le storie delle loro nazioni alle nostre, conoscerebbero le nostre di sì meschina curiosità in sè medesime, e sì indifferenti all'ordine dell'Europa, da non meritare le cure de' loro scrittori; e peggio assai dopo i termini a che voi pure avete ridotto la patria; nè degneranno di far parola mai dell'Italia, se non se forse per noverare le battaglie ch'ei v'hanno vinto o perduto, e i tributi che abbiamo pagato. E non a noi; a noi non toccava di sfasciare le piaghe nostre, e farne spettacolo di ribrezzo alle genti, e di scherno: giacchè, o avremmo tentato d' illudere con mentiti vanti l'Europa veggente, e l'onta nostra si sarebbe accresciuta; o avremmo narrato la verità, e che altro si sarebbe potuto conchiudere se non questo? « Gl'Italiani, quasi tutti concordi a bramare l'indipendenza, furono sì diffidenti fra loro, e sì discordi ne' mezzi, e si poco deliberati nel proponimento di racquistarla, che anzi hanno, e magistrati, e cittadini, e plebe, ed esercito, congiurato a riconfermare su la loro patria il servaggio. » E bastasse! ma, col somministrare la storia della loro propria stoltezza, giustificheranno quel principe che nel calpestarli dicesse: — E' sono pur nati a servire; e il confessano. — Vero è che alle volte una magnanima confessione redime il fallo; nè d'altra parte il tacere può menomare ne' potenti la naturale opinione che i deboli siano creati a obbedire; nè pare che i nostri nuovi dominatori si mostrino sì inumani da giovarsi delle nostre parole come di pretesto a tiranneggiare l'Italia, anzichè governarla; chi 'l niega? ma e chi non doveva altresì prevedere che le nostre parole non avrebbero già dato pretesto, bensì necessità vera agli Austriaci da tenerci sotto più rigida signoria?

II. Appunto gl'ingegni più atti all'impresa di scrivere consigliavano a ogni patto il silenzio, come più cauto per ora e più onesto. Infatti, quand'anche l'arte, la dignità dello stile, e la generosità dell'intento fossero bastate a nobilitare la miseria de' fatti; quand'anche, senza violare la verità, si fosse potuto dimostrare e che la nazione fu più infelice che rea, e che molti forti redensero col loro coraggio la viltà di molti altri; quand'anche taluno avesse sperato (non io) che le sorti avrebbero un'altra volta riunito o tutte, o mezze, o parte delle terre d' Italia con tali ordini di governo e di milizia, come era infatti nel Regno, da giovarcene a ogni destra occasione; e quindi con questa speranza si fosse ingegnato di desumere dagli eventi e dagli errori passati le cagioni della nostra rovina, per insegnarci a evitarle, chi mai non vedeva che, ad onta di tante ragioni di scrivere storia, l'autore, consigliando i servi, avrebbe addottrinato i padroni? Lo storico, astretto per debito a palesare le colpe degli individui, e d'interi ordini di magistrati e di cittadini, avrebbe esacerbato le sette; avrebbe, fra l'altre, irritato la setta inorgoglita dalla prosperità contro la setta umiliata dalla fresca disavventura; l'una e l'altra dementi, da che la moderazione delle passioni deriva dalla moderazione della fortuna; e se il principe avesse partecipato de'loro furori, si sarebbe collegato co' suoi settatori, e avrebbe concesso a loro arbitrio i patiboli e i roghi che gli chiedevano e chieggono. Che s'egli (come poi fece per nostra minore calamità) si fosse consigliato equamente, avrebbe dovuto appigliarsi a più severo metodo di governo, a frenarle. Ma i sospetti più vigilanti sarebbersi rivolti dall'Austria ad ogni nuovo moto in Europa, non tanto sovra le due sette nemiche, quanto su gli uomini lodati dallo storico come avversi a ogni dominio che non fosse italiano. Inoltre lo storico avrebbe dovuto ripetere le querele, forse ragionevoli, ma impotenti contro i monarchi, d'averci gli uni vietato di adoperare le nostre forze in pro nostro, gli altri d' averci da lontano aiutati con soli proclami a collegare gli eserciti nostri all'Europa confederata contro l'oppressore comune. Così le recriminazioni civili, e gli elogi pericolosi, e l'inutile lamentarsi avrebbero riarse le tristi passioni; avrebbero necessitato il padrone a desistere dal mansueto sistema a cui i suoi ministri s'erano a principio attenuti; avrebbero tolto a' nostri migliori concittadini non solo la quiete, ma fin anche la dignità spettante a quegli uomini, i quali, col sostenere virilmente i lor mali, se ne mostrano immeritevoli, e sforzano ogni principe a rispettarli.

III. E nondimeno taluni, non per impazienza di consigliarci o giustificarci, ma d' infamarci (e le loro occultissime mire le rileveranno essi medesimi, io spero, nei miei Discorsi), hanno avverato in gran parte i danni già preveduti; e di necessaria ch'era a noi dianzi la muta rassegnazione, ce l'hanno fatta inonesta, e ci hanno invidiato la consolazione ultima del silenzio, che qualunque tirannide non avrebbe potuto proibire. Ma, forsennati! la sentenza contro a sì fiera provocazione, la discolpa di chi non avesse si sovrumana fortezza da sostenerla, stavano scritte a eterni caratteri nel volume più venerato delle umane generazioni, e più antico. Rileggetela interpretata da me; n'avrete poscia il commento: — Traditori della vostra Città! Forse perchè la sapienza ha sigillato le labbra de' giusti, voi suscitate i popoli barbari a lapidarli? Or ecco, traditori della vostra Città, ecco spezzato il sigillo. (1) Aggiungetevi un altro testo: — Viri isti posuerunt immunditias suas in cordibus suis, et scandalum iniquitatis suae statuerunt contra faciem suam: numquid interrogatus respondebo eis? Loquere eis. (2) —

IV. Parlerò dunque ad alcuni di voi, Senatori. Voi che nello sterminio del Regno, e quindi nella disperazione assoluta dell'indipendenza d' Italia, vi siete improvvisamente dati a professare politica e storia promulgando, unicamente in vostro encomio, non meriti vostri (e che meriti avete voi? ), bensì perfidie, stolidezze, viltà — vere in parte, e anche vostre, ma delle quali noi siamo incontaminati; e non pertanto le avete apposte anche a noi —; voi che, sperandovi di preoccupare co' primi racconti l'animo de' mortali, vi siete gloriati d'avere somministrato irrefragabili monumenti alla storia, per assegnare a ciascuno il meritato tributo di lode e di biasimo — (3); voi che alla denunzia accoppiando così la condanna, e, per via della stampa, l'esecuzione istantanea di vostra mano, senza averci prima nè interrogati per appurare la verità; nè ascoltati, benchè ve l'abbiamo lasciata udire assai volte; nè citati a difenderci, non foss'altro al vostro medesimo tribunale; nè dato indugio all'appello, cosicchè la pena d'infamia, non sì tosto da voi proferita, fu riconfermata da' gazzettieri vostri araldi in più lingue; (4) voi ci traete a viva forza di bocca questa parola: MENTITE. Che se noi non potremo convincervi in nulla, saremo noi mentitori; se vi convinceremo soltanto in parte, voi sarete tuttavia mentitori; noi bensì, per giustissima pena dell'aver dato ad uomini gravi una piena mentita, ci piglieremo il titolo d'avventati; se poi sarete in tutto convinti di nullità come magistrati, d'abbiezione come cittadini, d'astuzia e di stolidità insieme come individui, di veleno come scrittori; se ci netteremo delle macchie addossate a taluno di noi, e me ritate da voi, voi sarete rei d' impostura verso i viventi ed i posteri, rei di calunnia contro gli uomini giusti, rei di patria disonorata; degnissimi quindi d'esercitare l'arte vostra perpetua di servi, ma indegni d'avere comune il nome d' ingenui Italiani con noi.

V. E questo NOI suona tutti noi ne' quali oggimai sta il residuo della dignità ravvolta nelle sue fatali disavventure; noi Italiani d'anima e di mente e di volto; non parteggianti per Francia o Lamagna; nè astiosi contro l'indole, e i costumi e le impreso d'altre nazioni, solo perchè le sono più forti; nè abbiamo domandato mai le lor armi a liberare l'Italia, ma esplorato opportunità da snudare le nostre; noi non attinenti a città veruna o provincia, bensì a qualunque paese parla il nostro idioma; nè alle opinioni di verune comunità, nemmen filosofiche, e indulgentissimi a tutte, purchè, discordanti nel rimanente, s'accordino nell'amare la patria; noi che fra le politiche teorie anteponiamo idealmente la libertà popolare, ma non tenderemo con l'opera fuorchè al solo governo comportabile da' nostri costumi, ed è un monarca potente per sola autorità di leggi, per sola forza d'armi italiane: veneratori della religione, e intolleranti de' simoniaci che ne fanno impudentemente mercato, e de' farisei che la avvelenano, quasi pugnale segreto, d'odi civili, e pretesto di sistematica ignoranza, di proscrizioni e d' inquisizioni; nè abbiamo coltivato la patria come fosse podere da cavarne titoli e lucro; e perchè siam provocati, e perchè tenuti d'occhio dallo straniero, intendiamo discolparla altamente in noi stessi per far conoscere al mondo che la non è popolata di ciechi e di vili; ed oggi siam più dolenti della sua ignominia che della nostra sciagura, e abbiamo decretato di perire all'estremo Italiani: ed oggi parla forse per l'ultima volta la voce di tutti NOI nella mia.

VI. Perchè io, onde mantenere in me a ogni mio potere illibati questi caratteri di ingenuo Italiano, mi sono eletto l'esilio; e prevedendo quanto i nuovi disagi, e le infermita della vita, e le persecuzioni imminenti de' forti si affrettano a impormi silenzio (e or saria obbrobrioso), ho decretato di valermi de' giorni che, pochi per avventura, mi restano, a scrivere a consolazione degli ottimi, e a confusione de' più tristi fra' nostri concittadini, e provvedere all'onore mio che unico in terra mi avanza, e mandare ad un tempo le estreine esortazioni all'Italia. Ben vedo che a' begl'ingegni, i quali già tempo notavano ogni mio scritto d'ostentate profetiche tenebre, (5) darà oggi noia questo mio largheggiare di digressioni, di ripetizioni e di frasi, quasi d'uomo in cui predomini la passione. E così è, perchè nella presente mia pellegrinazione, incerto del dove e del come me n'anderò, non ho sollievo se non quest' uno di spassionare l'anima mia di pensieri che ravvolge secretissima da tanti anni. Se non che forse come allora non volevano i begl'ingegni avvedersi che Napoleone vegliava sospettosissimo sovra l'Europa ed io parlava di libertà; così oggi non vorranno essi perdonare la prolissità dello stile all'obbligo mio di provvedere alla necessità del nostro popolo, a cui non solo bisogna spianare assai cose ch'egli per sua sciagura non sa, ma tende l'orecchie avidissime d'udire ripetere le verita ch'ei sente da lungo tempo nel cuore, e non sa, nè s'attenta d'esprimere. Inoltre non ho agio da scrivere breve. Detto così alla rinfusa, avventurando i quinterni uno per uno alla stampa di paese lontano, e raccomandandoli al Cielo che poscia quanto più prestamente li porti ove rechino alcun giovamento; se no, li disperda. Nè altri libri ho potuto condurre in mia compagnia se non il solo della memoria, la quale poi non è tanta che mi richiami al pensiero i miei grandi antichi soli maestri sì vivamente ch' io tenti, come già soleva, di scrivere e compiacere non tanto a' miei tempi, quanto a que' sovrumani intelletti quasi fossero presenti ad udirmi. L'un d'essi che ha rinfacciato con dolorosissimo amore l'Italia, e le predisse vere sciagure, mi dice:

Parla e sii breve ed arguto;
E lascia volger gli anni.

Ma un altro, benchè si fosse epicureo solenne, e insegnasse a non darsi pensiero nè di generose virtù nè di patria, confessa che le pubbliche calamità gli sviavano dalle sue tranquille meditazioni l'ingegno:

Nam neque nos agere haec patriai tempore iniquo
Possumus aequo animo. (6)

Trovo bensì alle volte, strada facendo, il domicilio di un sacerdote, e la consolazione d'una Bibbia. E vi leggo esempi di verace eloquenza, ch'io sento, nè m'attento, nè posso imitarli; e gemendo m'accorgo come le dolenti rampogne di que' profeti, le minaccie contro le sette, i vaticinj del furore d'Iddio, la dispersione de' cittadini in paesi stranieri, la cattività e della nazione insieme e della terra, e delle città, e de' sepolcri e dell'are; l'avere abusato della religione, e di tanti altri beneficj celesti sono tutte sciagure nostre e presenti, registrate in quell'antichissime carte. E il dissimularle a che pro? Domandate all'Europa quale nazione a' dì nostri sia più spregevole dopo gli Ebrei.

VII. Adunque io vi prego, o abitatori delle più nobili e delle più mal fortunate terre del mondo, di considerare nel primo di questi Discorsi la condizione passata del Regno; e vedrete quali accidenti impedissero, quali allor favorissero la nostra politica redenzione. Vedrete che voi foste indotti a perderne la speranza appunto in que' giorni ne' quali pareva che il Cielo vi avesse apparecchiato occasioni di liberarvi. E, per farvi conoscere che se l'evento stava in balia delle sorti, l'onor vostro poteva in que' frangenti essere sostenuto da coloro che vi reggevano, e v'hanno invece lasciati cadere con ignominia, depurerò la breve storia tristissima, in quanto è a me nota, della rovina del Regno. Allegherò fatti o dissimulati, o mal conosciuti da' Senatori, o tronchi, o trasfigurati; i quali, concordandosi a pochissimi fatti dove ad essi è tornato più a conto di non adulterare la verità, proveranno come i compilatori della Memoria Storica hanno artificiosamente mentito.

VIII. Quindi nel Discorso secondo v'accorgerete quanto sia pestifera a' popoli, e segnatamente a voi miseri nello stato in cui siete (e vel descriverò il vostro stato), quest'arte perfida del mentire; e quanto vi riescirà di di in dì micidiale la vecchia italiana consuetudine di mietere e ricoltivare a sole splendido per le piazze e nelle adunanze, nelle vostre case e appiè degli altari le calunnie politiche che certi vostri uomini di Stato, offerentisi ad ogni straniero, vanno seminando di notte; e a chi poi se ne lagna e gli accusa o gl'interroga, il consolano o lo confondono con l'abbominare i calunniatori, e col dire: Non so. E sarò necessitato anche a dire assai parole di me che nulla ho fatto da meritarmi le imputazioni da voi ascoltate e chiosate; e se pochissimo ho fatto in pro vostro, tanto ho scritto a ogni modo, e senza mutare una volta in vent'anni o proponimento, o coraggio, o istituto di vita, o sentenza, che quel tanto v'avrebbe bastato a smentire chi parla invisibile, se voi non foste educati a vivere sempre a orecchie spalancate e occhi chiusi. Bensì oggi mi meriterò giustamente la taccia d'avere intruso alle storie de' tempi il mio nome; ma ov'io, persistendo a sdegnare di discolparmi, mi rimanessi denigrato nell'animo vostro, io non procaccerei fede a' miei detti, e quindi nessun utile a voi. Pur que' fatti tutti miei ed oscurissimi, a' quali darò il sigillo di testimoni viventi (così non di meno che non ne ridonderà mai pericolo in nessun tempo a nessuno; e quanto a' nomi pubblicati da' Senatori tacerò di parecchi, e solo non mi starò a loro stima intorno a coloro che allora operavano per pubblico ufficio), anche i minimi fatti che io proverò intorno a me vi convinceranno che voi, per zelo di opinione, di setta e di municipio, siete carnefici della fama e del cuore de' figli più religiosi d'Italia.

IX. E perchè molti di voi sognate tuttavia liberta, e ad ogni moto di nuova guerra vi precipitate con imprudenti immaginazioni a vane e pericolose speranze, da che voi, finchè non avrete armi e non cambierete costumi, non potrete cambiare se non padroni, riferirò nel Discorso terzo i pareri di alcuni egregi intelletti intorno al sistema politico d'oggi, e all'Italia. — Forse così, col rammemorarvi gli errori passati, col farvi avvertiti de' vostri vizi presenti, col mettervi innanzi agli occhi le vostre probabili aspettative, col disingannarvi della risibile credulità vostra di ottenere libertà da' conquistatori, col palesarvi che a tornar uomini sono indispensabili assai terribili mezzi, che soli (nè sempre) giovarono agli altri popoli; ma sopratutto io col costringervi ad arrossire del livore, de' vituperi scambievoli, de' sospetti inconsiderati, del malignare le generose intenzioni, del presupporre impossibile ogni umana virtù, del cooperare delirando fra' traditori, i quali col tizzone della calunnia rinfiammano nelle città vostre le sette che sole smembrarono le vostre forze, per lasciarle a beneplacito di qualunque straniero, ed oggi pur vi strascinano a straziarvi l'onore, onde siate non che incatenati ma prosternati, perchè essendovi schiavi infami sarete più utili........ insomma io col tagliare nel vivo le vostre cancrene tanto che possiate angosciosamente risentirvene, adempierò, spero, all'assunto mio principale, ed è: il persuadervi che non vi resta partito, o Italiani, di qualunque setta voi siate, se non quest'uno: — Di rispettarvi da voi, affinchè, s'altri v'opprime, non vi disprezzi. — Che se per le mie parole vi riconsiglierete a servire, se non altro, men bassamente, a me non rincrescerà nè di questa fatica di scrivere, nè de' miei pericoli, nè dell'ingratitudine vostra, alla quale già m'avete assuefatto.


Scritto su le rive del Verbano, a' primi d'aprile — 1815. —



 
DISCORSO PRIMO.
 
 
CONSIDERAZIONI GENERALI INTORNO ALLE PARTI, ALLE FAZIONI, E ALLE SETTE
IN ITALIA.

 
 
-- o --

                                                                                                          Obscurentur oculi eorum ne videant:
      et dorsum eorum semper incurva.
PAUL. Ad Roman. c. XI.

A rifare l'Italia bisogna disfare le sette. Potrebbe, se non disfarle, reprimerle il ferro straniero; ma allo straniero gioverà prima istigarle, onde più sempre signoreggiare per mezzo d'esse l'Italia. Risorgerebbe per le nostre armi, se le parole, dopo tante disavventure nate dalle nostre discordie, giovassero (il che non credo) a persuaderci una volta che quantunque l'universale concordia non sia conceduta al genere umano, la natura ha pur suggerito ed ingiunto mille modi di concordia fra' cittadini d'ogni nazione, quasi unica via di temperare le passioni degl'individui, e d'equilibrare le forze de' popoli, onde costringere a guerre meno inique e men ostinate i mortali. Tuttavia mi studierò di mandare a ciascheduna setta, ora un discorso, or più d'uno, a compungerle non foss'altro di questa funestissima ventà: — che, mentre quasi tutti aspiriamo alla Indipendenza, cospiriamo pur tutti alla Schiavitù. — Persuaderò forse taluni a dare generosamente l'esempio all'unione: altri si sentiranno convinti dalle mie esortazioni; ma tanto continueranno a starsi dubbiosi, che tornerà a fuggir l'occasione racquistare la libertà: altri persisteranno nella loro animosità: e a questi intendo io di parlare più severamente che agli altri nel secondo di questi libri, e manifestarli corrottissimi e degni d'essere segregati da noi; non per forza d'esilj o di carcere, ma col marchio del vitupero. Importerà innanzi tratto esplorare i danni delle Sètte, e i ripari probabili nella prima radice dell'umana natura.

Non contradico all'universale opinione che ogni uomo consti di due essenze, una tutta spirituale, l'altra tutta materia; che questa senta le passioni, e quella le regoli per mezzo d'un lume universale del retto, del vero, e del giusto, che, applicato dall'uomo a sè stesso, è chiamato Ragione; applicato agli altri, è chiamato Equità. Alcuni fatti rispondono a questa teoria, ma gli annali del genere umano la contradicono. Vero è che i mortali, quanto più sentono la loro miseria, tanto più si confortano d'una facoltà conceduta ad essi dalla natura; ed è l'immaginazione: onde come gli artefici egregi fanno modelli di bello corporeo, così i filosofi hanno concepita e celebrata l'idea del retto morale e politico: rare ad ogni modo si veggono persone vive somiglianti all'Apollo di Belvedere, e rarissimi, non che popoli, individui capaci della perfezione desiderata.

Quanto più un popolo vi s'accosta, tanto più gli riesce utilissima quella e le altre teorie che celano i vizj, e abbelliscono le umane virtà; quando poi torna a precipitare verso la corruzione, allora ad alcuni bennati le teorie sono stimolo a nobile vita, a sublimi speculazioni, e generosissime imprese; ma alla universalità de' cittadini necessitano rimedi desunti dall'esperienza e, consentiti dalla natura perpetua dell'uomo. Catone fu d'onore a sè; ma di che pro alla repubblica? La sua virtù pareva ostentazione, e fu alle volte derisa; però infruttuosa: non dovea piegare i costumi, bensì l'ingegno alla condizione de' tempi; e, se non fosse temerità il giudicare di tanto uomo, direi ch'egli era più filosofo che cittadino romano; perchè s'ei non avesse inteso a procurare alla patria il bene assoluto, avrebbe per avventura, col valersi dello stato d'allora, potuto procurarle quel più di bene che si poteva. Le cose del mondo corrono a gran torrenti da sè; strascinano chi vuole arrestarle; bensì agli uomini previdenti e fortissimi è dato di innalzare argini e ripari talvolta, in guisa che abbiano corso più tardo: così un fiume ben deviato annaffia, e impedito distrugge i lavori degli uomini. Ma la feroce sapienza di Catone atterriva anche i personaggi virtuosi, chè pur n'erano, e moltissimi, in Roma: nè fu eletto consolo mai, nè ottenne l'armi dell'autorita, senza la quale l'esempio solo della virtù propria non basta. Marco Bruto, patente ed alunno divino di Catone, sacrificò Cesare alla libertà; ma con l'impedire che Antonio e gli altri potenti partigiani della tirannide fossero uccisi, sacrificò Roma alla sua filosofica massima: — Non doversi mai spargere in una repubblica stilla di sangue, fuorchè del solo tiranno. — Antonio poscia e i Triumviri ne sparsero quanto e più che non era bastante a perpetuare la loro tirannide. Non crederò che la grande anima di Bruto si pentisse mai d'avere perdonato la vita ad Antonio; ma non gemeva egli forse della servitù e de' cadaveri sovra i quali i crudeli imitatori del magnanimo Cesare hanno signoreggiato il genere umano?

Alcuni, esaltando principj di perfezione politica, ardono le menti; ma gli animi sono corrotti; quindi ogni tentativo verso l'impossibile prorompe a corruzione maggiore: testimonio la Rivoluzione di Francia. Non tutti i popoli, nè tutti i tempi possono tutto: l'esempio degli Stati Uniti d'America, popolo nuovo, suscitò il desiderio di libertà ne' Francesi, che aveano inveterata depravazione; l'esempio dell'Inghilterra, che tanti anni addietro aveva per più di un secolo patito le stesse carnificine, dovea limitare i loro desideri ad ottenere un Monarca ed una costituzione: ognuno poi vide per quali atrocissimi effetti delle sublimi teorie di libertà e d'eguaglianza il potere assoluto le abbia finalmente distrutte e derise: benchè alle volte chi vuol dominare se ne prevalga e le celebri, perchè, conoscendo impossibile cosa che le riescano, si giova frattanto dell'entusiasmo che destano in tutti i mortali. Oggimai la sventura dovrebbe avere assennate le menti de' Francesi; e lo stato dell'Europa dipende dal loro contegno. Io, se fossi nato a' giorni più felici di Sparta, o di Roma, o della Repubblica di Venezia nel decimo secolo, quando i costumi correggevano la naturale tristizia dell'uomo, avrei predicato le massime di Platone; ma chi parla ad una nazione pari alla nostra, soggetta a' principj politici dell'Europa, è tenuto a consigliarla non secondo le immaginazioni dell'ottimo, bensì secondo lo stato tristissimo in cui giace, e mostrarle quella parte di vero politico che può sollevarla. Nè tutti i propugnatori della perfezione s'acciecano ostinatissimi su la fatale necessità di secondare le innate passioni dell'uomo per ritorcerle a suo vantaggio: anzi l'eloquente illustratore delle dottrine platoniche (e fu il migliore, benchè il men forte de' grandi concittadini di Bruto) confessa che noi non abbiamo se non se l'ombra della Giustizia. Frattanto illudono sè stessi e gli altri, dicendo che la natura ci ha creato innocenti, liberi e benefattori scambievoli, e che la società guasta noi tutti, facendone nemici reciprochi e servi; che però, a tornare migliori, fa d'uopo il ravvicinarsi allo stato più naturale. Ma di grazia, e qual è lo stato dell'uomo che non sia naturale? Altri, con distinzione meno sottile, e con migliori consigli, ma alieni dalla politica, provano come l'uomo serba innata memoria e desiderio della felicità a cui fu creato; ma la sua corruzione, e quindi ogni suo errore e sciagura dipende originalmente non dal volere della natura, bensì dal peccato del primo Padre: e noi, per rivivere nel primo stato, dobbiamo aspirare alla patria donde siamo discesi a lagrimar sulla terra; perchè Dio non sarebbe stato nè sapiente nè giusto se avesse a principio ordinato che l'uomo dovesse vivere immaginando l'ottimo sempre, e con l'assoluta impotenza di conseguirlo. Ma io, adorando la sapienza e la onnipotenza di Dio, e senza arrogarmi di giudicarla, o di bilanciare il meglio ed il peggio di quanto poteva fare o non fare, nè interpretare i suoi fini, mi rassegno ai fatti benchè discordino da' miei desideri, e m' ingegno di osservare le prove perpetue che le cose e gli uomini come stanno mi somministrano; e con l'unico lume dell'esperienza dirigo fra tante tenebre le mie opinioni e quel poco ch'io potrei dire in utilità della patria. E però, prescindendo da' sistemi della filosofia e da' misteri della rivelazione, a me pare che sorga evidente dall'esperienza il seguente principio: — Ogni uomo nasce usurpatore, e s'unisce necessariamente in comunità per procacciarsi maggiori forze o da usurpare o da perpetuare il possedimento di quanto ha usurpato: e quante ha forze, e più tirannicamente ne abusa; e se le perde, cede servilmente all'altrui forza, finchè torni a racquistarle e abusarne. — Intendo non la forza corporea soltanto, ma tutte le facoltà naturali con cui l'uomo supera l'uomo, fra le quali non è men potente l'astuzia. Tutta la mia operetta è fondata sovra questo principio, di cui non fo apologia; bensì del bisogno di palesarlo e delle conseguenze che ne trarrò, e delle applicazioni che andrò facendo alle necessità dell'Italia.

Frattanto, per dimostrarlo innegabilmente, bisognerebbe alla storia del mondo aggiungere l'esame d'un uomo non illuminato da religione veruna, non educato dalla filosofia, non degenerato, per così dire, da lunghi esempi e costumi, non atterrito da leggi; e quantunque sia forse impossibile il ritrovare sì fatto individuo, chiunque ha in sè tanto vigore, e imparzialità, ed abitudine da spiare la radice d'ogni umana passione, e conoscere tutti gli altri in sè stesso, può ad ogni modo discevrarsi nel suo secreto per induzioni ed ipotesi delle idee che gli sono inviscerate nell'animo, e raffigurare alcune rassomiglianze dell'individuo richiesto. A ciò mi sono io pure provato; ed ecco per quale serie di osservazioni mi credo convinto che l'origine della discordia fra gli uomini risieda nella loro natura, e che il legislatore debba secondarla in loro vantaggio, e possa temprarla, ma non estinguerla mai.

Dissi meco: anch' io uomo e debole, quando l'esempio dell'altrui schiavitù mi fe' temere di perdere la mia libertà, quando il sentimento contro l'oppressione comune mi suggeriva di unirmi a chi poteva accrescere le mie forze per respingerla o tollerarla, anch' io invocai l'equità naturale, e la vidi talvolta in mezzo alle famiglie, e tra pochi sventurati che amavano per essere riamati, e tra due amici che si riunivano contro l'avversa fortuna e la indifferenza degli uomini, ed osservai spesso che il bisogno la convertiva in costume: ma gli effetti o danneggiavano gli altri, o non si propagavano; e tolte le cause, non la vidi più.

Accusai il carattere della mia nazione, e cercai l'equità naturale tra gli Inglesi, celebri per stabilità di leggi, per giustizia di tribunali, per prosperità d'arti, per libertà di cittadini; e trovai navi cariche d'uomini negri incatenati, flagellati e condotti da' loro tuguri dell'Africa alla gleba dell'America.

La cercai tra' Negri; e vidi il padre che vendeva i figliuoli.

La cercai in tutta l'Asia; e vidi le mogli, le sorelle, le madri, le figlie serve della gelosa libidine d'un uomo solo; le madri allattavano i loro figliuoli sotto la sferza di un eunuco.

La cercai nelle regioni più lontane dal sole; e vidi in tutta la Russia, e nella Svezia e nella Polonia milioni d'uomini schiavi di pochi patrizj.

Accusai il mio secolo e ricorsi agli antichi, e alla virtù degli Spartani; e vidi gl'Iloti sacrificati come buoi; e i giovani rubavano nell'altrui campo senza rimorso, e con lode se non erano colti; erano bensì puniti se al furto non sapeano associare l'astuzia: e sulle rive dell'Eurota, ove pare che i numi e la giustizia avessero are e lavacri, vidi le madri che affogavano i loro figliuoli.

La cercai al popolo d'Atene che si professava propugnatore della religione e della libertà della Grecia, che fu forse il più ingiusto popolo co' suoi cittadini, ed il più equo e più generoso verso le altre nazioni; e vidi tutti i giovani, appena tocca l'età militare, radunarsi intorno al sepolcro di Cecrope, ed imbracciando lo scudo per cui diventavano cittadini, giurare solennemente, sotto pena d'essere consacrati alle Furie, di considerare per confini della patria tutte le terre che producessero frumento, orzo, viti ed ulivi.

La cercai a' Romani da' quali derivano tutti i codici de' popoli inciviliti; e vidi sui confini della Repubblica scritto parcere subjectis; ma soltanto subjectis; e nelle loro case vidi i padri con arbitrio di carcere e di sangue sul corpo de' figliuoli adulti; e i servi torturati, uccisi, e chiamati animali senza parola, e preda legittima, perchè soggetta alla mano che la pigliò.

Accusai la corrotta civiltà de' sistemi sociali, e cercai l'equità naturale nella isola più selvaggia scoperta da Cook; e vidi l'isola insanguinata da' cadaveri de' suoi abitanti, che si contendeano la terra e la preda abbondantissima a tutti.

La cercai tra le virtù di que' Germani contrapposte da Tacito ai vizi del mondo soggetto a Roma; e vidi due uomini che si giuocavano gli armenti, le armi, i figliuoli, e sè medesimi a' dadi: e dove a' numi non si offerivano armenti, si trucidavano vittime umane.

Cercai finalmente l'uomo in istato di natura; ma forse i filosofi l'avranno veduto fuor di natura, poichè m'avvidi come lo stato dell'uomo fu sempre e contemporaneamente guerriero e sociale. E conobbi assurda la distinzione di natura e di società, quasichè alle arcane leggi della natura immutabile, imperscrutabile, immensa, non fosse soggetta la vacillante ragione dell'uomo, che non sa nè come viva, nè perchè viva, e che s'ei riguarda il sole e i pianeti, l'ampiezza e l'infinità dei mondi, s'accorge quanto è angusta questa sua terra, ch'egli nondimeno non sa misurare senza ingannarsi, e di cui, dopo tanti secoli di curiosità, di calcoli e di fatiche non può conoscere nè l'età, nè le vicissitudini, nè i confini, nè il principio, nè il termine. E dove cercheremo mai la nostra natura, e come potremo almeno in parte conoscerla se non la guardiamo nello stato di società in cui solo possiamo vivere, e da cui non potremo dividerci se non col rinunziare a tutti i piaceri, col sopire tutti i bisogni, col cangiare gli organi del nostro individuo, e perdere, e dimenticare la facoltà del pensiero e della parola, che unisce gli uomini più di tant'altre specie di animali che pur vivono in società; col riformare insomma la nostra essenza intrinseca ed immutabile, quell'essenza che non è opera nostra, quell'ordine, quella sempiterna necessità che sentiamo, ma che non sappiamo definire noi stessi? E odo pure chi dice, come non già della società, ma si tratta di usi, istituzioni, pregiudizi sociali che non sono ordinati dalla natura. Chi vorrà provare sì fatta asserzione dovrà pur dire quali sieno i decreti veri della natura, e costituirsi depositario ed interprete del suo codice positivo, onde persuaderei ch'ei sappia distinguere gli abusi arbitrari dell'uomo. Però primamente ei s'accerti di possedere tal intelletto, che, bench' ei siesi quasi atomo nell'infinità dell'universo, possa non per tanto ravvisare le vere dalle mentite sembianze della natura. Bensì parrebbemi più discreto chi dicesse: tutto quello che esiste è, in natura, e nulla è fuor di natura, perchè il suo grandissimo centro è dappertutto; ma chi può vedere al di là della sua inconcepibile circonferenza? L'uomo tal qual è in società, con ciò che gli uni chiamano vizi, gli altri passioni, gli uni scienza, gli altri ignoranza, è pur l'uomo tal quale fu creato dalla natura; ma dividendo natura da società, e società da usi, pregiudizi ed istituzioni, per conoscere l'uomo, si guarda partitamente ciò che è inseparabile in modo che, diviso nelle sue parti, perderebbe il suo tutto. Così la filosofia divide anima e corpo: ma chi vide anima senza corpo? chi vide vivere corpo senz'anima? Divideteli per ipotesi; ma e come mai coglierete esattissimi i punti di tal divisione? Or quali sono gli attributi di una metà che fugge all'analisi, e quelli dell'altra che separata perde ogni vita? Quindi le tenebre metafisiche e le battaglie da ciechi, appunto perchè non consideriamo le cose in quell'unico stato in cui la natura le riproduce, perchè facciamo astrazioni che stanno nel nostro cervello, il quale, senza conoscere perchè e come pensi, crede ad ogni modo di pensar bene; così si smarrisce anche la cognizione e l'uso di quelle poche verità che l'esperienza continua de' fatti ci potrebbe assai volte somministrare; così si oppongono rimedi spesso più atroci del male, e si tengono per colpevoli gli uomini che ne mostrano la funesta insufficienza. Adunque, veduti i mortali nella storia d'ogni epoca e ne' costumi di qualunque comunità, appare che ogni loro azione deriva dalla inimicizia reciproca, e ogni loro pace dalla stanchezza. Invano la religione, e la santissima fra le altre, esortava il genere umano a lasciarsi giudicare nelle sue liti dalla paterna giustizia d' Iddio. Gli astuti e i potenti hanno abusato di questo divino compenso, ed affilate armi a più feroci discordie; e ne hanno agguerrito l'infinita moltitudine de' violenti e bestiali, gridandole: — Ti sbramerai santamente di sangue! — Così gli Ebrei trucidavano gli Amalaciti; i Turchi trucidavano i Cristiani; i Cristiani trucidavano gli adoratori del sole, e scriveano libri provando che doveano trucidarli; e frattanto i Turchi di Alì trucidavano i Turchi d'Omar; e i Cristiani Cattolici trucidavano, i Cristiani Ugonotti: tutti col libro del diritto divino alla mano. —

Adorai l'arcana sapienza del Cielo. Invano i giurisprudenti celebrarono il diritto delle genti: lo trovai potentissimo nel timore di due nazioni che non ardivano di affrontarsi, o si collegavano contro un'altra più forte; ma, cessata la causa, cessava il vigor del diritto. Non essendovi tribunali, nè profossi, nè patiboli tra' due principi, la forza inframmetteva inappellabilmente la sua sentenza, e la scrivea con la spada, finchè il terrore delle altre nazioni, e il fremito del genere umano contro l'usurpazione non suscitasse nuove forze per abbattere il vincitore. Frattanto i vinti obbedivano; i popoli vittoriosi onoravano il principe che li facea ricchi e temuti, i vicini lo rispettavano, e i lontani e i posteri lo ammiravano. Onde io, abborrendo Nadir-Shah che fe' trucidare in un giorno trecentomila Indiani, e Selim I che fece affogare nel Nilo un esercito di Circassi arresisi alla sua fede, avrei voluto emulare la generosità di Cesare che in Farsalia perdonò al sangue de' cittadini Romani, e la sapienza di Tamerlano che, per mezzo della conquista, vendicò l'Asia delle carnificine di Bajazet: piansi la rovina delle repubbliche greche, rammaricandomi che fosse avvenuta per l'armi del grande Alessandro; ed ammirai tanti regni e l'Egitto da lui conquistati e rinnovati in pochi anni. Conchiusi che la natura opera per mezzo della discordia di tutti i mortali onde agitare, trasformare e far sempre rivivere con moto perpetuo di distruzione e di rigenerazione a certi ricorsi di tempi le cose tutte, [e] gli uomini; che se la concordia fosse legge della natura, sarebbe infrangibile; i giurisprudenti non esorterebbero i principi a mantenerla, e i popoli non si guerreggerebbero mai.

Or tornando alle Sètte, importerà innanzi tratto il dilucidare i vocaboli: la parola è unico stromento di concordia fra gli uomini, quando la sia chiarissima e lealmente adoperata; ed è origine d'atroci dissidi a chi o per ignoranza o per arte ne stravolge il significato e ne abusa.

Questo vocabolo Setta significa, a quanto io lo intendo e lo approprio, stato perpetuo di scissura procurata e mantenuta da un numero d'uomini, i quali, segregandosi da una civile comunità, professano, o pubblicamente o fra loro, opinioni religiose, o morali, o politiche, per adonestare segreti interessi, e sostenerli con azioni contrarie al bene della comunità.

Ma prima di provare che questa difinizione è desunta dalla storia del genere umano, importa assaissimo l'assegnare idee precise a due altri vocaboli, Parte e Fazione, usurpati assai volte invece di Setta.

Parti, in uno stato, sono, a mio credere, due o, tal rara volta, più associazioni d'uomini liberi che hanno opinioni o interessi diversi quanto a' modi particolari di governare la cosa pubblica; ma dove si tratti della salute e della gloria comune, s'accordano sempre con gli avversarj. Roma, da che i popolani, negando di pagare l'usure a' creditori opulenti, si ridussero al Monte Sacro, fu, sino a' giorni dell'uccisione dei Gracchi, divisa in due parti, Plebe e Patrizi; le quali, invigilandosi scambievolmente, e accusandosi, e avendo ciascheduna tutori i suoi Magistrati che le difendevano per forza di leggi, e non preponderando l'una nè l'altra, fuorchè per poco e a vicenda, nè quindi potendo dominare assolute, preservarono per quel lungo spazio di tempo la libertà. Dagli stessi due inconvenienti, della troppa ricchezza di pochi, e della povertà di moltissimi in uno Stato, inevitabili inconvenienti, che nondimeno la politica economica può convertire in pubblica utilita, fu divisa anche Firenze in tre parti: Plebe, Popolo, Grandi. Ed oltre al tenersi di continuo in sospetto, come i Romani, erano invelenite e sedotte a straziare la patria da' pretesti antichi e dagli odi de' Ghibellini e de' Guelfi, due vere sette di cui a suo luogo dirò: aggiungi che s'era da parecchi anni, e per le civili carnificine, e per gli esilii, e per le pesti già estinta, con le famiglie nobili di Toscana, ogni generosa virtù militare; nè i Grandi in Firenze potevano co' trionfi cercare, siccome in Roma, alimento alla loro ambizione, nè i poveri con la lusinga di colonie e di grasso bottino condursi a guerre perpetue e lontane, e svagarsi dalle sommosse. E non per tanto quelle tre parti, l'anno, se ben mi ricorda, MCCCXXXXIII, cacciarono di Firenze il Duca d'Atene, uomo francese, il quale, in grazia delle discordie de' Bianchi e de' Neri (Guelfi e Ghibellini, mutati i nomi), tiranneggiava quella città. Allora e Grandi e Popolani e Plebei non ebbero a cuore fuorchè la patria, e ordinarono tre congiure, senza che l'una parte risapesse dell'altra: in tanto sospetto s'aveano fra loro. Le congiure scoppiarono a un tempo, così che al Duca mancò agio ad armare l'una contro l'altra le parti, e convertirle in fazioni, il che avrebbe forse perpetuato il dominio dello straniero, e anticipato di duecent'anni la servità di quella sacra città.

Ma se è de' miracoli della fortuna che e non si rivelino e maturino e contemporaneamente riescano tre congiure, gli è pur de' miracoli del divino amore di patria che tre Parti, curvate dal giogo, atterrite l'una dall'altra, rinfiammate ne' rancori di due fierissime Sètte, e divezze dal guerreggiare, salvino la repubblica.

Perchè le Parti non possano degenerare in Fazioni, vuolsi primamente che non ritrovino mai la propria se non se nella utilità della patria: poi, che le controversie e le accuse siano liberissime e pubbliche sempre, e difinite da leggi e da tribunali, affinchè le ire si sfoghino, e la calunnia, che attizza più crudelmente i mortali a vendetta, e rode la pietà e l'innocenza e il pudore, e quindi tutti i nodi sociali, torni impotente, e sia tosto vituperata e punita; oltre di che, nelle pubbliche controversie, la nazione e tutto il genere umano danno equa sentenza su le ragioni de' dissidenti, e costringono chi sosteneva il torto a posarsi: vuolsi per terzo che le parti non associno a sè gli eserciti, o il volgo.

I quali tre requisiti parmi si trovino in Inghilterra; nè le parti traligneranno in fazioni, fin tanto che starà mantenitore di quella costituzione l'oceano. Però che in ogni monarchia giusta (ove a mantenerla sono indispensabili i tre ordini Re, Nobili e Cittadini; e alla plebe non bisogna dare fuorchè piena liberta di lavoro, altari, e severissimi giudici), il re tende a usurpare il più d'arbitrio ch'ei può; e i nobili a carpire il più di preponderanza in due modi: l'uno (e riesce a pochi) col farsi ministri al governo in nome del re; l'altro (agevole a tutti) col professarsi propugnatori della pubblica libertà: nel primo caso i pochi potriano abusare, col re, dell'esercito; nel secondo i molti sommovere il volgo; e gli uni e gli altri, per farsi arbitri dello Stato: sta dunque nell'ordine de' cittadini a non far crollare nè di qua nè di là la bilancia. Perchè i grandi, divisi naturalmente in due parti, si cercano per confederato quest'ordine terzo, che è il più vigilante a serbare le leggi e la prosperita della nazione, altrimenti sarebbe schiavo d'una delle due parti; però attende a sovvenire or all'una or all'altra, secondo le vede più deboli. Al che l'ordine de' cittadini riescirebbe impotente, senza l'oceano che spalanca immense vie alla industria di molti uomini nuovi; e questi poi comprano terre a grande prezzo, ed elevano con nobile educazione i loro figliuoli a più alto grado nel mondo, e co' loro capitali si fanno creditori de' nobili e dello Stato: così, mostrando com'abbiano saputo governare le cose loro, sono assunti ad amministrare la cosa pubblica. Ma se i cittadini fossero in generale poveri e inerti, se per caso l'erario non potesse pagare censo nè capitali a tutti quelli che hanno prestato al pubblico il loro avere, e questi non possedessero ricchezza certa di terra, il terz'ordine non potrebbe moderare più omai le due parti, la costituzione non avrebbe per difensori que' soli ch'ella veracemente difende; le parti si ridurrebbero in due fazioni, regia e patrizia: quindi il volgo e gli eserciti, esclusi fino a quel giorno dal diritto di governare, correrebbero volontieri a distruggerlo, e farvi sottentrare la forza.

Il volgo, in ogni terra ed età, ove fra sè e gli antichi padroni nobili delle terre non vegga possente ordine d'uomini opulenti, da' quali abbia pane, e ch'ei tema per la fama del loro ingegno, e per la loro autorita negli uffici della repubblica, imperversa a ogni cenno in favore de' grandi; e gli pare mill'anni che il chiamino mercenario della loro fazione in danno del popolo, che il volgo abborre quasi oppressore immediato, e in danno del monarca, che il volgo non ama, sì perchè troppo è lontano da lui, sì perchè non può prodigargli i soccorsi ch'ei si pretende: e se il volgo non sa combattere, e' sa, quand' abbia aspettativa d' impunità, derubare, incendiare, piantare patiboli su gli altari, credere alle calunnie e predicarle, e giurarle, e tracannarsi il sangue di chiunque ei presuma nemico de' suoi pagatori. D'altra parte, la necessità d'esercito contro le sedizioni induce abuso di dittatura; quindi offesa e difesa atrocissima: e le parti di ministero e d'opposizione si convertirebbero tosto in Fazioni. Sono alcuni nel Parlamento, i quali si pigliano il nome d'indipendenti, non però sono indifferenti, nè li credo tutti imparziali; il nome avrà per avventura tre sensi: uno più onesto, ch'ei vogliano con la loro conciliazione disacerbare gli sdegni delle due parti; l'altro più maligno, ch'ei pendano per la parte più liberale; l'ultimo più discreto, ch'essi abbiano eletto di starsene più quieti col favorire quella sentenza verso cui pendono pin numerosi i suffragi: ma questi indipendenti, sopravvenendo fazioni, dovranno pur obbligarsi a una sola, oppure abdicare la prerogativa d' ingerirsi nei pubblici affari. Questo, quanto a' Patrizj.

E quanto alle usurpazioni del re, potrebbe anche darsi che un principe militare conquistasse all'Inghilterra grandi province nel prossimo continente; e gli eserciti creati per la conquista si terrebbero in armi per non riperderla; i soldati vanno poi dietro a chiunque li sa guidare, nè si danno pensiero della giustizia, ma della vittoria.

Or finchè le ricchezze trascorreranno volubilmente d'una in altra famiglia, e ogni uomo avrà mezzi, purch'ei sappia e voglia, di nudrire e spiegare a propria e comune utilità le forze sue naturali, e ogn'ingegno potrà dire liberissimo il vero, l'ordine de' cittadini sara sì forte da reggere la bilancia, i patrizj non potranno abusare del volgo, nè il principe degli eserciti; e s'ei n'avrà molti armati sul Continente, torneranno disarmati nell'Inghilterra, o non ripasseranno l'Oceano. Queste cose io congetturo da me; non già ch'io mi sappia nè creda che i baroni e il re d' Inghilterra vogliano dominare sopra le leggi; non si tratta ch'uno non voglia, bensì ch'ei non possa: e chi rumina queste materie antivede l'estremo sempre de' mali, e accenna i rimedi probabili. E se v'è chi mi accusi di poco informato delle faccende del popolo inglese, io lo scuso del rendere prove, e mi do per confesso: bensì dico non potersi riordinare l'Italia, se non a monarchia giusta; e gl'inconvenienti possibili a sì fatto governo sono simili da per tutto, e più pericolosi fra noi; però mi sono giovato dell'occasione a svelarli; nè stimo facile ch'altri, quanto alle massime, mi convinca di assurdità; a chi poi sembrino vere, consideri la nostra condizione presente, e le applichi come più gli torna a proposito: bench'e' paia impossibile, tuttavia a me non pare difficile l'avere, quando che sia, cittadini in Italia che s'inframmettano a contenere politicamente i patrizi e la plebe: il dirlo è immaturo.

Ma come le Parti si pervertano presto in Fazioni, si vedrà meglio ne' fatti avvenuti che negli avvenire. Adunque ripiglierò, dove la ho dinanzi lasciata, la storia più luminosa a' mortali. Spenti i Gracchi, il Senato per propria difesa accresceva arbitrio a' Consoli che aveano in lor potere gli eserciti; d'altra parte i Tribuni, sovvertitori a lor grado di tutta la plebe, favoreggiavano il popolo. Nè l'evidenza della ragione o l'autorità delle leggi patrocinavano allora mai le due parti; ma le passioni de' Magistrati e la rissa. Degenerarono dunque in Fazioni, le quali, dopo molto guerreggiarsi con poco danno, hanno pur dovuto, poichè volevano sterminarsi, concedere la repubblica alla spada di Silla e di Mario. E tutti due, immergendola nel sangue di mille cittadini alla volta, e affettando l'uno d'ampliare l'autorità del Senato, l'altro di preservare i diritti della plebe, sedevano, ciascheduno alla sua volta, tiranni. Se non che, oltre all'abborrimento della tirannide e alla virtù che pur viveva ancora in quella città, l'assoluta dominazione non poteva essere pacifica, quando è natura d' ogni fazione il non posare se, non nell'universale servaggio,. ch'essa, per propria stanchezza e per la corruzione di tutte leggi e costumi, inevitabilmente produce. Ma fin che ha forze, le irrita a struggere e struggersi: e se chi la guida non le compiace, il rimuta; né patisce ch'ei sia principe dello stato, s'ei non è insieme carnefice della contraria Fazione. Nè Mario si appagò del solo esercito o della plebe: trovò un terzo espediente, affratellando esercito e plebe. De' vari modi a creare fazioni allegherò memorie utili a sapersi e a fuggirsi, ricavate dagli uomini de' tempi antichi e de' nostri.

Sparta domò l'Attica, nè la conquistò, da che con istituto contrario al romano vinceva senza ampliarsi, non solo per non guastare co' forastieri costumi anche i suoi, ma per non trovarsi, onde mantenere poi le conquiste, obbligata a conferire la disciplina de' propri eserciti agli altri Greci; i quali si sarebbero a un tempo disingannati, nè le avrebbero prestato le loro forze al predominio ch'ella pur s'acquistò, professando di tutelare contro agli Ateniesi la patria comune de' Greci. Ma Sparta, serbando, quanto più lungamente è dato a mortali, le antiche instituzioni e virtù in casa sua, scatenava nelle altre repubbliche, col desiderio di novità, la licenza d'ogni triste umana passione, così che le dovessero immiserire da sè. Lisandro, se non fu il primo, fu al certo il più famoso maestro di nudrire i pessimi costumi, e le fazioni, e le sette ne' popoli; arte potente anche a' dì nostri, anzi, a quanto pare, adoperata da' ministri di un popolo liberale e straniero alla Spagna e all'Italia; arte che potrebbe un dì o l'altro disfare la confederazione sacra delle Repubbliche Svizzere. Lisandro adunque disarmò Atene; e, sotto colore di temperare la troppa democrazia, non la rivocò alle antiche sue leggi, bensì a tal quale ombra insidiosa di oligarchia Lacedemone: e consegnò la repubblica a trenta de' principali d'Atene. Così i Trenta Tiranni pervertirono il volgo contro a' cittadini di mezzo; e mani ateniesi, nell'età di Socrate, di Teramene, di Platone, di Senofonte e d'altri celesti esempi di virtù su la terra, conducevano gli uomini giusti e gli schietti amatori della patria alla morte. Si spensero i Trenta; Atene non si riebbe.

Le Fazioni, sostenute da ferocia di plebe senza nerbo d'esercito, preparano i popoli a chiamare un oppressore straniero. Dentro ebbero gli Ateniesi indi in poi la signoria venale de' loro oratori, fin che venne a comperarli Filippo. Così la guerra del Peloponeso ebbe principio dall'ingiusto eroismo di Pericle e de' suoi concittadini; e crudele progresso dalla stoltezza delle greche città; e iniquo fine dagli Spartani, i quali se, come dovevano, avessero preservate le armi e le leggi delle greche repubbliche, anzichè abbandonarle a fazioni cittadinesche industriosamente corrotte, non avrebbero avvalorato la politica di Filippo, che potè impunemente poscia contaminare fin anche la religione de' giuramenti; e Sparta piegò con tutta la Grecia sotto a' Macedoni.

Or ecco un esempio di fazioni, le quali, aiutate dalla nazione, sbranano la nazione, mentre gli eserciti la difendono. Esprime assai propriamente il latino Horror quel senso di terribile stupore dal quale l'uomo è sopraffatto nel considerare le stragi della Rivoluzione di Francia, e non sa ascriverle a un popolo che pur ha ingegno più di molti altri, e viscere umane quant'altri, e tanto valore che strinse l'Europa a domandargli la pace. E benchè molti siano stati testimoni oculari, non potevano a ogni modo discernere come così agevolmente nascessero dalla sola Fazione Repubblicana, e si sterminassero in pochi anni a vicenda tante fazioni; come il popolo da esse tutte contro la fazione regia ammaestrato, sollecitato e difeso, potesse dar loro armi e furore a distruggersi: finalmente come l'esercito patisse tanta civile carnificina, alla quale non pose mano. A me una serie perpetua di medesimi avvenimenti, seguiti in quel tempo, scoprì, a quanto presumo, il secreto ed il mezzo di questo fenomeno; e bastano a manifestarli tre voci: Plebe; Terrore; Calunnia. Chi riandasse i gazzettieri parigini dall'anno della Assemblea Legislativa fino all'anno della costituzione del Direttorio, vedrebbe da que' documenti di fatti quotidiani, fra le tenebre di tante passioni ed errori e menzogne, trasparire le prove del mio parere, ed accertarsene con l'istituire, come ho fatto alle volte, tre perpetue tabelle di mese in mese, delle quali ecco il trasunto.

Una tabella è di cittadini d'età militare che correano agli eserciti, parte per evitare i pericoli delle Fazioni e mettere a rischio, con patti più generosi e più utili alla patria, la vita; parte per avidità di nome e di gradi, e per amore di libertà, nobilissimo e ardente, sebbene inconsiderato amore ne' giovani: e le vittorie di quegli eserciti contro a tanti monarchi d'Europa atterrivano in Francia la fazione del re; e propagavano l'entusiasmo per la repubblica; coloro a' quali la rivoluzione incresceva, trovavano pure compenso nella gloria militare de' loro concittadini; e quanto più i monarchi insistevano a guerreggiare, tanto più ingrossavano gli eserciti francesi; e non solo gli agguerrivano a vincere, ma richiamavano molti dalle Fazioni intestine a' confini, ad unirsi in un solo volere per la repubblica. Così gli uomini che governavano la nazione, avendo occasioni di vigilare con ogni mezzo alla comune difesa, trovavano pretesti a pervertirla a loro posta; e i mezzi furono di ridurre il popolo in plebe.

Quindi esce la seconda tabella piena di cittadini e loro mogli e figliuoli decapitati, affogati ne' fiumi, trucidati a migliaia sotto il cannone con la miccia allumata dal manigoldo. Vidi un foglio in Parigi, scritto (per testimonio di personaggio a cui presto fede) di mano di Robespierre; nel quale tutte le cose ivi notate da farsi, si poteano ristringere in questo sommario: — A stabilire repubblica s'hanno da sterminare i cittadini agiati, les bourgeois; convertire le città di Francia in capanne; e tutto il popolo in agricoltori e soldati. —

Finalmente una tabella di nomi famosi, capi o satelliti principali delle Fazioni, dalla quale i lettori avveduti possono agevolmente vaticinate quale fazione sarebbe caduta, e quale avrebbe fra due o tre settimane predominato. Ma tra la fazione Ateniese senza esercito e questa di Francia, che pur n'aveva di potenti, ci corre quanto agli effetti sommo divario: la prima avvezza il popolo alla ferocia, al terrore e alla vendetta reciproca e alla comune vilta, nè avendo forza propria da trovar quiete, si lascia in preda d'ogni straniero. Al contrario dove un esercito che guerreggia di fuori chiama a sè molti de' partigiani delle fazioni'e de' cittadini innocenti, gli uni vi sfogano la loro ferocia, ma gli altri mettono a rischio con patti e speranze più generose e più utili alla repubblica la loro vita. Però l'esercito finalmente diventa signore delle fazioni, e chi ha riportate più illustri vittorie diventa principe dello Stato, e se il popolo non è civilmente libero, diviene a ogni modo politicamente indipendente. E quasi nel tempo stesso nella Persia, ove è penuria d'oratori e abbondanza di guerrieri, si vide come tutte le fazioni, e le furono innumerabili, di capitani contendentisi il trono, dal primo sino al penultimo decennio del secolo decorso, le non operavano se non a viso aperto: ardevano città, decapitavano famiglie e tribù, ma sempre col diritto della vittoria. La parte della nazione che non era chiamata da' capi sotto le insegne tollerava pacifica, finchè venisse la sua volta di guerreggiare e fare agli inermi i danni che aveva patito: ogni uomo in quelle regioni è ad ora ad ora o schiavo inoperoso, o guerriero. Ma i Romani, generati tutti quanti soldati, avevano con la loro antica sapienza proibito l'armi della milizia alla moltitudine de' loro schiavi domestici e all'ultima plebe; Mario gli arruolò, e, innestando in essi la ferocia marziale di fortissimi eserciti, diede e provocò tali esempi di fazione a' Romani, che tutti i mortali,. non che ricordarsene, dovessero risentirne per parecchie centinaia d'anni gli effetti. Le guerre esterne d'allora tolsero tempo, non animo, alle fazioni. Pompeo, al parere di Tacito occultior, non melior, sottentrò a Silla, e Cesare avverò il vaticinio di Silla, e moltiplicò più Marii in sé stesso.D'indi in poi gli eserciti furono de' privati; le ultime armi pubbliche condotte da Marco Bruto, che di Pompeiane le fece romane, rimasero disperse a Filippi. Allora Augusto, giovatosi dell'universale stanchezza, chiuse, le porte di Giano per divezzare il popolo dalla guerra, e i discendenti di tanti trionfatori dalla vittoria, e le legioni ch'avea nelle mani se le tenne, e fondò un governo in nome repubblicano, ma tutto militare nei fatti.

Così mi parve che per via di storia si potesse dimostrare il principio. Quanto alll'esame ch' io dissi dianzi, dell'uomo in sè stesso, altri lo istituisca secondo il suo ingegno. Ma noi, anzichè insorgere e unire le tendenze guerriere che hanno tutti i mortali, e rivolgerle con generosità militare contro ogni straniero, noi esercitiamo le umane passioni contro di noi; crediamo sia che l'ozio sia pace. — Le sètte amano l'ozio scioperatissimo, e gridano pace; tendono a divorarsi fra loro, e ridomandano sempre il ferro dello straniero: e se alcune sette bramano o mostrano di bramare la pubblica libertà, vorrebbero sovrastare sole sugli altri. Ma il ferro straniero non potrà disfarle; nè le reprimerà se non quando le avra tutte avvilite; frattanto le istigherà a desolare per mezzo di esse l'Italia.



 
DISCORSO SECONDO.
 
 
CONSIDERAZIONI GENERALI INTORNO ALLE CONDIZIONI DEL REGNO D'ITALIA.
 
 
-- o --

                                                                                                          Væ Civitas! universa mendaci dilace-
   ratione   plena:   non   recedet   a   te
   rapina.
Proph HAHUM, III.                

Vengo a toccare di quella parte del mio argomento, la quale, dalla perplessità con che la incomincio, antivedo che risibile, e forse tediosa, riescirà a chi ci ascolta, e molto più a' forestieri, perch'io non dovrò parlare, pur troppo, che di voi soli, Senatori scrittori, e unicamente pur troppo di [me]. Ma se non mi fosse conteso il nominare chiunque fu meco partecipe d'ogni rischio, e sostenitore sin all'estremo d'ogni consiglio per la pubblica libertà, manifesterei nomi e virtù che giustificherebbero la natura umana e la infelicissima Italia e il mio scritto. Ma poichè mi sono noti non citerò fatti senza testimonianza di nomi, nè nomi con mio disonore, e con pericolo de' più cari fra' miei concittadini, e più miseri, da che, se Iddio non ha pietà dell'Italia, dovranno soffocare nel loro petto il desiderio di libertà, funestissimo! perchè è inestinguibile, e strugge o addolora tutta la vita; ben prego ogni uomo equo e discreto, presso a cui le mie discolpe impetrassero alcuna stima per me, di desumere quanto più di stima sien meritevoli gl'Italiani ch'io tacerò, i quali, agguagliandomi nell'amare generosamente la patria, l'hanno (benchè vanamente essi pure) soccorsa assai più di me; nè in ciò solo mi avanzano, ma in molti altri meriti; nè mi rincresce.

Io dunque, e per non più mai soggiacere alla giustissima taccia di volere intrudere alle storie de' tempi il mio nome, appena noto a pochi mortali, e per necessitarvi, o Senatori scrittori, a uscire d'ogni speranza di travisare più oltre la verità, ho giudicato efficacissimo espediente il dibattere le nostre controversie in tal guisa, che da narrazioni attestate, benchè assai poco importanti, e dalle dirette lor conseguenze si snudino i principj vostri politici e i miei, così che (e questo importa assaissimo) chiunque studia l'umano cuore, e si piglia pensiero d'essere giusto, possa discernere schietti in voi i caratteri de' magistrati cortigiani, in me il carattere de' cittadini italiani; e quindi paragonarli, e con assoluta certezza d'animo giudicare chi di noi abbia ad essere o più stimato, o più disprezzato. Allora, quand'anche voi, compiacendovi di queste non virili battaglie d'inchiostro, tornaste più agguerriti a sfidarmi, io potrò, serbando l'alterigia della mia pura coscienza e la modestia conveniente alla oscura mia vita, scansarvi sdegnosamente, e non proferire se non le parole dell'antico poeta, all'Italia:

Giudica tu, che me conosci e loro.
                          PETRARCA

Ma non mi terrete, spero, di sensi sì abbietti da spiare i vostri umani difetti, e, per convincere di nullità e di bassezza il Senato, e un libro di falsità, propalare i viziosi costumi degl'individui: accuse inique e maligne, quand'anche la vita de' più incorrotti è necessariamente tessuta di vizj e virtù. Inoltre le sono accuse astruse a provarsi, e nondimeno facili a credersi, inutili a risapersi, obbrobriose a chiunque le semina, velenosamente contagiosissime al cuore di chi ne gode e infallibile indizio dello scioglimento d'ogni sacro nodo sociale, consistente non solo nell'abborrimento a' delitti, ma ben anche nella compassione indulgente de' falli, nel pudore a non costituirsi calunniatore e maligno, e nella fiducia dell'altrui probità.

Ma che mai non ha ella corrotto in Italia sì fatta peste della Calunnia, e più che altrove in Milano? Città accanita di Sétte, le quali, intendendo sempre a guadagni di servili preminenze e di lucro, hanno per arte imparato di esagerare le colpe e dissimulare le doti degli avversarj; — e a che tribunali? alla credulità della plebe, o alla diffidenza d'ogni nuovo dominatore. Lasciate, o monarchi, se ambite ad avere più servi che cittadini, lasciate patente in Italia l'arena de' reciprochi vituperi, ma precludete a tutto potere ogni via da illuminare l'opinione del popolo; e non concedete codici e giudici contro a' libelli.

Il fondatore del Regno d'Italia, solenne artefice d'originale tirannide sapientissima, alla gloria di sublime Capitano e di potentissimo fra Monarchi aggiunse quella d'incettatore universale delle gazzette; e per esse ei notava sommariamente d'infamia tutti quegli uomini ch'ei non degnava, o non ardiva, d'opprimere sotto la scure. (8) Il popolo geme del sangue, e gode dell'altrui vituperio; e perde intanto, senz'avvedersi, i migliori suoi cittadini. Io tratto altre arti, e non mi so tale da impieghi e compensi, nè da essere inpunemente infamato; chè se il più potente degli uomini si spogliasse, con l'usare di quest'arte turpissima, della sua dignità concedutagli dalla fortuna io m'armerei sempre più della dignità d'uomo concedutami dalla natura, e saprei quindi trovare la più magnanima e più sicura fra le vendette — Voi, Senatori, nominandomi a dito tacitamente, mi avete descritto per quell'uomo letterato, fuoruscito, il quale, mentr'era pasciuto da' ministri del Principe, sovvertiva, ingratissimo, ad alte grida il popolaccio a' tumulti. — « Chi scrisse non intendeva di te ». — Or pregovi, Senatori, lasciamo andare per ora, e ascoltatemi tanto ch'io mi provi di atterrare un riparo di cui, nello scrivere il vostro libro, vi siete già premuniti con diplomatico stratagemma; usato troppo, e però scoperto da tutti, ma tale che, s'io vel lasciassi, ogni mia ragione a combattervi potrebbe per avventura sembrare sì assurda, da provocare d'altra parte le risa contro di me. E benchè a voi forse parrà ch'io tenti, temporeggiando, d'esimermi dall'assunto audacissimo di descrivervi anch'io alla mia volta, e trionfare incolpabile sulla vostra viltà, non vi rincresca a ogni modo di considerare il presente paragrafo che solo contiene la digressione, e scorgerete forse alcun tratto il quale vi aiuterà a penetrare l'indole occulta di quegli uomini di Stato, a nessuno secondi, che voi vi vantate d'essere, (9) e siete.

Dico dunque, che voi, col pubblicare il libercolo senza nome di autore, vi siete, a vostro credere, fronteggiati di tal riparo, starvi, quand'uno uscisse ad affrontarvi, appiattati, e confonderlo peggiormente intimandogli a provare che il libro sia opera vostra; se no, gli darete dell'impostore.

Finchè a me bastava il provare che la vostre imprese per la salute e la gloria d'Italia furono infedelmente narrate, e non importava da chi, m'è piaciuto di non invidiare a voi, Senatori scrittori, questa speranza di appellarvi alla sciocca turba de' creduli onde riassalirmi per essi a man salva; m' è piaciuto di lasciare non ad altri che voi, miseri, quest'inganno, che, essendosi rivelata la vergognosa nudità del Senato, si potessero star nascosti a ogni modo coloro che n'aveano cantato l'elogio; e vi bastasse allegare che l'apologia de' Senatori, non avendo nome d'autore, non si può ascriverla a' Senatori. Or uscite d'inganno. Sì fatta astuzia non v' è giovata se non se a manifestarvi codardi, perfidi e stolti. Negherete esser tali. E certo, della codardia voi non potrete avvedervene; certo ignorate, che chiunque saetta e s'asconde si confessa crudele insieme e codardo; certo voi non vi sentite sfolgorare su l'anima quella divina sentenza: Dalla crudeltà del codardo germogliano tutte le iniquità. La natura ha dotati, chi più e chi meno, i suoi figli di sciagurate passioni; e colui che ne ha più degli altri, e, non che poterle reprimere, s'è trovato in tali circostanze di vita da esercitarle e rinvigorirle, sì fatto uomo, pari a serpente, non s'accorge altrimenti d'essere velenoso: e' pare, pur troppo, che la natura, senza ch'ei ci ponga studio, gl'insegni a combattere con l'armi di cui essa lo ha premunito, e schernire insieme, come inutili, l'armi più generose ch'ei non potrebbe trattare, e paventarle nell'altrui mano. — Sì: ma usate delle vostr'armi solo a difendervi; perchè la stessa natura, con legge più provvida e universale, ha ordinato e, dato il potere e l'autorità a' mortali più coraggiosi di scovarvi ne' vostri covili, e punirvi ogni qualvolta voi gli assaliste ad offenderli, affinchè altri possa guardarsi da voi e dividervi per sempre dalla comunità de' cittadini, e non con le inquisizioni, nè le carceri, nè la scure, ma col marchio del giustissimo vitupero; da che certa generosità d'animo non si può dimostrare se non a chiunque la sente. Or, come, essendo codardi, non vi sappiate o non vi crediate colpevoli di codardia; e sia pur anche che, adoperando di necessita quel veleno che v'è naturale, io non possa discretamente pretendere che sentiate d'essere perfidi; ma che voi non vogliate confessare d'essere stoltamente scaltri, io non potrò mai, Senatori scrittori, assentirvelo, se non quando confesserete d'essere stupidamente maligni. Perchè io, a mio potere, mi studio della proprietà de' vocaboli, i quali, usati con diligenza di scelta, sono unico stromento di distinguere il vero ed il falso fra gli uomini; e trovo dalla stupidità di cui parlo, alla stoltezza vostra il divario che la prima non si cura di sè, nè d'altri, nè ha facoltà di discernere il retto o il torto, nè la necessità del ben fare, nè l'infamia e i pericoli del mal fare, e opera secondo il piacere istantaneo; non vede il ieri, nè il domani; pensa all'oggi, così alla ventura: ma lo stolto conosce il fine a cui tende, e benchè a lui non importi il danno che reca agli altr'uomini, vede a ogni modo chiarissimo tutto il vantaggio, solo s'inganna ne' mezzi.

Ma perchè tendendo a celarvi avete senz'avvedervene suggerito voi stessi nel principio del libricciuolo una prova patente aritmetica da dimostrare che il libro fu scritto da uno o più Senatori, non vi rincresca ch'io ritenga insieme per dimostrato che la vostra astuzia fu stolida. Perché non potete negare d'avere assegnato per artefice del libello un illustre personaggio, e gl'illustri personaggi nostri essendo pochissimi, d'avere necessariamente, additando alcuni individui e non nominandone alcuno acciocchè non vi potesse smentire, di avere distribuito sovr'essi tutti l'infamia meritata da voi.

Ma chi gli ha poi dati que' documenti? Chi i Decreti del Senato? Chi le Commissioni del Duca di Lodi? Chi la Lettera al principe di Metternich? Carte tutte fidate a' due Senatori deputati all'esercito de' Monarchi alleati, e tutte da voi pubblicate? — Se ne poteva forse aver copia. — Ma, e la Memoria del Senatore Guicciardi alla Reggenza, e la Lettera della Reggenza al Guicciardi, inutili alla storia e al Senato, personali, domestiche, chi glie le ha potute rapire di mano, e pubblicarle senza il suo assenso? E dove? in un libro scritto per l'appunto in encomio di que' due Senatori, e del Guicciardi segnatamente. E chi mai per lodarli si sarebbe assunta la fatica di scrivere, e la spesa e la noia dello stampare? E il rossore della bugia? E il rimorso della calunnia, che fin anche ne' malignissimi non può essere compensato se non dal piacere della vendetta? Chi, per amor vostro, il pericolo di provocare contro di sè la vendetta di tanti e ricchi e potenti e eloquenti imputati d'ogni partito, pericolo inevitabile? La carta, i caratteri, l'aspetto dell'edizione danno indizi a trovare orme a scoprire gli autori: il promulgare, il rivendere, il leggere, il veder solamente, il dire d'avere veduto, l'imprudenza o la poca fede degli operai, spiano poscia il sentiero a chi s'è ostinato di ritrovare l'origine di un libro stampato. E s'uno manda o viaggia in paese straniero a procurare l'edizione, può egli avvenire che molti non possano correre a ricercare l'autore? A smascherare chi gli ha infamati? Quando quest'uno, per altro, non fosse stato pagato; e in quel caso l'autore è stromento dell'altrui malignità; e se vi piacesse allegar questo caso, non vel contendo, perch'io potrò aver nuove ragioni per disprezzarvi, benchè n'ho troppe. Bisognerebbe che la natura, a cui certo nessun mortale può circoserivere la possibilità, si fosse compiaciuta di creare solamente (?) a' dì nostri un tale animale umano che, senz'essere da voi nè ammaestrato nè aiutato, nè pagato, compilasse una storia nella quale, tacendo le cose importanti, corredandola di menzogne e di assurdità e di motteggi, documentandola di carte possedute solamente da voi, dissimulando le vostre stoltezze, lodandovi di cose per cui meritate d'essere biasimati, sfidasse per amor vostro i pericoli.... Qui vi par egli ch' io abbia desunto alquanti corollari dalla dimostrazione che la vostra astuzia fu stolida? e perfida, perchè insieme avete dato occasione che gli offesi incolpevoli e i sospetti e l'odio e la vendetta della plebe che ancor.... abbominassero e i libellisti e il libello. Molti infatti a principio furono nominati; ma poscia o tanti indizi, o alcuna certezza, o piuttosto quel retto giudizio che i più grandi ingegni osservarono già nel giudizio del popolo allorchè ei lo pronunzia sovra fatti da lui veduti o persone da lui ben conosciute, certo è che, assolvendo ogni altro uomo, il libello fu ed è definitivamente ascritto a due Senatori. Altri li nomini. Io no, perchè reputo che a rivelar chiunque vuol tenersi celato conviene o domandargliene prima l'assenso — e voi direte “ non mi son io ” — o violare il secreto che lo scrittore, fidando nell'altrui probità, raccomanda tacitamente a' lettori. E quanto più m'avete offeso, tanto più stimo riverenza verso me stesso a non violare la mia massima. Questo bensì voglio che sappiate, ch'io vi conosco, che so non solo chi ha dato la materia e chi la forma al libello; che come pochi di voi.....

[III (sez. II, parte I, c. 5 dell”inserto I)]

Che se il non volervi confessare per autori del libro v'ha nulla o pochissimo suffragato, da che voi stessi avete somministrate l'armi a convincervi, pochissimo o nulla vi suffragherà, uomini scaltri insieme e stoltissimi, l'opposizione seconda di cui vi siete già premuniti col dirmi: E chi mai fra' mortali è sì astuto che, per quanto celatamente saetti la calunnia sugli uomini giusti, sappia precludere l'adito alla verità in guisa che ei non sia presto o tardi punito, non foss'altro dalla pubblica esecrazione? Che se vi siete voi fidati ne' tempi ne' quali è vietato fin anche il parlare per iscolparsi; se l'esperienza del cuore umano vi ha dato certa speranza che molti godono dell'altrui vitupero, non avete a un tempo pensato che nel silenzio degli offesi, nel riso passeggiero degli invidiosi, le viscere de' molti mortali frementi alla vista del giusto sacrificato tanto più abborrono l'oppressore, quanto più veggono tolta ogni giustificazione all'oppresso? ...

[IV (sez. II, parte V, inserto I, cc. 2-3)]

Insormontabile a vostro credere avete, col pubblicare il libercolo senza autore, alzato un riparo, e quivi appiattati, affinch'altri oda e non vegga, esclamate: Date prove innegabili che l'apologia de' Senatori sia compilata da' Senatori. Ma chi (se l'animosità non v'ha miserabilmente, come avviene spesso a' mortali, condotti ad essere scaltri insieme e stoltissimi) chi mai per difendere voi si sarebbe assunta la fatica di scrivere, e la spesa e la noia di stampare in paese lontano, e la vergogna di mentire (e quanto chi scrisse ha mentito ad arte, io promisi già di provarvelo), inoltre il rimorso della calunnia che in certi animi non può essere compensato se non dal piacere della vendetta? Aggiungete il pericolo, divino freno anche a' tristi, il pericolo di provocare contro di sè la vendetta degl'imputati e di non poterla evitare, da che, per quanto uno ferisca invisibilmente, non si dà astuzia umana nè forza così efficace che precluda ogni adito alla difesa degl'innocenti, quando il non trovar mai l'offensore [per] smentirlo convalida il disonore, e il tempo, anzichè risaldarla, esacerba con perpetuo dolore la piaga. Chi;. ravvedetevi o Senatori, chi se non uomini acciecati dalla passione.... [ segue nel ms. uno spazio bianco di un rigo e mezzo ] d'illudere alcuni lettori stranieri, chi se non voi, poteva assumere la vostra difesa e difendervi offendendo villanamente, perfidamente i vostri avversari, e scrivere con tanta animosità di politica, senza non solo attenersi a verun partito politico, a nessun ragionamento, ma senza concludere nulla, e lasciando le cose nella medesima oscurità, da questo in fuori, che voi, Senatori, [otteneste] meritamente di essere espulsi a furor di popolo dal Senato?

DISCORSO II.

I. Volendo ad ogni modo parlare de' fatti nostri s'aveva a mirare non tanto al passato quanto al futuro. — II. Idea d'un libro intorno al Regno d'Italia; — III. benchè le ragioni de' libri non giovino alla liberazione de' popoli senza i fatti dell'armi.


Sederunt Principes et adversum nos loquebantur:
Servi autem exercebantur in iustificationibus.

Psalm. CXVIII, v. 23.


Non si presumeva che voi, Senatori, foste consapevoli della ragione accennata, nè che aveste a cuore i nostri amici prigioni. Onde, se vi pareva a ogni modo d'attenuare il rimprovero col raccontare le cagioni della nostra sciagura innanzi che l'animosità di tante fazioni e la fretta degli scrittori venali e la credulità di molti lettori preoccupassero l'adito al vero, parmi che avreste dovuto parlare con più accorgimento e con dignità; oltre di che la miseria de' fatti nei quali voi pure foste colpevoli, e la poca utilità dello scritto volevano essere nobilitate da una magnanima confessione e dalla generosità dell'intento.

Se non che in voi, Senatori, la dignità stava pur troppo tutta quanta nel titolo del vostro grado, e gli accorgimenti non attendevano che a serbarvelo, tracannando la patria alla salute del Re.

Era ed è una setta numerosissima fra le tante che abbiamo, alla quale un dì parlerò, ma con più discrezione che a voi; e la somma di quel mio discorso stara nel testo: Scio opera tua; sed quia tepidus es, et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo. (10) Perchè questa setta è contenta dell'onore di bramare a viso aperto l'indipendenza, e lascia ad altri il pensiero e i pericoli di affrettarla, e per giunta si lusinga d' impetrarla, quando che sia, dalla commiserazione delle altre nazioni. Però costoro a una voce esortavano che taluno di voi, Senatori, dimenticandosi, e facendo con generoso ravvedimento dimenticare, d'essere stato vostro collega, si pigliasse l'impresa di perorare per la misera Italia. E, a dir vero, nell'ordine vostro, composto di patrizi, e mercatanti, e plebei, e poveri, ed opulenti, e cortigiani, e scienziati, e idioti, e miscredenti, e divoti, ed ipocriti, e quasi tutti ignotissimi al mondo, si può, per vostra e nostra sventura, distinguère alcuni intendenti delle cose, di Stato, e attissimi a scrivere, e agiati; a quali l'egregia fama acquistata meritamente da' loro studi aveva apparecchiate le menti a prestar fede alle lor narrazioni, come di personaggi allettati dalla fortuna o costretti dalla prudenza, ma poi dall'esperienza avvertiti a non darsi perdutamente al costume di lasciar il cuore, l'ingegno, i concittadini e fin anche la propria celebrità a beneplacito di chi meglio un'altra volta gli avesse atterriti o pagati. Anzi s'andava ridicendo all'orecchio (nè fui sì beato ch'io m'illudessi di tanta promessa) come appunto uno di questi pochi meditasse di spatriare a cercarsi indipendenza di vita, e quiete di studi, e libertà di dir l'animo suo, con proponimento di scolpare la propria nazione, e con la storia de' fatti mostrarla più meritevole di pietà che di derisione alle genti: e, dove bastasse a noi la pietà, non crederei malagevole la discolpa. — Servus autem exercebatur in iustificationibus. — Io, invece, quando avessi avuto ingegno e sapere (benchè la religione verso la patria e la verità avrebbero, spero, tanto quanto supplito), e mi fossi tolto a comporre un libro intorno all'Italia, avrei a parte a parte considerato lo stato del nostro Regno, per desumere dagli avvenimenti le cause della sua trista rovina, e, riservando per gli indovini quelle pochissime dipendenti dagli inesplicabili decreti del caso, avrei principalmente notomizzato le cause originate dagli errori di chi governava, e da' nostri. Così forse potrebbero i miei concittadini evitarli, se mai le sorti riunissero o tutte o mezze o, non fosse altro, una parte delle terre d'Italia.

Il libro dovea, a quanto parmi, persuadere all'Europa:

1. Che v'era un Regno abitato da quasi sei milioni d'Italiani, ove, senza pregiudizio dell'agricoltura, sessanta mila giovani ogni anno, tuttochè abbiano guerreggiato come ausiliari, hanno saputo convincere i popoli che se mai fosse loro conceduto di difendere veracemente l'onore, la libertà e la patria, avrebbero combattuto sino alla vittoria contro i vinti (sic), ma che vinti avrebbero combattuto sino alla morte.

2. Che la santa massima di attrarre all'erario una porzione del denaro de' possessori delle terre e de' cittadini industriosi, per diffonderlo contemporaneamente a tutti gli individui della nazione, onde moltiplicare in più somme, con la prestissima circolazione della moneta e del tempo, quell'unica somma attratta e versata, e rieccitare così l'industria degli uomini, e il prezzo delle terre e delle derrate, e quindi il lavoro e le facilità de' matrimoni e delle prosapie (?); siffatta massima era universalmente, vigorosamente, prontissimamente, istantaneamente quasi tutte le ore, applicata; solo bastava che l'esazioni, più discrete nella quantità e men aspre ne' modi, avessero con l'equità temperato la legge.

3. Che le tre cose essenziali, di parecchi milioni d'Italiani riuniti, di esercito ragionevolmente numeroso e virilmente agguerrito, e di pubblica economia sapientemente instituita, aggiuntovi il desiderio d'indipendenza, che queste tre circostanze destavano in tutti, e quindi l'odio contro ogni dominazione straniera, rendeano probabile a ogni destra occasione un regno in Italia.

Così avrei instituita la prima parte del libro. Avrei poscia, nella storia civile del Regno, esaminate le circostanze particolari che favorivano o impedivano l'indipendenza. L'esame doveva essere segnatamente instituito sugli avvenimenti interni ed esterni, accaduti dall'ottobre 1813 al mese d'aprile 1814. Nel corso di tutti que' mesi, prima cominciò ad apparirci come barlume, e di mano in mano sempre più chiaramente, l'occasione dell'indipendenza; poi ci stette manifestissima innanzi, quasi volendoci persuadere ad afferrarla, per quattro mesi, dal novembre sino all'aprile; e in aprile giustamente sdegnata fuggì, e forse per non tornare mai più: ecco una seconda parte del libro.

Quanto alla terza, bisognava in essa esaminare primamente il carattere, le passioni utili o dannose all'Italia, gli interessi, i mezzi, gli errori del principe, o de' principi che avrebbero potuto afferrare l'occasione, inoltre de' loro ministri; e perchè nè principi nè ministri giovano all'indipendenza d'un popolo, se il popolo non sa, non dirò soltanto aiutarli, ma ben anche farsi rispettare aiutandoli, la terza parte del libro doveva principalmente distruggere l'ostacolo dell'indipendenza che, più che altrove, risiede radicalmente nelle infinite sette, che smembrano la nazione italiana. Queste tre parti del libro mirano al passato: quanto al futuro avrebbe supplito l'ultima parte, così:

Il rimedio vero sta nel riunire in una sola opinione tutte le sette, lasciando [quelle alle quali] poche ragioni bastano a persuaderle [che], senza avvedersi, vanno dietro l'esempio delle principali classi di cittadini, patrizi, clero, letterati, magistrati, mercanti e popolani ricchi; perchè, quanto alla plebe, non accade il parlarne, e in qualunque governo le basta un aratro o il modo d'aver del pane, un sacerdote e un carnefice; e la si dee lasciar in pace, perchè, per quanto santa sia la ragione che la sommove, ogni suo moto finisce in rapine, in sangue, in delitti, e, come ella si è avveduta della sua forza, è difficile renderla debole. Bensì a' nobili dovrebbe dirsi che, finchè non combattono guidando eserciti per la patria, o sono così ignoranti da non occupare le prime magistrature, non saranno nobili se non di titolo vano; e tutta la loro preminenza consisterà nell'essere ammessi alla porta del principe, che, se è lontano, e sarà circondato da maggiori e più benemeriti patrizi, veri in somma, appena degnerà di guardar gl'Italiani. Al clero bisogna dire che tutte le instituzioni del mondo, a volere che elle sussistano, s'hanno a ridurre a' loro principj; e che diano retta al filosofo da loro immeritevolmente proscritto, il quale fu primo a proferire e dimostrare evidentemente questa sentenza: — la religione di Cristo è santa in sè stessa, e durerà eterna nella propria essenza; ma, corrotta dagli uomini, e più assai da quegli uomini che l'amministrano, la si è fatta inutile ad ogni civile instituzione; e si può dire oggimai più cattolica che cristiana. — i preti non sono preti, ma mercenari, or faziosi or ritrosi, di chiunque li paga; e finchè la religione non sarà restituita a' suoi alti principj, in guisa che conferisca la propria dignità a' suoi ministri, i preti non saranno veri preti. Noi Italiani vogliamo e dobbiamo volere, volerlo fino all'ultimo sangue, che il Papa sovrano, supremo tutore della Religione d'Europa, principe elettivo e italiano, non solo sussista e regni, ma regni sempre in Italia, e difeso dagli Italiani: ma la sua tutela e la sua dignità riescirà sempre meno preponderante, quanto più parrà corrotta la religione; corruzione che allenta il freno su le coscienze dei popoli, i quali oggimai o si son dati, o pendono alla miscredenza; ma il suo regnare su la religione sarà sempre precario, finchè dipendera dal volere e dagli interessi de' principi e de' ferri stranieri. Non consiste la dignità della religione nel numero e nel lusso de' cardinali, e nel maggiore o minor territorio, che gli è [stato] spesso e gli può essere nuovamente ritolto; nè il Papa o i cardinali stanno sotto gli occhi di tutti i popoli dell'Italia, bensì i preti, che sono la più parte poveri e costretti a vita servile, spregevole, oziosi e strascinati ai vizi, ignoranti e derisi da chi non crede, e che trova nella loro ignoranza pretesti da far sermoni altri che cristiani. Non è universale se sta solo nel volgo, il quale ciecamente l'ha intesa (?), ciecamente la perde; bensì ne' cittadini, molti de' quali o non ci credono o appena affettano di credervi o credono quanto il comportano le loro passioni, talora irritate e spesso adulate ne' ricchi e ne' patrizi da' preti, come su dissi, servili, oziosi, ignoranti. E i cittadini che danno pane danno presto o tardi le loro opinioni a chi lo riceve. Pietro non deve andarsene scalzo, ma il Papa deve attendere a rivestire onorevolmente tutti i seguaci di Pietro e farli maestri di religione veramente divina, e dotti, e abbienti, e rispettabili a sè medesimi prima, perchè così siano rispettati da tutti. Come s'abbia a riordinar la Chiesa e la religione basta[no] i Padri [e] il Vangelo; e il Pontefice ne sa più di noi; solo ardirei in quel libro ideale, dirgli.....

Nel Regno d'Italia, e quasi in ogni terra italiana, la religione, e forse in tutti [i] paesi d'Europa, s'è ridotta a cerimonia esterna, come tutte le umane istituzioni che tendono a reprimere le umane passioni; e [non] si può se non paragonarla alla Repubblica Veneta negli ultimi tempi, la quale serbava agli occhi del mondo la sua antica e dignitosa apparenza, come in sostanza perdeva i suoi veri elementi, e cadde al primo crollo, sciaguratamente, er si svelò senza armi, senza economia, senza costumi, ristretta a serbar gli ordini, e non lo scopo a cui tendevano tutti quegli ordini: e se la guerra non la distruggeva, la tirannia era lontanissima da Venezia, ma l'oligarchia, che è la pessima fra le tirannidi, era di certo imminente. Così avviene nella religione, e, se non fosse cosa divina, sarebbe a quest'ora perita.

Ma Dio manda i suoi doni, e osserva l'uso e l'abuso che se [ne] fa, per giudicare con la sua giustizia i mortali. — Dico oligarchia la ricchezza de' prelati, e la miseria abominevole de' veri pastori del gregge cristiano. — I vizi che derivano spontanei, e poi col tempo incurabili, dalla troppa ricchezza e dalla miseria negli uomini, vennero anche ne' sacerdoti; e quindi lo scandalo degli uni, e l'abbiezione e la derisione agli altri. Da questi fatti, più che dalla miscredenza de' filosofi, deriva, a me pare, lo stato in cui è oggi la religione; perchè, se que' filosofi, ch'io non lodo, non avessero avuto da ridire giustamente sopra i ministri, avrebbero avuto men adito ad assalire la religione; nè l'assalirono se non per isterminare nel loro stesso sacro riparo i ministri. — Rispondesi, che i vizi (?) dell'artista non vanno ascritti all'arte. — Questo sì; ma se la legge è poco nota al popolo, se il popolo non può totalmente assolvere i « Non far come opero, ma come dico », l'animale umano, che non sente se non il dolore e il piacere imminente, e che si lascia vincere più dagli esempi che da' precetti, ragionerà come i predicatori, ma fece sempre e fa com'essi, e peggio. Or se la troppa ricchezza di pochi prelati e la abbiezione di tutti gli altri minò la religione d'Italia, unico mezzo è impoverire da una parte, e dare più dall'altra.

Ma i Sacerdoti si dividono anch'essi in tre sette: quelli che sentono gli effetti delle mie ragioni non si dare; quelli che per vero zelo; quelli che per ipocrisia credono che l'aspirare a cose nuove, come a dire l'indipendenza, è segno di [voler] distruggere tutte le antiche, e tra quelle la religione.

Non si vuole distruggere [la] religione, perchè popolo senza religione finisce prestissimo sotto un governo assolutamente militare; e quel governo è vacillante, perchè, dove non è freno sovrannaturale, i freni umani non bastano a evitare rivoluzioni. Inoltre non si vuole distruggere il Pontefice, nè che Pietro sia scalzo, perchè si vuole avere in Italia il Principe della religione europea, e della santissima tra tutte le religioni, elettivo, italiano. Non si vuole che Pietro sia scalzo, perchè come gli occhi del popolo hanno bisogno di apparato magnifico nelle cerimonie, così i principi della terra dispregiano chi non ha forza di potestà temporale; ma quale e quanta, è oggetto d'altro discorso; vero è che Pietro pare attenderla dall'Italia....

Si vuole insomma che la religione cristiana sia ritirata a' suoi sacrissimi (?) alti principj; e, per ottener questo..., in ogni via, in ogni cantuccio, in ogni villaggio i sacerdoti siano ricchi, dotti, tutti sto per dire patrizi, o con diritto di patrizi, e tutti cittadini, soggetti a tutte le leggi; e che il sommo Pontefice non avesse con suo dolore, e con danno della religione, e con grandissimo scandalo degli onesti (?), sotto di sè molti, che.... l'Italia facendo.... e da mastri di casa, e da servitori, e da favoriti di (sic), e da bertuccioni, e spesso pezzenti (?) ed altri mestieri che il rispetto, non che alla religione, a me stesso mi vieta di nominare; inducesse il disonore della religione, nel quale è venuta e verrà finchè i tempi e Dio costringera[nno] a porre buoni ripari, e guastare.. edificio sino alla sua pietra fondamentale per edificarsi sovr'essa una vera Gerusalemme. —

E che gli anti[chi] amici dell'indipendenza non siano nemici della religione ne sia prova che nel tempo della generosa prigionia (?) di Pio VII, io scrittore cooperando con altri, che ora pur troppo mi sono rapiti, e taluni sono carcerati (?), abbiamo scritto superando infiniti ostacoli della censura, e pubblicato in Milano una difesa di Gregorio VII, perchè altri non si lagni credendo (?) che anche gl'Italiani accusati in (sic) miscredenti vedessero.....

Quest' operetta vorrei ch'altri, quando oramai s' è rotto il silenzio, la scrivesse; e n'otterrà forse lode, perchè potrebbe idearla assai meglio; e affermo bensì che, ove mirasse al passato più che al futuro, partorirebbe molta vergogna, e invidierebbe il conforto della speranza all'Italia. Tanto e tanto, libri e ragioni e progetti senz'armi, non che smentire i rimproveri del ministro Inglese a' Deputati nostri in Parigi, saranno a lui d'irritamento a ripeterli con altera compiacenza e chiosarli e insegnarli a tutti i re della terra. E non son molti giorni che in Londra (11) fu ad un Ministro intimato di rendere al Parlamento ragione: — Perchè si fosse lasciato dall'Ambasciatore dell'Inghilterra ripartire nel Congresso di Vienna, e rivendere, quasi branchi di pecore, le nazioni. — Il Ministro, assumendo l'apologia del Congresso, rispose: — Che ha ella dunque fatto l'Italia da meritarsi altro che i patti della conquista? — Potranno per avventura gli emoli del nobile Lord ascrivere alla noia ch'ei prova della costituzione Britannica, e allo spavento de' tumulti di Londra quel ministeriale suo desiderio che tutti i governi siano possibilmente irresponsabili, e tutti i popoli tacitamente consenzienti al governo: quietissimi, per esempio, quanto i compagni d'Ulisse nella caverna del Ciclope, il quale li preservava dalle intemperie delle stagioni, e gl'ingrassava e palpava; e s'ei ne divorava taluno, chi mai de' ministri non vede come que' tristi avrebbero avuto il torto a perfidiare e dolersene? Era pur giusto che il buon sire Ciclope da un occhio solo, per non ammalare del fastidio di mangiare pecore sempre, si facesse banchetto alle volte delle membra degli uomini ch'ei governava. Ulisse fece da suo pari a non proferire lamenti; e queto queto arroventò l'occhio al Ciclope, e gli si tolse dinanzi. — Ma questo apologo non vorrei che gli emoli del nobile Lord lo lasciassero udire alla plebe di Londra, la quale forse è la più forsennata delle altre. Certo, gli oratori dell'opposizione si procacceranno con la loro generosa facondia gli applausi degli uomini liberali: ma poi dovranno con noi, loro clienti, starsene tutti contenti del solo rumore.

Il Ministro, tornerà ad allegare Anacarsi Clootz, oratore del genere umano (nota ch'ei fu stromento eloquente, e vittima insieme sciaguratissima di Robespierre), e deridendo la filantropia degli oppositori, si meriterà anch' esso de' battimani; e ogni cosa starà come sta.

Nel tempo stesso gli uomini giusti e veggenti, mentovati nel paragrafo superiore, ma inermi come quasi tutti i profeti — e Maometto non capitò male perchè profetava con la spada alla mano — dimostrarono ai Ministri: che non trattavasi di castigare gli Italiani, lasciandoli a chi primo se li pigliò, se non hanno saputo, benchè in parte potevano e quasi tutti bramavano (ma come, e quando, e qual monarca tentò davvero di indurveli?) cooperare alla libertà dell'Europa. Volevasi riordinarla con tale equilibrio, che l'usurpazione di un solo, o di due o tre — torna, all'incirca, tutt'uno — non somministrasse novelli mezzi d'adonestare col nome di conquista le usurpazioni alle quali tende sempre chi può; volevasi pacificare il genere umano per ora, e menomargli forze e pretesti di guerre universali per l'avvenire. Molte ricche popolatissime terre chiuse da due mari e da tutte l'Alpi, quando siano mal ripartite ed inermi, invoglieranno oggi o domani i vicini a rapirle a chi se le tiene, e daranno pronto principio, nè prometteranno facile termine, a nuova guerra, che riarderà quel che rimane di gioventù della presente e della seguente generazione d' Europa: non si contende a' ministri i diritti che dà ogni conquista ad opprimere; ma i popoli rispondono in questi tempi al diritto dell'oppressione col fatto, ed insorgono; che s'altri tiene il popolo d'Italia per sì dappoco da non insorgere mai, certo è che delira tuttavia novità, e per ischermirsi dello stato suo doloroso va sempre più agitandosi e, la meriti o no, desidera indipendenza: riescirà dunque meglio il consentirgliela.

DISCORSO III.

I. La malignità dello scritto pubblicato in apologia del Senato, costringe di necessità gl'Italiani non attinenti a veruna setta a svelare i colpevoli. — II. Il paragone fra il carattere morale del Senato, e il carattere dello scrittore di questi discorsi giustifica l'autorità ch'ei s'aggiudica di redarguirli altamente. — III. S'accenna l'ordine e il modo della risposta tessuta storicamente ne' seguenti discorsi, con l'intendimento di restituire a' Senatori le macchie da essi, per istigare i partiti, apposte agli uomini giusti e a tutti gli ordini de' cittadini.


Sapientiam enim praetereuntes non tantum in hoc lapsi sunt ut ignorarent bona; sed et insipientiae suae reliquerunt hominibus memoriam ut in his, quae peccaverunt, nec latere potuissent.

Lib. Sapient., c. X, v. 8.


I. E nondimeno anche per voi s' è adempiuta la predizione del volume antichissimo: — Chiunque trascura la sapienza pecca non solamente nell'ignorare il bene; ma nè anche occulta il male che ha fatto, perchè lascierà egli stesso memoria della propria stoltezza. — E bastasse! ma aggiungete l'epigrafe del titolo: — L'altrui stoltezza irrita i giusti con sì fiera provocazione, da necessitarli a rompere quel sigillo che la prudenza avea posto sul loro labbro. — Ecco dunque rotto il sigillo, e gittata la visiera; eccomi profugo, e senza quasi la speranza di rivedere la patria; ma, senza questa generosa risoluzione, poteva io alzare liberamente la voce, e difendere la patria, e i miei concittadini, e me stesso dall'ignominia di che ci avete insidiosamente tutti quanti cospersi? Voi vi siete eletti all'ufficio di promulgare, unicamente pro domo vestra, un libello. Nè io crederò che tutti i colleghi vostri siano complici del libello; nè che gli allegati e le soscrizioni da essi ottenute ve le abbiano abbandonate, avvertiti che le affiggereste su le colonne, per avvalorare le indegnità di un libello. Del resto, il tristo consiglio vostro fu anche più tristamente posto ad efetto da voi; e veramente, da quegli uomini di Stato che voi vi vantate, e voi siete, avete voluto difendere tutto l'ordine vostro, accusato da giusti ma vaghi rumori; ed ecco verrà condannato di dappocaggine codardissima per vere, perpetue, irrevocabili prove, somministrate anche da' vostri medesimi documenti. Avete poscia ostentato di segregar voi, quasi foste più benemeriti, da que' Senatori che parteggiarono pel Vice Re: e non vi siete avveduti ch'essi avevano il merito di persistere, se non altro, nel loro mal assunto partito; e che voi sareste smascherati impostori, perchè, tardi ed ambigui e attizzando la sedizione, vi siete indotti a recitare da padri del popolo. Tuttavolta a noi giovava che, dopo la comune sciagura, il popolo e il mondo tutto si dimenticasse di voi, per la ragione santissima che il vostro obbrobrio avrebbe macchiato i cittadini del Regno. Uno o due mesi dopo il tumulto del 20 aprile, uscì quel commentariuccio (da Parma, s' io non isbaglio) col titolo — Relazione della seduta del Senato, tenuta nel dì 17 aprile 1814 —, annesso poscia da voi fra gli allegati; e benchè vi fosse da ridire, tuttavia si è lasciato correre, perché era dettato a difesa con modestia d'uomo dabbene; tace il vero, che forse era occulto a quel senatore; non però dice il falso, e non aizzava le sette.

E voi, anzi che benedire noi tutti per tanta indulgenza, ripigliate animo ad assalirci con velenosi motteggi, rifomentando partiti, rieccitando recriminazioni e clamori, deridendo il desiderio d'indipendenza, confondendo giusti, colpevoli, savi, frenetici, coraggiosi, e vilissimi, per assegnare a ciascheduno di noi la sua parte d'un atroce assassinio, meditato da pochi patrizi vigliacchi, e consumato per forsennatezza di plebe?...

Or dite voi, me ne richiamo a voi soli, non ci avete voi forse sfidato a morte così? non avete forse gridato a noi tutti: — Disvelate agli occhi del popolo il Senato del Regno d'Italia nella sua vergognosissima nudità? — Ma e che? — diranno altri di voi più pacifici: — abbiamo noi forse venduta la patria al nemico? e quali diritti e quante forze erano in noi da salvarla? — Nè io dirò che la patria si reggesse nè molto nè poco per voi; nè che per voi potesse cadere: abuserei d'amarissima ironia, se il dicessi. Bensì vi convincerò che se il Regno dovea rovinare, non dovea pur mai rovinare con tanta ignominia; e l'ignominia fu tanta per colpa vostra, o inettissimi, e di molti vostri colleghi e d'altri magistrati e ministri,. perchè nessuno ha tentato di ripararla. Parecchi d'essi erano, e saranno, da me tenuti cari ed onorati; ne conobbi taluni d'animo forte, e li nominerò come integerrimi in altre gravi magistrature, e dotati di cuore e di mente; meritavano insomma di non essere necessari stromenti d'un monarca assoluto. Ma non dovrò già lodarli, trovandoli seduti in Senato; e mi grava ancor più che li dovrò accomunare a voi Senatori scrittori; nè vi dichiarerò a nome per autori di quel libello, da che avete temuto di palesarvi; e chi oggimai non vi sa? — Ma resti a voi tutta quanta l'autorità di scrivere nomi e colpe, quanto al fatto verissime, ma non mai commesse dagli uomini infamati da voi. A voi resti l'accorgimenti d'accennarli a mezza voce alla plebe de' lettori, perchè ci metta di suo l'ignoranza, l'esagerazione e l'invidia. Resti a voi la vergogna che vi s'intimi: — Calunniatori, svelatevi —; da che, a smentire il vostro sì, basta un no. (12) E se or ve ne duole, non però affermerei che voi siate pentiti; la vergogna vi sarà ristorata dalla perfida gioia di veder crescere su per le piazze, e i caffè, e le taverne, a sole chiarissimo, la zizzania da voi seminata di notte.... Ma di ciò poi. Frattanto io professo che per dar testimonianze a' fatti ch'io toccherò, ignoti a voi, non additerò mai le persone se non per cose dalle quali non ridonderà disonore o pericolo in nessun tempo a nessuno. Quanto alle persone da voi nominate, ometterò quasi tutte l'altre, e mi restringerò a' nomi de' Senatori o d'altri magistrati, sì perchè essendo pubblicati da voi non m' è più dato il nasconderli, nè voglio starmene a vostra stima su gli elogi ed il biasimo che avete loro assegnato; e sì perchè la memoria di quanto opera ogn'uomo per pubblico ufficio spetta di ragione agli annali. Del rimanente redimono gli individui le proprie colpe assai volte con azioni più nobili; una lunga vita incolpabile scusa pochi anni di bassezza talvolta forzata; ed io mi sono indulgente appunto perchè vi convincerò che di sì fatta indulgenza non ho bisogno. Si scusino parecchi de' Senatori; ma il Senato peccò sempre di viltà, e quando poteva in un solo giorno rialzarsi, si atterrò più vilmente. Or quando più? Or chi di voi può redimerlo? Tutti (eccettuati forse pochissimi), tutti, qualunque sentenza abbiano essi proferita in Senato o votata, furono cooperatori della pubblica infamia.

II. Adunque, o Senato[ri], se questo mio parlare a voi, con voi e di voi sentisse alquanto dello sprezzante, e ve ne accorgeste (da che altri vi ha già indurate a sì fatti modi le orecchie), io non intendo che il fallo, che fallo è pur sempre, sia in tutto apposto a me solo. La vostra dignitosa abbiezione, la vostra mansuetudine simulata nel mondo, e, più ch'altro, la vostra professione di cavar frutto da ogni tirannide, quanto più le paragono alla signorile altezza dell'animo mio, tanto più mi raffermo nel proponimento di non imitarvi. E non che lo stile, vorrei, potendo, mutare vocaboli ed alfabeto, e serbare patentissima ne' miei scritti quella disparità di caratteri coi quali la natura, l'educazione, e i casi della vita distinsero voi da me. E in tanti travolgimenti di teorie, di fazioni, di giuramenti dati e spergiurati e ridati, e da spergiurarsi e ridarsi, e di magistrati e monarchi adulati, e traditori tutti e traditi a vicenda (?), e serviti da voi; e di costituzioni politiche, di religioni santificate ed esecrate, e tutto in quegli anni, e ogni sempre con avanzi di lucro per gli arrendevoli; voi, più provetti di me, nati quando l'ava, la balia, ed il pedagogo vi strozzavano, per antichissima pratica, in cuore ogni desiderio di libertà, avete più assennatamente di me navigato [con] ogni vento per l'oceano della fortuna. Ed io, non intendendo che un innato bisogno di esplorar[e], di sentire altamente, e di esprimere il vero morale, e vedendo che a dirlo bisognava avere una libera patria, mi sono eletto quella dove nacquero i miei maggiori, e tiene tuttavia le lor ossa; quella che mi die' l'idioma ch'io tratto con religione, per non contaminarlo di nulla che senta lo straniero e il servile; e scrissi il vero, e lo scrivo a giovarmi de' tempi che promettano governi più ragionevoli a' popoli, e, per quanto può la mia voce, persuadere l'Italia, se non a sentire e adoperar la sua forza, a conoscere, non foss'altro, e a non vituperare i suoi veri figliuoli.

E mentre voi correte senza saper dove, ora atterriti dell'imminente naufragio, or inorgogliti della speranza del guadagno, e non mai sazi, e non mai consci, nè sicuri di voi, io, persistendo nel mio solo intento, sto guardandovi immobile da uno scoglio; e or vi deploro, or vi spregio; e quando le burrasche mi fremono intorno, e mi s'avventano a smovermi, e m'inondano nudo, allora più mi compiaccio a reggermi pertinacemente con le sole forze del mio coraggio; nè sono per anco sommerso; nè perirò indegno della patria, o incompianto. Voi sì: nè la vostra fama correrà vicende di lieta o avversa fortuna; ma sarà o eternamente sotterrata con voi, o citata al tribunale che, illuminato dagli anni, giudica inappellabile con le leggi del vero. Ecco il perchè della differenza del nostro stile: il mio irrita voi, e chi vi somiglia; il vostro mi stomaca (rileggete i vostri........ al Re scaduto ed al Principe), e stomaca tutti quelli che alimentano passioni pari alle mie. La natura crea di propria autorità tali ingegni da non potere se non essere generosi: ben vi sono tempi nei quali ingegni sì fatti si rimangono miseramente inerti ed assiderati dalla servile stupidità universale: ma se tempi propizi ridestano in essi le virili e natie loro passioni, acquistano cotal tempra, che spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisica questa; la è verità che splende luminosissima nella vita di molti mortali gloriosamente infelici; verità di cui potrete con giornalieri esperimenti accertarvi nella gioventù nata o cresciuta da che l'Italia ritornò a desiderare indipendenza, e leggi e costumi; se non che voi non avreste forse nè occhi nè vocazione da discernere, fra la moltitudine de' vostri conservi, que' giovani. (13) Ben io li conosco, e li compiango insieme e gli ammiro: da che se Dio non ha pieta dell'Italia, dovranno chiudere nel loro petto il desiderio di Patria, funestissimo!, perchè o strugge o addolora tutta la vita; e nondimeno, anzichè abbandonarlo, avran cari i pericoli, e quell'angoscia, e la morte. Or io, sentendomi uno di questi, mi tengo d'assai più di voi; e vi parlo dall'alto. Piedi volontariamente incatenati non devono calpestar uomini che, in qualunque condizione, sono liberi sempre: e non vi siete voi forse provati di calpestarmi? Non levate dunque con fanciullesca insofferenza le strida, se mai la verità e il mio modo di mandarvela al cuore vi trafiggesse. Non griderete, se non da terra e umiliati. Ravvedetevi. Così, se la bizzarria della fortuna vi rivestisse di velluto verde, dorato di ricami lussuriosissimi, voi dalle mie acerbe parole avrete imparato portamenti migliori: e i principi imparino a non costituire a bello studio spregevoli, quali voi foste, i supremi magistrati de' popoli. Sì basso espediente accresce a principio il terrore verso l'Unico a cui tutti si prostrano; ma poi quel disprezzo si ripercote sul trono; e trono temuto troppo, o sprezzato, non tarda a crollare; e l'Europa sel vede.

III. Nel richiamarmi gli anni trascorsi a trovare fatti che annientino qualunque minima fama e credenza si fosse il libro de' Senatori acquistata, mi veggo affollate dinanzi alla mente le necessità della patria, e ne scrivo. Vero è che di quanto essi dissero, pochi fogli sarieno troppi a smentirli: se non che il parlare alle volte men del Senato che dell'Italia riescirà, spero, a' forestieri di minore fastidio, e di più utile a' nostri. Solo m'incresce ch'io sarò anche necessitato a prolungare il discorso per apologia di me stesso. Di ciò non la vanità dell'autore, ma se ne incolpi la malignità de' calunniatori e de' tempi, ne' quali non è dato di smentire gli altrui detti co' nostri fatti.

Tucidide, accusato da Brasida, andò per più anni in esilio: mandò alla posterità le imprese guerriere del suo persecutore, e non le proprie discolpe; indizio non solo dell'anima generosamente sdegnosa di quell'altissimo storico, ma ben anche della fede ch'ei riponeva nella prontissima efficacia del vero, allorchè può essere palesato ed inteso: da che i popoli liberi spesso condannano iniquamente e malignano un loro concittadino, e tosto si studiano di redimere la sua fama per onorarne sè stessi e la patria. Tacito, emulando le altre virtù di Tucidide, da questa in fuori di tacere di sè medesimo, in que' generosi volumi dovè premunirsi contro le calunnie di tanti scrittori venduti alla tirannide, i quali, ov'ei non avesse rimosso i sospetti dall'anima de' lettori, avrebbero potuto infamare il suo nome, in guisa che la sua testimonianza fosse meno creduta da' posteri. Perchè, quando l'onore degli individui spetta non alla nazione, bensì al Principe che la governa, ed a' ministri da' quali egli è governato, allora i cittadini più generosi sono denigrati a beneplacito della corte, che usurpa l'arte della stampa per diffondere le calunnie, e la vieta a chi si giustifica; a nè si può agevolmente esplorare, nè impunemente dire la verità, nè senza tremare ascoltarla. Così la malignità e la credulità, inclinazione popolare, iniziansi nella corruzione universale, nell'indifferenza per la virtù; e quindi ogni tristo si sforza di accattar (?) merito non ne' suoi pregi, bensì ne' vituperi, veri o falsi, degli altri: il tempo convalida la calunnia, e i cittadini migliori si sentono onesti e si vedono infami. Onde io, per provvedere all'onore, che unico avanza a noi sventurati Italiani, mi sono tolto di andar profugo ed esule, forse per sempre, d'Italia; e parlerò fors'anche troppo di me, ma se il nome dell'autore si rimanesse vile agli occhi del mondo, qual fede otterrebbe egli il mio scritto? Il sospetto ricadrebbe dovra que' miei concittadini, partecipi in altri tempi de' miei consigli, caldi del medesimo amore di patria, ed a' quali è vietato il parlare, e che io intendo di difendere meco. Che se ognuno di noi si rimanesse atterrito, muto, infamato, forse l'Italia non potr....

III. Or che vi ho sufficientemente detto quel po' di bene che voi, ostinandovi a scrivere, avreste potuto operare, e in che modo e per che diritto io m'intenda di redarguirvi della maligna impazienza di scrivere ne' modi che avete scelto, dovrei narrare e provare le vostre colpe, e poscia, a parte a parte, far manifesti gli effetti morali risultati e che pur troppo vanno tutto dì risultando dal vostro libello. Narrerò i fatti, non tutti, ma quelli che bastano a provare le accuse contro di voi, e a distruggere le vostre asserzioni; e confermando alle volte anche i fatti da voi raccontati, trovare, in essi medesimi, prove che avete lasciato rovinare con infamia la patria. Nè racconterò asciuttamente; bensì alle mie considerazioni, altri, se pur gli giova, aggiunga o faccia sottentrare le sue: basti che non si trovi a ridire sui fatti.

Ben vedo che questo mio discorrere fra lo storico, l'apologetico ed il politico, darà noia a' lettori di bell'ingegno, e peggio assai questo mio largheggiare di frasi e di ripetizioni com'uomo in cui predomina il cuore. E così è, perchè nella presente mia pellegrinazione bisogna pure ch'io lasci dettare a sua voglia al mio cuore; e solo col ridire quel che più gli sta dentro e gli duole, si riconforta. Nè altri libri ho potuto recare in mia compagnia, se non il solo della memoria, la quale poi non è tanta che possa alimentare il pensiero degli scritti de' miei grandi antichi maestri, in guisa che lo divaghi da queste povere cose (le sono vere a ogni modo) ch'io detto qui alla rinfusa, perchè viaggiando non ho tempo di scrivere breve. Nè la fo da rettorico, che non è l'arte mia, e la ho sempre sdegnata. Non i begl'ingegni, ma deve intendermi il popolo, il quale da più anni tende le orecchie avidissime d'udire a ripetere mille volte le verità ch'ei sente, e non sa nè s'attenta d'esprimere. Or fors'anche il popolo, se potesse, dannerebbe all'abbominazione quel libello de' Senatori col mio medesimo intento, e perchè non v'esca, Senatori, dall'animo, tornerò con dichiarazione formale a ridirvelo ed è: ...

.... Ma Tacito emulò tutte le virtù dello storico greco, da questa in fuori di tacere di sè, perch'ei viveva sotto monarchi assoluti, che soli poteano parlare e far parlare i' calunniatori; però Tacito si premuniva dalle imputazioni che avrebbero scemato fede a' suoi scritti. Perchè quando gli individui spettano non alla patria, bensì al Re ed a' ministri che lo governano, allora il nome de' cittadini è avvilito o esaltato ad arbitrio della gazzetta di corte: la maligna credulità, inclinazione popolare, s'accresce nella corruzione universale, e nella indifferenza per la virtù; e peggio in Italia, dove alla rabbia impotente di molte sette non rimane altr'arme se non se la velenosissima de' reciprochi vituperi: il tempo li convalida perchè ogni tristo accatta meriti non ne' suoi pregi, bensì ne' falli veri o falsi degli altri: così gli uomini migliori si sentono onesti, e si vedono infami, e costretti all'inazione e al silenzio. Ma se abbiam tutto perduto e unico ci avanza l'onore, dovrem noi morire muti nell'ignominia sperando che la posterità ci giustifichi? E i nostri figli e i nepoti potrann'essi esplorare o impunemente dire la verità, o senza tremare ascoltarla? Chi sa! forse saranno tanto abbrutiti da non curarsene più. Adunque devo difendermi: che se il mio nome si rimanesse agli occhi de' miei contemporanei macchiato, qual fede otterrebbe egli il mio scritto? Adunque non potendo oggimai operare per utilità della patria, e in ciò consiste la vera gloria del nome, devo, se non altro, mostrare che io, e molti altri, non l'hanno come gli altri che vociferano, nè disonorata, nè abbandonata, e che anzi appunto noi meritiamo di essere, se non onorati, compianti almeno dagli uomini giusti.

FRAMMENTI VARI DI CARATTERE APOLOGETICO.

I.

Dopo la vostra abdicazione al grado e agli emolumenti di Senatori, trovandovi sciolti della gravissima cura di ragunarvi due volte al mese per decretare adulazioni a Nabucodonosorre e a Baldassare suo figlio, e tracannarvi la patria alla salute del Re, voi, credo, avrete agio ad udirmi; ed io mi sono scelto l'esilio, sì per una ragione che or ora vi dirò, benchè riescirà incomprensibile a voi,'e certo a voi soli; e sì per potere chiarire pubblicamente una volta la nostra lite, e per non rimestarla mai più. Or per non avere altra briga di contraddire a' cavilli ed alle calunnie che voi certamente riassumerete in vostra difesa, anzi per dispensarvi dalla fatica di scrivere nuovamente e dalla vergogna d'essere nuovamente smentiti, piacemi primamente mettervi innanzi agli occhi il mio carattere e il vostro.... [ MR, c. 46 r. ].

II.

Gioverà innanzi tratto il manifestare il mio carattere e il vostro, per farvi uscire, o Senatori italiani, d'ogni speranza d'ingannare il mondo scrivendo, e per liberare me medesimo dalla briga di contraddirvi.... Che voi, guardati uno per uno, vi siate migliori o peggiori degli altri mortali non so, e poichè i vostri concittadini, vedendovi sedenti in Senato, erano indotti, e da voi stessi, a spregiarvi, desidero che nelle vostre case i figliuoli e i congiunti e i servi e gli amici vostri, dimenticando il vostro pubblico istituto di vita, trovino in voi da lodare i domestici esempi, e imitarli. Nè mi terrete, a quanto io mi spero, di cuore sì abbietto da spiare ne'penetrali delle famiglie e, per convincere di nullità e di bassezza il Senato e di falsita un libricciuolo di alcuni di voi, propalare i vizi degli individui, [e] accuse intricate a provarsi, inutili a risapersi, obbrobriose a chi le ridice, benchè gravissime alle città serve e corrotte e piene di sette accanite fra loro, alle quali il ferro straniero, per mantenerle a un tempo e umiliarle, concede l'armi de' strapazzi scambievoli. Armi con le quali taluno che poi chiosò il vostro libello m'assale, e mi rinfaccia fin anche la viltà de' natali, e anche in questo mentisce.... Rare volte, oppure mai, io ho rammentato i miei maggiori, non perch'io, quand'anche peccassi di vanità, dovessi mai vergognarmene; nè troverete chi m'abbia udito gloriarmene; in Italia il vocabolo nobiltà, a chi ben l'intende, significa ozio nella noia, bassezza nell'opulenza, stupidità nella presunzione, depravazione nella superstizione, e tal codardia, mista alla vanità e all'invidia, da non osare nè combattere nè lasciar ch'altri combatta mai per la pubblica libertà; nobiltà insomma in Italia è sinonimo di volontaria vilissima obbrobriosissima servitù. [ MR, cc. 3 r.-3 v. ].

III.

Ma, pregovi, soffermatevi tanto ch' io sciolga due opposizioni che voi già nel vostro animo promovete, e s'io le dissimulassi, cancellerebbero ogni linea che scriva di voi. Primamente direte che non molti erano i forestieri in Milano e che a voi, quand'anche mi aveste tenuto per non italiano, non poteva [essere] ignoto ch'io, come uno degli Elettori del regno, aveva più che parecchi di voi i diritti di cittadinanza: e conclude[re]te: se te la pigli, ti sta. Or io mi confesso per sì confidente de' miei costumi che, abbattendomi alla prima in quel passo, non ho sentito ferirmi. Ma non fu lettore a Milano che, o credendo o non credendo alla definizione, non ne vedesse la vostra intenzione di applicarla a me solo. E furono alcuni uomini leali che esaminando meco, non son molte settimane, quel libro nelle mie stanze mi dissero che io doveva alloramai tenermi stimato (?) per parassito, da che la vostra sentenza non poteva assegnarsi che a me.... [ MR, c. 4 v. ].

.... ch' io m'era per l'appunto quel parassito, senza consigliarmi altre discolpe, mi fecero intendere che, spregiando i satirici, si sta a rischio talvolta di spregiare la propria fama. Nè accade, o Senatori scrittori, il rispondere che molti erano stranieri, e adulatori de' ministri e sovvertitori della plebe in Milano; io non ghi ho noverati. Certo è che quando per colpa altrui, benchè involontaria, il popolo, credendomi a mezza voce accennato, ci aggiungesse di suo la ignominia, l'esagerazione, l'invidia, io avrei sempre diritto d'intimare all'autore del libro di parlare senza enigmi, o.... [ spazio bianco nel ms. ]. Ma che utilità avrei se pur l'intimassi? v'acquistereste voi fede e potreste voi forse più cancellare ciò che a vete scritto? Perché riesaminando il mio operato (?), mi accennate non ambiguamente, si vede che volevate e ferirmi e poter pur dire Non novi.... [ MR, c. 42 r. ]

IV.

.... usciamo di scuola: no, io non ho, o Senatori, ragione d'essere diffidente de' miei costumi; però abbattendomi alle prime in quel passo del vostro libro, non mi sono sentito dolere. Ma non fu persona in Milano la quale, non credendo o credendo alla descrizione del letterato straniero, non additasse me solo. Chi mi conosceva non vi credeva; gli altri colla credulità v'assentiano (?). Io credeva che i soli patrizi di quella città tenessero per forestiero qualunque Italiano, e che voi, se non altro nell'Almanacco Reale, nel rileggere i vostri titoli, aveste osservato ch'io m'era uno de' Collegi elettorali, nominato da' Collegi di tutto il Regno, scrutinato da' Censori e approvato dal Re, e ch'io, non ch'essere cittadino, aveva tanti diritti da essere chiamato a dar il voto per l'elezione di alcun di voi, Senatori. Ad ogni modo io lasciava che la città ciarlasse e tacesse o si dimenticasse dopo pochi giorni e di me e del libello. Ma parecchi uomini leali che vennero nelle mie stanze, non son oggi molte settimane, a rileggerlo, (era, com'è oggi, proibito, ma si ristampa con appendici) mi dissero ad una voce.... [ MR, c. 40 v. ].

V.

Or dite: che v' ha egli mai suffragato il non confessarvi per compilatori del libro, se avete anzi in esso somministrate farmi a convincervi? Nè tornerà gran fatto in vostro vantaggio l'opposizione seconda di cui vi siete pur premuniti; e direte: Se tu dianzi ti sei ravvisato nel letterato straniero eccitatore di scandali e parassito, segno è che tu gli rassomigli a pennello: chi scrisse non intendeva di te; i vizi altrui sono specchio de' tuoi; accusar devi più la tua vita che non l'altrui maldicenza. Con sì fatta...., ben mi ricordo, il cortigiano satirico adonestava gli scherni da lui, per compiacere ad Augusto, saettati contro la ricchezza di Labeone, costantissimo propugnatore della pubblica libertà, e contro l'ossa di M. Bruto, che pur era stato amico una volta e commilitone e benefattore del cortigiano. [ MR, c. 39 v. ].

VI.

Molti altri furono allora promossi; a che voi parlate unicamente di questi tre? E qual mai rassomiglianza tra lo scrittore de' Sepolcri e dell'Aiace, e il generale di brigata Dembowski? Ma perchè voi e tutti sappiano quant' io mi creda dissimile a lui, io dichiaro che ho disprezzato sempre e sempre seguiterò a disprezzare quel generale; non assegnerò al pubblico altre ragioni se non se questa, che lo disprezzo; nè a lui verun'altra se non quella che gli uomini militari sogliono chiedere ed ottenere. [ MR, c. 5 r. ].

VII.

Quanto al conte Mazzucchelli, conobbe sempre la mia professione politica, ma negli ultimi tempi non fu partecipe de' tentativi miei e d'altri che a suo luogo dirò: non ch'io diffidassi; egli era lontano dall'esercito, nè avrebbe.... [ si interrompe ].

.... militando con esso per quasi due anni fuori d'Italia, mi conobbe e lo conobbi in guisa da non disdirne più l'amicizia. Ch'ei fosse allora avverso al governo, chi non lo sa? Ma ch'egli all'annunzio degli alleati in Parigi procurasse in Milano la sedizione, un fatto solo vi smentirà; perchè allora per l'appunto era in Mantova già stato chiamatovi per telegrafo dal (sic). Nè so quale consiglio meditasse di prendere; questo so, ch'ei non era partecipe de' miei consigli, che appariranno fra non molto da sè; fu però assunto dal governo austriaco alla riforma dell'esercito nostro; e gli fu scritto contro un libello ch'io non ho voluto vedere.... [ MR, cc. 41-42 ].

VIII.

Dimorarono i miei maggiori, di padre in figlio, or in una or in un'altra isola della Grecia, secondo che la repubblica li preponeva agli uffici non riserbati a' patrizi regnanti; e quasi tutti per costume antico dell'isole nostre, venutovi con l'emigrazione de' Ghibellini riparativisi da tutta Italia, tennero l'uso di laurearsi nelle italiane università, segnatamente in Padova, e per lo più in medicina. Leggesi sovra i sepolcri di molti Dogi e insigni uomini veneti il titolo di medico; non che n'avessero forse la scienza, o se ne giovassero, ma sel teneano ad onore, non sapeano che il voler governare i propri concittadini e il fregiarsi di ignorante di lettere e di scienze....

Tutti a ogni modo aveano per legge domestica di andare ad ora ad ora in Venezia, a farsi novellamente riconoscere per cittadini; inoltre, benchè s'ammogliassero a donne e in paesi della religione scismatica, non concessero a' loro parenti che i figliuoli fossero allevati se non da cattolici; due ricordi ch'io trovo ripetuti assai volte nelle lor lettere famigliari, e si credeano sì importanti che il mio bisavolo, allorchè tentò di racquistare il patriziato, fe' merito alla casa d'avere serbato la religione e la patria; e ne fu ripulso, sì perchè eran pochi contro la legge, sì perchè il tempo distrugge i diritti; inoltre era povero. [ MR, c. 13 v. ].

IX.

I. I maggiori miei da Venezia navigarono nel XV secolo in Candia con molti altri non ricchi patrizi, i quali, col titolo di Coloni della Repubblica, otteneano poderi in quell'isola, e il debito insieme di difenderla contro a' nemici. Perdevano ad ogni modo per antico statuto il diritto di sedere nel Consiglio Maggiore, ed aveano in compenso la prerogativa de' nobili, non che d'oltre mare, d'ogni citta governata da' Veneti. Conquistata Candia da' Turchi, ripatriarono i miei maggiori, ma l'accusa apposta ad Antonio Foscolo padre della famiglia, di non avere anch'ei virilmente difesa l'isola, li necessitò a tornarsene in Grecia (?) se mai potessero racquistare i loro poderi. Tutti tennero nondimeno d'allora sino a dì nostri quasi religione domestica l'obbligo di stare, ciascheduno d'essi, a dimora per alcun tempo in Venezia quasi a farsi conoscere dalla patria; e alcuni vi nacquero, e altresi (?) l'obbligo (?) che i loro figliuoli di mogli di greco dogma non fossero allevati che da cattolici. È di poco trascorso un secolo da che un de' miei, invanitosi del patriziato, lo ridomandava al Senato, allegando questi due meriti, e ne fu due volte ripulso, sì per la prescrizione del tempo, sì per la colpa d'Antonio; ma questa colpa non doveva essere cancellata anch'essa dal tempo? Migliore ragione si è che nelle giuste aristocrazie d'uomini non militari, non s'ha da aspirare a que' gradi in cui la domestica povertà è più apparente alla plebe, la quale quanto meno stima liberale o potente chi la governa, tanto è men pronta a obbedire.

II. Bensì allora la casa mia conseguì que' pubblici uffici che non erano riserbati a' patrizi, e li chiesero quasi sempre altresì ove stavano i loro averi. Quasi tutti, costume anche oggi de'nobili nell'isole Ionie, si laureavano nelle italiane Università, in Padova spesso, e per lo più in medicina, nè sempre la professavano. Leggesi ne' sepolcri de' Dogi e de[gli] antichi veneti personaggi il titolo di medico: non che forse n'avessero la scienza, ma sel tenevano ad onore; utilissimo accorgimento de' principali della città l'essere in concetto di dotto in cose oscure e mirabili al popolo; benchè i patrizi d'oggi in Italia, aspirando di primeggiare, si fanno merito del lor ozio, rivelando così di necessità la volontaria ignoranza di tutte l'arti e di tutto.

III L'avo mio professò medicina: e mentre nel 1785 per pubblica commissione invigilava in Dalmazia come Priore di Sanità, o non se n'avvide in tempo o non gli fu in tempo creduto; certo che la peste sopravvenne improvvisa, e spopolò tutto Spalato, ed ei ne fu primo incolpato. Egli, accortosi della colpa e del disonore, andò in Lazzaretto ove più bolliva il contagio, e poichè ministrando vani aiuti a' malati s'accorse d'essere infetto, e non disse agli astanti se non che i colpevoli di quella rovina avrebbero un giorno avuto il debito premio; e dissetandosi d'acqua fredda, vietata allora in quel modo da' medici, nè per preghiere che gli facessero se ne astenne, nè accettò rimedio alcuno, nè si rimosse dall'aria aperta ove per tre dì e quattro notti sedette, e riconfortando gl'infermi finch'ebbe voce, e raccomagdando a Dio i suoi figliuoli, spirò; ammenda generosa di quell'errore, se pur fu suo, e non indegna d'essere ricordata; necessaria a ogni modo ch'io non me ne dimentichi mai.

IV. Il padre mio, poco dopo, non prima ch'ebbe scolpata la sua memoria e conseguita la carica paterna lo seguì giovine assai nel sepolcro. A me fanciulletto lasciò ricordo in iscritto di mantenere l'uso degli avi e di far riconoscere dal Senato il decreto che avea conceduto alla casa il diritto di nobiltà in tutta la dominazione della Repubblica in compenso del veneto patriziato; il che non feci, non per mostrarmi sprezzante di vanità, ma vi s'interposero i tempi. Che se i vecchi tante volte ripetuti diplomi insino alla metà del secolo scorso, non mi giovassero a nobilitare, certo che il mendicarne degli altri da' conquistatori d'Italia m'avvilirebbe quasi fosse premio di servità, quasi riconoscessi i loro diritti a disfare e rifare l'antica cittadinanza d'Italia. Nè m'arrogherei per qualunque decreto di noverarmi fra' nobili de' paesi già veneti; bensì li serbo perchè gli avi miei me li hanno lasciati in eredità, e perchè altri mi ha rinfacciato i natali, li ho ricordati. [ MR, c. 15-16 v. ].

X.

Io dunque, da che le edizioni e le traduzioni de' Sepolcri hanno in fronte il mio nome, io, che non iscrissi quel carme se non se per contrapporlo in quell'anno stesso alla sordida legge che contendeva sin anche i sepolcri domestici, e mischiava le ceneri degli illustri e de' malfattori italiani in un solo cimitero plebeo; io, che vidi con compiacenza come que' pochi versi avevano da tutte parti d'Italia eccitati i pietosi e magnanimi ingegni a domandar se non altro che si serbasse la memoria de' loro padri, degli amici, di tutti i mortali degni di essere compianti e imitati; io, che solo, fra tanti che scrissero dopo di me nella stessa sentenza, sostenni le insidiose censure a d'un uomo francese pagato in Milano a denigrare chi alzasse voce italiana, io, che dopo le mie generose querele vidi decretato un Pantheon, dove a voi forse (?) doveansi alzar monumenti; io, l'autore infine de' Sepolcri, sarei stato premiato quasi promotore, aiutatore, complice insanguinato d'un assassinio?

Ma l'autore d'Aiace si mostra avverso al governo ed al Principe ed a Napoleone: or non doveva egli godere della rovina loro e aiutarla? Primamente imparate, o codardi, che chi ardisce altero a parlare a tutta Italia contro il dominatore del mondo, non si degna dell'armi vilissime che voi gli volete tendere(?); imparate inoltre ch'io nè di Principe, nè di Napoleone, nè d'altri uomini intendeva di parlare in quella tragedia: gl'individui, per quanto siano potenti, spariscono dinanzi alla universale storia del genere umano, dalla quale chi v[u]ole essere utile e glorioso alla sua nazione desume la sostanza politica delle sue tragedie e la teoria universale applicabile a tutti i tempi.

E se non foste voi quasi tutti uomini a cui il parlare d'alta letteratura sarebbe come aver poca cura del tempo, direi che se i tempi l'avessero conceduto, quella tragedia non sarebbe sembrata sì oscura; oscura non, come altri credono, per lo stile, nè per l'altezza de' pensieri, bensì per l'altezza de' sentimenti, a cui spettatori ammolliti da gorgheggianti Catoni e Cesari spasimanti, non potevano aggiungere, e non è loro colpa. Ma l'oscurità reale di essa tragedia derivò dal non aver io potuto, all'uso de' Greci, veri estimatori (?) politici della Tragedia, accompagnare l'Aiace fra le altre due; l'una delle quali precede, l'altra segue questa tragedia. Perch'io nella prima intendeva di mostrare in Agamennone un monarca ornato da grandi virtù, corrotte da una infelice ambizione irritata dagli Ulissi, per la quale compera col sangue della propria figlia il titolo di Re de' Re e la speranza di dominare un giorno la Grecia. L'altra tragedia, quella che avete veduta, non sentita nè intesa (ben l'intesero quattro mille e più spettatori), tendeva a mostrare come lo stesso re al sacrificio del sangue suo aggiungeva il proprio disonore con l'insidiare e la gloria e la vita degli eroi del suo esercito, e come in un esercito atterrito da un Agamennone e ingannato da un Ulisse, ogni eroismo merita la stima, ma non può mai sperarsi la difesa del popolo. La terza tragedia mostra un monarca che, lasciando distrutto il paese da lui conquistato, torna e regna in paesi deserti da una lunga guerra ambiziosa, e divorato da' rimorsi, e dalle insidie de' suoi adulatori e della sua famiglia a cui ha insegnato (?) il delitto, s'uccide esecrato.... e compianto da' posteri.

Però altri disse ch'io nella tragedia rappresentata aveva violate le antichissime tradizioni assegnando ad Agamennone il progetto di dominare tutta la Grecia, il che certo nelle greche storie non apparisce, bensì era uno de' miei usati capricci per additare la monarchia universale di Carlo Quinto e di Napoleone, che allora appunto s'apparecchiava alla guerra contro la Russia. Ma quel mio critico o era ignorante delle greche storie, o, se il mondo nondimeno lo proclama dottissimo, si fingeva ignorante per aver occasione di accusarmi in istampa reo capitale di maestà. Perchè Tucidide, principe dell'arte storica, espressamente nel suo proemio dichiara: non essere stata intenzione di Agamennone di riavere la regina adultera, nè di mantenere la fede del giuramento, bensì di giovarsi del pretesto d'una lunga guerra in paese straniero, che, mettendo l'armi de' Greci sotto il suo dominio, avrebbe poscia facilmente a lui ass[ogg]ettate le greche terre; e che un autor di tragedie debba attenersi più alla Storia che alla Poesia, non lo sosterrà se non se chi non nota che il Poema Epico magnifica i fatti pubblici degli Eroi, e che la Tragedia sviscera le passioni secrete del loro cuore, e quindi i caratteri riescono più risentiti.

XI.

Fine del Discorso III, innanzi le lettere. — ... Questioni molte. - Or pregovi, soffermatevi tanto ch'io vi dica che non ho tempo ormai da rispondervi; chè il governo austriaco, al quale, a vostro credere, io servo sì bassamente, manda requisitoriali contro di me; e benchè gli ospiti miei poverissimi e nobilissimi mi facessero scudo del loro petto, a me corre l'obbligo di liberarli di tanta sollecitudine, e de' pericoli a' quali i cittadini d'una piccola repubblica sarebbero esposti, se si facessero beffe delle richieste d'un potente vicino....

Ma se tanta cura è in voi de' fatti miei da sapere come mi sia comportato sotto il governo austriaco, eccovi gli esemplari di due mie lettere, e avrete, se non ordinata, almen piena risposta alle vostre insistenti interrogazioni.

IV.

QUESTIONI INTORNO ALLA INDIPENDENZA DELL'ITALIA

[FRAMMENTI]

Principes sedebant et adversus nos loquebantur
servi autem exercebamur in iustificationibus.

I.

1. Se l'Italia meriti indipendenza, se l'indipendenza d'Italia giovi alle altre nazioni, se il diritto dell'Italia, e il consenso delle altre nazioni le bastino senza i mezzi necessari non tanto a ottenere, quanto a serbare l'indipendenza, sono questioni agitate l'una da' Diplomatici, l'altra da' Filosofi, l'ultima da' Politici; ed io, nessuna dannando delle loro sentenze, nessuna adottandone, le esporrò; e mi riporto a chi sa.

2. Allorchè, son oggi undici mesi, la Città di Milano, ideando costituzioni, inviò oratori a Parigi, ho udito dire che uno de' ministri preponderanti, poichè gli ebbe alquanto ascoltati, gl'interrogò: — Che avete voi fatto per la Confederazione Europea, da domandare indipendenza a' Monarchi? — Queste parole alludevano a' nostri nuovi demeriti; inoltre molti scrittori ministeriali, con gli annali alla mano, ci rinfacciarono i demeriti antichi; e tante loro ragioni contro la nostra indipendenza lessi in istampe, tante altre mi furono partecipate e a voce e per lettere da personaggi i quali, a quel ch'io giudico, risapevano ciò che di noi dicevasi in tempo del Congresso di Vienna, ch'io potrei farne de' libri. Le ristringerò in brevi pagine.

Adunque, ogniqualvolta voi chiederete libertà a' ministri de' Principi, voi v'intenderete da tutte parti, o Italiani, ripetere:

3. — Italiani, ringraziate i trionfi degli antichi abitatori delle terre che or sono nostro retaggio, se non si è per anche mutato all'inerme metropoli delle nazioni il sacro nome di Roma.

— Ringraziate i fondatori costanti, e gli industriosi propugnatori di tante repubbliche nate al primo grido delle Crociate, i quali ampliarono così altere e popolose città, da persuadere i vincitori a non demolirle, o a rifabbricarle alle volte col vostro danaro, affinchè le sedi e le mura di repubbliche libere per più secoli fossero perpetue sedi magnifiche a governatori vassalli de' monarchi, che da lontano vi rinnovavano il giogo sul collo senza fatica; o fortezze da tenervi atterriti, e prolungare le guerre su' vostri campi.

— Ringraziate la fama de' vostri padri, benemeriti della rinata letteratura, se ancor vi rimane una lingua, e per essa il titolo di nazione; ma nudo; da quando i Papi, prima veraci padri d'Italia, che nell'undecimo secolo resistendo agli imperadori v'educarono all'armi e alla libertà, que' medesimi poscia, di successore in successore, con decretali in vista onorate, ma nei fatti de' potenti regnatori derise, si sono ostinati a raccogliere il frutto degli errori di Gregorio VII; e più quegli errori venivano fuor di stagione, e più riuscivano vane, tanto che furono nel principio del secolo XVI interamente obbliate, la sovrumana fortezza e la sapienza politica di quel grande Pontefice, che vedeva consistere la temporale dignità della Chiesa nella indipendenza delle vostre citta, e quindi nella lor confederazione la più fidata difesa de' suoi pastori.

4. — Fu consumata la servitù vostra, o Italiani, son oramai trecent'anni; nè tanto corso di tempo dovrebbe averne agli occhi vostri rapite le cause, da che gli effetti si sono anzi accresciuti. Le armi francesi furono chiamate in Italia sino da' tempi di Carlo Magno e di suo padre dai Papi per difendere il patrimonio di San Pietro; e questo costume fu imitato di secolo in secolo, finchè al tempo di Lodovico XII, di Francesco I, e di Carlo V, il giogo restò eternamente infame sul collo d'ogni Italiano.

— Il parteggiare in favore degli stranieri provocò tradimenti nuovi in Italia, e private vendette, e più meschine ambizioni, e più stolti terrori in vantaggio de' rei, e sempre in danno della nazione. Quindi l'esempio a richiamare stranieri e l'allettamento agli stranieri a predarvi, e l'arte di disunirvi per mezzo dell'invidia, premiandovi sino a costituirvi nemici mortali fral voi: quindi in pochi anni la prepotente dominazione di Carlo V. Poi, le figliuole bastarde di re forestieri sposate a bastardi da' principi della Chiesa; e sì fatte mogli ottenevano in dote da' loro suoceri o un milione di vostri antenati in catene, o l'oro e le lagrime e il sangue d'una provincia, o una repubblica manomessa sotto fede di liberarla.

— Aggiungete i ceppi ribaditi da' vari continui tiranni, schiavi d'altri tiranni vilmente da' vostri patrizi sofferti, proditoriamente aborriti, adulati a un tempo e insidiati, non per desiderio di sterminarli ma di rimutarli; patrizi abbrutiti nell'ozio, [che] sdegnano di servire e non ardiscono farsi padroni; e fattisi a caso, riescono inetti.

5. — Se non che s'acciecò a poco a poco in voi tutti anche la conoscenza d'essere schiavi. Dieci generazioni di padre in figlio, dalla prima puerizia alla vecchiaia, furono educate da uomini che non conoscono patria se non la loro congregazione; nè leggi che fa lor setta; e, rinnegando la propria ragione, si professano satelliti dell'altrui volontà; ed abiurano padre, madre, fratelli, e nome, e casato; vittime insieme e sacrificatori di sè medesimi, e arrabbiati d'invidia contro la società, dalla quale si sono irrevocabilmente disgiunti; usurpatori per istituto, a titolo d'elemosina, de' sudori del popolo; e, sotto promessa di redenzione d'anima, insidiatori della eredità del pupillo, quantunque il celeste padre degli orfani abbia lor minacciato: Guai a voi ipocriti! perchè divorate le case delle vedove cantando lunghe preghiere: (14) ipocriti venditori della santa morale e d'indulgenze sacrileghe alle libidini d'ogni ricco; spiatori del santuario delle famiglie, e però necessari e temuti; coadiutori in sembianza, ma perfidamente rivali d'ogni sacerdote cittadino che solo veglia con occhio paterno su l'ovile del Dio del Vangelo, e solo porge refrigerio agl'indigenti e agl'infermi con una parte della sua povera mensa; educatori funesti, che reprimono gli ingegni, affinchè non possano un di smentire i loro maestri; precettori di lussurie letterarie, e di vaniloquio rimato, e di non so quali ambagi, ch'essi chiamano filosofia, per isviare la gioventù dalla maschia eloquenza che sgorga soltanto dalla conoscenza e dal magnanimo sentimento del vero: cresciuti per le vie della fraude, per l'affettata abbiezione di sè stessi e per l'ozio, abborrono ogni valore, adonestano la concordia, e dannano chi snuda, senza loro doncessione, la spada.

6. — Eccovi, o Italiani, le cause perpetuatesi dal MCCCCXCIV: le quali vi hanno fatto meritevoli al fine di non essere più nominati. Le case vostre dominatrici paghino i loro annalisti; l'Italia non avrà più storici. Una delle rivoluzioni assegnate dalla Provvidenza a rieccitare ad ogni ricorso di tempi il genere umano, scosse l'Europa, e costrinse i monarchi a menomare la propria autorità col ridurre in nazioni guerriere le provincie che prima erano suddite inerti di governi più o men militari. Il moto si è propagato necessariamente in Italia! Vi furono ridate l'armi e promessa di libertà; e voi avete aspettato che la promessa vi fosse attenuta, e da chi? Predicavano i vostri maestri, gli oratori vostri e i poeti, ripetevano i magistrati vostri che il nuovo Giove terreno aveva col suo splendore ecclissato quanti semidei furono e sono e saranno; e, mentre i confederati varcavano il Reno e l'Adige, i Senatori vostri v'assicuravano che l'Astro di Napoleone ardeva ancor di gran luce. Il sole se, quando giunge a sommo il cielo, s'arrestasse per brevissimo tempo, arderebbe ogni cosa che illumina; la terra s'alimenta di quella luce, e sfugge rapidissima alla sua prepotenza. Venne occasione di liberarvi, o Italiani, e del donatore sospetto e degli antichi padroni imminenti, e d'insorgere in guisa da obbligar l'uno o gli altri, a ogni evento, a condizioni più generose. Ma venti anni d'agitazioni parziali in un popolo non rompono il sonno universale d'alcuni secoli.

7. — In fatti, qual uso avete voi fatto delle vostre armi e delle propizie occasioni, che non abbia manifestato alla terra la vostra radicata vocazione a servire, quando con tanto coraggio non avete fino ad or combattuto se non a servire? Voi siete accaniti in battaglia, accorti a discernere le arti della tirannide, concordi a dolervene, e inerti ognisempre, e odiosamente dissidenti a sottrarvene; e presumete di non vivere servi? Innalzi l'Italia a sua posta i sepolcri de' suoi guerrieri, ridomandi le lor ossa non ancora sepolte; i suoi fasti non però si sono accresciuti: piangete voi; ma non aspirate ch'altriv'intenda. Avete piantate le vostre insegne nelle terre meridionali e nelle più settentrionali d'Europa; l'avete percorsa da vincitori: ma dov' è una sola città d'Italia che siasi molto o poco serbata da voi medesimi, tosto che vi è mancata la fede, e l'alleanza, e il comando dello straniero? Non udiamo nominar capitani d'eserciti o magistrati, non additar cittadini potenti per sostanze o per nome, i quali abbiano almeno tentato d'illuminare il vostro desiderio d'indipendenza, e dirigere ad evento meno obbrobrioso le vostre forze. Che se taluni intesero di riparare o alla troppa obbedienza de' vostri capitani verso i capitani stranieri, o alla dappocaggine de' magistrati, o alla indolenza de' cittadini autorevoli, i loro sforzi tornarono infruttuosi; si rivelerebbero con loro pericolo: inoltre il magnanimo avvedimento di pochi mal secondati farebbe tanto più risultare la cecità universale.

8. — Italiani, voi non siete più popolo, non dovete avere più storia. La nazione che ostenta la boria del nome, e non sa farlo rispettare col proprio coraggio; che si lamenta dello stato servile, e non ardì sollevarsi con tutta l'Europa, fuorchè a parole, all'indipendenza; sì fatta nazione somministra ragioni di deriderla come vana, pretesti di opprimerla come orgogliosa, e occasioni di giovarsi delle sue ricchezze e riprometterle liberta, ed aggregarla a nuovi popoli conquistati. Or si fatta nazione la vostra. Adunque siate servi, e tacete.—

9. E se tutti quelli che a noi danno avvisi si acerbi fossero citati a renderne conto, io per me stimo che l'equità li condannerebbe per troppo severi: ma la giustizia guarda non tanto alle eccezioni e agli accidenti che scusano, quanto al fatto di prova; e il fatto sta che il Regno d'Italia precipitò, e non si vide nè la maggiore nè la più potente parte de' cittadini promovere o col danaro, o con la persuasione, o con l'armi un unico tentativo a indugiar la rovina: perchè quanto al tumulto milanese, benchè i Senatori, parte perchè non sapevano, parte perchè non ardivano parlar chiaro, abbiano lasciati ambigui i lettori, è notissimo a che misero scopo tendeva; e chi tuttavia s'illudesse, se ne chiarirà fra non molto. E però (se i giornali inglesi non mentono) non sono molti giorni che in Londra è stato intimato a un ministro di rendere al Parlamento ragione: Perchè si fosse lasciato dall'Ambasciatore della Nazione Britannica ripartire nel Congresso di Vienna, come branchi di pecore, i popoli.     Il ministro, quasi assumendo l'apologia del Congresso, replicò per l'appunto quel calzante:
Che ha dunque fatto l'Italia? (15) da cui scaturirono, a guisa di direttissime conseguenze, i rimproveri sovra espressi; e parlò più leale, al parer mio, nella seguente adunanza, allorchè con assai diffusa orazione sostenne che all'Europa necessitava lo smembramento e la servitù dell'Italia, e che Genova, conceduta al re di Sardegna, avrebbe pianto per avventura l'antica sua libertà, ma avrebbe giovato all'universale equilibrio; da che il Piemonte diventava più forte contro gli assalti di Casa d'Austria, o di Francia. Or, comunque stiasi la cosa, e veri o falsi che siano i racconti di que' giornali, la verità è che fu regola sempre a' ministri delle potenti nazioni d'obbligare, per mezzo della guerra o del commercio, i popoli deboli a pagare tributi. La Provvidenza temperò la regola coll'ordinare che gli esattori siano anch'essi, a periodi certi di vicende e di tempi, facilissimamente spogliati. (16)

Ma il Cielo indugi l'ora in cui, dal settentrione dell'Ameriaa e dell'Europa, le nazioni che or crescono ardite di vigor giovanile costringeranno gl'Inglesi alla regola [stessa].Del resto, il [vantarsi] che se noi ci fossimo governati più saviamente, i diplomatici avrebbero posposto l'utile de' principi al nostro, e l'uscire d'impaccio con sì fatti rimproveri, mente alquanto il dileggio; e i [governi], non dirò per riguardo all'umanità, ma alla dignità loro, dovrebbero, parmi, astenersene, specialmente contro gl'inermi.

I. Sono alcuni egregi intelletti, i quali, elevandosi alla contemplazione dell'ordine universale, e interpretando i fini della Provvidenza a favor de' mortali, descrivono, per sommi capi, la storia della prosperità avvenire del globo, e indipendenti d'ogni passione, lo vanno considerando, sto per dire; con la mente pacata e benefica con che lo guarda il Creatore. Però, trasandando gli annali d'alcune generazioni come accidenti di poco momento, si studiano di rivocare le cose terrene alla idea del Giusto coesistente all'eternità; e ne hanno, da Pitagora in qua, lasciato sistemi dialetticamente forse innegabili, ma impraticabili sino ad oggi. Se non che è loro massima: che i fatti, comunque paiano incoerenti con la giustizia, non però la distruggono; perchè anzi giovano a farla più sempre desiderare: il che ha già approssimato i mortali e li approssima alla perfezione alla quale Iddio li ha creati; da ch'ei contraddirebbe a sè stesso, se, dopo d'averci dotati della facoltà di distinguere l'ottimo, e della brama e de' mezzi di conseguirlo, ci avesse predestinati ad errare perpetuamente nelle sciagure del pessimo: ci ha bensì soggettati alla necessità di ravvederci gradatamente, e guidati dal flagello della sventura, affinchè, atterriti e corretti, la nostra felicità sia lavoro e merito nostro, e l'esperienza de' mali sofferti per molti secoli ci preservi dal ricadere ne' primi errori.

II. Gl'illustratori di sì liberale filosofia dissentono spesso e ne' suoi corollari, e nello scopo dell'applicazione, e nelle forme d'esporla, e fin anche nelle massime capitali. Taluno d'essi ha insegnato che le cose degli uomini non si cambiano a gradi; bensì, quando sono arrivate all'estremità del pessimo, allora solo passano d'un subito all'ottimo. (17)

Altri crede la nostra perfezione apparecchiarsi per uno stato di vita diverso da questo d'oggi. (18) Tuttavia nè le domestiche dissensioni di questa scuola, nè le opposizioni di molti impugnatori le hanno impedito che s'ampliasse: il che nasce per avventura da tre cagioni. L'una che partecipa della religione, ed è venerata; l'altra, che lusinga le speranze, la fantasia e l'inerzia contemplativa, e consola; l'ultima cagione si è che, quanto più una dottrina è inintelligibile, tanto più accresce il numero de' suoi proseliti. Certo è che oggi ha sede principale in Germania; ed è innegabile che con l'arme dell'opinione cooperò virilmente a sconfiggere Buonaparte. E non manca d'allievi italiani, non tanto utili, per nostra disavventura, alla loro patrie; e il dissi altrove. Ed ora mi sdebiterò co' lettori, a' quali promisi di riferire i discorsi, con che ho spesso udito i sostenitori della Perfettibilità snodare il problema: Se l'indipendenza d'Italia giovi alle altre nazioni.

III. Secondo essi, la servitù d'un popolo non annienta i suoi diritti alla libertà; in ogni diritto è inerente una forza sua propria, alla quale se non s'ha riguardo, prorompe un dì o l'altro a guerra atroce e il rivendica; servi he miseria d'un popolo e durevole prosperità degli altri sono cose irreconciliabili: e però la repubblica degli Stati Europei, dovendo di necessità provvedere alla propria felicità, sarà obbligata a ridare indipendenza all'Italia. Nè i ministri negano a viso aperto gli assiomi. Nè esigono prove, quand'ei pur non ignorano che gli assiomi non ammettono per loro natura dimostrazione veruna; inoltre è fondamento principale di questa scuola che le verità più schiette e più utili all'uomo sono pur quelle che si fanno sentire, e non si lasciano analizzare. Anzi i ministri promettono d' acquetarsi alla conseguenza, purchè i filosofi, esaminando una per una le circostanze d'Europa, assegnino, per via de' probabili, anno più anno meno, quel tempo in cui l'Italia avra anch'essa diritto di sedere e dare suffragi nel concilio della repubblica universale.

IV. Quest'era il tempo (rispondono a una voce i filosofi), se i ministri avessero attenuto le loro promesse; s'ei non avessero abusato della fede de' popoli, i quali, sperandosi pace e giustizia, hanno guerreggiato con eroica fortezza; se finalmente i ministri non avessero invidiato a' loro Signori la gloria, riserbata ad essi dal cielo, di promovere il genere umano ad un altro grado, e forse il più arduo, verso la perfezione, col convertire le vittorie d'una [guerra] santamente intrapresa, non a conquiste in vantaggio di pochi, bensì a beneficio di tutta l'umanità. ...

V. Non si trattava di castigare gl'Italiani, lasciandoli a chi primo se li pigliò, se non hanno saputo, benchè in parte potevano, e quasi tutti bramavano (ma e qual gabinetto tentò allora d'indurveli? ) cooperare alla libertà dell'Europa. Volevasi riordinarla con tale equità, che l'usurpazione di un solo, o di due, o di tre (torna all'incirca tutt'uno) non somministrasse novelli mezzi d'adonestare col titolo di conquista le nuove usurpazioni, alle quali, tende sempre chi può. Volevasi pacificare il genere umano per ora, e menomargli forze e pretesti di duelli universali per l'avvenire. Molte e ricche e popolatissime terre, chiuse da due mari e da tutte le Alpi, quando siano mal ripartite ed inermi, invoglieranno oggi o domani i vicini a rapirle a chi se le tiene, e daranno pronto principio, nè concederanno facile termine, a nuova guerra, che struggerà quel poco che ancor avanzasse di gioventti della presente e della sorgente generatione. Non si contende a' ministri i diritti della conquista ad opprimere; ma i popoli assai volte rispondono al diritto dell'oppressiorie con l'equivalente diritto dell'insurrezione; e s'altri tiene l'Italia per sì dappoco da non insorgere, certo è che delira tuttavia novità, e che, per ischermirsi dello stato suo doloroso, va più sempre agitandosi; e, la meriti o no, desidera indipendenza. Questo quanto al diritto.

VI. E quanto all'utile generale, riescirà sempre meglio a costituire forte l'Italia, con savi provvedimenti, se pur si vuole, in tre o quattro stati confederati, per sua propria quiete e degli altri; se no, chiunque sarà ambizioso d'ingrandimento o disperato del suo stato e di sè, correrà a guerreggiare e a sommovere agevolmente tanti minimi principati. Fuggiranno i principi deboli per. salvarsi, non foss'altro, lo scrigno; e, per quante doti ei posseggano, la lor debolezza li farà tenere spregevoli a' loro sudditi. La discordia di tante provincie renderà più arbitro il vincitore. Quegl'Italiani che non sono volgo, i quali avrebbero voluto consigliatamente eleggersi un Re, preconizzeranno per meno male chiunque verrà a dire: L'Italia è mia; nè sarò Principe d'altra Nazione. Vero è che i padroni de' ministri hanno eserciti; e tanto si combattera, che vedremo tornare in niente e principe, e costituzioni, e quella nuova Italia non riconosciuta ne' diplomi e trattati. Questa dunque è la pace? Poi, e chi mai può governare gli eventi? Ne veggiamo uno che tutti quanti i ministri in consulta non valsero a prevedere, nè ad indugiare.

VII. Stiamo dunque a osservare la scena su la quale Napoleone risale a recitare da protagonista. Che? e non indovinate come il nuovo dramma (da voi disegnato, e vel proveremo) avrà catastrofe di tragedia? — Non trionferà. — Vel crediamo. Or che frutto all'umanità, che Bonaparte sia sconfitto o sconfigga? Pur, presupposto ch'ei vinca, rifarà mezzi a turbare, a spaventare, a usurpare. Voi gli spianaste ogni via alla vendetta, ed ei vi s'alfretterà, predicando di presidiare contro di voi le Nazioni. E or che le sono disingannate intorno alla vostra lealtà, egli può ancora ingannarle. Sperano ch'egli, disciplinato dalla necessità, e costrettovi dalla fazione di cui oggi è più condottiero che imperadore, cederà parte del regio potere all'autorità delle leggi, e, perch'altri non regni più assolutamente di lui, non perdonerà nè a trame, nè a stragi onde obbligare i monarchi tutti a imitarlo. Pur quand'anche ei rinnovelli l'esempio di Nabucodonosorre, e ricomperi con virtù nuove le colpe antiche, non però i suoi beneficj gioveranno alla terra. La maestà de' sovrani sarà menomata, se il conquistatore li obbligherà ad essere giusti; la fede de' popoli incerta; e la comune indipendenza in pericolo. Ricordivi per ora, che a lui, ov'ei sia vittorioso, avete apparecchiato ragioni a punirvi delle politiche iniquità di cui lo avete dianzi punito. Ricordivi che l'abborrimento ch'ei s'è meritato dall'universo si convertirà in meraviglia, e la meraviglia in terrore. Ricordivi che [la natura lo ha creato tiranno].

Nè, lui spento, poseranno gli Stati che non potranno guardare pacatamente le agitazioni di Francia. L'universalità della nazione, amica di Luigi XVIII, è per l'appunto la parte inerte de' cittadini: se ciò non fosse, non lo avrebbero lasciato detron[izz]are da un migliaio di pretoriani. E quando la universalità escirà dall'inerzia, non sarà utile al principe che non può governarla da sè, bensì a chiunque si mostrerà più atto a sommoverla. Il trono è assediato, non già difeso, dagli emigrati; e l'anno addietro hanno secondato sì poco la saviezza del re, ch'essi medesimi, in gran parte, promossero con la loro orgogliosa stoltezza questo nuovo rovescio. È regola senza molte eccezioni che i fuorusciti d'uno Stato, se vi tornano senza esercito proprio, se dove speravano di ricovrare gradi e opulenza, ritrovano invece miseria e disagio, non potranno mai essere utili consiglieri del principe; e peggio che mai, quando il represso rancore, la speranza protratta sino alla disperazione, l'abborrimento a' nuovi istituti, il furore e l'opportunità alla vendetta, e la impotenza di conseguirla, insomma la lunga irreparabile disavventura abbia esulcerato di rabbia il lor cuore, e fattolo incurabile da' rimedi della prudenza. Ben può il lungo soffrire purificare alcune anime, e farle più moderate nella prosperità: nondimeno sì fatte anime sono assai rare. Però le future generazioni si meraviglieranno, non tanto della fortuna che ridiede il trono a Luigi XVIII, quanto della virtù per la quale egli s' è mostrato degno di possederlo. Ma il re non può governare ei solo la Francia.

La Francia ha un genere d'uomini di mente acutissima, amici e nemici d'ogni partito, e che di nessuna opinione hanno cura, di nessuna patria, di nessun Dio, fuorchè del proprio interesse; stipendiati in secreto da molte corti, e celebri per la loro felicissima infamia. Costoro guidarono sempre negli ardui frangenti il timone della fazione o del principe che vedeano più forte. Sanno che i popoli, e segnatamente i Francesi, rispettano l'infamia, quand'è decorata dalle dignità ed armata della forza del re; però s'aggrappano intorno al trono per ogni via: e tanta forse è la corruzione di Francia, da non poter essere governata se non da uomini corrottissimi. Ma il re, che serba dentro al suo cuore la religione dell'onestà, e che ama da generoso cittadino la patria, potrà egli non sentirsi partecipe dell'ignominia di sì fatti ministri? Potrà non temere che, fidando in costoro, la Francia e la sua famiglia non siano messe di nuovo a mercato? e non pertanto e' dovrà fidare in costoro, fatti per la loro esperienza necessari ed a Napoleone, e a' Borboni, ed a qualunque gabinetto straniero vorrà ingerirsi nelle cose di Francia; fatti formidabili dalla loro illustre svergognatezza. Pur nè costoro, che sono pochi e inetti alla guerra, nè i miseri ripatriati potranno mai sommovere la nazione a lor senno; bensì gli uni e gli altri, brigando diplomaticamente, le faranno sentire d'essere dipendente da' consigli e dall'armi de' forestieri, e la irriteranno, mal loro grado, a rialzarsi. Nè mancheranno gl'istigatori....

II.

Peraltro, Buonaparte poteva aspirare al trono innanzi di salirvi da sè; ma scendendone, si costituì indegno di risalirvi. Questa, verità, tuttochè inosservata da voi, aiuterà gli Alleati a sgominare le legioni francesi. Parimenti chiunque ripiglia lo scettro per forza d'armi straniere, non sarà mai temuto da chi l'aiutò, nè rispettato da chi gli deve obbedire. Era degno della generosita de' monarchi di restituire le terre a' sovrani scaduti; ma il dono, ove non sia condizionato, sarà dannoso ed a're che tornano dall'esilio, e a' loro sudditi a cui bisognano nuovi istituti. Ben è vero; la quarta parte d'un secolo è insufficiente a cangiare i costumi: nulladimeno, osservate che ogni minima modificazione è principio di cangiamento essenziale. Venticinque anni sono pur sempre assai spazio di vita a' mortali; ma per chi è nato in quest'epoca equivalgono alla longevità de' patriarchi Il tempo, che in sè è indefinibile, si misura soltanto dagli avvenimenti; e quello è maggiore corso di tempo che mena seco più numerosi, pio forti e più memorabili eventi.

Or la storia di tutti i secoli pare che siasi epilogata con luminosi caratteri a' giorni nostri. Le idee seminate da' primi giorni della rinata letteratura in Italia, e di mano in mano nell'altre regioni, hanno oggi alfine pigliato sì alta radice, e frondeggiano sì arditamente, da non poterle più omai sradicare. Le sorti degl'imperi, delle città, delle case si sono sovvertite, atterrate, riedificate spesso quasi ad un tratto: così le calamità e le prosperità inopinate ed estreme assuefecero i popoli al delirio delle passioni capaci di tutto esperimentare, ed ammaestrarono alcuni individui a governare ogn'impresa. Il velo de' misteri politici è squarciato; e il volgo ha misurato la profondità de' vostri consigli; e ne ride.

Che se voi fidate nella spossatezza comune, voi fomentate un errore funestissimo, prima che agli altri, a voi stessi. L'uomo nelle altissime agitazioni sospira l'ozio: pur, se il consegue, e che sia somigliante alla quiete inoperosa de' cimiteri, non ricorda i pericoli, non numera i danni avvenire, e levasi d'uno stato che non gli è conceduto nè dalla lunga consuetudine d'agitarsi, nè dalle opinioni invisceratesi nella sua vita, le quali, ove siano soffocate, gli danno tal guerra domestica al cuore, da fargli parere men angoscioso e men vile il morire con l'armi alla mano. La natura soggettò l'universo a una continua oscillazione: la regolarità del moto conserva le cose; l'arrestarlo o il precipitarlo ne travolge il corso e gli effetti; e il mortale fu manifestamente creato a operare con la medesima legge. Tocca agli ordinatori delle nazioni d'indurle a uno stato in cui possano esercitare tutte le loro facoltà, senza straordinarie perturbazioni; anzi, quanto più si sono dianzi agitate, tanto più è necessario il non forzarle alla quiete. Voi, ministri, resisterete inflessibili; e noi non vedremo costituzioni: continuerete a tenere le spade aguainate di parecchi milioni di soldati, i quali atterriscano i loro concittadini. Per quanto tempo? — Orsù, stringete il freno più sempre; obbligate i popoli a morderlo, perchè s'arrestino, corrano, misurino i passi a ogni cenno della vostra minaccia. Ma e non v'accorgete, o crudeli, come il terrore, nel quale ponete l'ingegno, irrita l'odio de' sudditi contro a' loro principi, che voi dovreste invece far venerare ed amare? Non però estinguerete, ma coprirete l'incendio delle ribellioni, tanto che scoppierà un giorno più rovinoso.

Voi avete giurato di restituire ad ogni nazione i suoi re, ad ogni re i suoi diritti, e quindi alla vivente generazione la pace. Sta bene: ma, con persistere che le cose tornassero come stavano innanzi alla Rivoluzione, diteci, avete voi tentato d'illuderci, oppure vi siete illusi voi stessi? Le nazioni vi domandano principi, ma non individui che, se si fossero armati col proponimento di morire con la corona sul capo, non l'avrebbero forse perduta, o la riassumerebbero, capaci di conservarla. Quanto a' diritti, i diritti d'ogni principe stanno nella sua forza, e questa negli istituti; e la religione verso gl'istituti dipende, torniam pure a dirvelo, dalle opinioni de' popoli. Ma voi, creando in Italia i principi deboli, li lasciate a beneplacito d'ogni forza straniera: inoltre, negando nuove leggi a' lor popoli, lasciate la terra in preda a' più sanguinosi tumulti. Finalmente, la pace, di cui vi gloriate d'essere autori, non avrà stabili fondamenta se non si posa su la giustizia tra popolo e popolo, tra principi e principi, e tra governati e governo. Or potrà egli mai darsi giustizia tra popoli potentissimi e deboli? Tra principi che comandano a trenta milioni di sudditi, e principi che sanno di dover ridare lo scettro a chi lo ha lor conceduto, e può a sua voglia ridomandarlo? Giustizia tra monarchi assoluti, ministri arbitrari e cittadini destinati all'inerzia d'abbiettissima servitù?

Quali sieno i principi tornati in Italia, e quali invece dovrebber essere, vel diremo fra poco. Deponete per ora il timore che gli eserciti di Bonaparte possano riaffacciarsi alle vostre metropoli. Presupponiamo la casa de' Borboni in Parigi: vedete se v'è possibile soddisfare alle seguenti interrogazioni, in tal guisa da ribattere l'aforismo, dianzi accennato, che a dar pace vera agli Stati bisogna dar loro nuovi governi, quando gli antichi riescirono o inettissimi o sciagurati. Luigi XVIII, nipote di tanti monarchi, non ha egli più d'ogni altro re fuggitivo, diritto a regnare anche per l'umanità de' suoi studi, e per le sue virtù non inferocite come in molti altri, bensì raddolcite dalla lunga disavventura? Ma egli non regnò forse per l'armi altrui? Non tornerà egli forse a regnare per l'armi altrui? Non regnerà fra nemici? Credete voi che i Francesi, spento Bonaparte, s'acqueteranno sotto al Borbone? Ripetete le loro storie dall'età di Cesare in qua; la natura non suole smentirsi e serba non solo i caratteri generali, bensì il marchio particolare con che le piacque di distinguere i popoli e gli individui. I Francesi anche ne' loro prosperi tempi farneticarono cose nuove, e solo la forza di tutte le genti può necessitarli, se non a posare, a commoversi senza rovinare addosso a' vicini. Le sconfitte, la miseria, l'umiliazione, l'orgogliosa provocazione, gli effetti insomma della forza senza giustizia sono efficaci, non a domare, a irritare sì fatta nazione guerriera, memore della sua forza e de' suoi freschi trionfi. E la fazione di Bonaparte, o, per dire più esattamente, la setta della libertà, si rimetterà, quando sia vinta, quind'innanzi nella magnanimità del successore d'un re decollato? Ed egli potrà più governare i faziosi con la moderazione che fino ad oggi non valse che a rianimarli a cacciarlo? I principi, i cortigiani, i ministri seconderann'essi la clemenza del re, caso ch'ei vi perseveri, essi che non la secondavano innanzi a questo nuovo rovescio? E il re potrà egli d'ora in poi far fondamento nell'obbedienza di tanti sudditi felloni insieme e potenti? Conoscete voi gli uomini che tradirono il re? le lor arti? il lor numero? le loro trame saldissime in ogni provincia di Francia? le loro alleanze dal settentrione al mezzodì dell'Europa? Presumete voi forse guarita la democratica febbre che va, serpendo negli animi? Ma, sopra ogni cosa, chi è sì inavveduto conoscitore degli uomini da non confessare perpetua sotto i Borboni la guerra civile, palese o tacita, fin tanto che i nuovi possessori delle terre siano sicuri d'ogni paura di perderle, e i possessori antichi escano d'ogni speranza di racquistarle? Luigi XVIII distruggerà egli sotto la scure del manigoldo que' sudditi suoi che non gli possono essere amici, che come fuggiasco il disprezzano, come tornato dall'esilio il paventano, che l'hanno tradito e quindi lo abborrono, e di tal odio da spegergi solamente nel sangue? E piuttosto che lasciarsi mozzare il [capo sul] palco, o vivere, il che è forse peggio, tra l'avvilimento e il terrore, non potranno, per ora, pigliar tempo ed animo ad agguerrirsi, e congiurare, ad armarsi, a sommovere o tutti o in parte gli eserciti pieni d'individui a' quali unica scuola fu il campo delle carnificine, unico mestiere è la spada? E l'infinita moltitudine laboriosa di tante città, la quale, per non essere vincolata a' poderi, è più presta a ogni nuova rivolta, e che or s'alimenta delle manifatture e del traffico avrà ella mai tanto pane da starsene queta, se il monopolio de' capitalisti dell'Inghilterra imporrà leggi all'industria, al sudore, e alle necessità de' Francesi?

Non importa che voi rispondiate a tante interrogazioni; parlerà in vece vostra l'evento. Che la nazione francese possa rinnovellare la lotta con tutti i suoi vicini, e affrontarli, e sconfiggerli come nel primo (sic) decennio del secolo scorso, è per ora improbabile. Questo è certo, che il mondo non guarderà pacatamente le agitazioni di Francia se non quando sarà stabilito con tali ordini di governo da non desiderare altre rivoluzioni. Or finchè sarà diviso in oppressori e in oppressi, questi ultimi seconderanno prima co' voti, poscia col fremito, finamente con l'armi, ogni moto che verrà propagandosi dalla Francia. Non potranno oggi i Francesi, per avventura, armare un milione duecento mila soldati; e Parigi sola ne diede centocinquanta mila in quattr'anni; non rifaranno, come sotto la dittatura di Robespierre hanno pur saputo quasi dal niente rifabbricare, armi, danari in carta, ed artiglierie; la guerra sostenuta da un solo popolo non partorirà più d'ora in poi tante mirabili prove di valore, d'ingegno, e di distruzione. Ma allora....

Ma quando voi rendiate la corona a Luigi XVIII, e' sosterrà la maggiore calamità di cui il furore del cielo possa affliggere un principe; questa: di vedersi costretto a fidare nella forza straniera, e tremare de' suoi proprii concittadini. Che la universalità de' Francesi anteponga Luigi XVIII a Napoleone, il crediamo; che vi perseveri è quasi impossibile. Nè i Francesi spento Bonaparte s'acqueteranno. Ripetete le loro storie da che Belloveso li fe' conoscere agli scrittori di Roma: la natura non suole smentirsi; e, non che i generali caratteri, serba ogni marchio particolare con che a lei piacque ognora di distinguere i popoli e gl'individui. I Francesi anche ne' prosperi tempi farneticarono cose nuove; e solo la forza saviamente congiurata di tutte le genti può forzarli, [se] non a posare, a commoversi senza rovinare addosso a' vicini. Le sconfitte, la miseria, l'umiliazione, l'orgogliose provocazioni, i beneficj insultanti, gli effetti insomma della forza non diretta dalla sapienza sono efficaci non tanto a far ravvedere quanto a irritare sì fatta nazione guerriera, ferocemente istigata dal demone della noia, e dalla memoria della sua recente prosperità. L'universalità amica a' Borboni è per l'appunto la parte inoperosa del popolo; se ciò non fosse, Napoleone non li avrebbe in pochi giorni costretti a cedergli le provincie. L'universalità sarà perpetuamente sommossa o dalla setta degli emigrati, stimolati dalla vanità, dalla povertà, dalla passione della vendetta; o dalla fazione repubblicana la quale macchinò in tutte le riforme di Francia ogni cosa. Or questi non potranno più omai rassegnarsi a obbedire e rimettersi nell'indulgenza del re: nè il re attenersi alla usata moderazione che non lo ha suffragato che a dar più ardire a' faziosi. Ma gli emigrati, i cortigiani, i ministri seconderann'essi la clemenza del re, caso ch'ei vi perseveri, essi che non la secondavano l'anno addietro, e che in gran parte promossero stoltamente il nuovo rovescio?

È regola senza eccezione che i fuorusciti i quali abbandonano il loro paese, e vi tornano senza esercito proprio, e non hanno più nè casa nè terra, e sono in piccolo numero, non potranno mai ben consigliare il lor principe. Dall'altra parte conoscete voi gli uomini avversi a' Borboni? le loro armi, anzi il lor numero? le loro trame saldissime in ogni provincia del regno? le loro occulte alleanze dal settentrione al mezzodì della terra? Luigi XVIIi vorrà, potrà egli domare sotto la scure tutti que' sudditi suoi che non gli possono essere amici, che come fuggiasco il disprezzano, come tornato dall'esilio il paventano, che l'hanno tradito e quindi l'abborrono, che sono rei del sangue de' suoi congiunti, e sanno che sì fatta colpa va lavata nel sangue? Or costoro, piuttosto che lasciarsi mozzare il capo sul palco, o agonizzare fra l'avvilimento e il terrore, poseranno, per ora, a ripigliare animo, ad agguerrirsi, a congiurare, a sommovere o tutti o in parte gli eserciti pieni d'uomini a' quali unica scuola fu il campo delle carnificine, unico mestiero è la spada. E l'infinita moltitudine di tante città, la quale, per non essere vincolata a' poderi, è più presta a ogni novella rivolta, e che or si pasce delle manifatture, avrà poi tanto pane da starne contenta, se il monopolio de' capitalisti dell'Inghilterra imporrà leggi alla industria, al sudore, alla navigazione, al traffico, a tutte insomma le necessità de' Francesi? Ma, sopra ogni cosa, chi è mai sì inaccorto conoscitore della umana natura, da non confessare perpetua, nelle presenti condizioni di Francia, la guerra civile, palese o tacita, fin tanto che i nuovi possessori delle terre siano sicuri d'ogni paura di perderle, e i possessori antichi escano d'ogni speranza di racquistarle? E quali furie attizzarono gli uommi a guerreggiare accanitamente dal principio dell'età del mondo alla nostra, se non queste due: la paura di perdere, e la speranza di guadagnare?

III.

Vengo alla terza questione, intorno a' mezzi necessari alla libertà: mezzi d'effetto certissimo, a quanto i politici affermano ma terribili a dirsi, malagevoli ad intraprendersi, crudeli in sè stessi, così che l'utilità del loro effetto è distrutta dalla difficoltà e dall'orrore dell'esecuzione. E' dicono: « L'Italia è peggiore che non la descrivono i diplomatici; e i principi sono forse anche più generosi che non sono presupposti da' metafisici: ma non istà a questi, nè a quelli, nè agli altri, il soggiogare o redimere un popolo; perchè la redenzione sta tutta ne' mezzi, e i mezzi nelle mani del popolo; e s'egli è tale da usarne, si libera; altrimenti non v'è potestà su la terra che gli allenti il giogo sul collo ».

Frattanto voi, ministri dei re, v'andate gloriando quasi foste giudici delle colpe de' popoli, ed arbitri delle loro sorti, e giusti dispensatori delle loro spoglie, secondo gli interessi da voi bilanciati dell'universo. Ma voi siete ruote dell'oriuolo: l'oscillazione perpetua del mondo vi comunica il moto; la macchina è ignota a voi stessi, incomprensibile a tutti, immensa, pari alla Divinità onnipotente che l'ha creata. Voi non potete preterire nè d'un attimo il corso, lo spazio, ed il tempo che misurate, non che alterare il modo o le forme delle vicende che voi vi credete di governare. Le cose del mondo corrono a gran torrenti da sè; strascinano chi vuole arrestarle: forse agli uomini previdenti e fortissimi è dato d'innalzare argini e ripari talvolta in guisa che abbiano corso più regolato; così il fiume ben deviato annaffia, e impedito distrugge i lavori degli uomini. Ma sì fatta sapienza è assai rara, e che la non sia vinta dalle nostre individuali passioni è rarissimo.

Inoltre fu sì repentino, e sì vorticoso, e sì pregno di tempeste politiche il corso di questi venticinque anni, che Dio solo potè guardarlo senza ingannarsi. E se l'uomo solo che vi parea di disprezzare, ma per cui solo voi suscitaste un milione d'armati, mentr'ei si credea di sedere sulla sommità del cielo, e governare il genere umano ravvolto dalle tempeste sotto a' suoi piedi, ne fu sbalordito e indi precipitò da sè stesso, — sarete voi sì superbi omai da presumere di non essere stati, di non sentirvi tuttavia sbalorditi?

Il sentimento delle vostre passioni dominatrici, a cui voi dovete obbedire, assume in voi le sembianze di ragione, e talvolta di ragione di Stato. Però vi credete di agire per via di calcoli; e v'è chi vi biasima e chi vi loda; e sempre ingiustissimamente. Perchè un ministro, anche nelle repubbliche, è necessario esecutore dell'estremo potere assoluto, ed è in guerra perpetua con la nazione, e talvolta anche col principe. Voi d'uomini diventate ministri, perchè la passione del vostro ufficio diviene l'elemento della vostra vita. Spetta al popolo d'opporvi la barriera della costituzione, ed a[l] principe di correggere con la magnanimità inerente al suo grado la vostra necessaria tirannide. Ma il popolo spesso è troppo lontano da voi, ed è percosso pria d'avvedersene; e voi state troppo vicini al monarca. A che dunque molti si dolgono d'uno o d'altro di voi alle genti, se dividete l'Italia con compiacenza, se vedete esiliare mezza la Spagna con tacita indifferenza, e se a viso aperto gridate: “Non avvezziamo a costituzioni i popoli”?

Dall'altra parte guai a voi, filosofi, giusti, veggenti, ed inermi! e Maometto non capitò male perchè profetava con l'armi alla mano; guai a voi, se non architettaste progetti sì effettivamente impossibili da confortare i forti e gli astuti non solo a non imporvi silenzio, ma ad onorarvi, affinchè voi non rifiniate di predicare le vostre visioni, tanto che dal disinganno dell'ottimo inarrivabile, gli ignoranti, i pazienti, gl'infermi di cuore e di mente, l'universalità insomma de' mortali, incapace di starsi nell'equilibrio del mezzo, si rassegni disperata a secondar chiunque, per governarla a sua posta, la vuole precipitare nella contraria sciagura del pessimo. Voi che, come tutti noi uomini, non sapete nè come vivete nè perchè; che, senza poter mai conoscere in che modo pensate, credete pur sempre di pensar bene, voi allegate ragionamenti di ciò che Dio avrebbe potuto fare o non fare, e affermate che Dio non poteva nè doveva volere se non se ciò che voi pure volete, perchè a voi sembra il meglio. Adorate la sapienza e l'onnipotenza di Dio, e, senza arrogarvi di esaminar le sue vie, nè di stabilire i suoi fini, considerate soltanto la terra che v'è data per abitazione, e le prove perpetue che la concatenazione de' fatti vi somministra; e solo con quest'unico lume dirigete men obliquamente le vostre opinioni e le altrui.

Perchè, col dire a' popoli: — Aspettatevi libertà da monarchi stranieri —; e a' monarchi: — Liberate i popoli stranieri d'ogni tributo —, non v'accorgete che voi concludete contro al vostro consiglio? Perchè il re che fa trucidare cento mila giovani in guerra, e depaupera il proprio Stato per l'altrui libertà, temerà giustamente il pericolo d'essere sì debole da dover poscia obbedire; e i popoli che servono (?) a uno, quanto più aspettano liberazione dagli altri, tanto più si preparano alla servità, tanto sono men atti alla libertà; e, quando pur sia lor data, non la conservano.

Adunque nessuno si millanti d'avere rimeritato della debita pena l'Italia. Quando una nazione è schiava, devono esservi necessariamente i padroni. Quindi a voi, ministri, la necessità di smembrarla; e, ove fosse libera, vi vantereste d'aver rispettato la sua libertà. Ma, come ne' tre secoli da voi citati non era in vostro potere di apparecchiare i mezzi della sua servitù, di cui or vi giovate, così vi sarebbe ora impossibile, non che adoperare, ma nè di porgere nè osar corisigliare i.... mezzi atti alla sua redenzione.

Or quando avete creduto che i monarchi d'Europa dicessero: Vogliamo liberare l'Italia ; allorchè voi ripetete a' monarchi: Pronunziate “L'Italia sia liberata”, e sarà liberata ; è patente che nè questa concatenazione di storie avete considerata dall'alto delle vostre visioni, nè siete sì vicini all'Italia da discernere la sua nudità.

Or voi, dall'alto delle vostre visioni, avete distinta nel globo terracqueo l'Italia, ma non sì da presso da discernere la sua nudità; però andate disegnando repubblica o monarchia. Non v'è indipendenza mai senza popolo, senza nobili e senza sacerdoti. Nessuna di queste tre cose ha l'Italia, e tutte può averle; ma con mezzi sì orrendi da superare.... E' vi parranno paradossi; ma udite, e le saranno patentissime verità.

Ogni politica società è costituita non tanto dagli abitanti, quanto dal suolo: e' può darsi terra senza abitanti, non comunità d'uomini senza terra. E dove la più gran parte degli abitanti non possiede la terra, e dove tutti non possono secondo la loro industria, non dico nutrirsi, ma godere abbondantemente de' frutti della terra, e farne cambio co' frutti degli altri paesi, ivi non può esservi popolo. Ivi la universalità non è popolo, è plebe, a cui bisogna dare pane quanto basta, un altare qualunque, e un carnefice. Voi m'allegherete al solito l'Inghilterra, e i nobili che ivi sono e ne possedono il suolo, ma avrete veduto libero anche l'oceano che la circonda, unico verace propugnatore della costituzione.

Con questi ragionamenti e con altri più calzanti forse e a me ignoti, i ministri, i filosofi ed i politici avranno, a quanto io credo, discusse le tre questioni preaccennate intorno all'Italia. Or parmi bastantemente chiosato il testo: Sedevano i principi e discorrevano contro di noi; e noi servi ci esercitiamo soltanto a scolparci. (19) Perchè le cose che andrò nel seguente discorso allegando potranno, io spero, attenuare i rimproveri, non già mutare la conclusione de' disputanti, la quale non[ostante] il dissidio delle loro opinioni, è pur una, cioè: che sia per nostri demeriti, sia per non essere anche maturo il tempo della prosperità dell'Europa pronosticato da' savi, sia [per] la necessità d'ineseguibili mezzi, l'italiana libertà è disperata.

IV.

Questo vogliamo avvertire: che nel MDCCXC la guerra incominciò tra i popoli e la tirannide; continuò tra i regicidi e i monarchi; proseguì tra la tirannide, i re e la nazione; poi tra le nazioni alleate coi re contra la tirannide; ora forse tra i ministri aiutati dalla nobilta e le costituzioni richieste (?) [dal] Terzo Stato. Se i principi saranno ubbidienti al Terzo Stato, saranno padroni de' lor ministri; diversamente la nobiltà e i ministri domineranno, non so per quanto tempo, i popoli e i re.

V.

Lo Stato più o meno libero, o più o meno servile non dipende che dalla tendenza delle sue passioni. A mutare lo Stato, bisogna rimutare il corso alle sue passioni. Passioni individuali in Inghilterra sono, come in ogni paese, l'amore di sè; ma perchè l'uomo non può trovare l'utile suo se non se nell'utile pubblico, gli uomini in Inghilterra diventano cittadini. In Italia ogni cittadino è sforzato a diventar animale, perchè, non potendo giovare alla [patria], la patria non gli può dare mai nulla.

Considerate l'Italia, e vedrete che non, può avere libertà, perchè non v'è libertà senza leggi; nè leggi senza costumi, nè costumi senza religione, nè religione senza sacerdoti; nè patria insomma senza cittadini; non repubblica, perchè non v'è popolo; non monarchia, perchè non vi sono patrizi. Resta il governo assoluto; tutte le altre miserie civili somigliano alle infermità; il despotismo alla morte: or nulla importa, o sì poco da non farne tanti clamori, d'essere governati da un despota lontano (?) per via [di] satrapi, o da un despota imminente; perché, ad onta d'ogni sua generosa volonta, il principe che verrebbe in Italia, sarebbe costretto ad essere despota.

Parrà a voi solennissimo paradosso che l'Italia non abbia nè patrizi nè sacerdoti? Così è. Chi son eglino i nobili? i principali per sapere, e per valore, e per gentilezza; governano quindi, ammaestrano, difendono con l'armi la patria e l'amano con la....

VI.

Or nobile in Italia, specialmente dopo la caduta [della] repubblica veneta, esprime un uomo che possiede per eredità titoli vani, e terre ch'ei, per giunta, lascia in mano d'agenti. Le sole terre costituiscono il diritto di cittadino: ma chi non si serve, nè con l'armi nè nel governo, di questo diritto, vedete a che lo riduce: a pagare una parte de' frutti ad un governo qualunque, e a divorarsi il rimanente in ogni modo qualunque. I titoli così vani sono la vera peste della presente divisione d'Italia; ogni patrizietto contentasi di primeggiare nel suo municipio, e sdegna accomunarsi e competere con gli altri patrizi d'Italia. Ognuno s'illude credendo che il principe della sua provincia abbia bisogno di lui, per la sola ragione che, escludendolo dal governo o dall'armi, lo accoglie, quasi oscuro satellite d'un pianeta, a' conviti di corte, e gli permette di dargli da bere, [e] l'acqua alle mani, e tenergli la staffa. Le piccole città d'Italia s'uniformano alle grandi, e nelle capitali il popolo è poverissimo, quindi tributa ai nobili che gli possono dar da mangiare....

VII.

A un cittadino svizzero piacque di regalarmi le Filippiche che non mi era mai venuto fatto di leggere contro la Spagna, attribuite dagli eruditi ad Alessandro Tassoni; e vi è certo il suo stile. Eccone un passo: [ Il passo manca. Il Mayer ha pensato che potesse essere il seguente: « Sommo Pontefice, Repubblica Veneta, Granduca di Toscana, ben sarete voi goffi, se havendo il signor Duca di Savoia tenuto il bacile alla barba a questo gran colosso di stoppa, non finirete voi di rintuzzargli l'orgoglio. Le vostre lentezze, le vostre freddezze, i vostri timori sono stati quelli che gli hanno dato baldanza ecc. » ]. Nota: — 1º Che il Tassoni, o qualsiasi lo scrittore generoso delle Filippiche, esortava i signori e i cavalieri Italiani a confederarsi col Principe di Piemonte che guerreggiava contro la Spagna, allora dominatrice d'Italia; e nessuno si mosse. — 2º Che fu plebeamente, in istile d'avvocato, risposto che il Duca non poteva essere liberatore d'Italia sì perchè i suoi antenati furono bastardi inutili, pigri (?), ecc.; sì perchè il Duca essendo cavaliere del Toson d'oro, e il gran maestro dell'ordine essendo il re di Spagna, il Duca non poteva armarsi contro il suo superiore. — 3º Nota principalmente che la risposta è in data di Milano. — E, per non essere affatto inutile anche agli uomini letterati d'Italia, i quali attendono solamente all'edizioni de' libri, dirò che questa operetta, giudicata dal Tiraboschi rarissima fra tutti i libri, è in-4º piccolo, senza nome di stampatore, nè nome di paese, nè frontispizio, nè numeri in capo alle facciate. Le due Filippiche consistono di facciate 12 [e] 1/3, di 45 versi l'una, e la Risposta di facciate 10, e pari numero di versi; e tutto il libretto [di 22] facciate intere e di 1/3. Quest'ultimo membro di noterella ho voluto aggiungere affinchè molti illustri Bibliotecari d'Italia trovino alcuna cosa di loro genio nel mio libricciuolo e veramente utilissima al pubblico. —

V. COMMIATO.

[FRAMMENTI].

I.

CONCLUSIONI. — L'autore scusa il suo stile e l'avere assai parlato di sè. — Ma è tempo oramai ch'io mi cerchi più sicuro rifugio, e ch'io termini questo discorso a voi certamente assai lungo, o lettori; a; me no, perchè venni così spassionando l'anima mia di pensieri che ravvolgeva secretissimi da tanti anni. Ben vedo che a' begli ingegni, i quali già tempo notavano il mio stile d'ostentate profetiche tenebre, darà oggi noia al contrario questo mio largheggiare di digressioni, di ripetizioni, e di frasi; e molto più l'avere si poco sobriamente parlato de' fatti miei. Se non che forse come allora non voleano avvedersi ch'io parlava di libertà mentre Napoleone tiranneggiava onnipotente l'Europa, così oggi non vorranno perdonare la prolissità dello stile all'obligo mio di provvedere all'intelligenza de' forestieri fra' quali pubblico questo volumetto e alla necessità del nostro popolo, al quale non solo bisognava spianare assai cose ch'ei fino ad or non sapeva, ma tende l'orecchie avidissime a udire ripetere le verità ch'ei sente da più anni, e non sa nè s'attenta d'esprimere. Inoltre nella presente mia peregrinazione, incerto del dove e del come me n'andero, non ho agio da scrivere breve. Detto così alla rinfusa; ed ho avventurato i fogli, non el tosto ricopiati, uno per uno alla stampa di paese lontano raccomandandoli al Cielo che poscia quanto più prestamente li porti ove rechino alcun giovamento; se no, li disperda. Nè altri libri ho potuto condurre in mia compagnia se non il solo della memoria, la quale poi non è tanta che possa ricondurmi innanzi [i] grandi antichi miei soli maestri sì vivamente, ch'io tenti, come già soleva, di scrivere per compiacere non tanto a' miei tempi, quanto a que' sovrumani intellelti, quasi fossero presenti ad udirmi. L'un di essi, che ha rinfacciato con dolorosissimo amore l'Italia e le predisse vere sciagure, mi dicea:

Parla e sii breve e arguto
E lascia volger gli anni.

Ma un altro, benchè si fosse epicureo solenne e insegnasse a non darsi pensiero nè di pericolose virtù nè di patria, confessa che le pubbliche calamità gli sviavano dalle sue tranquille meditazioni l'ingegno:

Nam neque nos agere haec patriai tempore iniquo
Possumus aequo animo. (20)

Or come poteva io, minore in tutto di questi due sommi scrittori, temperare il mio stile sì che non paresse d'uomo in cui predomina la passione? Se poi la sia tale che m'abbia appannato il vero alla vista, o tentato a evitarlo, altri ha letto, ed avrà giudicato da sè; ma innanzi di condannarmi di prolissità, non gli rincresca di raffrontare consideratamente tutto il discorso con l'assunto a cui mi sono sin da principio obbligato, e veda se ogni pagina, ogni periodo, ogni parola di tanto volume, intende di smentire i tristi, di difendere i buoni, e di rivelare e sempre con la storia (?) de' fatti alla nazione italiana le sue vere miserie affine di persuaderla a conoscerle, non per guarirle — le sono oggimai disperate —, bensì per sostenerle con dignità e farsi rispettare da' suoi padroni.

II.

Così io scriveva nel mese d'aprile del corrente anno MDCCCXV, in Val di Reno, presso le sorgenti del fiume. Che se non era cauto per gli altri nè quindi onesto per me il manifestare tutto il vero, non però ho detto parola che quanto a' fatti non sia tutta vera; e quanto all'opinioni non sia tenuta vera da me. E poichè parmi d'avere così provveduto all'onor mio e degli amici miei, e della universalità degli amatori della pubblica indipendenza, ne' quali unicamente consiste la patria, non mi dorrò nè delle persecuzioni, nè della povertà, nè della vita raminga, nè de' pericoli. Nè altra virtù è più civile di questa, di sostenere i propri travagli senza mai lamentarsene, tanto più quanto meno antiveduti; perchè l'amare la patria e l'essere perseguitato furono sempre, anche nelle felici repubbliche, due cose indissociabili; e il dolersi de' travagli sofferti per sì alta passione è indizio che l'uomo cominci a pentirsi d'averla generosamente sentita.

Non però sta in me il non affliggermi del dolore a cui sono certo d'avere lasciate le persone che per amicizia, per famigliarità di studi comuni, per sangue, per quel commercio che ha del celeste, di veraci cordiali affetti e per sacre domestiche necessità, mi richiamano vanamente, e gemono in amaro desiderio di me, e di e notte paventano i miei pericoli, e temono di non potere, non che udire ch'io vivo, ma nè di mai sapere ove ritrovare l'asilo delle mie ceneri. E quanto più il loro amore mi riconforta, e più il loro dolore m'angustia. E su tutte queste, una donna aggiunge alla mia continua angoscia il rimorso d'avere più amato la libertà e la patria che lei: lei, che vedova e sola abbandonò gli agi, e la pace, e l'amenità della sua terra natia, e mi sostenne orfano e fanciulletto, spogliandosi delle sue sostanze per educare l'ingegno mio, sì che la povertà non l'ha potuto nè intorpidire mai, nè avvilire; e con le [doti] amabili del suo cuore disacerbò l'acre indole mia, e raddolcì le mie bollenti passioni; e certo s'aspettava ch'io le dovessi una volta rendere il frutto del latte ch'ella mi porse, e delle tante liberalità e dell'amore con le quali ha'educato il suo figlio; [ed] ora.... sederà.... fra' sepolcri de'suoi congiunti, e prevede che non potrà forse sapere a che parte della terra mandar le sue lagrime a benedir le mie ceneri. Se non che l'avrei più crudelmente piagata, s'io, immemore degli esempi de' padri miei, ch'ella con nobili maniere mi ha ripetuto sovente, e delle vite degli antichi uomini della Grecia — ed ella prima m'insegnò a leggerle —, se contaminando in un giorno solo o per venalità, [o per] timore, o per trista ambizione tutta la mia vita educata da lei, io avessi posposto alla mia salute l'onore. Questo, spero, le sarà forte (?) e divino refrigerio alle lagrime: nè le rasciugherà; ma le farà sgorgare dagli occhi della generosa vecchia donna (?) assai men amare. Che se il sospetto d'alcuno fra' ministri del Principe che ora signoreggia l'Italia volesse farsi merito di vigilanza, e di severità, e aggiungere a' miei dolori la prigionia, e l'esilio degli amici miei, allegando d'averli riconosciuti in questo mio scritto, io lo accuso dinanzi al tribunale di tutti [i] viventi e alla giustizia di Dio, lo accuso di feroce inumanità, e a lui predico l'esecrazione degli uomini; e al Principe che non reprimesse la crudeltà di sì fatti ministri predico l'odio di tutti i suoi sudditi. —

III.

Queste cose, da me per più anni pensate intorno alla servitù dell'Italia, le ho scritte nella primavera dell'anno corrente MDCCCXV, incominciando su le rive del Verbano, e continuando in Val Mesolcina; e termino oggi 14 maggio in Val di Reno presso le sorgenti del fiume. Or dovendo io abbandonare questa libera terra donde posso veder tuttavia l'Alpi d'Italia e udirmi suonare alle volte intorno all'orecchio alcun accento italiano e amare fra questi mortali (parte discesi dagli antichissimi Etruschi e parte da que' Germani le virtù de' quali Tacito contrapose ai vizi di Roma) amare insieme [e] venerare la dignita d'uomo e di cittadino....

IV.

Questi discorsi, senza nè manifestare in danno altrui tutto il vero, nè asserire mai cosa ch'io non giudichi vera, io scriveva interno alla servitù dell'Italia, nella primavera dell'anno corrente MDCCCXV in val di Reno, presso le sorgenti del fiume.

Qui nè frutto d'olivo, nè vite matura mai, nè biada alcuna, dall'erba in fuori che la natura concede alle mandre e alla vita agiatissima di questi mortali, governati più dalla santità degli usi domestici che dal rigore de' magistrati. Qui mi fu dato di venerare una volta in tutti gl'individui d'un popolo la dignità d'uomo, e di non paventarla in me stesso. Qui guardo tuttavia le nostre Alpi, e mi sento suonare alle volte intorno all'orecchio alcun accento italiano. Ed oltre agli uomini che, parlando italiano, e' son però liberi (fenomeno inesplicabile quasi), questa repubblica è composta de' Reti, che nel lor dialetto serbano schiette le origini della lingua del Lazio, perchè sono schiatta di quegli Etruschi, che, per fuggire le devastazioni e la barbarie de' Galli, abbandonarono le lor terre; però mi pare di conversare con gli avi, e d'accettare ospitalità da gente concittadina, e di consolarmi del comune esilio con essi. Inoltre queste valli son popolate di Reti germanici, che nell'infierire dell'aristocrazia militare anteposero la libertà in questo aspro rifugio de' monti alla servitù ne' fecondissimi piani, e ne' beati colli del Reno.

Dalle virtù ancora barbare de' loro maggiori, contrapposte da Tacito alla corruzione di Roma, quel sapientissimo indagatore delle sorti politiche presentì la declinazione dell'Impero Romano, e supplicò al Cielo che, se non altro, la differisse. Ma io, nel rimirare le stesse genti, le stesse virtù fatte dalla religione più umane, e dalla vera libertà piu civili; e nell'osservare come l'amor della patria contiene con fede leale e perpetua concordi tanti generi d'uomini diversi di lingue, di usi e di dogma; io tanto più dolorosamente raffronto i nostri vizi e le nostre discordie, e riconosco quindi insanabile la nostra misera servitù. E che voti, se non arroganti, potrei levar a Dio per un popolo che pari al nostro abusò della difesa di duemari e dell'Alpi, e di tante gloriose memorie ereditate per lungo corso di secoli da' suoi padri, e di tanto lume di dottrine e d'ingegno? e che ritorse in sè stesso i beneficj della natura e del Cielo? e che parlando la lingua più bella d'Europa, e professando la più santa delle religioni, non parla che per diffamarsi, e trascura le verità del Vangelo, e si fida agl'ipocriti interpreti del Vangelo? A Dio bensì mando questa preghiera: — che preservi dall'armi, dalle insidie, e più assai da' costumi delle altre nazioni la sacra confederazione delle Repubbliche Svizzere, e particolarmente questo popolo de' Grigioni; affinchè, se l'Europa diventasse inabitabile agli uomini incapaci a servire, possano qui almeno trovare la libera quiete di cui non m'è dato di godere più oltre: da che non posso nè sostenere di dissimulare il vero che a me pare utile alla mia fama ed a' tempi, nè di pubblicarlo con pericolo degli ospiti miei, troppo vicini a' sospettosi ministri dell'Austria. —

Se non che dovrebbero anche i ministri una volta conoscere che le individuali persecuzioni, e le meschine cautele, e l'esplorare i passi, i detti, i pensieri degli esuli volontari, e l'insidiarli nel loro asilo, e il vietare che gl'innocenti si scolpino, che gl'infelici scrivano e si confortino in qualunque parte del globo, sono tentativi inutili spesso; affliggono i principi che hanno viscere umane, e avviliscono la maestà de' monarchi. Che se nondimeno taluno, per farsi merito di vigilanza e di zelo, aggiungesse a' miei dolori o la prigionia o l'esilio degli amici miei, credendo d'averli ravvisati in questo mio scritto, io innanzi tratto lo accuso davanti al tribunale di tutti i veraci (?), e alla inevitabile giustizia di Dio, e all'ira del suo medesimo Principe. Lo accuso di feroce stoltezza e ne darò a suo tempo le prove.

V.

Fine. — Così io scriveva nel mese d'aprile del corrente anno MDCCCXV in Val di Reno lungo le sorgenti del fiume. Che se le mie opinioni pubblicate da vent'anni in qua con lo stesso tenore, se il contegno attestato della mia vita, se il mio esilio spontaneo che mi divide d'ogni speranza di favorire gli uomini e le loro passioni per esserne favorito, se il mio deliberato proponimento di non più ritornare in terra veruna d'Italia se non in quell'angolo che si governi con leggi sue proprie; se finalmente nè preghiere nè voce mai che non sia generosa uscirà mai dal mio petto....

Quanto a me, credo che tutta la virtù dell'uomo sia contenuta nelle sole parole pronunziate da Ercole fra i tormenti: Soffrirò i miei travagli senza mai lamentarmi.

VI.

Così io scriveva a piedi del Monte San Bernardino presso le sorgenti del Reno, allorchè l'ospite mio mi diede avviso che il Ministero della Polizia di Milano faceva inchieste di me, e dolevasi che il governo del Cantone Ticino m'avesse conceduto il passo, e che i Grigioni mi tollerassero, da che io preparava scritti sediziosi da pubblicarsi nella Svizzera e per lunghissimo filo teneva carteggi in Italia da tramare torbidi e novità ; e non so quali, altre accuse da che non ho veduto la lettera requisitoriale; ben so che ne fu scritto anche alla Dieta in Zurigo, e lettere dall'Italia mi consigliavano ch'io non mi fidassi dell'asilo elettomi fra gli Svizzeri, e che rifuggissi presso a' Francesi. Ciò ch'io scrivessi e perchè, ognuno lo vede. Per quali ragioni dunque io abbia lasciata per sempre Milano, e mi viva da fuoruscito, apparirà dalla seguente lettera da me spedita due volte, fors'anche due volte intercetta...

APPENDICE AI DISCORSI SULLA SERVITÙ DELL'ITALIA.

I. ORDINE DEL GIORNO ALLA GUARDIA CIVICA.

AI MIEI FRATELLI COMMILITONI, VISCONTI DI CREMONA CAPo BATTAGLIONE.

Anime vendute e menzognere sparsero fra gl'Italiani vostri concittadini la voce oltraggiosa che voi eravate devoti alla servitù dello straniero, e sperarono così di spegnere la santa carità della Patria, che ardeva già nel cuore di tutti.

Pure i vostri concittadini, non dimenticando il carattere veracemente italiano che avete sempre spiegato, si persuasero che non avreste tinte di strage fraterna le vostre spade generose, e seppero tenersi fermi nel proposto di avere una Patria.

Ora son cessati i poteri Vice-Reali. La confidenza riposta nel conte generale Pino rassicura le speranze di tutti i buoni, e ripone nella sapienza d'una Reggenza, di cui è membro il grande Italiano che vi comanda, la salute di tutti.

Confidate in questo Capitano, che senza insultare alla umanità vi ha condotti tante volte al trionfo, rendendo caro il nostro nome ai popoli stessi ch'ei combatteva.

In lui riposano le nostre speranze; in lui che, fregiato dell'alloro guerriero e della civica quercia, saprà fra i plausi della pubblica riconoscenza far giungere alle Alte Potenze Alleate i voti più puri degli Italiani.

Milano, li 22 aprile 1814.

INDIRIZZO DELLA GUARDIA CIVICA DI MILANO, PRESENTATO AL TENENTE GENERALE MACFARLANE.

Signore,

Voi, signore, vi siete degnato d'accogliere cortesemente l'omaggio della Guardia Civica di Milano composta di gentiluomini, di possidenti, di commercianti, di padri di famiglia, tutti cittadini, che, malgrado l'oppressione straniera, si sono sempre sentiti liberi. E l'omaggio fu reso alla vostra Nazione, la quale, benchè secura della propria libertà, ha pure generosamente voluto proteggere la libertà di tutta l'Europa.

Riconoscente la Guardia Civica della vostra liberale accoglienza, dirige a voi, signore, i suoi voti: piacciavi d'esserne l'interprete e l'intercessore presso il vostro Governo.

Mentre le sorti d'Italia pendono dalle Alte Potenze gloriosamente confederatesi per la pace, l'indipendenza e l'equilibrio delle nazioni, gl'Italiani, fidando meritamente nella sapienza, nella giustizia e nella magnanimità delle Alte Potenze, manifestano unanimi i voti per l'indipendenza, per la possibile integrità, e per la monarchia costituzionale del Regno d'Italia. E fra gli altri Italiani, la Guardia Civica della capitale del Regno, conscia delle proprie forze con cui cooperò a restituire la libertà ai magistrati e la calma agli abitanti di questa città, si sente obbligata di manifestare solennemente i medesimi voti. Ciascuno dei sottoscritti si crederebbe indegno di nominarsi discendente di quegli uomini che nel medio evo ritolsero l'Europa dalla barbarie, temerebbe di macchiare la fama militare acquistata in questi vent'anni di perpetua guerra degli Italiani, ed avrebbe il rimorso di avere volontariamente lasciato ai suoi figli in eredità le antiche catene, se oggi perdesse l'occasione di chiedere una Patria forte, una Costituzione giusta, ed un Principe proprio; e se non promettesse di consacrare tutti i suoi pensieri, tutte le sue forze, e tutto il suo sangue per riparare alle sciagure d'Italia. Il nostro contegno ha dimostrato e dimostrerà in ogni evento, che le sciagure non vanno ascritte alla debolezza e cecità degli Italiani.

Voi, signore, accogliete frattanto le proteste di riconoscenza e di stima che i sottoscritti vi offeriscono, come a guerriero cooperatore alla gloria dell'armi alleate, e come a libero cittadino della nazione Britannica.
Milano, 30 aprile 1814.

III.

LETTERA AL CONTE VERRI PRESIDENTE DELLA REGGENZA.

Milano, 20 maggio 1814.
Signor Presidente e Signor mio,

Temendo di presentarmi a lei, signor mio, in ora forse importuna, ardisco scrivere e insieme pregaria d'udire, come magistrato supremo, le mie ragioni, e di patrocinar l'onor mio.

Benchè io non abbia mai riposto l'onore nelle opinioni popolari e, compiacendomi di mostrarmi avverso a tutti i partiti, io abbia sostenuto d'essere chiamato aristocratico da' giacobini nel 1798, e giacobino dagli aristocratici nel 1806, ed abbia tollerate tacitamente le persecuzioni di tutte le sette, e della peggiore di tutte, che è quella de' letterati di corte, non posso, oggi che mi odo e mi vedo malignato come sovvertitore della pubblica quiete, na voglio, nè devo tacere: dalla mia dipende la tranquillità della mia famiglia, e macchierei l'onor mio se non ismentissi le voci sparse contro di me.

Appunto il non essere io di nessuna setta, di nessun partito, di nessuna società nè politica nè letteraria, l'avere parlato e scritto contro tutte le fazioni, dalle quali, pur troppo, unicamente derivò sempre il disonore d'Italia, m'attirò, a quanto parmi, in tanti anni di fazioni o soffocate o vociferanti, e tutte e sempre alimentate da misere momentanee passioni, e da pregiudizi più miseri, mi attiro, signor mio, le querele di chi mi avrebbe desiderato del suo partito, le calunnie di chi mi presumera del partito contrario, e la vendetta di tutti.

Confesso, e lo vedeva pur sempre, che sì fatto contegno era imprudente per chiunque non avesse avuto la tempra del mio carattere, e sopratutto il mio scopo. Mio scopo fu di mostrarmi cittadino, e di non avere altro sentimento se non l'amore d'Italia; di sigillare con la mia condotta i miei scritti, ne' quali o dissi la verità, o la tacqui; ma non sostenni mai di contaminarla con l'adulazione, nè con la satira, nè con un basso timore. Sperai alcuni giorni più propizi alla patria, e voleva serbarmi incontaminato; sperai, non foss'altro, che quando le animosità si fossero arrese al tempo, e illuminata la lor cecità, allora i miei scritti riescirebbero, se non di vantaggio all'Italia, almeno di qualche onore al mio nome. E s'ella mai, signor Presidente, ebbe agio di posar l'occhio su quegli scritti, o se si degnasse di esaminarli, o farsene render conto da persona illuminata e imparziale, vedrà che l'amor della patria e del vero, il rispetto alla religione, le esortazioni contro ogni setta, l'orrore per la popolare licenza e il coraggio contro il potere assoluto spirano da ogni parola da me scritta, senza smentirmi nè un'unica volta, senza avvilirmi con declamazioni volgari, nè affettare un'avventata libertà di pensare, o un'accanita intolleranza contro le opinioni contrarie alle mie. Ed ella, che è pur tanto dotto e benemerito e sperimentato dell'arte di scrivere, ella sa con quanta industria dovessi combinare la sostanza de' miei principj, per poterli manifestare, senza rovinare me e i miei concittadini, sotto un principe temuto da' monarchi, adulato dagli scrittori, e difeso da milioni d'occhi, e di delazioni, e di spade.

La mia giustificazione sta dunque evidentissima, intera, nel mio sistema scritto dal 1798, quand'io m'era tuttavia giovinetto, sino al 1814, tempo di matura virilità, e in cui non posso oggimai più cangiarmi. Or se questa longanimità di principj, in tanta fluttuazione d'opinioni, e cangiamenti stranissimi di governi, non bastasse a scolparmi presso le persone giuste e illuminate, qual altra difesa potrò cercare? E nondimeno allegherò un'altra difesa testificata dall'istituto della mia vita domestica, e dal mio perpetuo disinteresse; poichè a' beneficj e agli onori prodigati a chiunque si mostrava più amico del governo di Napoleone che dell'Italia, io anteposi sempre l'intima compiacenza di essere cittadino generoso, e la riputazione di scrittore verace; e questo suppliva agli scarsi emolumenti ch'io aveva come ufficiale in ritiro, e professore emerito di Pavia. Ed appunto nella mia Orazione inaugurale a Pavia, mentr'era imminente la soppressione di molte cattedre, io avrei potuto sperare di placar la tempesta per la mia cattedra, mutando opinioni; e non pertanto mi rassegnai a perderla, negando assolutamente d'inserire in quell'Orazione le lodi smaccate solite a darsi a Napoleone; e deplorai invece, e nell'aula e in istampa, l'infelice costume di què' panegirici, e l'avvilimento della Storia, alla quale soltanto spetta di rimeritare gli ottimi principi.

Nè mi rimossi dal mio sistema quando la malignità letteraria, il sospetto de' Francesi, e forse il rimorso dell'altrui coscienza trovarono ch'io in una tragedia alludessi nel carattere d'Aiace all'esilio del generale Moreau; e nella spregiata santità di Calcante alle sciagure di Pio VII; e nell'ambizione d'Agamennone alla fraudolenta onnipotenza di Napoleone: tutta Milano è testimonio delle persecuzioni da me allora sofferte, e del mio sdegnoso silenzio in risposta a tante calunnie delle gazzette e de' giornali letterari, venduti a chi li pagava. E frattanto in quel tempo stesso pubblicai, sormontando infinite opposizioni della censura, una dissertazione, che si trova in non so qual volume degli Annali di Scienze e Lettere, anno 1811, Su lo scopo di Gregorio VII, nella quale tentai di far conoscere che la presenza del sommo Pontefice tolta all'Italia avrebbe levati parecchi danni, ma prodottone un pessimo, ed era la servitù di Roma a un giogo di principe lontano e straniero, e quindi la decadenza d'Italia: e che non solo non era gran pericolo l'avere fra gl'Italiani un principe inerme, ma era grande vantaggio ed onore l'averne uno elettivo, italiano quasi sempre, e capo della religione europea.

Se non che più noiato alloramai che atterrito da tante ciarliere persecuzioni di gazzettieri, di letterati, di cortigiani, e di non so quali altre persone, provvidi alla mia indipendenza individuale, facendomi bastare le mie poche sostanze famigliari, e cereai quiete ed ozio a' miei studi in Toscana, dove mi stetti da quasi diciotto mesi; ma lottai pur sempre per ogni pagina ch'io volea pubblicare, segnatamente per la Ricciarda, tragedia di soggetto e di spiriti tutti italiani. E perchè la non si voleva licenziare per le scene di Milano, senza che fosse prima mutilata o corretta dalla censura, io, posponendo la vanità letteraria alla dignità, ricomprai la mia tragedia da' comici che n'erano già possessori, e per redimerla dall'obbligo di essere presentata al pubblico a cui era già stata promessa, stampai nel Giornale Italiano, ch'io, per molti errori di cui m'era avveduto, la credeva indegna delle scene della capitale, e l'avea ritirata.

Quando la guerra s'appressò all'Adige, un editto del Ministero rivocò i militari dal loro ritiro, e spirava la mia licenza di star fuori del Regno; ed io, poichè era pur tuttavia nei ruoli militari, fui dall'onor mio ricondotto sotto le insegne. Aggiungasi la Polizia sospettosa di Lagarde a Firenze, le innovazioni che si presentivano nell'Italia meridionale per le mosse del re di Napoli, il mio timore di esser forse tenuto a Milano per fautore d'intrighi politici, timore insinuatomi dagli amici miei, che mi ripetevano i dubbi del governo verso di me; ma soprattutto la speranza che l'Italia potesse in tanta commozione universale rialzarsi; e che avesso necessità delle armi di tutti noi, e l'essere io, come membro de' Collegi elettorali, obbligato più strettamente a' doveri di cittadino, mi persuasero ancor più a tornare nel Regno.

Confesso che d'allora in poi cercai, oltre il mio costume, d'informarmi delle faccende nostre, fantasticai mille progetti a ridurre le cose della guerra a scopo diverso; e il general Pino mi fu testimonio a Bologna; ma io non aveva che parole: taluno che forse allora poteva, fu persuaso ma non convinto: il Vicerè diffidava sempre di me; non fui mai ravvicinato al nostro esercito, e appena presentii la caduta di Napoleone, scrissi a Mantova (ed ho le risposte) affinchè si riunissero i Collegi elettorali; si restituisse la Sovranità alla Nazione; si ricorresse alla magnanimità e all'interesse delle Potenze alleate; il Vicerè dipendesse dal voto legale de' cittadini più che dalle firme sospette de' soldati: si riacquistasse la pubblica fiducia, chiedendo egli stesso una costituzione liberale, e lasciasse che le trattative per lui fossero fatte dalla Nazione, più che dal Senato, e da' suoi messi particolari. — Anzi la sera di domenica 17 aprile, quando si dovevano eleggere in Senato i deputati per Parigi, dissi al signor conte Venèri presidente, e lo scongiurai, che non si affrettasse importunamente a un passo di poco utile forse, e certamente di nessuno onore all'Italia; e molti udirono (e me ne saran testimoni) questo consiglio ardito in vero, ma necessario; nè, per quanto io frequentassi i ministri, da me conosciuti da quand'erano cittadini privati, vi sarà mai chi m'accusi di adulazione, o di brighe venali, o d'avere nascosta, quando bisognava dirla, la verità.

Serbo i documenti di tutti i più minimi avvenimenti da mezzo ottobre sino al di 20 d'aprile; e farò di pubblicarli per discolpa de' generosi Italiani che somigliano a lei, signor mio, affinchè si sappia che tutti non siamo stati ciechi nè vili. Nè io ho mai fermamente sperato che si potesse co' nostri soli mezzi, e con gli sforzi nostri, per quanto fossero generosi e deliberati, sussistere; bensì credeva e credo, che si poteva pur sempre cadere in modo d'essere e compianti e stimati da' contemporanei e da' posteri. Ma i miei tentativi anche per questo unico intento mi partorivano sospetti e pericoli; e solo godo d'essermi in quest'epoca governato con tranquillità e con prudenza.

Signor mio, a me rincresce i dover tanto parlare de' fatti miei, e parrà forse ch'io ne senta troppo altamente: certo è ch'io non lascio vedere se non il profilo del mio carattere, e nascondo la parte dell'occhio guercio: ma i miei difetti, quali pur sieno, non hanno a che fare con le accuse che mi si danno: bensi le scrivo tutto questo, e noiosamente forse, di me, affinchè provi a lei, ed a' signori della Reggenza, che un uomo di·tale sistema, di tali principj, di sì lunga perseveranza, e d'indole si sdegnosa ed altera, non poteva rimutarsi così di subito, e far l'avventato a sommovere i soldati ed i cittadini e la plebe. Quali sieno le pazzie appostemi, ella, signor Presidente, le vedrà nel Memoriale che la supplico d'inviare al signor Direttore di polizia, ove a lei non paresse altrimenti; da che non voglio far cosa che ella o i signori della Reggenza possano per avventura non approvare. Nè io avrei badato a' rumori plateali sopra di me, se da chi mi ama non mi fosse stato scritto e riscritto a Bologna, ch'io m'affrettassi a tornarmene, perché si vociferava ch'io fossi stato consigliato a partirmi, e bandito, e peggio; e se inoltre uno de' signori della Reggenza non m'avesse egli medesimo, per segno di benevolenza, ridetto che si credeva in genere ch'io avessi realmente predicato l'indipendenza ne' quartieri della Guardia Civica, e che anzi a lui era sembrato un dì di vedermi predicare nel quartiere della Passione. Però mi ha consigliato di presentarmi ad uno ad uno a' signori della Reggenza, e scolparmi di quelle accuse. A me frattanto bastò di presentarmi al signor conte di Bellegarde, e manifestargli lealmente i rumori contro di me, ed offerirmi prontissimo a dar conto delle mie azioni; perchè, quanto alle mie opinioni, nè io sarei stimato dal mondo se mi sbattezzassi, nè avrei per conforto il tribunale della mia coscienza, a cui voglio pur sempre appellarmi. S. E. mi accolse e m'udì con molta bontà; si degnò di dirmi che mi conosceva per gli scritti miei che aveva letti già da dieci anni; che sapeva quant'io fossi malignato da persone nemiche; che rispettava le nobili opinioni politiche; era indulgente agli errori dell'immaginazione; ma ch'egli si fidava in tutto nella fermezza e lealta del mio carattere; che mi aveva sempre tenuto, e mi terrebbe, per uomo d'onore. Gli espressi il mio proponimento di ricorrere alla Reggenza e alla Polizia, affinchè si appurasse la verità: non disapprovò; bensì tornò ad assicurarmi che gli pareva inutile ogni discolpa verso di lui; poi che mi avrebbe sempre protetto sinchè le accuse si riducevano a soli rumori. — E per non importunare tutti i signori della Reggenza, m'indussi a ricorrere a lei, signor Presidente, tanto più ch'io mi sono rispettosamente affezionato a lei sino da' primi tempi ch'io venni a Milano, e so ch'ella saprà giudicarmi, e potrà intercedere ch'io mi giustifichi con tutti i signori che le sono benemeriti cooperatori in sì difficili congiunture al governo dello Stato. Se a lei parrà di dover ordinare al signor Direttore di polizia che informi e riferisca su la mia Petizione, io la scongiuro di esaudire al mio desiderio; quando no, io mi rassegnerò a' di lei divisamenti; tanto più ch'io credo, che la mia missione militare a Bologna sia stato un temperamento clemente per sottrarmi a' dispiaceri che mi sarebbero forse avvenuti. se le malignità si fossero, come pareva, convalidate. Della mia missione feci rapporto al ministro della guerra; ma del beneficio della Reggenza sarò, finchè avrò cuore e memoria, riconoscente in eterno tuttavia bramerei d'essere salvo, non tanto da' pericoli reali ch'io non temo perchè non li merito, bensì dal disonore che col mio silenzio potrebbe forse ricadere e restare sopra di me.

Resta ch' io esamini i motivi di tante accuse; — nè sono nuove: e poich'ella sofferse il peso della mia lunga diceria, si degni, signor mio, d'osservare l'annessa lettera dov'è virgolata; e vedrà come sin da quel tempo io fui sempre bersaglio di pochi maligni che l'inventavano, di molti oziosi che ripetevano, e degli sciocchi infiniti, che pur credevano le novelle de' miei nuovi esilj, ogni qual volta io m'allontanava da questa città. Le cagioni a me pare che stessero allora ne' signori dittatori della letteratura, e ne' sospetti de' Francesi, e nello zelo affettato de' cortigiani; ed ora mi pare derivino da un fanciullesco partito clamoroso, che senza consiglio grida Indipendenza, e mi cita suo fautore, e mi vorrebbe pur oratore delle sue ragioni; e da un altro partito di vecchi, che vanno annunziando come avvenutomi ciò che vorrebbero che pur m'avvenisse. Le ragioni dell'inimicizia di questa seconda setta non mi sono chiare; ma pur troppo vi son certe circostanze politiche nelle quali la maggior parte non sa ciò che si voglia, e non vede che nemici, e non adopera altre armi che quelle delle calunnia; e fu l'unica arme di tutte le fazioni della rivoluzione francese: la calunnia sola bastò a tutte per lacerarsi e seppellirsi vicendevolmente.

Piacciale, signor mio, di comunicare, o tutte, o in parte, le mie discolpe, quanto alla di lei saviezza parrà, a tutti i suoi nobili Colleghi, e si degni di perdonare all'ardire e alla lunghezza di questa mia lettera; e se mai le sorti politiche dividessero il dipartimento dell'Adriatico dai destini di Milano, io, ritornando ad assumere i diritti e i doveri di cittadino sotto il governo che toccherà alla patria de' miei padri, serberò pur sempre con religione la memoria delle ottime persone di cui è piena questa città, e singolarmente di lei, signor mio, che ne forma il principale ornamento, ed a cui sarò perpetuamente servitore grato e leale.

UGO FOSCOLO.

IV. AL SIG. DIRETTORE GENERALE DI POLIZIA.

Milano, 20 maggio 1814.

Il sottoscritto sa d'essere (con voci che sono propagate omai troppo) accusato di avere tentato di turbare la pubblica tranquillità, facendo indirizzi a nome de' militari per l'indipendenza; di avere predicato ne' quartieri della Guardia Civica l'indipendenza; di avere con persuasioni e con suggestioni indotte, e tentato d'indurre molte persone a sottoscrivere quegl'indirizzi; d'avere declamato ne' crocchi e ne' caffè per sostenere le proprie opinioni politiche; d'avere impudentemente altercato col tenente-generale Macfarlane. In conseguenza il sottoscritto, riserbandosi di nominare le persone che gli ridissero queste vociferazioni contro di lui, ha l'ardire di dichiarare al signor Direttore Generale di Polizia: 1º ch'egli non ha scritto indirizzi in nome de' militari; 2º che non s' è mai presentato, nè fatto sentire a nessun quartiere di Guardia Civica; 3º che non ha mai, non solo fatto sottoscrivere, ma nè sottoscritta mai da quando vive, nessuna carta risguardante petizioni politiche; 4º di non avere sostenute le proprie opinioni mai in modo da perturbare la tranquillità pubblica; anzi, dal 20 aprile scorso, dichiara di non avere parlato di politica in nessun caffè, e d'avere invece raccomandata ne' crocchi e nelle conversazioni degli amici suoi la tranquillità; e di ciò allegherà moltissimi testimoni; 5º di non avere avuto alterchi col generale Macfarlane: bensi ci andò una volta ad offerirgli un libro militare ch'egli..., e fu accolto onorevolmente, e di ciò ha fortunatamente più testimoni.

L'unica cosa realmente fatta dal sottoscritto fu l'Indirizzo della Guardia Civica, e la cosa avvenne nel seguente modo.

Un giorno verso le ore 4, e fu verso la fine d'aprile, giorno forse di venerdi, passando il sottoscritto per la piazza del Duomo insieme col signor Tagliabò e col signor Luigi Borghi già console a Trieste, tutti e due impiegati al Ministero degli affari esteri, gli venne frettolosamente incontro il signor marchese Carcano, Capo battaglione della Guardia Civica, abitante (credo) in borgo del Gesù in casa d'Adda, e gli disse: i comandanti della Guardia Civica vi cercano da per tutto: un d'essi è andato due volte stamane sino a casa vostra: — si vuole un indirizzo per il Tenente Maresciallo Sommariva, ed uno per il generale inglese. —     Il sottoscritto rispose:
Quando verranno, ne parleremo.

Il sottoscritto vide la sera in teatro alcuni de' comandanti, e non fece loro motto d'indirizzi, e non gliene fu parlato.

Il dì dopo il sottoscritto, tornando a casa verso le ore 2 pomeridiane, trovò alla sua porta una carrozza, e vide nel suo gabinetto il signor Visconti colonnello, il signor Ciani e il signor Crivelli, Capi battaglioni della Guardia Civica, con un altro ufficiale di cui non si ricorda il nome, i quali lo stavano aspettando, e pregarono il sottoscritto che stendesse gli accennati indirizzi; — significandogli precisamente i sensi che dovevano contenere; ed era di reclamare l'indipendenza nazionale, un Principe proprio, ed una costituzione. — Gli fecero inoltre vedere una minuta d'indirizzo, che al sottoscritto, e a que' signori medesimi, parve male dettato e peggio pensato; e il sottoscritto promise l'opera sua. Tre motivi indussero il sottoscritto a non negare l'opera sua: primamente le persone venute a chiederla erano tali che il sottoscritto non doveva presumerle nè imprudenti nè mosse senza giusto e legale motivo nè non responsabili di ciò che avrebbero sottoscritto. In secondo luogo gli editti della Reggenza, le decisioni de' Collegi elettorali pubblicate nel Giornale ufficiale e la voce universale giustificavano questo indirizzo. — Finalmente.... [ s'interrompe ].

[L'indirizzo] fu letto e riletto dagli ufficiali comandanti della Guardia, e fu anzi in alcune parti mutato. Il sottoscritto non sa se sia stato presentato com'egli lo compilò, perchè l'originale restò nelle mani di que' signori: certo è (ed il signor Direttore Generale potrà verificarlo) che non conteneva parola nè senso che non fosse stato espresso negli editti della Reggenza, e ne' discorsi de' Collegi elettorali. Il sottoscritto non firmò, nè si curò, nè aveva autorità di firmare o far firmare quella carta; bensì gli fu detto dal signor Visconti e da altri, che era stata approvata dalla Reggenza, e che gli ufficiali e i soldati della Guardia Civica l'avevano sottoscritta; e che, fatte due copie, l'una fu presentata al Commissario il signor Tenente Maresciallo Sommariva, l'altra al signor Tenente Generale Macfarlane.

Ora siccome, essendo il sottoscritto per ordine della Reggenza in missione militare, fu generalmente detto ch'era stato esiliato, o che se n'era fuggito, allegando mille falsi motivi, ma tutti nocivi al nome, a' principj e alla tranquillità personale del sottoscritto; egli supplica il signor Direttore generale affinchè, come tutore della pubblica quiete, e dell'onore e della sicurezza degli individui, assuma prontamente esatte informazioni della condotta del sottoscritto, e verifichi ed accerti le fonti e le persone dalle quali partirono le false vociferazioni, e ne faccia rapporto a' Signori della Reggenza, volendo egli, e per sentimento di ossequiosa riconoscenza, e per debito d'obbedienza e di devozione a' Magistrati, giustificarsi principalmente verso il governo del Regno.

V. De' giuramenti

V. DE' GIURAMENTI.

AL SIGNOR CONTE DI FIQUELMONT, GENERALE MAGGIORE NEGLI ESERCITI DI S. M. CESAREA AUSTRIACA.

(Dalla Svizzera), 25 aprile 1816.

Questo scolpare presso di lei il mio contegno, e il non tenerle secreto l'asilo mio, le sia prova e che io bramo di essere stimato da lei, signor conte, — e che fido nel suo carattere. Quindi desuma gli elogi ch'Ella si merita, e ch'io le taceva in Italia. Ma ora sono arbitro delle mie parole, e in tale proponimento di vita da non mi sperare da lei beneficio veruno. A lei non so quanto importi l'essere lodato da me; a me importa l'esser grato e leale: e da lei per l'appunto, signor generale, potrei udirmi accusato d'ingratitudine e di doppiezza: perchè, mentr'Ella s'aspettava ch'io proferissi il giuramento a S. M. Cesarea, mi sono esiliato.

A' 29 di marzo, un dì innanzi alla mia fuga e due innanzi al dì assegnato a giurare, io aveva ad uno de' nostri ufficiali (deliberatosi, a quanto ei dicevami, di comparire, ma di non giurare) io aveva raccomandato di rassegnare al generale austriaco una mia dichiarazione; ed è:

Il sottoscritto, per coscienza e per massima, non proferisce mai giuramento a' ministri di Governi stranieri; però da più anni assunse per motto del suo sigillo le parole EST. EST. NON. NON. del Vangelo. Sarà agevole a' ministri militari e civili di S. M. Cesarea l'appurare come in tutto il corso del passato governo, quando le frequenti mutazioni di costituzione obbligavano a giuramenti nuovi, il sottoscritto non giurò mai, nè come Professore in Pavia perchè il giuramento non gli fu chiesto: nè come Elettore del Regno perchè lo scansò; nè come uomo militare perchè lo ricusò apertamente: di che furono testimoni all'esercito delle coste dell'Oceano parecchi forse (?) di quegli ufficiali che or si presenteranno a S. E. [il] signor Generale, a cui rassegnasi questa carta. Il sottoscritto sa di non poter serbare il grado e l'emolumento nella milizia, nè due perisioni civili che dall'altro Governo gli furono date senz'obbligo di giuramento; e vedendosi imposto l'obbligo, le rinunzia, tanto più che nè l'età nè gl'interessi domestici gli consentono di ridarsi alla vita militare, dalla quale, come appare da' registri del Ministero della guerra, egli erasi ritirato sino dal 1808; e vi tornò per dovere di cittadino, e per decreto — novembre 1813 — che richiamava gli Ufficiali quiescenti alle insegne.— UGO FOSCOLO.

Poi seppi che l'ufficiale giurò e dissimulò la mia carta; nè a me sta di scrutinare nella sua coscienza, colla quale si sarà certamente riconsigliato; nè posso d'altra parte rimproverarlo di timidezza, s'ei non s' è in grazia mia avventurato a un pericolo dal quale ei non avrebbe potuto schermirsi colla sua spada. Biasimerò me solo. Or non doveva io prevedere che chiunque si fosse presentato a quel Tribunale armato, avrebbe, malgrado ogni suo premeditato proposto, repentinamente, e quasi senz'avvedersi, giurato?

Ad ogni modo io a' 29 di marzo non m'era apparecchiato ad espatriarmi. Il cavaliere Sch*** le attesterà come appunto intorno alle tre dopo mezzo di gli lasciai traspirare ch' io era deliberatissimo di non giurare. Risposemi schietto e cortese « che se d'uno egli avesse dovuto far fede, l'avrebbe fatta di me; se non che le politiche circostanza non consentivano privilegio veruno ». La sera mi sono incontrato in lei, signor conte, in Teatro: la interrogai se fosse obbligo il presentarsi in abiti militari, perch'io non mi era giovato dell'editto che da due o tre settimane inibiva i distintivi italiani, e concedeva a noi tutti d'assumere le insegne dell'Austria; e le soggiunsi: Io non mi procacciai quelle insegne per la sola ragione ch'io non me ne posso giovare. Questa conclusione o le sfuggì, o fu da lei, secondo la sua qualità d'ufficiale austriaco, scansata: ed io decretai irrevocabilmente in quel punto il mio esilio. Ella frattanto mi consigliava « d'assumere le insegne d'ufficiale austriaco »:     ed io lasciai detto,
« che mi sarei presentato al giuramento con quelle insegne ». L'essermi poi dileguato le avrà fatto giustamente presumere ch'io con le ultime mie parole mi sia studiato di eludere ogni sospetto della mia fuga. Così è, signor generale; nè me ne lodo: non però me ne pento. Vero è ch'io non doveva simulare con lei; sì perchè Ella attende a cose aliene in tutto dall'ufficio de' Magistrati raccoglitori di delazioni, e sì perchè Ella non avrebbe mai violato il segreto. Ma non doveva io forse avere rispetto a' suoi doveri? E mentr'Ella confortavami di giurare, e in questi giorni, quando prorompono alte speranze, e si ridestano d'ogni parte tanti timori, e si vanno agitando tanti consigli, impotenti a dir vero, ma tali da giustificare i sospetti e i rigori di chi governa, non avrei forse offesi in lei tutti i doveri di ufficiale austriaco, se, dopo di avere tentato il di lei sentimento, le avessi a viso aperto significato ch'io non avrei altrimenti giurato? — o se le avessi lasciato congetturare ch'io avrei col mio solo esempio sedotto molti altri? Nè Ella avrebbe potuto allora, se non se — o adempiere a' suoi doveri, provocando contro di me la forza del suo Principe, — o tradirli, per obbedire alla generosità dell'onore. Ond'io non poteva salvar me e liberare lei di si difficile bivio, fuorchè con l'arte. Quanto si fatta necessità della violenza da un canto o del sutterfugio dell'altro rincresca agli animi alteri, Ella il sente: ma noi non abbiam da dolerci che della sciagura, che non ci consentiva altro scampo.

E mentr'io le parlava, altri poteva udire. Non ch'io diffidassi di alcune delle persone di quel palchetto: pure io doveva temere fin anche delle cure degli amici miei, i quali, a preservarmi da questa vita di fuoruscito, avrebbero forse precluso o indicato imprudentemente i miei passi: e io sapeva di certo ch'erano da altre parti e con assai diversa intenzione esplorati. Venne infatti il dì appresso per tempo, sotto colore di visitarmi, certo amico poco fidato: e gli feci capitare agli occhi alcuni operai, a' quali mi raccomandai che per domattina senz'altro mi rivestissero delle nuove divise. Il valentuomo riferì subito, ed accertò com'io non mi sarei fuggito altrimenti; e la certezza svanì quella sera. Allora le ordinanze tedesche del Comandante della Piazza, e i messi del Prefetto di Polizia spesseggiavano in casa mia, facendo nuove inchieste di me. Nè i miei famigliari sapevano se non se ch'io m'era uscito di città a villeggiare come all'usato per que' giorni di primavera, portandomi un fardelletto; e additavano ogni arredo di casa a suo luogo, e ogni mio libro e vestito, e le mie divise italiane più istantemente richieste da' commissari.

Da indi in qua, e sono ventitrè giorni, io ho avvisi certissimi che i politici Milanesi con laida malignità ascrivono la mia partenza a una comminnione secreta del Governo austriaco per indurre i Magistrati de' piccoli Cantoni a rimandare prigioni in Milano quegli ufficiali che per la Svizzera si fuggissero a Bonaparte. — Non so se il Governo affetti di crederlo; — ben so che vorrebbe chiudermi ogni via d'andare in Napoli o in Francia, — e fa spiare tutti i miei passi. — Que' politici sono troppo abbietti per me, e i ministri dell'Austria stanno più alto di me; onde non mi gioverebbe il disingannare nè gli uni nè gli altri. Tuttavia, ora che mi pare d'essermi in parte scolpato con lei, continuerò a scriverle, dacchè Ella può leggere a suo agio una lettera che non esige pronta risposta. Un dì, signor conte, quando le passioni saranno disinteressate e i mortali le guarderanno con maggiore equità, Ella, ricordandosi di questa lettera, e potendo anch'Ella più liberamente parlare, avrà la generosità di dire che tutti gl'Italiani non erano ciechi nè vili.

Non si può oggi sperare novità in Lombardia dalle armi del mezzodì, se non cospira con esse il Piemonte: nè il re di Napoli mi par tale da stabilire con senno politico, ove pure gli venisse fatto con l'armi, governo certo in Italia. Soccorsi non potrei accettare dal re; da che per esso nel 1804 fui travagliato in Parigi dov'era allora governatore. Ei s'adombrò della mia Orazione pel Congresso di Lione, quantunque corsi verso tre anni, e il Primo Console non se ne fosse allora adirato. Se non che io arrivava in mal punto in Parigi nel tempo del processo di Moreau. Mi fu ingiunto di andare all'esercito; poi, sotto colore di comandare i depositi di tre reggimenti — commissione, com'Ella vede, un po' misera — fui confinato a Valenciennes, e commesso alla vigilanza della gendarmeria. Se non che il troppo riandar queste cose infamerebbe un mio concittadino che allora, tremando per le sue dignità, disse all'imperatore ch'io era fanatico di libertà. — Inoltre, un generale francese ridiceva cose ch'io imprudentemente gli diceva conversando, e si faceva merito col maresciallo Murat. Però non mi dorrei che della facilità a troppo credere — ma erano tempi da congiurati —. Poi m' insultò gratuitamente. Gli scrissi con riverenza, richiesta dalla nostra diversa fortuna: non mi degnò di risposta; e fui intimato ch'io non gli mandassi lettere se non dissigillate, o per mezzo del Comandante di Valenciennes. Or io, uomo privatissimo e povero, non devo cercare rifugio a chi m'ha offeso, ed è re. Bensì la patria mi conforterebbe ad accorrere all'invito ch'esso va facendo a noi tutti di provvedere con l'armi italiane all'Italia; ma se l'impresa a me par disperata, io non venderò la mia spada, non che a lui che m'ha offeso, a nessun re della terra.

Nè io mendicherò in Francia rifugio. Due Italiani privati del soldo, come non nativi del territorio oggi dominato dall'Austria, ed alcuni altri (di quelli che, allegando d'essere stati sforzati a giurare, giurarono; poi, prevedendo di dovere vivere inerti fuori d'Italia, seguono tardi il mio esempio) vennero qui dove scrivo ad accompagnarsi meco e correre a Napoleone. i cittadini di Roveredo mi siano testimonio ch'io li lasciai andare a lor posta: or mi vanno avvisando d'essere stati liberalmente accolti a Strasburgo. Non li biasimo nè gl'invidio. Chiunque professa l'arte della milizia non a torto confida nel favore d'un monarca guerriero; inoltre, ogni uomo tende a vivere men tristamente, e chi deve perdere ad ogni modo le consuetudini e gli usi domestici, antepone a ragione la Francia a' presidj dell'Ungheria. Altre arti, altre mire sono le mie, signor conte. Non io fiderò in chi, potendo redimere una volta l'Italia, e far sè medesimo illustre più ch'altro mortale nella memoria de' tempi col rinnovare l'Europa decrepita nella sua corruzione, tolse invece di atterrare in Italia la più venerabile fra le repubbliche; istigò gl'Italiani alla libertà, e fe' loro vieppiù sentire il servaggio; insanguina di due milioni di cadaveri tutta l'Europa; disonorò le nuove istituzioni, e fece parere necessarie l'antiche inquisizioni, e i roghi frateschi; e lasciò la mia patria più serva, più dispregevole, e più sciaguratamente smembrata che per l'addietro. So d'avere detto a lei, signor conte, ed agli altri conoscenti nostri, al primo avviso dello sbarco di Napoleone in Provenza, « ch'egli, al mio parere (quand'anche gl'Inglesi, com'era voce maligna, l'avessero favorito per desolare di nuove guerre la Francia), egli non si sarebbe avventurato all'impresa, se i giacobini non avessero congiurato a valersi di lui »: genere d'uomini memorabili nella storia degli umani caratteri; pertinacissimi, impenetrabili, astuti, indissolubilmente congiunti e soccorrentisi in ogni maniera; audacissimi con più che umana cautala; atti a tessere immense, invisibili, inevitabili trame; eloquenti nelle lettere, illustri nelle scienze, di cui fanno stromento ad adescare in tutta l'Europa gli animi giovanili e gl'ingegni bollenti, e a moltiplicare e concatenare la loro fazione; esercitati nelle brighe cortigianesche e nelle congiure; assennati da tanti anni di inoluzione, avvezzi alle civili carnificine, e quindi imperterriti sacrificatori di vittime umane; sperimentati in guerra, e capitani d'eserciti. E tutti nè delitto distinguono da virtù, nè religione o empietà: ottimo è il mezzo, purchè giovi al lor fine, tendente a stabilire un sistema di generosa libertà universale, di predominio alla loro fazione, e di lucri per gl'individui che la compongono. Da si fatto intento, e per l'arti di questo genere d'uomini, derivarono tutte, a chi ben le considera, le repentine mutazioni di Francia in pochi anni. Buonaparte gli oppresse, non gli atterrì. Alla sua tirannide contrapposero la mansuetudine de' Borboni. Alla reazione (che quand'anche il Borbone regnante non l'avesse operata, si sarebbe per l'onnipotenza delle umane passioni operata da sè sotto a' suoi successori) i giacobini contrappongono Buonaparte. Forse m'inganno; ma questa mia congettura essendo quasi certezza per me deve dirigere a ogni modo i miei passi. — Or di qual mai riposato rifugio dovrei lusingarmi in Parigi, dove a me sembra già di presentire imminente la lotta tra questi uomini, e il più solenne tiranno dell'universo? Io non ho mai creduto, nè credo che possa aprirsi probabilità all'indipendenza nostra, se la non è spianata dalle nostre armi. Ed oggi l'occasione è passata: resta solo a lavarci del vitupero apposto dagli stranieri e da' miei tristi concittadini a noi pochi generosi Italiani, col manifestarci contrari a ogni partito austriaco o francese. Ma in Parigi affronterei il pericolo d'essere vittima oscura, vittima pur sempre delle fazioni, che torneranno forse a insanguinare la Francia; affronterei il disonore di smentirmi, se, volendo scrivere, tacessi i guai che Bonaparte ci ha procacciato scientemente; infine avrei la coscienza della mia propria stoltezza se lo lodassi o lo seguitassi, per la speranza che la Francia prodighi il sangue di cento mila giovani, a che? a restituire indipendenza all'Italia? S'altri Italiani sel credono, il tentino: io guasterei la loro causa. Confesso ch'io oramai preferisco l'onore mio alla libertà della patria: questa è a beneplacito della fortuna, ma l'onor mio, assediato da tanti impudentissimi assalitori, non ha verun altro difensore fuorchè me solo. Che aiuti, che fede potrei sperarmi da Buonaparte? Non ho altro merito se non questo: d'avere abborrito dall'esempio di coloro che con importunissimi vituperi crudeli lo insultavano nel suo romitorio dell'Elba. Ma essi lo avevano prima adulato; le parti sono pari così: ora torneranno a nuove lodi; ecco per essi novello merito, mentre a me resterà tuttavia l'antico demerito di quanto ho scritto mentr'egli era principe onnipotente; nè intenderò mai di ricredermi.

Per le stesse ragioni, mutati nomi e accidenti, io prevedeva che nè pure le terre di Casa d'Austria in Italia avrebbero potuto essermi albergo. Ricordomi ch'Ella un giorno nelle sue stanze mi dimostrava quanti beni la Casa d'Austria avrebbe potuto fare all'Italia. « Sì, rispos'io, ma facendo altrettanto bene anche a sè ». E parlandole oggi più chiaramente: che può aspettarsi il governo austriaco da noi? Danaro. Eserciti no, bensì alcuni soldati e pochissimi. E chi si lagnava del vedere annientato l'esercito nostro, mentre l'Austria prometteva di mantenerlo, e faceva le viste, con l'istituire alcuni reggimenti che poi furono capitanati da colonnelli tedeschi e dispersi negli Stati oltramontani, chiunque se ne lagnava non doveva dolersi che del suo misero inganno. L'Austria non ha in Italia per settatori se non se preti e patrizi; gli uni e gli altri per istituto e per abitudine d'ozio inetti alla guerra. L'esercito, che avea per tant'anni sì ostinatamente combattuto contro gli Austriaci, avrebbe egli potuto in un subito guerreggiare per essi? e l'Austria poteva ella fidarsene mai? e dove? in un paese ove appunto gli uomini esercitati alle armi e alle lettere sono per lo più avversi a' nobili e a' preti, e ad alta voce domandano indipendenza? Finalmente l'Austria darà le sue leggi, i suoi metodi criminali, la censura contro la stampa, l'inquisizione ecclesiastica, non domenicana (e Dio ne guardi ogni popolo!), ma inquisizione pur sempre. E non solo ritornerà agli antichi istituti, ma, come per dirizzare un albero curvo da un lato si ritrae con gran forza dall'altro....

Finalmente l'Austria dovrà dare le sue leggi, i suoi metodi criminali, la censura contro la stampa, l'inquisizione ecclesiastica, non già alla spagnuola, ma inquisizione pur sempre; nè solo ritornerà agli antichi istituti, ma come per ritrarre un albero curvato da un lato si ritrae con gran forza del lato contrario, terrà per la Germania le riforme liberalissime di Giuseppe II, odiate in Milano da' preti e da' nobili, e tornerà alle leggi suggerite da' confessori gesuiti a' predecessori di quel sommo; tanto più che non potrà altrimenti compiacere a' preti e a' nobili, accaniti odiatori d'ogni riforma, e del nome di Giuseppe II. Né di sì fatta necessità possiamo richiamarcene a' principi: « Res dura et novitas regni me talia cogunt Moliri ». Il movimento delle circostanze generali li strignerà; essi tutt'al più possono conoscerle più chiaramente degli altri e secondarle.

L'Italia adunque, in tale necessità, che può ella dal suo canto richiedere a Casa d'Austria? Questo: riposo; non altro: e sì necessario è il riposo a' popoli che nelle sanguinose agitazioni non possono pervenire se non a condizione peggiore assai della prima, che io primo desidero per quella sciagurata nazione, io consiglio, io grido sempre “Riposo”. Ma il rimedio necessario a un popolo che nella sua morte politica non muore, non è sempre onesto per gl'individui, a cui rimane ultimo porto della ignominia il morire. Purtroppo io mi son uno di questi: se avessi tenuto per sacra [o sana] massima — ch'io non condanno, ma la mia è diversa — di obbedire a qualunque potere e lodarlo; s'io fossi nato alle bell'arti o alle scienze sublimi, ogni terra mi darebbe tele, colori e marmi da esercitare l'arte mia; tutti i popoli avrebbero occhi e animo da stimarle; o userei di cifre intelligibili a tutti gli scienziati dell'universo; la mia città sarebbero i pianeti che misurerei; e la mia lingua sarebbe muta, nè avrebbe che fare coi re della terra.

Ma per mia disavventura, le lettere, alle quali mi sono sino dalla puerizia alimentato, tendono a eccitare nobilissime e generose passioni per dirigere utili e giuste opinioni; nè parlano al solo intelletto, nè a' sensi, ma al cuore,in cui sono le sensazioni miste intellettuali e sensuali; nè possono parlare a tutti i popoli (?) presenti e futuri, se non con la lingua d'un solo popolo. Or io scrivo italiano, io tengo per generosa passione l'amor della patria, e per giusta opinione l'indipendenza nazionale, la tolleranza religiosa, la libertà di pensare, e sì fatte [cose], errori forse, ma radicati in tutto me stesso.

Però nè potrei parlare se non italiano, nè parlare se non secondo il mio cuore; quindi non potrei stare sotto le leggi d'un governo il quale trova necessario che la nazione abbia principj diversi da' miei.

Rispondesi che sotto Napoleone era peggio: ma chiunque professa la mia religione in politica replicherà, che il governo stesso e tutti i suoi ministri esercitavano questi rigori come abusi conosciuti da essi stessi e dal popolo, e che contrariavano la costituzione su la quale posava il governo; che bisognava anzi desiderare che la tirannide, la quale sta nella violazione delle leggi fondamentali d'un popolo, s'accrescesse affine di sentire la necessità d'essere incitati ad un rifiuto: che, finalmente, Napoleone aveva contro di sè tutta l'Europa, che aspettava l'occasione di liberarsi, e la sua fama e prosperità, che lo andava accecando, e che l'Italia poteva liberarsi dagli abusi, e le constituzioni fondamentali restaurare: il che in Germania è avvenuto.

Ma tutte queste ragioni mancano da carezzare all'Austria, che, posando questo sistema come legge fondamentale del suo governo, non può essere accusata di tirannia. Nè io mi richiamo di questo sistema: quand'anche volesse rimutarlo, nol può; chè dee risarcire le piaghe del regime e de' tributi, coi quali farci pagare il riposo dopo tante burrasche.

Ma il rimedio utile a un popolo politicamente annientato non è sempre onesto per alcuni individui, nè sempre cauto; e, salva anche l'ipocrisia e i pericoli, quel poco di felicità che si può sperar su la terra consiste nel piacere a sè stessi; al che stimo indispensabili due cose: l'una, di seguire fedelmente i propri principj; l'altra, di potere liberamente esercitare le facoltà del cuore e dell'intelletto.

Pur troppo io mi son uno di questi. Conosco che il genere umano non merita, nè gl'importa ch'altri pensi ad illuminarlo; e ch'io non mi son tale da illuminare, non ch'altri, me stesso; e che non v'è massima o verità, la quale non possa essere efficacemente negata; e che l'avere de' principj è più ostinazione che prudenza nel mondo, da che dobbiamo secondare quietamente il vario corso delle cose e giovarcene, anzichè opporsi al torrente; e lasciarsi o vergognosamente strascinare o affogare miseramente. Così è. Nondimeno fra queste ragioni innegabili ne vedo una luminosissima, anzi la sento sì addentro nell'anima mia, ch'io non potrei se non ascoltarla; altrimenti mi parrebbe d'essere infelicissimo; ed è che la natura, nelle tenebre e nella perplessità fra le quali ha collocato l'uomo, nell'immenso spazio de' tempi fra' quali la sua vita e il suo nome sono perduti quasi atomo nella superficie del globo, gli ha comandato d'attenersi fortemente a certi dati principj di religione, di morale, quando anche siano illusioni; gli ha imposto l'obbligo di esercitare le facoltà ch'ella gli ha compartito e quasi confidato, sotto pena di vivere divorato dal rimorso, e dalla noia, peggiore forse d'ogni rimorso. Ond'io, concedendo che le siano illusioni, dovrò pur sempre asserire che non potrei perderle se non con la vita.

Torno al soggetto del giuramento.

A me in quel frangente non rimanevano che due brevi giorni ad appigliarmi o all'esilio, o a scegliere fra due ardui partiti: l'uno d'evento incertissimo, l'altro pericoloso; e l'uno e l'altro inonesti. L'uno de' partiti era il pregare d'essere esente dall'obbligo di giurare. Nè son molti giorni da che mi fu scritto da persona amica, come aveva udito da' ministri di S. M., che s'io avessi mostrato quest'invincibile mia ripugnanza a giurare, m'avrebbero riguardato com'uomo non militare; e ch'io però mi tornassi e adducessi scuse d'infermità, nè avrebbero fatto caso della mia dimora fuor di Milano. Accertavami inoltre che S. E. il signor maresciallo di Bellegarde aveva, tre o quattro giorni dopo la mia partenza, ricevuto rescritto da Vienna, perch'io fossi altrimenti che nella milizia impiegato. Se così è, io sento tutto il peso de' sospetti e de' meritati rimproveri da Sua Eccellenza. A lui parrà ch'io abbia con dura rusticità e con tristissima ingratitudine corrisposto a' suoi beneficj spontanei. Ed a me pesa il credere ch'egli presumerà ch'io l'abbia, nell'unica volta ch' io ebbi l'onore di parlargli, ingannato; e a me pesa ch'egli si sia avventurato a mal informare una Corte dalla quale ho mostrato in questo mio scritto ch'io non merito nè accetterò mai i suoi beneficj. Ma quand'anche fossi stato immune dal giuramento, quand'anche invece fossi stato premiato, i sospetti e le macchie non si sarebbero forse avvalorate più sempre contro il mio nome?

L'altro partito era di presentarmi con tutti gli altri ufficiali, e parlare come dettavami l'animo. Ma S. E. il generale Frimont m'avrebbe condonato la massima del Nolite omnino jurare, e m'avrebbe richiesto del mio semplice si, che politicamente equivale a qualsivoglia terribile sacramento.

Ma, s'io unico fra tanti ufficiali fossi stato esente dal giuramento, s'io, malgrado le opinioni mie francamente [manifestate], avessi accettato impieghi, avrei palliato, non mantenuto illibato il mio onore. Nè sempre all'onore basta la sola coscienza; e se tutti i maligni vanno spregiati, e il sanno, però in certi tempi spargono tali malignità da necessitare l'uomo a posporre la propria dignità personale, e venire a contraddittorio con essi. Che non s'ha egli detto i che non si dice fors'anche oggi della bontà con cui Ella m'accolse? I maligni non sapevano ch'io m'incontrai con lei, signor generale, senza conoscerla; ch'Ella mi favoriva, senza ch'io mi studiassi di meritarlo; ch'io la stimava altamente, senza mai dirglielo. Molti ignoravano che delle quattro volte ch'io venni e fui accolto da lei nelle sue stanze, la prima volta soltanto mi dovrebbe essere imputata a colpa; le altre due fui chiamato da lei, e per cosa che mi fa onore; l'ultima venni a intercedere per la famiglia degente d'un amico mio carcerato per sospetto di maestà nella fortezza di Mantova. — Tutti a ogni modo ridissero, e teneano per evidentissimo fatto, e giuravano ch'io veniva tutti i giorni a vendere le mie opinioni, la mia penna, l'anima mia a lei ed al nuovo governo. A smentire pubblicamente sì fatta calunnia, Ella e Milano tutta vide ch'io ne domandai con la mia spada ragione a tal uomo che, per lo stato in cui la fortuna lo ha collocato, e per età, e per natali, non poteva far credere a'vili ch'io volessi soverchiarlo d'ardire. Egli negò d'averci mai creduto ma soltanto riferito ciò che aveva udito da altri, e biasimatili. — Questo partito da me pigliato s'è creduto sutterfugio.... per mia difesa, e la malignità s'è accresciuta: e quand'anche (?) avessi chiesto ragione ad ogni uno, ogni uno l'avrebbe negato, e tutti avrebbero continuato a replicarlo.

Tutto questo era agevole a prevedersi; e però, sino da' primi di maggio dell'anno scorso, non si tosto vidi riescito vano l'ultimo sforzo secretissimo, che nel libretto dianzi accennatole le sarà manifesto, io mi giovai dell'opportunità d'uscire con una commissione militare di Lombardia; e in Bologna, ove parea che dovessi fermarmi, ottenni dal signor generale D' Eckard un passaporto per la Toscana. La dolcezza degli studi, più cari [a] ogni Italiano in Firenze, l'esservi stato per lungo tempo a dimora, la consuetudine con persone a me care, e più ch'altro sopra tutto la presente (?) felicità di un paese dipendente da un Principe, che unico, a parer mio, ha dato prova d'amare le leggi di Leopoldo e il suo popolo, m'allettava a cercare riposo di animo e ozio di studi, dopo tante burrasche, in Toscana; e non era ancora mezz'anno ch' io n'era partito, portandone meco gran desiderio, lasciandovi molta parte di me. Ella sa, signor conte, come il generale D' Eckard mi riti[ra]sse d'un subito il passaporto, adombratosi di me, [e] mi sollecitò istantemente più volte di tornare in Milano. Milano non era più stanza per me, nè agli amici miei pareva sicuro il domandare in que' tempi d'uscirne. La persona, nella casa della quale ebbi l'onore di conoscere lei, mi sconsigliò dal chiedere un passaporto per l'Inghilterra. A due impiegati nella Reggenza chiesi consiglio se, rinunziando alle mie pensioni, otterrei di partirmene, e mi dissero tali ragioni da persuadermi che avrei dato sospetto. Io allora voleva viaggiare, e ripatriare a tempi migliori, non sosten[endo] per anche questo pensiero ch'esilierei. Quando poi nelle notti ultime di novembre, vidi fra quattro carcerati di maestà due uomini, uno de' quali studiò meco sin da fanciullo; militò meco per parecchi anni; fu meco nel 1800 preposto al grado di capitano; fu meco ferito il giorno medesimo e nel luogo stesso all'assedio di Genova; l'altro, ingegnosissimo fra' mortali da me conosciuti, malgrado le molte sue occupazioni e la sua professione, era assiduo tutte le mattine per due ore nelle mie stanze; — incominciai ad addomesticarmi col pensiero dell'esilio. S'era frattanto vociferato che quattro o cinque altri erano stati arrestati, e fra questi il mio nome; gli amici miei mandavano timidamente a chiedere frequenti novelle a me. Cinque o sei giorni dopo le persone già additate dalla voce del popolo, da me in fuori, furono carcerate di notte. E il numero de'prigioni andò poi crescendo; io errava per strade deserte di notte assai tardi, temendo più che le disgrazie e i pericoli, la casa mia; talvolta aveva riposo nelle case d'alcuni de' miei amici, e il lor timore accresceva il mio, e mi toglieva ardire di ritornarvi.

Perch' io non abbia, io medesimo, presentata questa protesta, Ella, signor conte, a non mi tenga per Mennonita. Que' forsennati settari si lasciavano nel secolo XVI esiliare, imprigionare, scannare, adducendo il precetto evangelico di non proferir giuramento, e e i governi calvinisti, luterani, zuingliani gl'imprigionavano, gli esiliavano, gli scannavano, nè i martiri nè i carnefici s'avvedevano che la questione si riduceva a nuda formola di parole. Se non che non voleano forse avvedersene; ogni setta ha bisogno di martiri; nè i governi si lasciano sfuggire occasione da mostrare che hanno in loro balia il.... Ho letto come anche all'illustre Turenna spiaceva questa pertinacia di non giurare, e reputavala dannosa allo Stato. Nel che s'ingannava anch'egli, a mio credere. Che monta s'ei non giurano, pur che promettano? Ogni uomo è tenuto d'obbedire alle leggi, e ogni governo ha diritto d'accertarsi dell'obbedienza degli individui. Però li costringe col giuramento e davanti al tribunale di Dio, e davanti all'opinione del mondo, e davanti al principe, che acquista quindi maggior diritto di punire l'inobbedienza aggravata dallo spergiuro. Ma quantunque regnino quasi in tutti i mortali ad un tempo le tre paure congiunte, di Dio, del mondo e del re, al re non deve importare se non quest'ultima; segnatamente a' di nostri, quando a molti pare di non dovere darsi molto pensiero di Dio, e moltissimi si credono sciolti dall'obbligo di attenerlo, perchè i governi, abusandone, hanno liberato gl'individui dalla vergogna dello spergiuro. Siamo giunti a quella decadenza — non noi, ma tutti gli Europei, — veduta da un altissimo storico in Roma nell'epoca di Augusto: interpretando sibi quisque jusjurandum, sibi leges aptas faciebat.— Bastava dunque concedere a tutti gli anabattisti il nolite omnino jurare, e richiederli del semplice e no, equivalente in sostanza a parole di qualsivoglia terribile sacramento. Una delle due sillabe era bastante alle leggi romane a punire capitalmente la promessa violata. E a questo solo intendeva, s'io non m'inganno, il governo austriaco chiamando gli ufficiali italiani a giurare. Ella vede che io non nego nè il diritto del re, nè il dovere de' sudditi; bensì mostro che dal giurare al promettere non corre politicamente divario; ma dico che se S. E. il sig. generale Frimont m'avesse menato buona la massima e si fosse contentato del , io avrei dovuto primamente far tre domande: Perchè devo io promettere? e fino a quando? e a che segno?...

.... Or da chi allega il precetto di Cristo, il principe ha diritto d'esigere il.. e il no del Vangelo; ed è formula apparentemente schiettissima, ma nella sostanza equivalente al giurare. Taluni forse l'avrebbero tenuto per un gesuitico sutterfugio innanzi a Dio; ma il Governo avrebbe avuto diritto di punirli di spergiuro pur sempre. E però al generale Frimont bastava di menarmi buone le mie ragioni, e di domandarmi solo il mio ; ma io avrei primamente chiesto: perchè devo obbedire? poscia: fino a quando? finalmente: a che segno? Confesso che nè il lume della mia ragione bastava a farmi vedere i limiti della obbedienza richiesta a un ufficiale, di militare cioè per mare, per terra, di giorno, di notte ecc., per un principe che l'Europa non avea riconosciuto padrone del Regno d'Italia. L'Austria dominava, è vero, di fatto; ma fino a tutto Marzo il diritto di decretare determinatamente le sorti de' popoli o spettava tuttavia al Congresso di Vienna; o, se pur aveva decretato, il decreto non era stato [pubblicato].

Nè i modi giovavano a confortarmi a comparire personalmente. Da più d' un mese il comandante della piazza informavasi esattamente de' nostri alloggi; ed essendovi andato per far vidimare non so che carte, mi fu due volte in un giorno richiesto s'io aveva mutato casa. Poi nell'ultima settimana di marzo si pubblicò ogni giorno l'avviso, che gli ufficiali d'ogni grado, sino al colonnello inclusive, si presentassero il 1º d'aprile: nè l'avviso era affisso come gli editti, nè firmato, a quanto ricordami, ma ripetuto in due gazzette ogni giorno; nè si dichiarava il perchè. Molti il congetturavano, nessuno poteva asserirlo; ma era ad ogni modo voce comune che noi saremmo stati convocati a giurare; che lungo le vie le quali mettono nel palazzo del comandante generale sarebbero stati schierati de' fucilieri (?) austriaci; e il palazzo, attorniato da un reggimento di cavalleria; e nel cortile, schierato un battaglione di granatieri a bandiere spiegate. Le predizioni s'avverarono in tutto. Nè credo che tanta milizia sotto l'armi stesse come accozzata intorno al palazzo se non se per onorare e chi domandava il giuramento, e chi dovea prestarlo: molti per altro non sapevano combinare tanta solennità con l'incognito (?) dell'avviso; né un si solenne....

VI. ABBOZZO DI PREFAZIONE AD UNA TRADUZIONE TEDESCA DEI DISCORSI SULLA SERVITÙ DELL'ITALIA.

PREFAZIONE DEL TRADUTTORE.

Le verità esposte ne' seguenti Discorsi mi stimolarono ad assumerne, malgrado infinite difficoltà, la versione; affinchè i miei connazionali, nella descrizione politica dell'Italia, imparino a compiangere le sciagure, e ad evitare gli errori d'una nazione tradita da' suoi figli discordi, e quindi assoggettata necessariamente alla ragione del più forte.

L'Autore di quest'opera é uno de' pochi, e forse il solo, in Italia, che abbia per molti anni sostenuto i diritti dell'indipendenza della Nazione, e predetti gli effetti dell'ambizione di Bonaparte: ciò si vede in un' opera giovanile dello stesso scrittore, tradotta in tedesco dal signor professor Luder. Ora egli, inalterabile ne' suoi principj, sostiene la stessa causa contro l'ambizione d'altre Potenze. L'amor della patria che respira ne' suoi scritti, e che in questi tempi ha nobilitato e salvato i popoli della Germania, renderà interessante anche per questa parte la mia traduzione a' Tedeschi.

Finalmente l'Autore, essendosi, come si vede nel libro, avventurato volontariamente ad abbandonare la sua patria per non essere costretto al silenzio, a me è sembrato che fosse dovere de' letterati tedeschi di prender parte a' più sacri interessi di questo scrittore e di mostrargli che, se non può ritrovare una patria, può nella Germania essere certo di ritrovare uomini che sanno affliggersi generosamente del suo dolore, ed ascoltare le sue ragioni.

Bisognavano questi nazionali motivi a superare quattro ostacoli che scontrava, per così dire, a ogni pagina del lavoro. L'autore confessa d'avere scritto con passione e con fretta; alle quali si aggiunge la sua naturale maniera di concepire rapida, e che lega. per mezzo del ragionamento, assai cose differenti in sè stesse. Or anche i poco intendenti conosceranno ch'egli doveva scrivere, e infatti scrisse, con certa sprezzatura di periodare, che in pittura gli artisti chiamano colpi di pennello alla Michelangelo; e quando a questa sprezzatura è unita la nobiltà della lingua, in italiano non....

Siccome l'autore parla di alcuni suoi scritti pubblicati da più anni, il traduttore crede di far cosa grata ad alcuni lettori tedeschi di darne un'idea; tanto più che un lungo soggiorno fatto dal traduttore in Italia o le notizie che ha potuto averne recentemente....

VII.

L'ADDIO ALL'ITALIA.

Let not the minister of the Austrian police continue to persecute me in my Swiss asylum; tell him that I am far from wishing to excite the hopeless passions of my fellow citizens. We were in want of arms; they were given to us by France, and Italy had again a name amongst the nations. In the access of our inflammatory fever, the loss of blood could not harm us, and the death of a single man would have inevitably produced changes favourable to all the nations who should have courage to profit by happy juncture. But it was ordained otherwise; the affairs of the world have been turned into another and an unespected channel. The actual disease of Italy in a slow lethargic comsumption, she will soon be nothing but a lifeless carcass; and her generous sons should only weep in silence, without the impotent complaints and the mutual recrimination of slaves.

VIII. PARERE SULLA ISTITUZIONE DI UN GIORNALE LETTERARIO.

I. — ERRORI DA EVITARSI.

A stabilire un giornale di letteratura s'hanno innanzi a tutto a scansare gli errori per cui rovinarono fino ad oggi i tentativi degli altri.

I librai per impazienza e avidità di guadagno abusarono quasi sempre della fede degli acquirenti, i quali, poichè ebbero anticipato il denaro, videro impunemente rotte le promesse; il merito degli articoli non corrispose mai al manifesto dei compilatori; l'edizione dopo i primi fascicoli peggiorò; alla deformità tipografica s'aggiunse la scorrezione; e spesso la distribuzione dei numeri dovuta in un dato mese fu procrastinata allo stesso mese dell'anno seguente.

Molti uomini dotti, non potendo pubblicare con edizioni apposite i loro scritti di minor mole, si sarebbero volentieri giovati dell'opportunità di un giornale; ma gli estensori delle opere periodiche, sedotti dalla vanità, le scrivevano non tanto in vantaggio della letteratura d'Italia, quanto per preconizzare i loro opuscoli municipali, per mendicare lettori alle loro dissertazioni accademiche, per fare un misero traffico di elogi smaccati, e per compiacere con critiche illiberali a' loro puerili risentimenti. I veri dotti e gli uomini generosi si astennero dallo ingerirsi in un lavoro, di cui i semidotti ed i ciarlatani erano diventati appaltatori protetti apparentemente da un governo che, per liberarsi dalle ragioni di odiarli e temerli, li favoriva in modo da farli diventare spregevoli.

Così l'universalità de' cittadim, che soli possono compensare le spese e le fatiche indispensabili a questa intrapresa, cominciò ad avere a sdegno i giornali e a dubitare della ragione e della verità, se pure talvolta le si trovavano scritte in que' fogli. E i lettori che speravano d'istruirsi con poca fatica, e di trovare lezioni necessarie alla quiete ed alla possibile prosperità della nazione, s'avvidero che i loro maestri erano satelliti salariati e missionari avventati dal sistema morale, religioso e politico della casa regnante.

Ogni casa regnante ha bisogno, diritto e dovere di ridurre le opinioni dei sudditi al sistema del suo governo; i mezzi ad ogni modo vogliono essere delicatissimi, e più che mai dove trova esulcerate le sette; la violenza, mentre provoca le querele de' malcontenti, accresce l'insolenza vendicativa de' partigiani del nuovo governo. Or i sensi di moderazione, che soli giovano alla concordia, e quindi alla tranquillità generale, non si possono insinuare negli animi se non se con mezzi moderati per loro natura, fra' quali devono considerarsi le lettere, ed applicarle all'unico scopo di calmare le passioni, o, se non altro, di far sottentrare passioni diverse, e quindi dirigere le opinioni alla calma ed alla equità. Così dunque la letteratura può farsi mediatrice fra la ragione di stato e le passioni del popolo. La ragione di stato ha in sè la forza generale, ma benchè potentissima, non può fare che i cittadini non abbiano più o meno in loro propria balia le loro forze individuali: vero è che riusciranno impotenti ove tendano a sforzi (?) contrari al sistema del principe; ma l'inquietudine che il principe ha necessità di calmare, deriva appunto e s'accresce dai movimenti che tanto più si ripetono quanto meno riescono al loro intento. Il governo per sua natura calcola freddamente, e il popolo sente ciecamente; nella letteratura risiede l'arte di moderare le passioni popolari, rappresentando la ragione di stato in tali sembianze che non paia calcolatrice assoluta: così a poco a poco il sistema del principe e le opinioni del popolo si associano per la pubblica quiete; ma guai se lo scrittore si mostrasse propenso a un partito, o soggetto alla dettatura del magistrato! Le fazioni contrarie gli diventeranno nemiche, e gl'indifferenti stessi usciranno dall'apatia, perchè cominceranno a diffidare. Quindi nasce l'incredulità, la quale, ove non si tratti di religione, sembra leggerissimo inconveniente, ma è più grave che non si pensa, da che provoca la derisione e l'ostinazione; e se la precauzione contro sì fatti pericoli fu utile in tutti i paesi, diviene indispensabile in questo, ed in questi momenti.

Il governo francese, essendosi fatto incettatore di giornali e di letterati, avvilì la letteratura; ed oggi riuscirà inutile se non le si procaccia la dignità primitiva, e la fiducia della nazione: inoltre gli animi si trovano in tale stato di debolezza insieme e di irritazione, da non poter patire nè i mali, nè i rimedi; e s'è costretti a sanarli senza che se ne avveggano.

II — REGOLE PROBABILI.

Contro gl'inconvenienti sovraccennati riescirebbero forse efficaci le seguenti regole:

1. Procura di dimostrare al pubblico che gli estensori del tuo giornale scrivano per utilità de' loro concittadini, e per desiderio di fama anzi che per mercantile speculazione. Però stamperai a tutte tue spese il giornale: non ti assumerai soci d'interessi lo stampatore o i librai, perchè te l'avvilirebbero colla loro misera malafede, bensì ti aiuterai del loro ministero come di operai giornalieri. Non esigerai anticipazioni, non obbligherai gli associati col loro nome alla compera se non se dopo il secondo fascicolo. Lo smercio progressivo del giornale ti avvertirà del suo merito, e del vantaggio che può recare alla istruzione del pubblico, e agli emolumenti degli estensori. Non differire un giorno nè un'ora il termine assegnato per la distribuzione periodica; anzi concedi agli associati il diritto di restituirti uno o più [fascicoli] dell'intero semestre caso che tu avessi indugiato di pubblicare un fascicolo nel tempo promesso. Occorrendo di stampare tavole sinottiche, incisioni in rame, disegni di medaglie, o altro che importi spesa maggiore della solita del fascicolo di quel mese, non domandarne compenso agli associati, e contentati della loro prima contribuzione. Disseminerai in regalo e alla ventura alcune centinaia di esemplari per tutta l'Italia, e molti più all'estero, affinchè i letterati delle altre nazioni attingano più da te che dagli altri le notizie comprovanti lo stato della letteratura d'Italia.

Regolandoti a questo modo eviterai le diffidenze che sogliono cagionare le millanterie di tutti i prodromi de' giornali, e i lettori saranno persuasi a favorire l'impresa con giudizio proprio e sicuro, e dopo di avere esaminato il valore del libro.

2. Comproverai al pubblico di avere per collaboratori i letterati più dotti; e per conseguenza solleciterai che ti vengano articoli da tutte le citta d'Italia: se non giovassero all'intento e al metodo del giornale, li restituirai con franchissima urbanità; e se mai contenessero errori, li noterai con modestia, perchè l'autore gli emendi prima della stampa. Non ti lasciar vincere dai riguardi; e niega, con animo deliberato, d'inserire qualsivoglia scritto di poco momento; così ti inimicherai certamente molti scrittori, ma i pochi di merito maggiore ti resteranno affezionati all'impresa, e molto più se vedranno che i loro articoli non siano accomunati alle inezie degli scrittori volgari. Proscrivi dal tuo giornale le ingiurie che irritano villanamente, e gli encomi letterari che hanno oramai nauseato l'Italia; i titoli di celebre, di chiarissimo, e d'illustre, e sì fatti condimenti accademici lasciali ai rimatori de' sonetti, e ai maestri di retorica, acciocchè se li regalino fra di loro. Non attizzare le gare letterarie fra nazione e nazione.

3. Mostra l'intento di scrivere non tanto ai contemporanei quanto alla posterità, quasi che la storia letteraria e la verità morale e politica trovassero rifugio negli archivi del tuo giornale per trasmettersi alla cognizione di chi vorrà un giorno conoscerle. Così i tuoi lettori t'intenderanno senza che tu faccia vista di volerli affrontare.

III. — METODO NELL'ESECUZIONE.

Per alimentare la curiosità di molti e vari lettori, e procacciarsi l'opportunità di inserire sotto aspetti diversi gli stessi principj, il giornale dovrebbe essere diviso in sei sezioni, ed ogni fascicolo in sei articoli.

1. Letteratura antica. — Così terrai vivo lo studio degli ottimi classici, acquisterai al giornale dignità, e la stima insieme e la cooperazione do' letterati gravi. Farai meglio conoscere, anzi spesso conoscere per la prima volta quegli autori greci e latini che non sono noti se non se agli eruditi.

L'antica letteratura non rincrescerà alle donne, se troveranno notizie ed estratti de' romanzieri ed erotici greci, di cui molte persone educate non sanno neppure i nomi; ma importa che lo stile del giornale, specialmente in questa sezione, non sia pedantesco, nè cattedratico: assai libri dotti abbiamo in Italia, ma non ammaestrano perchè annoiano.

2. Letteratura estera. — Darai estratti di opere nuove rilevanti di scrittori Inglesi, Germani e Francesi, e anatomizzerai criticamente i loro sistemi filosofici per cogliere occasione di applicare con disinvoltura le massime che giovano al tuo scopo principale. Non riposarti sul giudizio de' giornali di quella nazione a cui appartiene l'autore del libro, bensì applica le tue critiche e il tuo giudizio agl'interessi, all'indole, e alle presenti necessità della tua nazione; però ti bisognerà leggere e ponderare i libri nel loro fonte, e tutti i giornali di merito che ne hanno dato giudizio.

3. Letteratura italiana. — Dividi questo articolo in due epoche, antica e contemporanea; comporrai l'antica di nuove osservazioni sul merito, i mezzi, il carattere, e i tempi de' nostri migliori scrittori dal 1100 sino al 1800: ti procaccerai opuscoli inediti, che abbondano inosservati nelle biblioteche di Roma, di Firenze, di Venezia, di Milano e di Torino: le notizie colle quali tu dovrai accompagnare la pubblicazione di quei Mss. ti apriranno adito a parlare della storia d'Italia, e a screditare molti pregiudizi tradizionali. All'epoca contemporanea assegnerai l'estratto de' libri degni di critica pubblicati dal principio del secolo, e di quelli che si verran pubblicando.

4. Scienze. — Lascia a' matematici ad intendersi fra di loro, e non toccar le scienze che abusano di cifre e di gergo malagevole all'ingegno di chi vuol ammaestrarsi senza fatica. Le scienze astratte hanno il loro idioma che, benchè universale, è inteso da pochi in Europa. Alla tua opera periodica, dovendo essere nazionale, conviene la lingua elegantemente e intelligibilmente scritta della nazione. Sfuggi dunque le materie che non comportano sì fatto stile. Tratterai di scienze soltanto dove l'utilità del soggetto può combinarsi colla intelligenza e il diletto della maggior parte de' tuoi lettori. Scegli argomenti di chimica pratica,di fisica sperimentale, di storia naturale, di astronomia e di geografia, purchè queste due ultime siano applicate alla storia de' viaggi. Dalla medicina, di cui più o meno tutti gli uomini ciarlano, perchè tutti sentono di dover cadere infermi e morire, tu ricaverai solamente la storia di malattie e guarigioni straordinarie; ma non t'impacciare con sistemi antichi o nuovi di cure, nè con gli empiastri della materia medica, che ha oramai trasformato in farmacie quasi tutte le opere periodiche d'Italia. Riempi a quando a quando la nicchia di questa sezione dell'esame delle due teorie metafisiche de' materialisti e degli ideologisti, perchè sì gli uni che gli altri influiscono più che non pare nelle opinioni del giorno d'oggi, e dividono gli uomini in due sette, che politicamente considerate riescono dannosissime nel loro entusiasmo; l'una crede i mortali macchine incapaci di miglioramento, l'altra li vuole destinati a una perfezione da cui nascono desideri pazzi e progetti ineseguibili.

5. Opinioni. — Sotto questa modesta rubrica pubblicherai articoli composti sul modello dell'antico Spettatore inglese, e parlerai virginibus puerisque, assumendo ora il personaggio di un predicator di sermoni, ora di un filosofo tollerante, ed ora di un osservatore del ridicolo: piglierai segnatamente di mira i costumi e i caratteri ridicoli non tanto degli individui, quanto delle classi della nazione. Ribatti il chiodo contro le abitudini pedantesche della educazione letteraria, e sulla riforma della educazione femminile. Luciano e i Saggi di Montaigne t'insegnino ad esporre con profondità filosofica e con grazia evidente le sentenze astruse della morale; vedi di cambiare di volta in volta gli argomenti, il colorito e la condotta di questi articoli; talvolta anche scrivi brevemente la vita di uomini noti per nome famoso, ma privi di gloria, come per esempio Cola di Rienzo, ed altri faziosi della sua razza. Si fatto modo di prosa alletterà molti lettori, appunto perchè vi si sono avvezzati negli autori oltremontani, e manca assolutamente all'Italia.

6. Bibliografia. — Addenserai estratti e giudizi sommari dei libri e delle traduzioni di minor rilievo; indizi e prezzo delle edizioni vendibili; di opere sotto al torchio, di scritti recentemente preparati o intrapresi; atti compendiati da Accademie; promozioni di Professori alle cattedre; nomi di studenti segnalatisi in una Università; viaggi, accidenti, e funerali di autori contemporanei; quadri, statue, incisioni, e merito di artisti viventi; lavori antichi di arte dissotterrati; musica; teatro; aneddoti, ecc.

A unire tutte queste materie ogni mese in un solo volumetto bisognerebbe comporre il fascicolo ora non meno di sei fogli, ed ora non più di otto, con la carta e caratteri del saggio qui annesso. Per l'ultima sezione, li di cui argomenti richiedono meno intensa lettura, si adotterebbero caratteri più minuti, de' quali si potrebbe talvolta giovarsi negli articoli delle altre sezioni, quando le materie riuscissero abbondanti.

Delle spese si è già parlato.

Quest'opera periodica, avendo riguardo allo scopo, ai soggetti che tratta, e al metodo, potrebbe ragionevolmente essere intitolata: Documenti di letteratura.

IX. AL SIGNOR CONSIGLIERE DI STATO DIRETTORE DELLA POLIZIA GENERALE DEl CANTONE DI ZURIGO.

I. Da che il ministero della Polizia Austriaca residente in Milano si giova di lei, signor mio, per le inquisizioni che ei stima di fare sopra di me, non le rincrescerà, spero, ch'io, dovendo pur una volta alzare la voce, parli pubblicamente con lei. Anzi, ella doveva aspettarsi ch'io avessi d'ora in ora a prorompere con l'interrogazione: s'io ho mal fatto, testifica contro di me; e se ho ben fatto, perchè mi percuoti?

I ministri dell'Austria possono addurre che, [per] l'essermi ostinato a non mai scrivere a pro del loro governo, com'essi m'avevano richiesto, nè giurare fedeltà al loro Principe, com'essi m'avevano poi comandato, ed essendomi con esilio spontaneo sottratto dalla loro giurisdizione, dovevano tenermi d'occhio in qualunque terra io mi stessi, e obbligarmi, non foss'altro, a tacere. Pur se intendevano ch'io mi quetassi e non pubblicassi le mie opinioni, non era egli più savio partito il non inquietarmi? Ma ella, signor mio, ella, cittadino e magistrato di terra libera, destinato dal cielo e dal sufragio de' suoi concittadini a provvedere alla quiete e alla dignità, della, patria, ella doveva per istituto frapporre la mediazione della giustizia tra me, uomo profugo che, attestando altamente la propria innocenza, implorava ospitalità, e i ministri d'un monarca straniero che secretamente le suggerivano di negarmela. A lei no, non toccava di farsi guardiano degli altrui confini, e inquisitore per un governo che per avventura ha necessità d'essere alquanto severo. Ella doveva e poteva, essere giudice. Capitai nella Svizzera; la corsi, e stetti a lunga dimora in Hottingen presso Zurigo, dichiarando sempre a viso apertissimo: Ch'io, che non aveva prestato mai giuramento al governo francese, m'era espatriato d'Italia per non prestare un giuramento militarmente intimato dall'Austria.

E questo stava in lei l'appurarlo per via dell'Agente Elvetico residente in Milano. Inoltre, a lei non mancavano mezzi da andare giornalmente esplorando se la mia dichiarazione era smentita da' miei andamenti, e da convincersi s'io con atti, o scritti, o parole io tendeva a turbare la pace domestica, o la sicurezza esterna della repubblica. Se non che (pur troppo!) per lei non trattavasi di riconoscere il vero per adempiere al giusto; bensì di adempiere puntualmente all'intento della Polizia Austriaca. Quindi le sevizie gratuite che ella ha tentato, e non ha avuto il coraggio di consumare contro di me; quindi le ciarle plateali ne' crocchi svizzeri sul mio carattere; gli almanaechi su le mie macchinazioni politiche; l'atterrirsi della mia vita troppo solinga; i sospetti contro que' pochi che alle volte mi visitavano. D' indi in poi ho perduto ogni speranza di onesto riposo in un paese ove i magistrati delle repubbliche sono obbedientissimi esecutori delle requisitoriali degli ambasciatori stranieri.

LO SCRITTORE DELIBERATOSI AL SILENZIO È COSTRETTO A ROMPERLO.

II. Ma io desiderava quiete a ogni modo; onde mi rassegnai a partirmi dall'asilo mio, senza proferire giustificazioni o querela. E come scolparmi e non accusar gli altri, e non convincerli d'ingiustizia, di puerilità, e d' inumanità, e non attizzare gli scandali? Come dolermi, e non mostrarmi impotente a tollerar la disavventura? Ma sopra tutto, come perorare la mia causa e non parlare assai troppo di me a' forestieri; di me che appena son noto a' miei concittadini? La mia fama letteraria è tanta da bastare solamente a contendermi il beneficio della pacifica oscurità; ma non è quanta bisognerebbe a procacciarmi il rispetto, o, se non altro, la curiosità de' mortali. Nel decorso di questo scritto ella vedrà quante volte il ribrezzo di parlare de' fatti miei m'ha indotto, anche negli anni addietro in Italia, a disprezzare le imputazioni non meritate, piuttosto che farmi meritamente reo di ridicola vanità. E poi, non mi pareva equità l'assalire in lei un individuo che, non possedendo tanta forza da patrocinarmi col diritto delle genti, era forse mal suo grado costretto a cacciarmi arbitrariamente dall'ara dell'ospitalità ch'io abbracciava; e sperai che ella si sarebbe ricordato di me non senza qualche rimorso, com'io mi ricordo, e con sincera compassione, di lei. Piacevami anche che la Polizia Austro-Milanese si affaccendasse co' suoi terrori fittizi, e m'onorasse comportandosi meco come già i Romani col profugo Annibale. Così aspettando che il tempo o depurasse delle taccie il mio nome, o più probabilmente lo facesse dimenticare, io sperava dal mio silenzio la quiete ch'io, come ogni altro mortale, ho diritto, e, forse più che ogni altro, ho necessità di trovar su la terra.

« La Prudenza aveva sigillato i miei labbri; ma vedo che mi provoca a morte: ed ecco rotto il sigillo ». Dopo tre mesi ch'io mi sto in Inghilterra, odo ch'ella, signor consigliere, non so se per proprio o per moto comunicato, persiste nelle inquisizioni a Zurigo a fine di avverare s'io abbia fatto stampare delle Filippiche contro il governo dell'Austria: nè la mia presenza può, come per l'addietro, smentire i sinistri rumori che m'offendevano. Nè mi offenderebbe che altri dicesse ch'io ho nell'esilio mio pubblicate (bench' io non abbia ciò fatto, e allegherò in tempo il perchè) le mie opinioni intorno allo stato della mia patria. M'offende il modo dell'inquisizione; il luogo dove si presume ch'io abbia fatto stampare; la intenzione che mi si appone, e la ripetuta querela ministeriale, ch'io possa turbare la pubblica quiete in Italia. Le indagini furono infruttuose per lei; nondimeno fruttano macchia e pericoli a me. L'inquisizione, signor mio, non sì tosto tocca un individuo, e peggio s'egli è forestiero, gli lascia addosso un cotal fascino, che gli riesce invisibilmente funesto. Non essendovi pubblici tribunali fra il persecutore armato e il perseguitato inerme, ed ogni cosa essendo ravviluppata di tenebre, di delatori e di misteriosi terrori, gli uomini sciocchi, i tristi, gli oziosi, i ciarlieri, i bugiardi, i codardi, i creduli, la pluralità insomma del volgo nobile e plebeo d'ogni paese propende a giudicare, e a ridire che l'individuo debole e profugo sia stato meritamente inquisito dal forte: e intanto al forte, quando anche ei s'avvegga dell'error suo, non torna mai conto di confessare la verità. Infatti, potrebb'ella in buona fede asserire che [a] tutti coloro a' quali non può essere ignota la perquisizione delle Filippiche sia stato notificato che, alla stretta de' conti, le non erano che visioni?

Or finchè il mondo non saprà il vero, non sarà egli per me obbrobrioso il rumore ch' io nel paese ove cercava ospitalità la ho violata, commettendo azioni le quali irriterebbero un governo potente contro una repubblica debole, e il rigore de' magistrati svizzeri contro que' cittadini che fossero stati miei complici? E che tranquillità, che fiducia potrei meritarmi qui, dov'io venni nuovo e straniero, se lasciassi che per le comunicazioni reciproche de' diplomatici e per l'eco delle gazzette si diffondessero e avvalorassero le imputazioni? Nè questi miei sono immaginari terrori, o lontani. Appunto ora ch'io sto parlando con lei, v'è tal uomo d'autorità che m'interrompe per avvertirmi come alcuni Inglesi che non mi conoscono se non per le altrui ciarle, mi stimano ingegno inquietissimo, promotore di parti. E quanto più le calunnie si van rinnovando, tanto men debbo sperare che il tempo e la verità le disperdano. Una o due ingiurie virilmente sofferte rimandano il vituperio su chi le fa; ma, ove le siano continue e continuamente dissimulate, il silenzio dell'innocente è ascritto a coscienza di colpa e l'alterezza del forte a viltà. Pur troppo la pura coscienza che affida il mortale dinanzi a Dio non basta a procacciargli riposo di vita sociale. E però, onde preservarmi illibato anche al tribunale degli inimici miei, ho sacrificato e patria, e interessi, e studi, ed affetti domestici, e tutto. Ma non ho la sovrumana filosofia di sentirmi onesto e parere infame, e tacere; e tacere per vedermi più sempre esasperato e vedere insieme incolpati gli amici miei. E però, oltre alla tutela dell'onor mio che unico in terra mi avanza, mi corre obbligo di scolpare que' cittadini svizzeri i quali, per avere consolato l'esilio mio d'affettuose accoglienze, potrebbero essere o inquisiti, o additati come fautori di libelli e di brighe. Ma sopratutto è obbligo mio di fare, per quanto io posso, risapere all'Italia, che s'oggi a' più devoti fra' suoi figliuoli non è conceduto d'essere impunemente generosi, nori sono però si atterriti dalle persecuzioni da lasciarsi impunemente disonorare.

SCOPO, MATERIA, METODO DELL'APOLOGIA.

III. Onde quantunque tardi, e non so se per avventura sulla fine della vita mia (perch' io detto questa lettera infermo), obbligherò a perpetuo silenzio le antiche, le presenti, le future malignità; e, non foss'altro, libererò la mia sepoltura dal disonore. Ed ella, signor consigliere, e gli inquisitori e i politici delle gazzette e de' crocchi, e i diplomatici speculatori ne' lor gabinetti, non perderanno più in grazia mia nè opere nè parole. Al quale intento non trovo mezzo efficace se non quest'uno: di parlar alto, mentre l'inquisizione sussurra fra le spie ch'essa alimenta d'oro, e la ingannano: di parlar vero; e diraderò le ombre artificiali, fra le quali, per comune disavventura, essa pur deve travagliarsi, e travagliare il mondo alla cieca: di dire tutto; e documentarlo in guisa che ogni uomo possa giudicarmi senza pericolo d'ingannarsi; nessuno possa ascrivermi azioni o opinioni non mie; nessuno mai possa smentirmi.

Renderò dunque esattissimo conto della mia vita e della mia religione politica. Scusimi la necessità verso que' viventi che m'occorrerà di citare per testimoni. S'io testifico di me, la mia testimonianza non è verace. (21) Non però a nessun patto toccherò secreti commessi alla mia fede, o nomi di persone alle quali potesse mai risultare taccia o pericolo. E quand'io mi sarò palesato patentemente e dirò: Colui che cercate son io, potrà darsi ch'ella e i ministri di sua Maestà Imperiale in Italia si guardino stupefatti l'un l'altro, dicendo: E' non è. Saranno convinti ch'io non mi sono quel tale che temono predicatore di popolari crociate, e vogliono dargli bando da tutta la terra abitata, sì che gridi al deserto. E s'ei quindi innanzi mi lasceranno vivere e morire in pace, e dove e come mi piacerà, non l'affermo. Perch'io non mi spero assoluzione, nè la vorrei da que' tanti, i quali per diversità d'interessi desumono pretesti dalle mie opinioni per dichiararmi colpevole, se non di fatti, almen di pensieri, e punirmi. Intendo che mi condannino, e quando possano, eseguiscano la sentenza; ma non più sopra indizi fantastici e imputazioni, bensì sopra la schietta mia confessione, e sopra l'inalterabile istituto di tutta intera la vita mia.

Sol mi rincresce che la vita mia essendo stata più contemplativa che attiva, riescirà di poca importanza al più de' lettori: nondimeno, perchè ho vissuto e scritto, e tentato d'operare, e osservate le vicende d'Italia dall'anno 1796 a' giorni nostri, le notizie ch'io darò intorno a me manderanno, spero, non poco lume alla storia delle nostre sciagure; ed è storia assai mal conosciuta in Europa. Inoltre, dai casi anche di poco momento d'un solo individuo, purchè siano innegabilmente veri, e dalle sue opinioni, e da' motivi ragionatamente esposti che le produssero, gli osservatori dell'umana natura e della condizione de' tempi sapranno destimere alcune conseguenze applicabili a pubblica utilità. E poi, signor consigliere, potrebbe darsi ch'io, strada facendo, m'abbattessi in alcuni problemi ch'io di certo non saprò sciogliere; ma che, avendoli considerati altre volte, ho trovato sempre stimati degni della meditazione di chiunque desidera che il genere umano europeo d'oggi incominci a starsi, possibilmente, in pace. Onde ne proporrò a lei la soluzione, ed a qualunque amministra la Giustizia e la Forza a' mortali. Perchè temo che finché quei problemi non saranno o snodati dalla Giustizia, o tagliati, il che sarebbe più comodo, dalla Forza, noi vedremo piuttosto ingannevolmente sopita che estinta la guerra civile nella quale oggi quasi in ogni stato persistono i governi contro i governati, e i governati contro i governi.

Da tutte queste cose che io m' assumo di esporle, e dalle troppe parole che ho fin qui speso, m'avveggo con mio rincrescimento ch'io la costringo alla noia di prolissa lettura. L'apologia è cosa sì infelice per indole sua, che non può aspirare neppure a scansare la verbosità. Perchè dove a lei, signor mio, basta una sillaba, un atto arbitrario, un cenno muto a macchiarmi, a me bisognano narrazioni, esami, allegati, e convincentissima serie di ragionamenti a lavarmi.

E comincio anco a sentire che l'uomo al quale è conteso il tacere trova compenso nello spassionarsi di tutte le ragioni che aveva represse dentro il suo petto. Socrate sapeva ch'ei, giustificandosi o no, era precondannato a morire; pur (se Platone merita fede) perorò per lunghissime ore a' suoi giudici; e quando ei fu sentenziato, gli andava pur tuttavia intrattenendo a parole: — O Ateniesi, ora che voi avete fatto il voler vostro mandandomi a morte, io il debito mio rassegnandomi, voi ed io non abbiamo da far altro di meglio fuorchè il conversare fra noi; ond'io parlerò, e non rincrescavi d'ascoltarmi e rispondere. —

X. FRAMMENTI DI STORIA DEL REGNO ITALICO.

[INTRODUZIONE].

La Storia d' Italia, dopo la decadenza dell'Impero Romano sino all'ultima rivoluzione, si riparte da so stessa in tre grandi epoche, che potrebbero chiamarsi, — l'una della Barbarie, — la seconda della Libertà, — e la terza della Servitù.

La prima epoca comprende il lungo tratto di secoli ne' quali i popoli settentrionali fecero le loro successive irruzioni, e stabilirono i loro governi militari in Italia.

La seconda epoca comincia dal pontificato di Gregorio VII, anno 1070, e termina nel pontificato di Clemente VII, anno 1530. Questo spazio di quattrocento sessant'anni è uno de' più interessanti alla storia del mondo moderno. L'onnipotenza del Cristianesimo distrusse la barbarie e la onnipotenza della forza. Le Crociate agitarono il genere umano europeo, e scossero l'Italia dal letargo e dalla disperazione della servitù. La lunga lotta fra l'Impero e la Chiesa abolì in Italia l'aristocrazia feudale, che opprimeva i popoli in nome degl'imperadori, a' quali essa non obbediva. La Chiesa, vittoriosa ad un tempo ed inerme, concesse a' popoli che si armassero per difenderla. Queste armi cacciarono i luogotenenti stranieri e gli arbitrii de' feudatari italiani; al potere arbitrario successero le leggi; le leggi partorirono la libertà, e la libertà partorì industria e ricchezze, e ne venne la civilizzazione alla quale fu poi debitrice tutta l'Europa. Questi vantaggi erano congiunti alle stragi delle guerre civili, a' forsennati delitti della superstizione, ed a' roghi del fanatismo. La Chiesa di Roma, dopo ch'ebbe per ben inteso interesse favorita la libertà, volle per interesse mal inteso ritorla a' popoli, e dominarli, non solo con l'opinione, ma con lo scettro che gl'imperadori le disputavano, e con la spada, ch'essa non aveva. Abbandonò le Repubbliche Italiane, sue naturali alleate, e si confederò con gli stranieri, che oppressero gli stati d'Italia, e la fecero teatro di guerre fra i re d'Europa, finché il più forte oppresse anche la Chiesa. Così spirò ogni indipendenza italiana al tempo di Clemente VII sotto l'armi di Carlo V; e la Riforma liberò la più gran parte d'Europa dall'influenza di Roma.

Quindi ha principio la terza epoca della storia italiana; ma d'allora in poi l'Italia non ebbe, na poteva più avere, storia veruna. Fu stabilmente divisa in piccoli Stati, o governati da principi delle case di Francia, d'Austria e di Spagna; o da principi italiani obbligati per parentele e patti di famiglia a quelle Potenze: quindi anche Venezia, e Genova, e la Chiesa stessa, formando la minor parte d'Italia, erano strascinate necessariamente con la maggior parte ad essere dipendenti dagli stranieri. Durante l'intervallo di quasi tre secoli, che si frappone da Carlo V a Napoleone, gl'innumerabili volumi che sotto nome di Storia furono pubblicati in Italia, si potrebbero ridurre a pochissime pagine veracemente importanti. Infatti, negli storici delle altre nazioni non si parla mai de' tre ultimi secoli dell'Italia se non se per indicare i campi di battaglia ove gli eserciti forestieri hanno vinto o perduto; per noverare i tributi che gl'Italiani hanno pagato al vincitore, e per registrare il giuramento di fedeltà che gli hanno prestato. La Francia, l'Austria e la Spagna non si rappacificarono mai in Italia se non se per fare una nuova divisione di spoglie, per confermare con nuovi trattati i loro rispettivi diritti di usurpazione, e per innestare industriosamente in que' trattati di pace nuove ragioni di sì utile guerra.

La Rivoluzione che trasformò agli occhi nostri le opinioni, i costumi e l'aspetto d'Europa, infiammò le passioni del genere umano e ne sviluppò tutte quante le forze, manifestò i suoi effetti più potentemente in Francia e in Italia. Ma con una diversità importantissima a considerarsi dagli osservatori de' popoli, e quindi necessaria ad esaminarsi per mezzo della storia de' fatti, — ed è: che in Francia la Rivoluzione essendo stata attiva s'infiammò, alimentò la sua fiamma, la diffuse per tutta l'Europa da sè: s'estinse in gran parte da sè per troppo ardore suo proprio; ed oggi nelle sue ceneri stesse rimane pur tanto calore da impedire per lungo tempo ancora il ritorno della servitù. Invece in Italia la Rivoluzione non fu che passiva; onde, per quanto gli avvenimenti si siano accumulati, e le passioni elettrizzate, e le nuove opinioni abbracciate e praticate; per quanto gl'ingegni si siano ridestati, e le forze fisiche agguerrite nella disciplina, e nello studio, e nella fatica delle armi con eventi fortunati e con gloria; finalmente, per quanto il carattere della nazione si sia elevato e rinvigorito; pur nondimeno l'attività della Rivoluzione era stata comunicata in Italia dal suo conquistatore. Egli solo bastò ad animare gl'Italiani, a dar loro opinioni, leggi, armi, sentimento d'indipendenza, desiderio di libera patria, e sopra tutto rapidità tanta di moto, da far ch'ei mostrassero in pochi anni il cangiamento al quale sarebbero bisognate tre o quattro generazioni. Ma egli, nel trasfondere quasi istantaneamente questa attività, la serbava pur sempre in suo arbitrio, e poteva moderarla, accrescerla, estinguerla a sua posta ad un tratto, con la prontezza con che l'aveva comunicata. Però l'Italia, al cadere di Buonaparte, ricadde nell'antico suo stato di servitù, e fra pochi anni forse non presenterà vestigio alcuno di avere sì potentemente operato nella generale rivoluzione d'Europa.

Le comunicazioni precluse dalla lunghissima guerra, la malafede, la venalità ed ignoranza degli scrittori di partito, e le tenebre diplomatiche con che ne' gabinetti de' potentati, e segnatamente dal Ministero inglese, si sono trattati gli affari, de' popoli, tolsero alla nostra nazione d'avere nozioni distinte dello stato d'Italia sotto la conquista e il regno di Buonaparte. E da che oggimai le inquisizioni politiche e religiose vietano agl'Italiani di scrivere la loro storia, importa che taluno cominci a diradare l'oscurità, innanzi che il tempo non la raddensi. Vero è che le passioni de' contemporanei, e la quasi impossibilità di sapere e appurare tutti gli avvenimenti, non lasciano sperare di potere narrar tutto il vero; pur non reca poco vantaggio a' mortali quello storico che, quantunque non possa scrivere tutto, non racconta....

La Storia dell'Italia settentrionale, da che fu invasa dalle armi francesi, può dividersi in tre epoche piene di mutazioni istantanee, e povere di avvenimenti gloriosi.

Allorchè Buonaparte adonestò la conquista dell'Italia col nome di Libertà, e, vendendo Venezia alla Casa d'Austria, ideò una nuova repubblica senza costituzione, senz'armi, senza uomini avvezzi a governare, e curvati da molte generazioni sotto il giogo straniero, la nazione Francese non tendeva se non a rimutare gli antichi ordini e le Case regnanti d'Europa, per menomare i naturali nemici della sua Rivoluzione, e i vendicatori del regicidio. Il Direttorio frattanto, per raffermare la sua autorità, sviava la plebe dalle usate sanguinarie sommosse agli eserciti, che si pasceva[no] delle prede de' vinti; e Buonaparte con la fama delle imprese conquistatrici spianavasi palesemente la strada alla dittatura e all'impero. E forse ebbe allora a cuore l'Italia, non solo perchè fu primo campo delle sue imprese, ma perchè sperava anche perpetuo l'aiuto da' popoli ch'egli ostentava d'avere redenti dalla antica tirannide; e li riserbava frattanto al suo scettro. Quella democrazia ebbe a principio assai partigiani: ma poi gli uomini innamorati del vivere libero, s'accorsero che il Direttorio, e i Consigli Legislativi, e tutti i Magistrati della Repubblica Cisalpina, creati e aboliti ad arbitrio de' generali francesi, e le varie costituzioni date quasi a un tempo e cangiate, erano prove che l'Italia non aveva se non cangiato il nome della dominazione, e che un giorno forse i Francesi sarebbero riesciti peggiori degli Austriaci e degli altri governi, che avevano sin allora governata insieme e istupidita l'Italia. Ripugnavano i nostri costumi, alloramai convertiti in natura, al democratico idioma: di cui mi [era] disingan nato, allorchè, imberbe quasi, dal governo democratico di Venezia era inviato al giovinetto generale Buonaparte a Montebello (sic) in Milano, raffrontando il fasto della sua corte militare a' costumi di Epaminonda e di Bruto, e di quegli antichi di cui io m'era anche troppo innamorato ne' libri, e a' quali credeva che i repubblicani novelli rassomigliassero. Molti frattanto, servendo i Francesi, impa[ra]rono come istrioni il sistema democratico della Libertà e dell'Eguaglianza, sogni della giovinezza e della virtù deliranti, e balzelli da illudere il volgo su per le piazze, e da fargli mozzar teste, e spremere borse per conto de' demagoghi; i quali poscia mutarono quest'idioma nell'altro più nauseoso di Viva il Giove, il Massimo, il Dio terreno, e sì fatte servilità inutili a chi è forte davvero, e sa che il mondo le ricanta senza pur crederle, e le disprezza: ma il conquistatore e il tiranno le vogliono intendere, per fare al popolo abbietti quegli uomini che sono stromento alle sue usurpazioni.

[EDUCAZIONE DE' GIOVANI SOTTO NAPOLEONE].

.... E mentr'esso educava tutti i giovani da guerrieri, lasciava inavvedutamente in vostra balia d'educarli da cittadini. Tant'era l'impazienza sua d'adunare soldati, ch'ei decretò, mentr'io mi stava tuttavia nell'Università, che gli scolari tutti fossero disposti per ruoli ed ordini di battaglioni, e di compagnie, e di manipoli, e s'esercitassero....

[DEL PRINCIPE EUGENIO, VICE-RE].

Morto, o peggio che morto, Napoleone, il Vice-Re s'attenne imprudentemente a due partiti, l'uno opposto all'altro; l'uno imprudente, l'altro basso. — Perchè, in primo luogo, continuò ad agire come se Napoleone vivesse, e teneva con gl'Italiani e co' Magistrati gli stessi modi assoluti di prima; nascondeva a tutti noi gli eventi di Francia; si sequestravano alla posta le lettere; si mendicavano le notizie di gazzette che giungevano solamente sino a Torino. — Dall'altra parte, dopo l'armistizio con Bellegarde, diffuse un proclama a' Francesi congedandoli, e facendosi credere Re d'Italia.— I suoi partigiani spargevano che bisognava, per conseguenza, obbedire al Vice-Re che parlava si positivamente; i suoi nemici lo trattavano da pazzo vanaglorioso: ma gli uomini avveduti, ed italiani deliberati, videro che con quel proclama egli voleva illudere gli Alleati, facendo credere che gl'Italiani lo preferivano ad ogni altro principe, e illudere gl'Italiani, quasi che gli Alleati lo avessero investito con trattative secrete del principato d'una parte almeno del regno.

Questa condotta bassa inasprì tutti gli animi. Frattanto si sparse per Milano che il governatore di Mantova avesse, col predominio della subordinazione militare, carpite le firme di molti ufficiali italiani in favore del Vice-Re. Alcune avventate dicerie, scritte da non so quali colonnelli che minacciavano di trucidare chiunque non acclamasse il Vice-Re, esacerbarono l'animosità de' Milanesi. Melzi aveva, per generosità forse, e forse per ambizione di dare una corona ad Eugenio, aveva scritto al Vice-Re promettendogli la sua adesione, e le sue sollecitazioni presso il Senato. Vaccari, tornato da pochi giorni....

[ARTE DEI DESPOTI CONTRO L'INDIPENDENZA D' ITALIA].

L'Austria co' suoi federati ottenne la rovina di Buonaparte, e rioccupò l'Italia, non tanto con l'armi, quanto con le promesse di governi liberali; — promesse con le quali Napoleone aveva da principio guerreggiato vittoriosamente contro i monarchi europei, e delle quali i monarchi s'armarono poscia efficacemente contro di lui. A' dì nostri vincerà sempre chi saprà meglio strascinare per le orecchie la moltitudine de' credulissimi animali chiamati genere umano, pronti sempre a fidarsi a chi li pasce di speranze, e a tremare sotto la sferza di chi, dopo averli ingannati, gli opprime. Però gli Austriaci s'affrettarono in Italia ad accaparrare scrittori che esagerassero i danni del passato dispotismo francese, e le paterne intenzioni del recente dispotismo tedesco. Tuttavia molti fra quelli che non avevano creduto bassezza l'adorare con fanatismo e superstizione servile il genio potente di Buonaparte, sentirono che se....

[NAPOLEONE].

.... Per gli altri popoli temo bisogneranno altri secoli: da che l'Uomo al quale direste che l'Onnipotente avesse permesso per alcuni anni il SI FACCIA a rigenerare l'Europa, ne abusò a riagitarla, e dissanguarla e prostrarla e lasciarla stanchissima nella vecchia sua corruzione. Dicendo a' popoli di liberarsi ed incatenandoli con le loro forze, insegnò a' principi a ingannare i popoli, e [a] guidarli per liberarsi di lui, e incatenarli con le loro forze. Giurando costituzioni e spergiurandole, insegnò a' monarchi.... d'addottrinare la coscienza....

.... E in quest'ultimo espediente sono meno magnanimi e più forsennati assai del loro maestro. Or uno or l'altro de' potenti monarchi che moia, ed abbia un successore ambizioso, si gioverà delle sommosse continue de' popoli a scatenarsi dalla Santa Alleanza, e li solleverà, imitando gli stessi artificj a far che inavvedu....

Gl'Italiani non attinenti a setta veruna professavano intorno all'imperatore Napoleone queste due opinioni: l'una, ch'egli aveva dato moto, armi, e principio alla indipendenza d'Italia; l'altra ch'egli era tiranno: e quantunque sentissero verso di lui l'obbligo per indipendenza promossa, non però se l'aspettavano da lui tiranno. Chè s'egli avesse domate le Spagne e le nazioni settentrionali d'Europa, era certa l'aggregazione del Regno d'Italia al grande Impero Francese; e quindi perduto fin anche l'uso della lingua, la quale unica omai distingue gl'Italiani dagli altri popoli, di cui per le tante conquiste abbiamo acquistati e accumulati i vizi, non le virtù, vizi fatti più obbrobriosi e insanabili....

TIRANNO.

Non io m'atterrò alla sentenza di Marco Bruto: non esservi nè promessa mai ne fede, nè religione di giuramento che possa obbligare i mortali a sostenere tiranno. (22) L'anima mia non si leva tant'alto che, sdegnando le umane imperfettissime leggi, presuma, pari a quell'illustre romano, di governare le proprie opinioni e l'altrui con la coscienza d'una sovrumana virtù.

MAGISTRATI.

In mezzo alla congiura vedevasi ad ogni modo che la pubblica opinione tendeva alla indipendenza; ma, come la volontà universale guidata e diretta ad un fine, e armata di forze, ha in sè una irresistibile forza; così, se a lasciata in balia di sè stessa, e specialmente in un paese si diffidente e diviso, arde come inutile fiamma si strugge, e si seppellisce sotto le proprie ceneri — I magistrati — (sic)

NOBILI.

.... sè nè d'altri, nè ha facoltà di discernere il retto o il torto, nè ha necessità del ben fare nè i mezzi, nè d'altra parte i pericoli del mal fare, e opera così alla ventura; non si ricorda del jeri, non vede il domani, sente il bisogno istantaneo, presente; come, per non uscire da' fatti nostri, que' milanesi patrizi, a cui bastava di cacciare Eugenio perché era straniero, e sono e saranno servi d'altri stranieri; e invece d'armarsi e dar esempio a' cittadini d'unirsi all'esercito, suscitarono la canaglia a svaligiar palazzi, a trucidare un ministro italiano che, per non morire compianto, doveva essere giudicato e mandato, se il meritava, formalmente al patibolo; — così insegnavano al popolaccio di svaligiare i loro propri palazzi, e trucidarli, se alcun altro straniero vorrà farli ministri. Di che temendo, stamparono per editto che la canaglia milanese non avea trucidato il ministro; e che la canaglia forestiera e non milanese voleva disertare le case patrizie; .... e a chi dicea che se ne facesse inchiesta giuridica, rispondeano che siffatte cose vanno lasciate in quiete. Di tutto questo oggi non sono nè lieti, nè tristi; non se ne ricordano più. E se taluno li loda di tali imprese, se ne vantano; se li vitupera, negano d'averle mai neppure pensate: ma che si siano davvero infamati, nol sanno.

La loro ignoranza non distingue i gradi tra la monarchia assoluta e la licenza de' democratici. Dum vitant stulti vitia in contraria corrunt. Quindi dall'universale odio per la democrazia ricavano la necessità del governo assoluto. Ma che dev'egli più giovare a gente naturalmente infingarda se non se il governo assoluto? — Del resto contano male se credono pel favore del monarca ottenere l'impunità, pregiudizio de' patrizi di tutto il mondo, e più dell'Italia, e peggio in Milano; di cui li fe' ravvedere Giuseppe Secondo; però l'onorano del nome di Giacobino.

ITALIANI.

Voi avete i vizi dativi da tutti i governi che v'hanno per essi disciplinati alla servitù; cambiando principi, v'imbevete di nuovi vizi, e ritenete gli antichi.

Perchè taccio degli Italiani egregi. Par eorum peccatum esse censemus qui mentiri in Historia audent atque eorum qui dicere verum reformidant. Casa, in Vita Petri Bembi.

Ogni cosa pareva fondata sovra solide fondamenta a' partigiani francesi; agli altri pareva incantesimo che si sarebbe a un soffio della Provvidenza distrutto. Ma gl'Italiani vedevano che bisognava profittarne come effetti d'una rivoluzione il cui moto non sarebbe in sì pochi anni cessato, e che, propagandosi nell'Europa, avrebbe agitato anche l'Italia; nè il moto cesserà così presto.

POPOLO E CONGIURATI.

17. 18. 19. 20 aprile, tutti gli animi prorompevano, e le minaccie furono maggiori assai dell'effetto.

Per quanto gli uomini amino il loro stato, non però possono liberarsi della noia secreta [del presente] e della speranza vanissima del futuro. La plebe conosceva pure che teneva ogni cosa da quel governo; ma vedeva, udiva che Napoleone era tiranno: il sollevarsi un solo giorno, un'ora contro l'uomo onnipotente adula l'amor proprio degli uomini; altri si sentiano come liberi del timore: un tumulto equivale [a] una solennità; però molti vi corsero, ma non sapevano che si facessero, nè che si volessero, nè quale era il capo, nè a chi fidarsi, nè a quale evento. Non fu rubato, o perchè i ribaldi speravano nella notte vegnente, o perchè gli altri non si credeano sicuri de' delitti minori, finchè non fosse ucciso il ministro: le cose che si tolsero al Senato e alla casa di Prina furono frantumi; e inoltre i rapitori, pochi giorni dopo, le restituirono spontanei, per timore o rimorso. — Isaia fece il quadro d.... [s'interrompe].

EUGENIANI.. — Conjurationem nascentem, non credendo, corroboraverunt.

ALII. —Eugenianos Patriciosque spem mollibus sententiis aluerunt.

OMNES. —Erat obscuritas quaedam, erat certamen libidinum sine ullo consilio: pauci disserebant quid optimum esset; multi quid sibi expediret; nullus quid deceret; nullus quid liceret. (Cicer. Catilin. 109). Ardeva il foco, ma non luce ne usciva; fumo, per cui      [i cittadini]
pigliavano strade diverse, nè una o due tendenti allo stesso scopo, ma opposte.

XI. FRAMMENTO AUTOBIOGRAFICO.

Le soussigné est né dans l'ale de Zante en 1778 d'André Foscolo et de Diamante Spathy, veuve d'un comte Serra, et remariée en secondes noces. La famille du soussigné étoit patricienne à Venise: dans le commencement du 17me siècle ses ancitres ayant recu en fief des terres dans l'ale de Candie, et le droit de gouverner au nom de la république, ont dès lors renoncé au patriciat de Venise, en gardant néanmoins le privilège heréditaire d'avoir séance dans les conseils de noblesse de toute ville sujette à la république; privilège dont ils ont usé depuis la perte de Candie, et qu'ils ont conservé de père en fils jusque au renversement de l'état vénitien. Le soussignè (après la mort de son père qui étoit docteur en médecine, et exeraoit en Dalmatie la magistrature des Priori di sanità) a été l'an 1788 conduit à Venise tant pour son éducation, que pour obtenir quelque jour les charges publiques que le sénat avoit toujours confié à sa famille. L'an 1795 (sic) ayant donné au théatre une tragédie, le succés qu'il en a obtenu l'a engagé de renoncer aux emplois politiques pour se livrer à ses études. La révolution de Venise étant survenue, il a été d'abord nommé sécretaire du nouveau gouvernement, et ensuite envoyé à Mombello près de Bonaparte comme sécretaire d'ambassade avec Mr Battaglia, l'un des hommes plus clairvoyants de Venise, et qui par cela mëme a eu le sort de Cassandra. Mr Battaglia pour avoir prédit la vérité a été persecuté en vie, et pleuré inutilement après qu' il eut succombé aux persecutiomi de la calomnie populaire. La cour monarchique dont le chef d'une armée republiquenne s'environnait en Italie, ont (sic) détrompé le soussigné à l'égard de la démocratie nouvelle: la manière dont Bonaparte a vendu Venise ont (sic) decelè le lion couvert de la peau du renard; les grandes affaires politiques que le soussigné a eu l'occasion de voir à Mombello dans leur petitesse, l'ont detrompé de l'admiration que l'on a communement pour les personnages qui traitent mysterieusement les affaires: mais il a surtout apris que l'on doit tenter de racheter au prix de son sang et avec ses propres armes l'indépendence de sa patrie; mais que les Italiens se rendoient malheureux, et, ce qui est pis, ridiculs en espérant l'indépendence par les armes étrangères. Cependant le soussigné s'est convaincu que quand mëme les véritables intérots, et la gloire des puissances de l'Europe auroient voulu rendre indépendante l'Italie, la vanité de conquérir, et la convoitise l'auroient toujours empeché.

XII.

AUTOBIOGRAFIA MILITARE.

ALLA COMMISSIONE STRAORDINARIA DI GUERRA. Sezione del Personale.

Estratto di servizi prestati, e delle campagne fatte dal sottoscritto Ugo Foscolo, figlio di Andrea Foscolo Veneziano, nato al Zante, cittadino di Venezia, Dipartimento dell'Adria, ed elettore per quel Dipartimento, d'anni 35: statura piedi cinque, pollici 3; fronte larga; occhi grigi; ciglia castagne chiare; naso dritto; bocca grande; mento rotondo; viso oblungo: segni apparenti....

Se sia celibe od ammogliato (A). Celibe.

Dettaglio de' servizi (B). — Nell'aprile del 1797, cacciatore a cavallo d'uno squadrone fatto a Bologna. — Nel mese di maggio, avanzato brigadiere; e nel giorno 31 dello stesso mese, sottotenente. — Partitosi per il cangiamento di governo di Venezia, e nominato nella sua patria segretario di legazione presso il generale in capo Bonaparte a Milano, fu dalla Giunta di difesa generale di Bologna nominato tenente nel reggimento stesso; ma non tornò in attività se non nel febbraio del 1798 a Milano, donde fu impiegato dal ministero della Guerra, membro di un Consiglio di Guerra residente a Bologna; ripigliatasi la guerra nel 1799, fu promosso dopo la battaglia di Marengo, ove si trovò col primo degli Ussari Italiani, Capitano per nomina del generale in capo Macdonald a Genova. La nomina, essendo il governo profugo in Francia, non fu approvata se non dopo il 1803 dal Vice-Presidente: ma nel frattempo fu sempre pagato come Capitano, ed addossatagli una parte della compilazione del Codice militare sotto il Ministero del generale Teulié. Partì nel 1804 come aggiunto allo Stato Maggiore, con un soprassoldo decretato dal Vice-Presidente, presso il generale comandante la Divisione italiana nelle coste dell'Oceano; dove, nell'assenza del capo dello Stato Maggiore, ne esercitò temporariamente le funzioni; e poi comandò per cinque mesi, sino alla partenza della Divisione per la Germania, seicento uomini de' Reggimenti italiani imbarcati. — Tornato in Italia per ordine del Ministero, fu impiegato f. f. d'aiutante di campo presso il generale Caffarelli ministro della Guerra, fino all'aprile del 1808; epoca in cui fu nominato professore d'eloquenza a Pavia, decretandogli, oltre il soldo civile, la paga di mezza attività del suo grado, che gli rimase fissa dopo la soppressione sistematica delle cattedre di Letteratura nelle Università del Regno. Per la circolare ministeriale del mese di novembre 1812, che richiamava i militari in ritiro, tornò in attività, e fu impiegato allo Stato Maggiore presso il signor conte Freschi ministro; e nominato capo battaglione aggiunto allo Stato Maggiore negli ultimi giorni d'aprile del 1814.

Campagne, azioni di grido, prigionie, ferite ecc. (C). La campagna del 1799 in Italia, dove comandò la Guardia Nazionale di Bologna, e cooperò alla presa di Cento, dove fu ferito d'un colpo di baionetta in una coscia; e nel mese di giugno, fatto prigioniero in una sortita di Forte Urbano, e condotto a Mantova. Fu cambiato dall'entrata dell'esercito del generale Macdonald; si trovò col Primo d'Usseri alla battaglia di Marengo: ritiratosi cogli ufficiali isolati dopo quella dispersione a Genova, si trovò alla battaglia di Novi con l'aiutante general Fantuzzi, a cui fu aggiunto, e militò nell'assedio di Genova, combattendo giornalmente in tutti i fatti dell'assedio; e fu ferito il giorno 13 fiorile in una gamba, prendendo al nemico il forte de' Due Fratelli; nel 1804 fino al 1806 fece la campagna della Divisione Italiana in Francia sino a mezza la sua marcia in Germania.


________________

(1) Vedi l'epigrafe di questo paragrafo I.

(2) Ezechiele, cap. XIV, 3-4.

(3) Pag. 29 dell'edizione seconda, ripetuta in data di Parigi a Lugano; e la citerò come più frequente in Italia. Voglio inoltre avvertito il lettore ch' io reciterò sempre esattissimo le parole de' Senatori; però non mi tributi il biasimo meritato o la lode delle loro eleganza, parte derivanti dall'inconsuetudine di pensare in italiano, e parte dalla assidua lettura delle gazzette francesi; come, per esempio, nel primo principio del libro, le molle politiche che perdettero all'istante la loro elasticità; e il rovesciamento totale del sistema che non entrò ne' piani delle Potenze ecc.: modi ch' io non condanno; ma quanto posso m'attengo al parere d'altri due Senatori. L'uno, nella Storia degli Oratori Romani, dedicata a M. Bruto, concede che ogni uomo abbia uno stile suo proprio e adoperi voci nuove, purchè serbi l'andamento e l'aspetto, e le forme della lingua della nazione; questo Senatore chiamavasi Cicerone. L'altro Senatore chiamavasi Giulio Cesare; e mentre meditava d'insignorirsi del mondo, scriveva un libro di Grammatica intorno alla schietta analogia de' vocaboli. Chi si studierà di arricchire la lingua, e serbarle insieme la sua purità, sarà benemerito sempre della sua patria; specialmente in Italia. Null'altro ormai possiam noi preservare dalla barbarie servile, fuorchè l'idioma.

(4) Trovo in parecchie gazzette estere avvisi ed estratti del libro de' Senatori; e le tedesche n'annunziano la traduzione e la ristampa nel fascicolo d'un'opera politica intitolata.... [Questa nota in I, sez. I, s'interrompe alla parola « tedesche »; il resto è dato da K, parte II].

(5) Vedi nel Giornale Enciclopedico di Firenze, anno 1809, l'estratto della Orazione intorno all'Origine e all'ufficio della Letteratura. Ma e chi mai de' letterati in Italia non mi ha rimproverato, e non senza ragione, l'oscurità dello stile?

(6) LUCRET., lib. I, verso il principio: le sentenze italiane sono di Dante; i lor luoghi per l'appunto non so. Così degli altri autori che verrò allegando, non istò mallevadore quanto alle frasi; e le guasterò, temo, per poca memoria; bensì, quanto al senso, credo che non li pervertirò mai. Accennerò ove stanno probabilmente que' passi, tanto che i lettori, e ne li prego, possano collazionarli e notarli poscia a dovere ne' margini del mio volumetto. Della sola Bibbia non cito parola ch'io non l'abbia raffrontata col testo.

(7) Lucrezio, lib. I, verso il principio. ? Altre mie citazioni d'autori saranno, temo, d'or innanzi inesatte nelle parole, non però infedeli, spero, nel senso: chi ha quegli autori, le raffronti con l'aiuto Indicis verborum, e le ridoni alla genuina lezione ne' margini di questo mio volumetto. A me ora è dato soltanto di riferire con esattezza i passi de' libri sacri, perchè trovo alle volte strada facendo il domicilio d'un sacerdote, e la consolazione d'una Bibbia.

(8) Avvenne talvolta nel nostro regno d'Italia, che il gazzettiere infamò taluno a cui si voleva, o si doveva fors'anche meritamente, ritogliere un pubblico ufficio: e chi se n'è richiamato all'equita de' ministri, che non avevano prove giuridiche contro il reo, ha ottenuto danaro, e per lo più nuovo impiego in compenso: e così nuova infamia all'individuo e al governo, perchè sì fatte armi non possono che insanguinare chiunque le vuole adoprare. S'altri dubitasse del fatto, s'annoi a rivedere le gazzette di Milano degli anni addietro, e avvererà più d'un caso. Io non mi son tale da impieghi e compensi, nè da essere impunemente infamato; che se il più potente degli uomini si spogliasse, con l'usare di quest'arte turpissima, della sua dignità concedutagli dalla fortuna, io m'armerei sempre più della dignità d'uomo concedutami dalla natura, e saprei quindi trovare la più magnanima e più sicura fra le vendette. Per via di gazzette fui, se non altro, insidiato non da chi governava, ma da' suoi adulatori: uno de' quali nel Corriere milanese del 1810, in aprile, se ben mi sovviene, fece pubblicare come, usando altre volte domesticamente con me, mi avesse udito sparlare de' governanti. L'obbrobrio cadeva sovra colui che, oltre al contaminare il secreto, si costituiva pubblico delatore: a me lasciava solamente il doppio pericolo o d'assentire tacendo al delitto di maestà, o d'umiliarmi a scolparmene. Or chi poteva scrivere contro a' gazzettieri, quando si stavano sotto l'ali del forte, il quale, dissimulando di proteggerli, lasciava presumere a' sudditi che, poichè il pubblico revisore non aveva trovato da ridire sull'articolo, era probabile che così piaceva al Sovrano? Nè le difese in un libro possono trovare tanti lettori, quanto le accuse di fogli che si aggirano rapidissimi: e come stampare o introdurre libri dove un magistrato, sotto il nome irrisorio di Libertà della stampa, esercitava l'inquisizione? - In Inghilterra si scrive indiscretamente degli individui: ma la licenza della stampa è sì gran bene per la pubblica libertà, che quest'inevitabile inconveniente è riparato a mille doppi. Inoltre la corte si contenta de' suoi giornali, e non fa incetta di tutti gli altri; nè può sottrarre a' tribunali i calunniatori. Le cose medesime che sono utili a una nazione formata da un popolo, riescono micidiali a una nazione formata da molte sette.

(9) Libro de' Senatori, p. 10.

(10) Apocalypsis, cap. III, 15-16.

(11) Vedi i giornali di Londra degli ultimi dieci giorni di marzo; e la Gazzetta di Losanna, 4 aprile 1815.

(12) Vedi la Lettera del conte Federigo Confalonieri, e le Osservazioni del generale Pino al libro de' Senatori.

(13) Morto Augusto, discorrevano indarno alcuni de' beni della libertà: ma i giovani erano nati sotto il regno d'Augusto: ognuno, senza pigliarsi pensieri, aspettava atterrato i comandi del Principe; era spento con gli uomini ogni vigore di costume antico; e chi più rimaneva che avesse veduto e sentisse cos'era repubblica? Tacito, non forse con quest'ordine di parole, ma certo con questi sensi, verso le prime carte.

(14) MATTH., cap. [XXXIII], v. [14].

(15) Vedi tutti i giornali politici di Londra de' dieci ultimi giorni di marzo, e la Gazzetta di Losanna, de' 4 aprile 1815.

(16) Populum exactores sui spoliaverunt, et mulieres dominatae sunt eis. ISAIA.

(17) Kant. Ma Condorcet sostiene come necessaria la gradazione

(18) Fra gli altri il cardinale Gerdil. Ho citato i moderni; Michele Montaigne ha combattuto il loro sistema nel cap. XII, lib. II. ? Del rimanente i Bracmani tenevano l'opinione de' nostri Teologi.

(19) Rileggi l'epigrafe del discorso. [ Cfr. qui addietro, p. 251 ].

(20) Lucrezio, lib. I, verso il principio; i versi anteriori sono di Dante; il primo nel Purgatorio, l'altro forse nel Paradiso; i luoghi per l'appunto non so. Così per tutti gli autori da me allegati non istò mallevadore quanto alle frasi; e li ho guasti, temo, cambiandoli per poca memoria; bensì quanto a' sensi credo di non averli mai pervertiti, ed ho citato probabilmente i luoghi ove stanno que' passi affinchè i Lettori, e ne li scongiuro, possano ritrovarli e scriverli poscia a dovere ne' margini del mio volumetto. De' libri sacri non ho mai riferito parola ch' io non l'abbia verificata; perch' io trovo alle volte il domicilio d'un sacerdote, e la consolazione d'una Bibbia. Del Testamento greco ho sempre citato l'originale greco; da che in queste terre è in gran credito la versione latina di Teodoro Beza la quale io non credo degna d'approvazione.

(21) JOHAN., cap. V, v. 31.

(22) Questi terribili detti di Bruto al popolo del Campidoglio, non sono riferiti, a quanto io mi ricordo, da nessuno fuorchè da Appiano nel lib. 2º delle Guerre civili : ecco alcune parole precise, perch'altri possa riscontrare tutto il contesto: οá½?δὲν Ï?ιÏ?Ï?όν á¼?Ï?Ï?ι Ï?Ï?ὸÏ? Ï?Ï?Ï?ᾴννοÏ?Ï?, οá½?δ á¼?νοÏ?Ï?ον








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