Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >>  Filocolo




 

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LIBRO QUINTO


[1]

Aspro guiderdone porgevano i cieli sopra i parenti di Filocolo per le loro operazioni. Essi, per la sua partita rimasi con dolore inestimabile, spendevano i loro giorni in lagrime e in prieghi: la superflua malinconia di loro medesimi fa loro perdere ogni sollecitudine. I reali visi con miserabile aspetto mostrano avere la dignità perduta. I pianti hanno inasprite le guance, e il dolore ha congiunta la dolente pelle con l'ossa; e i capelli e la barba, più bianchi che non soleano, danno de' pensieri e degli affanni convenevoli testimonianze; e i vestimenti oscuri, portati più lunga stagione che la loro grandezza non dava, non lasciava loro né altri rallegrare. Essi, ben che col corpo ne' loro palagi dimorassero, seguivano con la mente il caro figliuolo, faccendo del suo cammino diverse imaginazioni, sempre temendo. Né udivano alcuna novella d'alcuna parte, che essi di lui non dubitassero: e gl'infiniti pericoli ne' quali i pellegrinanti possono incappare, tutti per lo petto loro si rivolgeano, con paura non forse in alcuno incappasse il loro Filocolo; similemente dubitando del luogo dove la sua Biancifiore ritrovasse, non forse fosse tale che grave danno ne gl'incorresse, o che, non potendola riavere, di dolore morisse, o disperato a loro mai non reddisse: e quasi di lui sanza alcuna speranza di bene viveano, vedendo o con la imaginazione o per visione quasi ciò che nel suo cammino gli avvenne. E questo consentivano gl'iddii, perché più multiplicando il loro dolore, più fossero degnamente della loro nequizia puniti. E a questa miseria e doglia aveano per compagnia tutto il loro reame, il quale, in desolazione dimorando, dubitavano della morte del vecchio re, non sappiendo che consiglio pigliarsi dopo quella, per la vedova corona, poi che loro perduto parea avere Filocolo.



[2]

Era già il decimo mese passato, poi che Filocolo ricevuto avea per sua la disiata Biancifiore, e 'l dolce tempo tornato cominciava a rivestire i prati e gli alberi delle perdute frondi, avendo Delfico toccato il principio del Montone, quando a Filocolo tornò nella memoria l'abandonato padre e la misera madre, e fu di loro da degna pietà costretto. Egli vide il tempo grazioso a navicare, propose di tornare a rivederli con la cara sposa, e rendere loro con la sua tornata la perduta allegrezza. Nel qual proponimento dimorando, un giorno a sé chiamò l'amiraglio e Ascalion e gli altri suoi compagni e amici, e il suo proponimento a tutti fece palese. I compagni il lodano, ma all'amiraglio, che di buono amore l'amava, pare grave tale ragionamento, pensando che, acconsentendolo, la partita di Filocolo ne seguiva. Rispondeli così: -- Ogni tuo piacere m'è a grado, ma dove esser potesse, assai mi saria il tuo rimanere più grazioso, avvegna che a tanto uomo io non sia possente di dare onorevole grado quale si converria, ma quello ch'io posso, sanza infingermi, volentieri doneria --. A cui Filocolo rispose: -- Io non dubito che più ch'io sia degno non sia da voi onorato, ma il conosco, e sentomene obligato sempre a voi; e dove e' non fosse il debito amore che mi strigne di rivedere i vecchi parenti, e con la mia tornata a loro rendere la perduta consolazione, e similemente visitare i miei regni, i quali sanza conforto stanno, credendomi aver perduto, io in niuna parte volentieri dimorerei come in queste, e massimamente con voi, da cui, appresso agl'iddii, la vita, l'onore e 'l bene e la mia Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose disiderai e amo, riconosco --. -- Adunque -- disse l'amiraglio -- il vostro piacere farete, e non che a questo io vi storni, ma confortare vi deggio, e così farò: omai giusta cosa è che delle sue cose ciascuno si rallegri più che gli strani --. Disse adunque Filocolo: -- Comandate che la nostra nave sia racconcia, acciò che, quando i venti al nostro viaggio saranno, possiamo con la grazia degl'iddii intendere al navicare --.



[3]

Poi che l'amiraglio vide la volontà di Filocolo, egli comanda che la sua nave sia acconcia e tutta di nuovi corredi riguarnita, e in compagnia di quella molte altre ne fa aprestare. Viene il proposto giorno della partenza: il mare imbianca per li ripercossi mari e mostra poche delle sue acque, in quella parte occupato da molti legni; e il romore de' navicanti e dell'acque e de' suoni riempiono l'aere; e cercano di partirsi. Filocolo, che con violate vele e vestimenti era, elli e' suoi compagni, venuto, comanda che, levati via quelli, s'adornino di bianchi, e fa inghirlandare i templi e dare sacrificii agl'iddii, mescolati con prieghi, che benivoli li facciano i venti e le marine onde, e lui co' suoi con perfetta salute producano a' disiderati luoghi. E già l'occidentale orizonte avea ricoperto il carro della luce, e le stelle si vedeano, quando il vento più fresco venne, per che a' marinari parve di partirsi. E a salire sopra l'acconcia nave chiamarono Filocolo, il quale con grandissima compagnia e d'uomini e di donne a' marini liti pervenne; e quivi con pietoso viso e animo pervenuto, dall'amiraglio prese congedo, prima de' ricevuti beneficii rendendogli debite grazie, appresso da Alcipiades e da Dario e da Sadoc, a lui carissimi amici, s'accomiatò, e salì sopra la bianca nave. Da questi tutti con lagrime si parte Biancifiore e Glorizia, e salgo no appresso a Filocolo, le quali Bellisano e Ascalion e 'l duca e gli altri compagni di Filocolo tutti, avendo a coloro che rimaneano porte le destre mani e detto addio, seguirono. E così tutti ricolti, l'una parte piglia il mare, l'altra la terra, e gli animi che per lunga consuetudine e per iguali costumi erano divenuti uno, tengono luogo in mezzo la distanza, riscontrandosi quasi, partiti da' corpi che si dividono.



[4]

La fortuna pacificata a' due amanti, e i fati recanti già a' suoi effetti i piaceri degl'iddii, concedeano graziosi venti alle volanti navi. A' quali poi che i remi perdonarono, al mare furono date le bianche vele, né prima si calarono che i porti di Rodi l'avessero in sé raccolte, dove, ad istanza de' prieghi di Bellisano, Filocolo e Biancifiore co' suoi discesero in terra, e quivi da lui, più volonteroso che potente, magnificamente furono onorati: e non solamente da esso, ma da tutti i paesani per amore di lui ricevettero volonteroso onore. Piace a Filocolo il partirsi, lodando che i beni della fortuna s'usino quando gli concede. Bellisano s'apparecchia di seguirlo, ma Filocolo, conoscendolo attempato e di riposo bisognoso più che d'affanno, ringraziandolo, con prieghi il fa rimanere, e non sanza molte lagrime. Filocolo disidera d'adempiere la promessa fatta a Sisife, comanda che l'estrema Punta di Trinacria sia con la prora de' suoi legni cercata: le vele si tendono, e i timoni fanno alle navi segare le salate acque con diritto solco verso quella parte, aiutandole il secondo vento. E in pochi giorni, lasciatisi dietro gli orientali paesi, pervenne al dimandato luogo: e date le poppe in terra, con brieve scala scesero sopra le secche arene. E venuti al grande ostiere di Sisife, da lei onorevolemente e con viso pieno di festa ricevuti furono. Ella niuna parte di potere si riserbò ad onorarli, ma ancora sforzandosi le parea far poco. E dimorata con loro in graziosa festa più giorni, e sentendo che per matrimoniale legge erano i due giovani congiunti, cioè la cercata e 'l cercatore, cui essa, secondo le parole di Filocolo, fratello e sorella estimava, si meravigliò, e con umile preghiera domandò che in luogo di singulare grazia come ciò fosse le fosse scoperto. A' cui prieghi Filocolo con riso rispose: e prima chi essi erano, e i loro amori insieme con gli infortunii brievemente narrò, nella quale narrazione il suo pellegrinare, e la cagione della nascosa verità, e ciò che avvenuto gli era, poi che da lei si partì, si contenne. Le quali cose udendo Sisife, ripiena non meno di pietà che di maraviglia, lieta ringraziò gl'iddii che dopo tanti affanni in salutevole porto gli avea condotti. Dimorati adunque quivi quanto fu il piacere di Filocolo, a lei furono cari doni da Biancifiore donati, e con proferte grandissime, all'una dall'altra fatte, si partirono. E Biancifiore dietro a Filocolo, sopra l'usata nave, che già avea i ferri tolti agli scogli, risalì; né prima vi fu suso che Filocolo comanda che verso l'antica Partenope si pigli il cammino. Il quale preso da' marinari, avanti che il terzo sole nel mondo nascesse, nella città pervennero, e in quella, discesi in terra, entrarono: e con iguale piacere di tutti determinarono di finire il rimanente del cammino sanza navicare. Per che fatti porre in terra i ricchi arnesi e' gran tesori, e quegli uomini che a Filocolo piacque di ritenere con seco, comandò che alla bella città di Marmorina n'andassero, e di Filocolo e de' compagni e della loro tornata vere novelle portassero al vecchio re Felice e ad ogni altro amico e parente loro.



[5]

Rimasero Filocolo e' suoi, partite le navi, sopra il grazioso lito, nella ricca città molti giorni prendendo dilet to, e da' cittadini onorati, e pieni di grazia nel cospetto di ciascuno. Ma però che nelle virtuose menti ozioso perdimento di tempo non può con consolazione d'animo passare, Filocolo con la sua Biancifiore cercarono di vedere i tiepidi bagni di Baia, e il vicino luogo all'antica sepoltura di Meseno, donde ad Enea fu largito l'andare a vedere le regioni de' neri spiriti e del suo padre; e cercarono i guasti luoghi di Cummo, e 'l mare, le cui rive, abondevoli di verdi mortelle, Mirteo il fanno chiamare, e l'antico Pozzuolo, con le circunstanti anticaglie, e ancora quante cose mirabili in quelle parti le reverende antichità per li loro autori rapresentano: e in quel paese traendo lunga dimoranza, niuno giorno li tiene a quel diletto, che l'altro davanti li avea tenuti. Essi tal volta guardando l'antiche maraviglie vanno e negli animi come gli autori di quelle diventano magni. Tal volta nei sani liquori gli affannati corpi rinfrescano, e alcune con picciola navicella solcano le salate acque, e con maestrevole rete pigliano i non paurosi pesci; e spesse volte agli uccelli dell'aere paurosi, con più potenti di loro danno dilettevoli incalciamenti a' riguardanti. E alcun giorno li tiene ne' ramosi boschi, con leggeri cani e con armi seguitando le timide bestie, poi alli loro ostieri tornando, dove in canti con dolci suoni di diversi strumenti spendono il tempo, che al sonno e al prendere de' cibi avanza loro.



[6]

In questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo Filocolo co' suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da Biancifiore e da molte altre giovani, con lento passo, davanti a loro picciolissimo spazio, sanza esser cacciato, si levò un cervio: il quale come Filocolo vide, preso delle mani d'uno dei suoi compagni un dardo, correndo il cominciò a seguire; e già parendogli essere al cervio vicino, s'aperse, e vibrato il dardo col forte braccio, quello lanciò, credendo al cervio dare; ma tra il cervio e Filocolo era quasi per diamitro posto un altissimo pino, nella stremità del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua foga un pezzo della dura corteccia scrostò dell'antico piede, egli e ella assai a quello vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l'arenoso lito, levò un ramo, e disse: -- O miserabili fati, io non meritai la pena ch'io porto, e voi non contenti ancora mi stimolate con punture mortali! Oh felici coloro, a cui è licito il morire, quando quello adimandano! --. E qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de' suoi compagni, quasi tutti pieni di paura e di maraviglia, ritenne, e quasi storditi stavano riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce così cominciò a dire: -- O santissima arbore, da noi non conosciuta, se in te alcuna deità si nasconde, come crediamo, perdona alle non volonterose mani de' tuoi danni: caso, non deliberata volontà, ci fece offendere. Purghi la tua pietà il nostro difetto, i quali presti ad ogni satisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti --. Soffiò per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in parole, così rispose: -- Giovani, niuna deità in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi prieghi avrieno forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il quale sanza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuna nuocere mi possa, e nuoccia tal volta, né io possa ad alcuno nuocere; però bastimi il vostro pentere per satisfazione, né vi sia questo dagl'iddii imputato in colpa --. Seguì a questa voce Filocolo: -- Dunque, o giovane, se gl'iddii, gli uomini e le fiere ti sieno graziosi e i tuoi rami con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se', e per che qui relegato dimori --. Così rispose il pedale: -- L'amaritudine, che la dolente anima sente, non può torre che a' vostri prieghi non sia sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo l'angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda; e però così brevemente vi dico. La genitrice di me misero mi diede per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigii quasi tutta la mia puerile età seguitai; ma poi che la nobiltà dello 'ngegno, del quale natura mi dotò, venne crescendo, torsi i piedi dal basso calle, e sforzandomi per più aspre vie di salire all'alte cose, avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido incappai, delle quali mai isviluppare non mi potei: di che con ragione dolendomi, per miserazione degl'iddii, in quella forma che voi mi vedete, per fuggire peggio, mi trasmutaro --. E qui si tacque.



[7]

Poi che Filocolo sentì la dolente voce aver posto silenzio e già Biancifiore con sua compagnia essere sopravenuta, egli rincominciò così: -- Se quella terra, che noi calchiamo, lungamente alle tue radici presti grazioso umore, per lo quale esse diligentemente nutrite le tue frondi nutrichino e a' tuoi rami aggiungano copiosa quantità de' tuoi pomi, e se il tuo pedale sia lungamente dalla tagliente scure difeso, non ti sia duro ancora parlarne e farci noto donde fosti, e il tuo nome, e come qui venisti, e per che modo nelle reti d'amore incappasti, e qual fu la cagione perché di lui dolendoti, poi in questo albero, più che in alcuno altro, ti trasformasti, e per cui, acciò che se il tuo corpo e la cara anima nascosi nella du ra scorza non possono la tua fama far palese, noi sappiendo la verità da te, di te possiamo quella debitamente raccontare agl'ignoranti, i quali forse, udendo le nostre parole, mossi con noi a debita pietà, per te pietosi prieghi porgeranno agli iddii, e così la tua pena si mitighi, e la tua fama s'allunghi e si dilati --. Così come quando Zeffiro soavemente spira, si sogliono le tenere sommità degli alberi muovere per li campi, l'una fronda nell'altra ferendo, e di tutte dolce tintinno rendendo, in tale maniera tutto l'albero tremando si mosse a queste parole, e poi con voce alquanto più che la precedente pietosa rincominciò: -- Io non spero che mai pietà possa per sua forza mollificare ciò che crudeltà ingiustamente ha indurato; ma perciò che quello ch'io per troppa fede sostengo, non sia creduto che per mio peccato m'avvenga, e per la dolcezza de' vostri prieghi, che maggior guiderdone meritano che quello che domandano, parlerò e ciò che disiderate di sapere vi chiarirò. Ma perciò che sanza molte parole ciò che domandato avete, dire non vi posso, vi priego, se gl'iddii da simile avvenimento vi guardino, non vi sia duro alquanto il mio lungo dire ascoltare:



[8]

« Nella fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi piani, si leva un picciolo colle, il quale l'acque, vendicatrici della giusta ira di Giove, quando i peccati di Licaon meritarono di fare allagare il mondo, vi lasciò, secondo l'oppinione di molti, la quale reputo vera, però che ad evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine cochiglie, né ancora si posson sì poco né molto le 'nteriora di quello ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si truovino, e similemente i fiumi a quello circunstanti, più veloci di corso che copiosi d'acque, le loro arene di queste medesime cochiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la semplice mandria delle sue pecore, quando chiamato assai vicino a quelle onde, le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano per alleviare la loro ardente sete, e per riposo, fu: ov'egli andò, e quivi la mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu comandata, la quale egli con somma sollecitudine guardò. Avea il detto re di figliuole copioso numero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un giorno, con caterva grandissima di compagne mandate dal loro padre, andarono a porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in uno antico bosco, avvegna che bello d'arbori, d'erbe e di fiori fosse. Esse, poi che il comandamento del padre ebbero ad essecuzione messo, essendo loro del giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori ingegnosissimo, con la comandata greggia, il quale nuovamente con le propie mani avendo una sampogna fatta che più che altra dilettevole suono rendea agli uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora il sole più caldo che in alcun'altra ora del giorno, avea le sue pecore sotto l'ombra d'uno altissimo faggio raccolte, e, dritto appoggiato ad un mirteo bastone, questa sua nuova sampogna con gran diletto di se medesimo sonava, e niente di meno alla dolcezza di quello le pecore faceano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, sanza niuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l'altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Fecelo. Piacque loro. Tornano più volte ad udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a più nobili suoni, e sforzasi di piacere: Gannai, più vaga del suono che alcuna dell'altre, lo 'ncalcia a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questo s'aggiungono dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e estima beato colui cui gl'iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile gli paresse, d'essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollicitatore delle vagabunde menti, disceso di Parnaso, gli sopravenne, e per le rustiche medolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al desiderio subita speranza. Eucomos si sforza di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli spiace, ma pur discerne non convenevole a lasciarla, sanza saper come. I suoi suoni pieni di più dolcezza ciascun giorno diventano, si come aumentati da sottigliezza di miglior maestro: l'ardenti fiamme d'amore lo stimolano; per che egli, nuova malizia pensata, propone di metterla in effetto, come Gannai verrà più ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de' mondani accidenti, conscia del futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos usata era d'udire, e supplica, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli suoni: è ubidita. Ma il pastore malizioso con la bocca suona e con gli occhi disidera, e col cuore cerca di mettere il suo diviso ad effetto: per che, poi ch'egli vide Gannai intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua gregge, e egli dietro ad esse, e con lenti passi pervenne in una ombrosa valle, ove Gannai il seguì: e quasi avanti dall'ombre della valle si vide coperta che essa conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le avea l'anima presa. Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a quelle aggiungendo lusinghe e impromesse; e cominciolle a mo strare che questo molto saria nel cospetto degl'iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto, però che egli a lei saria come il suo padre alla sua madre era stato: e nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse, molte altre cose aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette, dubitando forse costui non forza usasse, dove le dolci parole o' prieghi non le fossero valuti: e udendo le 'ngannatrici lusinghe, semplice le credette, e solo per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre era stato, così a lei sarebbe, e i suoi piaceri nella profonda valle li consentì, dove due figliuoli di lei generò, de' quali io fui l'uno, e chiamommi Idalogos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che abandonata la semplice giovane e l'armento, ritornò ne' suoi campi, e quivi appresso noi si tirò, e non guari lontano al suo natale sito, la promessa fede a Gannai, ad un'altra, Garemirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo poco spazio riceveo. Io semplice e lascivo, come già dissi, le pedate dello 'ngannatore padre seguendo, volendo un giorno nella paternale casa entrare, due orsi ferocissimi mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia morte, de' quali dubitando io volsi i passi miei, e da quella ora in avanti sempre l'entrare in quella dubitai. Ma acciò che io più vero dica, tanta fu la paura, che, abandonati i paternali campi, in questi boschi venni l'apparato uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a più alto disio. Egli un giorno riposandosi col nostro pecuglio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl'inoppinabili corsi della inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dell'acquistare chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione il centro del cerchio il suo cor po portante, allora due volte circuisce il differente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, che l'equante una; e da che natura potenziata la virtù dell'uno pianeto all'altro portasse, e similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò tutta, non tacendo de' suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni, mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e così essere necessario, a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere, mostrando del rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le loro regioni, e quali in quelle a loro fossero più degne dimoranze e più care, passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando, prima del Montone friseo disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello i masculini e quali feminini, quali lucidi e quali tenebrosi, quali putei, quali azemena, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual pianeto fosse casa, e quale in esso s'essaltasse, e la triplicità, e' termini di ciascuno in quello, e le tre facce; questo ancora mostrando del sacrificato Tauro da Alcide per la morte di Cacco, e de' due fratelli di Clitemestra, nella fine de' quali l'estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del retrogrado Cancro cantò, e del feroce Leone, e della onesta Vergine, nella fine della quale il coluro di Libra, equinozio faccente disse incominciare; e di lei cantò come degli altri avea cantato, mostrando nella sua fine la combustione avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte, spaventato dall'animale uscito della terra a ferire Orione: la cui prima faccia, come di Libra l'ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella avea detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale solstizio; poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de' Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli il coluro d'Ariete cominciarsi insieme con l'equinozio del detto segno: mostrando appresso così de' pianeti, come de' segni le compressioni e' sessi e le potenze diterminate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in sette e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, così quello che sotto li sette climati s'abita, come l'altro, con questo dicendo la variazione delle loro elevazioni per li diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l'udii, dopo questo, cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura più presso al polo artico dimorassero, faccendo cenìt alle maggiori notti, e assegnare la cagione per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da Occeano come l'altre bagnare. E seguitò dove Boote e la corona d'Adriano e Alcide, vincitore dell'alte pruove, fossero locati; e sanza mutar nota cantò del Corvo, per la recente acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo messo ad aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l'apportato Serpente e con lo caro Crate d'oro, essere in cielo dal mandatore locati e ornati di più stelle. E insieme con questi raccontò il luogo dove colei che la palma delibuta porta e dove il Portatore del serpente e Eridano e la paurosa Lepre co' due Cani dimorassero, cantando poi del Nibbio, il quale le 'nteriora del fatato Toro, ucciso da Briareo, portò in cielo, ove egli fu da Giove locato e adornato di nove stelle, seguendo appresso d'Erisim, d'Istuc e d'Auriga i luoghi, e dell'Australe Corona, movendo con più soave suono come Orione, cantando sopra il portante Dalfino, fuggì il mortal pericolo, e poi per li meriti dell'uno e dell'altro meritassero il cielo, e qual parte d'esso; e dove il primo Cavallo e l'altro intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare dimorassero, dimostrò; e segnò la gloria di Perseo, e 'l suo luogo, con la testa d'Algol e dell'Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del Vaso. E rimembromi che disse ancora del Centauro e del celestial Lupo le stelle, di dietro a' quali del Pesce e dello Alare i luoghi dimostrò, con quelli di Cefeo, e del Triangolo, e di Ceto, e d'Andromaca, e del pagaseo Cavallo; passando dietro a questi dentro alle regioni degl'iddii con più sottile canto col suo suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la rozza mente, ch'io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa di divenire esperto meritai. E già abandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m'avvidi lui essere alcuna stagione dell'anno, e massimamente quando Ariete in sé Delfico riceve, visitato da donne, le quali più volte, lente andando, io con lento passo le seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto, continuamente i dardi di Cupido fuggendo, temendo non forse, ferito per quelli, in detrimento di me aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetera d'Orfeo, poi ad essere arciere mi diedi; e prima con la paura del mio arco, del numero delle belle donne, le quali già per lunga usanza tutte conoscea, una bianca colomba levai, e fra' giovani albuscelli seguii con le mie saette più tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere punse però mai di malinconia il cuore, che più del suo valore per poco che d'altro si dilettava. Dallo studio di costei seguire, del luogo medesimo levata, mi tolse una nera merla, la quale movendo col becco rosso piacevoli modi di cantare, oltre modo disiderare mi si fece, non però in me voltando le mie saette; e più volte fu ch'io credetti quella ricogliere negli apparecchiati seni. E di questo intendimento un pappagallo mi tolse, delle mani uscito ad una donna della pia cevole schiera. A seguire costui si dispose alquanto più l'animo, ch'alcuno degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo, essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati, i campi e gli arbori partoriscono, andando le donne all'usato diletto, fece del piacevole coro di quelle levare una fagiana, alla quale io per le cime de' più alti arbori con gli occhi andai di dietro; e la vaghezza delle variate penne prese tanto l'animo a più utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguire questa tutto si dispose, non risparmiando né arte né saetta né ingegno per lei avere, sentendo il puro cuore già tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti contaminato. Allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con discrezione m'era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne essere d'una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, più che alcuna dell'altre avea bella stimata. Allora conobbi lo 'nganno da Amore usato, il quale non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d'altra forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a quello; e rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle altre falliva, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m'apparve, e così disse: « Che ti disponi a fuggire? Nulla persona più di me t'ama ». Queste parole più paura d'inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e dubitai, però che ella era di bellezza oltre modo dell'altre splendidissima, e d'alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per le quali cose io dicea essere impossibile che me volesse altro che schernire, e se potuto avessi, volentieri mi sarei dallo 'ncominciato ritratto. Ma la nobiltà del mio cuore, tratta non dal pastore padre, ma dalla reale madre, mi porse ardire, e dissi: « Seguirolla, e proverò se vera sarà nell'effetto come nel parlare si mostra volonterosa ». Entrato in questo proponimento e uscito dell'usato cammino, abandonate le imprese cose, cominciai a disiderare, sotto la nuova signoria, di sapere quanto l'ornate parole avessero forza di muovere i cuori umani: e seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare tali disii. E certo non sanza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond'io avendola presa, a' focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio cuore: e ella, abandonata la boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E s'io bene comprendea le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de' feminili cuori, parandosi agli occhi di costei nuovo piacere, dimenticò com'io già le piacqui, e prese l'altro, e fuggita del mio misero grembo, nell'altrui si richiuse. Quanto sia il dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col propio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che 'l sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di racquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lagrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequizia a niuna delle dette cose prestò audienzia, né concedé occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale avere mai non potei, non essendo ancora il termine del dover finire venuto. Il quale io volendo, come Dido fece o Biblide, in me recare, e già levato in piè di questo prato, ov'io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, già stati presti, in radici, e 'l cor po in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in frondi di questo albero trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione d'esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle più che altro vicino albero la sua cima distende, così come io già tutto all'alte cose inteso mi distendea. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolci a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale volessero gl'iddii ch'io ancora avessi! Ma l'agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il cuore abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le frondi verdi, e mostrerà mentre le triste radici riceveranno umore dalla circunstante terra, in che la mia speranza, molte volte ingannata, né ancora secca, né credo che mai secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e così come questo legno meglio arde ch'alcuno altro, così io, prima stato ad amare duro, poi più che alcun amante arsi, e per ogni piccolo sguardo sì mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch'io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch'io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete adunque per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servino agli speranti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, né niuna ragione si truova. Esse, schiera sanza freno, secondo che la corrotta volontà le muta, così si muovono: per la qual cosa, se licito mi fosse, con voce piena d'ira verso gl'iddii crucciato mi volgerei, biasimandogli perché l'uomo, sopra tutte le loro creature nobile, accompagnarono di sì contraria cosa alla sua virtù » --.



[9]

Le parole del misero appena erano finite, che Biancifiore levata da sedere del luogo dove stava, per più appressare le parole sue al rotto pedale, così cominciò a dire: -- O Idalogo, che colpa hanno le buone, e di diritta fede servatrici, se a te una malvagia, per tua simplicità, nocque non osservando la promessa? --. A cui Idalogo: -- Se io solo da' vostri inganni mi sentissi schernito, tanta vergogna m'occuperebbe la coscienza, che mai a' prieghi di alcuno, quanto che e' fossero da essaudire, non direi i miei danni, come a voi ho fatto; ma però che tutto il mondo infino dal suo principio fu e è delle vostre prodizioni ripieno, sentendomi nel numero de' più caduto, lascio più largo il freno al mio vero parlare. Ma se gl'iddii dalle malvage ti seperino, non mi celare chi tu se', che sì pronta alla difesa delle buone surgesti, come se di quelle fossi --. -- Io sursi -- disse Biancifiore -- a quello che ciascuna prima operare e poi difendere dovria, sentendomi di quel peccato pura del quale in generale tutte ne biasimi: e acciò ch'io non aggiunga noia alle tue pene, sodisfarotti del mio nome. E sappi ch'io sono quella Biancifiore la quale la fortuna con tribulazioni infinite ha dal suo nascimento seguita, ma ora meco pacificata, quelle a sé ritrae, e, concedutomi il mio disio, in pace vivo --. -- Or se' tu -- disse Idalogo -- quella Biancifiore per la quale il mondo conosce quanto si possa amare, o essere con leale fede amato? Se' tu colei la quale, secondo che tutto il mondo parla, è tanto stata amata da Florio figliuolo dell'alto re di Spagna, e che, per intera fede servargli, se' nimica della fortuna stata, dove amica l'avresti potuta avere rompendo la pura fede? Se quella se', con ragione delle mie parole ti duoli --. -- Io sono quella --, rispose Biancifiore. -- Adunque -- disse Idalogo -- singolare laude meriti: tu sola se' buona, tu sola d'onore degna, niun'altra credo che tua pari ne viva. E certo se io nella memoria avuta t'avessi, quando in generalità male di voi parlai, te avrei dello infinito numero delle ingannatrici tratta; ma in verità e' mi pare ciò che di te ho udito maggiore maraviglia che il sentirmi in questa forma ove mi vedi. Ma se la fortuna lungamente pacifica teco viva, dimmi, che è di quel Florio, che tu tanto ami e che te più che sé ama, sì come la fama rapportatrice ne conta? --. Rispose Biancifiore: -- Il mio Florio ha infino a ora teco parlato, e è qui meco: e come mi potrei io sanza lui dire felice e con la fortuna pacificata? --. -- O felicissima la vita tua! -- disse il tronco, -- molto m'è a grado, e assai me ne contento, che voi, che già tanto foste infortunati, ora contenti stiate, pensando ch'io possa prendere speranza di pervenire a simile partito de' miei affanni --.



[10]

Già i corpi percossi dal tiepido sole porgevano lunghe ombre, e Febeia si mostrava in mezzo il cielo, andante alla sua ritondità, quando, Biancifiore non più parlante, Filocolo disse: -- O Idalogo, dinne, per quella fede che tu già ad amore portasti, come a' tuoi orecchi pervenne la nostra fama, con ciò sia cosa che appena ne' nostri regni credevamo che saputi fossero i nostri amori? --. A cui Idalogo così rispose: -- Come in queste parti i vostri fatti si sapessero m'è occulto, ma come io li sappia vi narrerò. Sì come voi vedete, io porgo con le mie frondi graziose ombre dintorno al mio pedale, e il suolo di fiori e d'erbe ogni anno s'adorna più bello che alcuno altro prato vicino: per la qual cosa i miei compagni, sì per conforto di me che d'udirgli mi dilettava, sì per riposo e diletto di loro medesimi, qui sovente soleano venire, e nelli loro ragionamenti dire quelle cose le quali mancamento delle mie doglie credevano che fossero, e talora credendomi piacere, con fresche onde le mie radi ci riconfortavano. E quando costoro questo luogo non avessero occupato, molti gentili uomini e donne vegnenti a' santi bagni, ove voi forse ora dimorate, qui a ragionare di diverse materie, qui a far festa, se ne sogliono venire. E quando di questi tutti solo rimanessi, da' pastori non sono abandonato: a' quali, però che mi ricorda ch'io già di loro fui, più fresca ombra porgo che ad alcuni. E come degli altri qui vegnenti odo i varii ragionamenti, così i loro e le loro contenzioni e le battaglie de' loro animali spesso sento, e di me hanno fatto prigioniere del prenditore: tra' quali ragionamenti molti, non so che gente un giorno qui si venne, a' quali quasi interi i vostri casi udii narrare, forse non credendo essi essere uditi, i quali non minori che i miei riputai; e fummi caro ascoltargli, sentendo che solo negli amorosi affanni non dimorava --.



[11]

Queste cose udite, parve a Filocolo di partirsi, e disse: -- Idalogo, gl'iddii quella perfetta consolazione che tu disideri ti donino, sì come tu a noi hai delle domandate cose donata. Noi, costretti dalla sopravegnente notte, più con teco non possiamo stare, e però ti preghiamo che se per noi alcuna cosa fare si può che piacere ti sia, la ne dichi, con ferma speranza che fornita fia giusto il potere nostro --. -- Assai potreste fare -- rispose Idalogo, -- e però che nella vostra grande nobiltà confido, vi farò un priego: com'io poco avanti vi dissi, io amai una donna, dalla grazia della quale abandonato, disiderando in essa ritornare, porsi prieghi e lagrime infinite, le quali la durezza del cuore di lei niente mutarono, per che io sono in questa forma. Ora avvenne poco tempo appresso la mia mutazione, giovani a me carissimi, e consapevoli de' miei mali, qui s'adunarono, e quasi come se a me le parole porgessero, credendomi della vendetta degl'iddii rallegrare, dissero la bella donna in bianco marmo essere mutata, allato ad una piccola fontana di chiara acqua, dimorante nelle grotte del duro monte Iberno, a mano sinistra, passata la grotta oscura. Della qual cosa io non lieto ma dolente fui, pensando che se avanti dura era a' miei prieghi stata, omai pieghevole non saria; ma di ciò sono incerto, e però la speranza del pregare non ho lasciata, per che io vi priego che quando verso la città andrete non vi sia noia il visitare la fresca fontana, e quelle parole di me porgete alla bianca pietra che pietà vi consente. Né vi partite prima di qui, che il pezzo della dura scorza, tolta a me dal vostro dardo, sia al suo luogo renduta: poi con la grazia degl'iddii licito siavi l'andare --.



[12]

Udito questo, Filocolo giurando promise di fare quello che dimandato gli era, e la scorza rendé al domandante, la quale così dall'albero fu ripresa come da calamita ferro: e dettogli addio, co' suoi si partì del luogo pieno di maraviglia, del nuovo caso ragionando co' suoi. E parlando pervennero al loro ostiere, ove preso il cibo dierono i corpi a' notturni riposi.



[13]

Salito il sole nell'aurora, Filocolo e' suoi compagni si levarono e il cammino verso Partenope ripresono; e già le tenebrose oscurità della forata montagna passate, vicini al luogo dall'albero disegnato pervennero. Quivi vaghi di vedere cose nuove, non sappiendo il luogo né trovando cui domandarne, vanno con gli occhi investigando, e ciascuna grotta pensano essere la domandata fonte: ma quella nascosa da frondi, quanto più cercano più s'occulta. Ciascuno guarda se vedesse alcuno che, domandandolo, li certificasse. Niuno veggono; ma Parmenione ascoltando udì di lontano risonare l'aere di tumultuose voci, per che chiamati gli sparti compagni, disse: -- Se noi in quella parte andiamo ove io sento romore di gente, leggieri ci sarà quello che cerchiamo trovare --. Piacque a tutti l'andarvi: seguitano il suono, il quale, essendo da loro, quanto più andavano, più chiaro udito gli fa certi non deviare per pervenire a quello: al quale, dopo non gran quantità di passi, lieti pervennero, e videro alquanti pastori raccolti sotto fresche ombre fare i loro montoni urtare insieme, e in merito del vincitore corone d'alloro essere poste da una parte; i quali, quando ad urtare venieno, ciascuno i suoi con voce altissima aiutava; e questo a vedere dimoravano più altre persone, per accidente quivi, sì come costoro, venute. Filocolo co' suoi fu con festa a vedere ricevuto; ove dimorato alquanto, fé uno de' pastori domandare della nascosa fontana. Questi li disegnò il luogo, proferendosi di mostrarla, se a guardare non avesse la vincitrice mandria. Queste parole udirono due speziosissime giovani quivi venute con loro compagnia a vedere, le quali, reputando non picciola cortesia agli strani giovani piacere, dissero: -- Signori, ella è a noi notissima, né greggia, né altro impedimento ci occupa che mostrare non la vi possiamo, se i nostri passi seguire non isdegnate --. Alle quali Filocolo: -- Niuna altra cosa dubitavamo, se non di non essere degni di seguire così care pedate, quando altrui che voi, di ciò che cerchiamo, dimandammo; ma poi che a voi piace verso di noi per vostra virtù essere cortesi, procedete, certe che contentissimi siamo di seguirvi --.



[14]

Mossersi le graziose giovani, il nome delle quali l'una Alcimenal, l'altra Idamaria era, e con voci soavi e radi ragionamenti, passo inanzi passo, i disideranti menarono alla fontana, alla quale essi più volte erano stati vicini, né veduta l'aveano. Ma ciò non è da maravigliare, però che la natura, maestra di tutte le cose, co' suoi ingegni nelle 'nteriora del monte aveva volto un rozzo arco, sopra 'l quale fortissima lammia si posava, coperchio delle chiare onde, e quel luogo, il quale essa scoperto vi lasciò per porger luce, alberi di frondi pieni l'aveano occupato. Ad essa venuti, Alcimenal disse: -- Signori, qui è la fresca fonte che cercate, e quinci s'entra ad essa --, mostrando loro un piccolo pertugio, dentro al quale a scendere all'acque alcuno grado scendere si conveniva.



[15]

Entrò in quella Filocolo, e quasi opposito all'entrata vide il bianco marmo soprastante a parte dell'acqua, e sceso in essa, fresca e dilettevole molto la vide: e ben che, di fuori dimorando, la fontana fosse d'alberi nascosa agli occhi de' viandanti, nondimeno dentro fra fronda e fronda graziosa luce vi trapassava. Ella era d'una parte e d'altra di spine, per adietro state cariche di fresche rose; e per mezzo, a fronte al marmo, un bellissimo melogranato, le cui radici fino al fondo si distendeano, era, le cui foglie e frutti gran parte de' solari raggi cacciava dalla fontana. Filocolo si rinfrescò le mani e 'l viso con la chiara acqua; poi, posto a sedere alzato al bianco marmo, così da tutti udito cominciò a dire:



[16]

-- O pietà, santissima passione de' giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi del misericordioso seno di Giove discendi e visiti i commossi petti dalle vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d'una medesima pena partecipi. Tu rechi agli occhi quelle lagrime le quali più che altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da' loro proponimenti nefandi e di scacciare l'ardente ira del turbato fiele. Tu nimica delle miserie, se' dell'offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl'iddii ci ricongiungerebbe, da' quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se tu noi facessi? Tu se' degli assaliti dalla fortuna cagione di graziosa speranza e di consolazione apportatrice. Che più dirò di te? Tu piena di tanta umanità se', che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, più tosto ferino che umano sia. Tu e 'l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli sanza te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria poriano gl'iddii porgere sì grave, che molto maggiore a chi del suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu me, che dell'ultimo ponente sono, facesti dell'angosce d'Idalogo partefice, il quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e avendola amata: per che degnamente ora di sé può porgere manifesto essemplo a' riguardanti. O amore, per la grazia del quale io i meritati doni posseggo, viva in etterno il tuo valore: il quale, s'io merito nel tuo cospetto alcuna grazia più che quella ch'io ricevuta posseggo, ti priego che di così fatti cuori il lontani, però che tu, benivolo co' malivoli, degno luogo non puoi avere. Sia l'acerbità consumatrice de' cuori che la nutricano, degni di perdere e la tua grazia e quella degli uomini --.



[17]

Così tosto come Filocolo, dette queste parole, tacque, Idamaria, che interamente l'avea notate, disse: -- O giovane, se gl'iddii te al nominato paese riportino con prospera vita, dinne onde t'è manifesto ciò che qui parli in degno dispregio della pietra che tu tocchi. Tu ne fai maravigliare, essendo tu d'occidente e noi paesane, non essendoci quello che a te è, manifesto --. Alla quale Filocolo parlando sodisfece, e domandò se 'l modo della trasformazione di quella fosse loro noto che gliele dicessero. A cui Alcimenal: -- Per udita tutto il sappiamo; e poi che n'hai col tuo dire appagate, col nostro sanza dimoranza t'appagheremo, e fiati caro --. E cominciò così:



[18]

-- I nostri antichi, che con solenne memoria le cose della loro età notarono, ne dicevano sé ricordarsi in questa parte né la pietra né il bel granato né queste spine, le quali, pochi dì sono passati, fiorite vedemmo, sì come ora sono bocciolose, non esserci, ma sola l'acqua e la grotta di questo luogo si contentavano. E similemente ne dicevano che questo luogo, il quale ora più da' pastori che da altra gente veggiamo visitato, rideva tutto d'arbori e d'erbe, essendo con ordine il suo suolo cultivato da maestra mano: per la qual cosa i gentili uomini e le donne, vaghi di riposo e di diletto, qui per prendere quello soleano venire. Per che avvenne che di questa stagione, un giorno, donne di Partenope qui vennero a sollazzarsi, e schiusa da' loro cuori ogni malinconia, tutte liete si dierono a' cibi: delle quali quattro bellissime, abandonato ogni vergognoso freno, forse oltre al dovere presero de' doni di Bacco, da' quali stimolate, lasciata la loro compagnia, con ragionamenti e atti dissoluti si die rono ad andare fra li fruttiferi alberi correndo, l'una tal volta cacciando l'altra e l'altra tal volta dall'una essendo cacciata. Per che, riscaldate e dall'affanno e da Lico, e da' solari raggi, per cacciare quello, le fresche ombre di questo luogo cercarono. Nel quale entrate, l'una chiamata Alleiram dove cotesto marmo dimora, non essendovi esso, essa si pose a sedere; la seconda, Airam chiamata, qui a fronte, dove le vecchie radici del bel granato vedete, s'assise; la terza, il cui nome era Asenga, dal sinistro, e Annavoi, la quarta, dal destro ad Alleiram si posero, le contrarie mani d'Airam tenendo ciascuna. E qui riposando i corpi, a' lascivi ragionamenti non dierono riposo, ma cominciando i sommi iddii a dispregiare, sé e le loro lascivie lodando, l'una dicendo e l'altre ascoltando, così cominciarono a ragionare, prima all'altre Alleiram parlando in questa forma:



[19]

« Già ne' semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da riverire, dicendo alcuni, d'una semplicità con meco presi, che qui Diana, dopo i boscherecci affanni, coi suo coro venia a ricreare, bagnandosi, le faticate forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteon qua entro guardando, essendoci ella, meritò di divenire cervio. Qui ancora le ninfe di questo paese testavano riposarsi, qui le naiade e le driade nascondersi: ma la mia stoltizia ora m'è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono, gl'ingannati occhi de' mondani, i quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi templi, quelle adorano, dicendole piene di deità. O rustico errore più tosto che verità! Elli hanno appo loro gl'iddii e le dee e i celestiali regni, e vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirisi i nostri visi, adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza di muovere gli uomini a grandissime cose. Dunque, quali iddii o quali dee, qual Venere, qual Cupido, o qual Diana più di noi è da esser riverita? Folle è chi crede altra deità che la nostra. Noi commoveremmo i regni a battaglie e ne' combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl'iddii non poterono fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come:



[20]

Quanto io fossi di sangue nobilissima non bisogna di dire, che è manifesto, né alcuno di quelli che iddii si chiamano, potrebbe con giusta ragione mostrare più la sua origine che la mia antica. Io similemente in dirvi quant'io di ricchezze abondi non mi faticherò, però che è aperto Giunone a quelle non potere dare crescimento discernevole con tutte le sue. La copia de' parenti è a me grandissima: e oltre a tutte le cose che nel mondo si possono disiderare, son io bellissima come appare, e nel più notabile luogo della mia città situata è la lieta casa che mi riceve. Davanti la quale niuno cittadino è che sovente non passi; e quelli forestieri, i quali per terra l'oriente e 'l freddo Arturo ne manda, e Austro e Ponente per mare, tutti, se la città disiderano di vedere, conviene che davanti a me passino, gli occhi de' quali tutti la mia bellezza ha forza di tirarli a vedermi. E ben che io a tutti piaccia, però tutti a me non piacciono; ma nullo è ch'io mostri di rifiutare, ma con giuochevole sguardo a tutti igualmente dono vana speranza, con la quale nelle reti del mio piacere tutti gli allaccio, non dubitando di dare né di prendere amorose parole. E se le mie parole meritano d'essere credute, vi giuro che Cupido molte volte, per lo piacere di molti, s'è di ferirmi sforzato. Ma né lo spesseggiare del gittare de' suoi dardi, né lo sforzarsi, mai ignudo poterono il mio petto toccare: anzi, faccendo d'essere ferita sembiante, ho ad alcuni vedute le sue ricchezze disordinatamente spendere credendo più piacere. Alcuno altro, dubitando non alcuno più di lui mi piacesse, contra quello ha ordinato insidie; e altri donandomi mi credono avere piegata. E tali sono stati, che, per me se medesimi dimenticando, con le gambe avolte sono caduti in cieca fossa: e io di tutti ho riso, prendendo però quelli a mia satisfazione i quali la mia maestra vista ha creduti che siano più atti a' miei piaceri. Né prima ho il fuoco spento, ch'io ho il vaso dell'acqua appresso rotto, e gittati i pezzi via. Tra la quale turba grandissima de' miei amanti, un giovane, di vita e di costumi e d'apparenza laudevole sopra tutti gli altri, mi amò, il cui amore conoscendo, i' 'l feci del numero degli eletti al mio diletto, e ciò egli non sanza molta fatica meritò. Egli, in prima che questo gli avvenisse, poetando, in versi le degne lodi della mia bellezza pose tutte. Egli di quelle medesime aspro difenditore divenne contra gl'invidi parlatori. Egli, occulto pellegrino d'amore, in modo incredibile cercò quello che io poi gli donai, e ultimamente divenuto d'ardire più copioso ch'alcuno altre che mai mi amasse, s'ingegnò di prendere, e prese, quello ch'io con sembianti gli volea negare. Mentre che questi dilettandomi mi tenea non però mancò l'amore suo verso di me, ma sempre crebbe: le quali cose tutte io, fermissima resistente a Cupidine, non guardai, ma sì come d'altri alcuni avea fatto, così di lui feci gittandolo del mio seno. Questa cosa fatta, la costui letizia si rivolse in pianto. E brevemente egli in poco tempo di tanta pieta il suo viso dipinse, che egli a compassione di sé movea i più ignoti. Egli mi si mostrava, e con prieghi e con lagrime, tanto umile quanto più poteva, la mia grazia ricercava, la quale acciò ch'io gliele rendessi, Venere più volte si faticò pregandomi e talora spaventandomi e in sonni e in vigilie. Ma ciò non mi poté mai muovere: per che rimanendo perdente, il giovane, che si consumava, trasmutò in pino, e ancora alle sue lagrime non ha posto fine; ma per la bellezza ch'io posseggo, io prima dove l'albero dimora non andrò che io in dispetto di Venere farò più inanzi al dolente albero sentire la mia durezza, ch'io con le taglienti scuri prima il pedale, poi ciascun ramo farò tagliare e mettere nell'ardenti fiamme. Ben potete avere per le mie parole compreso quanta sia la potenza di Venere, la quale non de' minori iddii, ma nel numero de' maggiori è scritta, e per consequente poso siamo di ciascun altro, pensare: e però se non possono, non deono essere con così fatto nome né di tanti onori reveriti. Noi che possiamo, noi dobbiamo essere onorate: e che io possa già l'ho mostrato, e ancora, come detto ho, più aspramente intendo di dimostrarlo ».



[21]

Avea detto costei, quando Asenga, che alla sua sinistra sedea, così cominciò a dire: « Veramente ingiuria sanza ragione sostegnamo; e ben che ogni potere agl'iddii, sì come voi dite, falsamente s'attribuisca, ancora con questo è alle dee e a loro attribuita ogni bellezza. E prima diciamo della Luna, la quale non si vergognò per adietro d'amare, e sanza vergogna sostiene d'essere bella chiamata. Or non ci è egli ogni mese mille volte manifesto il suo viso variarsi in mille figure, tra le quali molte una sola n'è bella, e quella è quando essa, opposita al suo fratello, tutta quanta ci si mostra lucente, ancora che allora non so di che nebula ne mostri il suo viso dipinto? Ciascun'altra stagione, da questa infuori, difettuosa e laida ci appare, né ci si mostra, se ben riguardiamo, se non la notte, bella, nella quale stagione le più laide si possono, sanza essere conosciute, tra le bellissime mescolare. Ma s'egli avviene che tra lei e Febo alcuna volta la terra si ponga, noi la veggiamo di sozza rossezza tutta contaminata: perché dunque bella? Giunone similmente e Apollo da un poco d'austro sono turbati, e guaste le loro bellezze per li suoi nuvoli. Diana non dico, però che è da presumere che se stata fosse bella non avria consentito che Atteon, per averla veduta, fosse tornato cervio, ma che avesse parlato e narrato la sua bellezza agl'ignoranti avria consentito. E più possiamo ancora di lei dire che, per che ella conobbe più la sua rustichezza essere atta alle cacce che ad amare, però quello uficio si prese. E come di queste diciamo, così di Venere possiamo dire, la quale se bella come si canta fosse stata, saria sì piaciuta ad Adone, che egli pauroso di perdere per morte sì bella dea, avria i suoi sani consigli seguiti. E similemente possiamo di molte altre dire quello che di noi non avviene. Io, bellissima, continuo bella nella mia forma mi mostro, né cambio viso né figura perch'io cambi stagione; né patisco eclissi come la luna fa, né mi nocciono i nuvoli d'austro, né i rischiaramenti d'aquilone mi giovano come ad Appollo e a Giunone fanno, anzi, e con questi e sanza quelli, continuamente bella dimoro. Né similemente mai al viso d'alcuno riguardante mi nascosi, né mi nasconderei, ma sentendomi com'io sento bella, mi diletto da molti essere amata e guardata. Io non comandai, né pregai, né consigliai mai cosa ch'ella non fosse con sollecitudine messa in effetto e osservata: dunque, più tosto io che alcuna delle sopradette sono da essere chiamata dea ». E qui si tacque.



[22]

Da poi che Asenga tacque, Airam, quasi non meno che la prima superba, lodandosi oltre modo, cominciò a parlare seguitando: « Voi la impotenza degl'iddii e 'l difetto delle loro bellezze biasimate, cosa da non sostenere in sì alto nome sanza effetto: ma più di loro mancanza vi narrerò. Essi, sì come voi sapete, delle future cose veridici proveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a' dimandanti, aggiugnendo che le presenti sanza mezzo conoscono, e in memoria ritengono le passate. Ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: se, come già si disse, avessero forza, gli oltraggi che tutto giorno impuniti veggiamo, sanza punizione non passerieno. Similemente se le bellezze loro le nostre avanzassero, contenti ne' loro termini non quelle per le mondane abandonerebbero, come molte volte hanno fatto e fanno. Se sì providi fossero come si tengono, non agl'ingegni delle semplici giovani si lascerebbono ingannare, né quelle con ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro mutarsi per ingannare Europa? Se belli, perché in oro per ingannare Danne? Se savi, perché non provedere all'impromessa fatta all'amata Semelè Niuna di queste cose è in loro, e voi le due avete mostrate, e io mostrerò la terza. Io non meno bella d'Alcitoe, amata da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cuore non patefeci, ma per non disciogliere da' miei legami alcuno, quelli che tal volta più m'erano in odio con più lusinghevole occhio li riguardava. Del numero de' quali Febo, proveditore de' futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli, per più lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, affrettandosi essi come erano usati d'andare all'onde di Speria, e spesso, non avendo ancora loro rimessi i freni, a quelli medesimi si crucciò, volonteroso di cercare l'aurora prima che 'l convenevole! Oh, quante volte si dolfero con lamentevoli voci le Notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo l'occupava! E' mi ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendea, che egli ebbe presso che smarrito l'usato cammino. E se non fosse il romore di Cinosura, che, vedendolo di lontano, temeo le sue fiamme, che 'l fece in sé ritornare, egli pure avria la seconda volta arso il cielo, e io di ciò m'avria riso, se fulminato fosse caduto come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se così fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singolare signore dell'anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d'ogni parte que' doni ch'egli credea che mi dovessero più piacere, e con quelli s'ingegnava di servare l'amore mio verso di lui, e per quelli sovente tentava di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, più oltre non la richiese. Ma io, più provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cuore lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché più m'era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credea per la sua bellezza più ch'altri piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l'amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sì come io avea voluto, di lei fidandomi, de' miei segreti, e disegnolli il luogo degli amorosi furti, il quale egli della somma altezza vide: per che quasi per grieve dolore turbato più giorni luce non porse. Ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell'usato uficio il fece tornare: ma mai da quell'ora in avanti con diritto occhio non mi guardò, ma passando davanti a me traverso, quasi sdegnoso mi mira; di che io poco mi curo. Ora poi che così colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si fa ria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che motto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se non sopra loro meritiamo, almeno loro pari riputare, sanza alcuna ingiuria di loro, ci possiamo: e se l'avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama che gli chiama dei, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della nostra grazia vogliamo far degni di quella i disianti ».



[23]

Risero delle parole di costei le stolte compagne; e poi la quarta di loro, chiamata Annavoi, disse: « Perché in tante parole ci distendiamo? Veramente nell'iddii né potenza, né senno, né bellezza dimora: e ancora più, essi, detti misericordiosi da tutti i viventi, di quella niente hanno. Pietà niuna in loro si trova: tiranni e usurpatori sono dell'altrui cose. E che feci io già in dispetto di Diana, la quale vendicatrice dea è chiamata? Non le levai io con la mia bellezza e con la forza della mia lingua, delle quali due cose io fui sopra tutte le partenopensi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l'uno dopo l'altro, avvegna che d'età fossero dispari, però che i due già vicini erano all'arco sopra il quale umane forze più non s'avanzano ma vengono mancando, e gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e 'l quinto non piena la barba a maggior quantità la serbava per iscemarla? Certo sì. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi e con la dolcezza del mio parlare, per lo quale meritai Sirena essere chiamata, legai io sì nelle mie reti, che avendo loro fatti gittare gli archi co' quali prima per li boschi servivano Diana, prima de' loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto la mia balia ascosi, cavando loro poi del sinistro lato i sanguinosi cuori, li lasciai sanza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette seguono i meno possenti. Io tale quale sia essa non la curo: e cessi del mio petto che io mai più in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno o li coltivi o porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri iddii: e quali celesti regni più belli che questi nostri si poriano trovare? Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l'errore rustico chiama iddii, si tengono signori. Chi dubita che miglior partito ha chi nella sua città guarnito dimora, che chi di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle, noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerà, e degne di quello onore che Giove e gli altri ingiustamente s'hanno usurpato ».



[24]

Tacque costei; e già la seconda volta nell'usato ordine ricominciavano il maladetto parlare con più aspre parole, quando gl'iddii, né più né meno che i cittadini della città, le cui mura subito sono assalite dal nascoso agguato de' nemici, corrono or qua or là sanza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo delle case prendono l'arme e cercano sanza troppe parole la loro difesa, correndo a' dubbiosi luoghi, fecero, fra' celesti scanni da subita ira commossi, forse non meno infiammati che quando dal bestiale ardire de' Giganti fu il cielo assalito. Li quali così corsi dierono pauroso suono e chiusero il mondo d'oscure nuvole, né a niuno vento fu tenuta la via: e crucciati tutti discesero sopra questo luogo, la cui ira temendo la terra tremò forte. Ma essi lasciato il furore, si dice che prima Venere con Cupido in questo luogo entrarono, né trovarono però il malvagio colloquio cessato, anzi quelle ferme in quello, sanza alcuna paura del divino giudicio, dimoravano. Qui Venere non salutò né fu salutata; ma volta ad Alleiram disse: « Dunque, o iniqua giovane, prendi tu gloria d'aver dispiaciuto a noi, e insuperbisci per la tardata vendetta, e minacci di peggio operare? Or non pensi tu che con riposato andamento noi procediamo delle nostre ire alla vendetta, poi il tardato tempo con accrescimento di pena ristoriamo? Tu rea di gravissimo peccato, ora riceverai guiderdone. Tu rifiutatrice de' nostri dardi, diverrai fredda e impossibile a quelli ricevere: né più avanti piacerai, né vedrai chi per te o spenda, o muova brighe, o si dimentichi, né più di cotali riderai, né eleggerai, né romperai vasi. E come tu già niuna compassione avesti verso chi quella meritava, così molti, sappiendo i tuoi casi, forse di te compassione avranno: ma niente ti gioverà. E come altri a te per pietà già porse prieghi, così a te fia tolto di poterne porgere. E sì come io non ti potei a' miei voleri recare, così me a' tuoi non conducerà né uomo né dio. E prima le lagrime di colui che già fu tuo finiranno, e tornerà la perduta allegrezza per più dolce obietto che tu non fosti, che tu solamente in speranza ritorni di ritornare nella perduta forma. E le laude già dette della tua bellezza in amorosi versi, altro titolo che della tua prenderanno, né mai ti fia possibile il più nuocergli che nociuto gli abbi: anzi se la mia deità merita di conoscere alcuna delle future cose, tu, vaga di riavere la sua grazia, di quella patirai difetto, come mi pare, e misera conoscerai quanta sia la mia potenza da te con parole orribili dispregiata. Tu, dura e immobile a' miei voleri, in durissima marmore mutera'ti, e questa grotta nella quale tu siedi ti fia etterna casa »; e più non disse. Queste parole udendo Alleiram mutò cuore, e sariasi voluta volentieri pentere, ma non ci era il tempo. Ella volle con alta voce domandare mercé, ma il sopravenuto freddo, che già alla lingua così come agli altri membri avea tolta la possa, nol sofferse: la pigra freddezza con disusato modo nel ventre ritirò le dilicate braccia e le candide gambe, e in picciol spazio niuna cosa della bella giovane si saria potuto vedere se non un bianco tronco, il quale in durissimo marmo mutato, come voi vedete, fu trovato. E se forse alcuna rossezza in quello vedete, dicesi che Lieo gliele diede, di cui più copiosa che 'l convenevole dimorava, quando qui più furiose che savie vennero baccando.



[25]

Mentre che così Venere parlava ad Alleiram, Airam dubitò forte, e volle fuggire del luogo, ma le gambe, davanti snelle, già fatte pigre barbe di questo albero, la ritennero. E Febo venuto presente con soave voce così le cominciò a dire: « Adunque, o giovane, d'avermi ingannato, il tuo cuore celandomi e togliendomi i cari doni, ti vanti? Male e poco senno è contra lo stimolo calcitrare, ma acciò che a te non paia che noi le malfatte cose impunite lasciamo, come avanti cantasti, tu prima per lo tuo parlare sarai punita, sì come Perillo da Falaris per lo suo medesimo artificio fu. E già parte in albero convertita, tutta in quello, avanti ch'io mi parta, ti muterai; e però che tu avesti ardire di dire di volere essere nostra pari, tu i tuoi pedali avrai torti, né fia loro licito il potersi troppo in alto distendere, ma più tosto fieno sì bassi, che con poco affanno di terra ciascuno piccolo uomo coglierà i tuoi pomi. E sì come tu de' miei doni ti dicesti occulta sottrattrice, così de' tuoi frutti gran parte gitterai alla terra prima che maturi li vegga: né quelli che rimarranno, sanza vederli io, maturerai già mai. E farò che, come tu del tuo cuore fosti a ciascuno occultatrice, che i frutti tuoi, come il dolce tempo della loro maturazione sentiranno, così incontanente, aprendosi in più parti, a me e a chi vedere le vorrà mostreranno le tue interiora. E della tua corteccia, però che sopra tutte l'altre bellezze la tua essaltasti, farò che chi alcuna cosa in oscuro colore vorrà del suo mutare non possa sanza il sugo di quella ». E mentre che egli queste parole dicea, il miserabile corpo a poco a poco stremandosi, li suoi membri riducea a questa forma che voi vedete questo granato. Né prima che in questo albero fosse mutata, le fu possibile dire una sola parola, e manco poi.



[26]

Asenga, nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria davanti dell'ira degli iddii fuggire? La Luna turbata le sopravenne, dicendo: « O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da noi offesa non fosti, fuori solamente se io a' tuoi furtivi amori avessi forse già porta luce, fuggendola tu; ma perché io di ciò a te dispiacessi, io ad infinita gente ne piaceva: né però fu che io alcun tempo, a te e all'altre di ciò dilettantesi, non lasciassi atto a' vostri falli. Tu noi mille forme mutare in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non più paiamo, e te continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l'anno saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute fieno, in quel colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi, le tue bocciole torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale fieno guardate, quando le frondi, di verdi tornate in gialle, fiano dal primo autunno percosse ». E questo detto, il bel corpo in gracile fusto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutaro, e 'l candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo luogo.



[27]

Diana, la cui ira non molto era mancata, stette sopra la timidissima Annavoi, dicendo: « Ancora che la vendetta s'indugi, non menoma il dolore del dolente ricevitore di quella. Tu, perfida ucciditrice de' miei suggetti, sempre il commesso male mostrerai. Tu in essiguo corpo e debile a ciascuno offenditore, ti muterai, e nella sommità di quello partorirai un fiore, il quale, chiuso, in cinque frondette verdi mostrerà le tre età varie de' miei sudditi, e, aperto, paleserà i mal tolti tesori, dintorno a' quali i cinque cuori de' miei suggetti si vedranno »; né disse più. E questa subitamente in quella forma e in quel modo che Asenga si mutò, e essa similmente; ma i fiori furono diversi, ché dove Asenga in bianco fiore con molte frondi, Annavoi in vermiglio con cinque sole, e in mezzo gialla, si trasformò. E questo fatto, gl'iddii tornarono ne' loro regni, e l'aere cacciò i suoi nuvoli e rimase chiaro --.



[28]

Con maraviglia ascoltò Filocolo infino a qui la parlante giovane, dicendo poi: -- O giusta vendetta, quanto dei tu essere temuta da ciascuno che queste cose ascolta! Assai sostenne la divina pietà, ché certo la menoma delle molte parole meritava maggior pena! --. E con voce da questa assai diversa seguì queste altre parole: -- O superbia, pericolosa pestilenza del tuo oste, maladetta sii tu! Tu, a te iniqua, non sostieni compagno. Tu, non conoscente, se' de' meriti guastatrice, invocatrice d'ira e suscitatrice di briga; chi seco ti tiene non sarà savio, poi che tu, più altera che possente, hai vestite le tue armi, e con gli occhi ardenti spaventi il mondo. Tu ti credi con le corna toccare le stelle, e, parlando aspro, col muovere impetuoso, rigidamente operando cacci avanti a te i men possenti; ma la vendicatrice giustizia di te contenta l'animo de' sofferenti. Così dopo pochi passi torna la tua potenza come vela che per troppo vento, l'albero rotto, ravolta cade. Tu simile a' robusti cerri, prima ti rompi che tu ti pieghi a' soffianti venti. Male s'armarono queste misere per loro delle tue armi. Male le tue corna si posero: giusta vendetta l'ha umiliate, com'è degno --. E queste parole dette, si volse al carro della luce, e videlo già il meridiano cerchio aver passato, e declinare così il caldo come i raggi, per che a' compagni tempo di tornare alla città disse che gli parea; ma prima con queste parole parlò dicendo: -- O sacro fonte, veramente delle dee luogo e guardatore delle loro vendette, per quella pietà che a giusta ira le mosse ti priego, se per te Idalogo può niuno soccorso avere, donagliele: spruovisi alquanto la tua dolcezza ad ammollare l'acerba durezza della bella pietra da lui infino allo estremo dolore amata --. Alle cui parole, se possibile fosse stato le 'nteriora del marmo vedere, vedute si sarieno tremare, ma la morbida durezza del bianco aspetto, tenendo forse la sua faccia, quello non lasciò palesare. E questo detto, Filocolo con le giovani uscì di quella al chiaro giorno.



[29]

Il debito ringraziare alle giovani da Filocolo fatto, mostrò quanto fosse stato a Filocolo caro la dimostrazione della fonte fatta da loro, e simile il chiarimento delle degne mutazioni: dopo il quale, da loro con piacevoli parole prese congedo, verso la città co' suoi ritornando. Alla quale ancora non pervenuto, di lontano conobbe Caleon, a lui carissimo per lo non dimenticato onore, al quale egli sopravenne avanti che da lui conosciuto fosse. Ma non prima Caleon lo conobbe che con riverenza il riceveo: e partita la maraviglia, e l'amorose accoglienze finite, Caleon voltò i passi e con Filocolo nella città ritornò, de' suoi felici casi contento, ben che a' suoi, contrarii, alquanto la sforzevole entratrice invidia aggiugnesse dolore.



[30]

Tornati alla città, Filocolo domanda che sia della bella Fiammetta, per adietro stata loro reina nell'amoroso giardino; alla cui domanda Caleon subito non rispose, ma bassò la fronte, e con dolore riguardava la terra. A cui Filocolo: -- O caro amico, come prendi tu ora turbazione di ciò che già mi ricorda ti rallegravi? Qual è la cagione? Non vive Fiammetta? --. Allora Caleon dopo un sospiro disse: -- Vive, ma la fortuna volubile m'ha mutata legge, e tale me la conviene usare, che assai più cara mi saria la morte --. -- E come? --, disse Filocolo. A cui Caleon: -- Quella stella, al chiaro raggio della quale la mia picciola navicella avea la sua proda dirizzata per pervenire a salutevole porto, è per nuovo turbo sparita: e io misero nocchiero rimaso in mezzo mare sono d'ogni parte dalle tempestose onde percosso, e i furiosi venti, a' quali niuna marinesca arte mi dà rimedio, m'hanno le vele, che già furono liete, levate, e i timoni, e niuno argomento m'è a mia salute rimaso: anzi mi veggio d'una parte al cielo minacciare, e d'altra le lontane onde mostrano il mare doversi con maggior tempesta commuovere. I venti sono tanti ch'io non posso né avanti né adietro andare, e se io potessi, non saprei qual porto cercare mi dovessi. E ancora che la morte mi fosse cara se mi venisse, nondimeno mi pure spaventa ella sovente sopra le torbide onde con le sue minacce, e gl'iddii hanno gli occhi rivolti altrove, e a' miei prieghi turati gli orecchi, e i falsi amici m'hanno lasciato, e il buono non mi può atare: qual io stia omai pensatelvi --.



[31]

Filocolo, che già tali mari avea navicati, a se medesimo pensando, di Caleon divenne pietoso, e disse: -- Giovane, a quel maestro che ha più volte operando la sua arte esperta si puote e deesi credere con più giusta ragione che a quello o che la sperimenta o sperimentare la dee; né questo si può negare. Sono adunque i mutamenti della fortuna varii e le sue vie non conosciute. Già fu che io con più tempesta ne' mari dove il tuo legno dimora mi trovai che tu non truovi, e certo io non potea sperare se non morte, né altro dintorno mi vedea, quando subitamente in porto di salute mi vidi con tranquillo mare. E tu ti dei ricordare, non sono ancora molti anni passati, quanto la tua vita alla mia fosse contraria, quando ti specchiavi nel tuo disio, e io pellegrino con grieve doglia ignorava ove il mio fosse; e ora io il mio veggio e tengo, e tu quello che avevi non tieni; per che, a me riguardando, dei sperare bene. La tua doglia è grandissima: ma chi dubiterà che dopo gli altissimi monti non sia una profonda valle? Io, il quale ho corsi i dolenti mari tutti, e a cui né scoglio né secca né porto s'occulta, in quelli voglio della tua navicella essere nocchiero, e spero con quella arte che io a salutevole porto pervenni, te delle pestilenziose onde trarrò quando ti piaccia --. -- Adunque -- disse Caleon, -- o signor mio, nelle tue mani sia la vita mia --.



[32]

Finito il ragionamento, e Filocolo dimorato alcun giorno con Caleon, lo stretto vinculo del paterno amore lo 'ncominciò a stringere, e con intera volontà disidera di rivedere i parenti, e così propone e comanda che verso Marmorina si prenda il cammino, e con seco mena Caleon, disideroso della futura salute. Elli passano, o Capis, la tua città, Capo di Campagna; e le fredde montagne, fra le quali Sulmona, uberissima di chiare onde dimora, si lasciano dietro, e pervengono al luogo ove l'uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica mano si dovea ancora portare in insegna. E quindi partiti, passano l'alpestre montagne e truovano le dolci onde del Tevero; e passando avanti, i gelati monti truovano ancora tiepidi delle battaglie di Persio. Né videro la sera del secondo giorno che alle graziose montagne pervennero, che nel futuro da' vecchi doveano pigliare etterno nome. Quivi venuti, Filocolo si ricordò di Fileno, il quale in fonte lasciato avea sopra il cerruto poggetto, e disideroso di rivederlo, là egli e' suoi compagni n'andarono, non avendo il sole ancora di quel giorno l'ottava ora toccata.



[33]

Li grandi arnesi s'acconciarono al riposo de' caldi giovani, e sopra le verdi erbe fra' salvatichi cerri presono il cibo, dopo il quale, in picciolo spazio, con non pensato passo la notte li sopravenne, e il cielo pieno di chiare stelle dava piacevole indizio al futuro giorno. Per che Filocolo vicino alla fontana, sopra un praticello pieno di verdi erbette, fece chiamare Biancifiore, alla quale era ignoto il luogo dov'ella fosse, e con parole piacevoli così le cominciò a dire: -- O lungamente da me disiderata giovane, dimmi, per quello amore che tu mi porti, il vero di ciò ch'io ti domanderò --. -- Sì farò --, disse Biancifiore. A cui Filocolo seguì: -- Etti uscito della memoria Fileno, a cui tu con le propie mani donasti per amore il caro velo? O sospirasti mai per lui poi che di Marmorina temendomi si partì? --. A queste parole dipinse Biancifiore il suo candido viso per vergogna di bella rossezza, ma le notturne tenebre le furono graziose, e quello celarono, e rispose così: -- Signor mio, a me sopra tutte le cose caro, e a cui niuno mio segreto dee essere ascoso, assai volte di Fileno mi sono ricordata e ricordo. E come potrà egli mai della mia memoria uscire, con ciò sia cosa che ancora mi spaventi la rimembranza della pistola ch'io da te ricevetti, turbato per falsa oppinione avuta in me per lo ricordato velo, il quale io, costretta dalla tua madre, donai, non per mia voglia? Ma veramente mai amore per lui sospirare non mi fece: anzi giuro che se licito mi fosse odiarlo, io chiederei di grazia agl'iddii che la sua memoria levassero di terra --. Disse allora Filocolo: -- Sariati caro vederlo? --. A cui Biancifiore: -- Certo sì, nella vostra grazia; e la cagione che a questo mi moveria non saria amore ch'io gli porti, ma sola pietà de' suoi parenti, la vita de' quali io reputo che simile a quella de' vostri sia, con ciò sia cosa che egli a' suoi unigenito sia, come voi ai vostri: ma voi per me lasciaste i vostri dolenti, e egli sanza alcuna colpa, che per sospecione di me legittima commettesse, meritò la vostra ira. Amommi, e però fu tolto al padre. Or che avria la fortuna fatto alli nocenti, se elli m'avesse odiata? Concedano gl'iddii e a voi e a me che da tutti siamo di buono amore amati, e se essere non può che amati siamo di qualunque amore, amando noi ciascuno come si conviene --. -- Ottimamente parli -- disse Filocolo, -- e io la mia grazia e la tua presenza gli renderò, certo della tua fede, della quale ben fui per adietro certo; ma noi amanti ogni cosa temiamo, e però odiai. Come Febo ne renderà il nuovo giorno, rendute grazie agl'iddii che prima di te mi dierono speranza buona, ti farò lui vedere, il quale per dolore in su questo poggio in fontana si convertì --.



[34]

Posaronsi la notte nel selvatico luogo sotto le tese tende, difesi da' sopravegnenti casi da' suoi sergenti; ma venuto il giorno, il duca e Ascalion e gli altri compagni insieme con Caleon furono a chiamare Filocolo, il quale levato, fece l'antico tempio mondare, come altra volta avea fatto, e accendere i fuochi sopra gli umidi altari; e fatti uccidere più tori per la salvazione di sé e de' suoi compagni, con puro cuore offerse a' fuochi le debite interiora di quelli, rendendo con queste voci grazie de' ricevuti beni: -- O sommo Giove, governatore dell'universo con ragione perpetua, e tu, o santa Giunone, la quale con felice legame congiugni e servi longevi i santi matrimonii, e tu, o Imineo, degno e etterno testimonio di quelli, lodati siate voi! Ora per voi sento pace, e ho la lunga sollecitudine abandonata, però che gli occhi miei veggono ciò che per adietro lungamente disiderarono, e le mie braccia stringono la sua salute. E tu, o santissima Venere, madre de' volanti amori, insieme col tuo amante Marte, ricevete i nostri sacrificii; i quali sì come a protettori e guidatori delle nostre menti offeriamo. E voi qualunque iddii del solitario e diserto luogo siete abitatori, e da cui la veridica promessione ricevemmo, prendete olocausto in riconoscenza di tanto dono. O cielo, adorno di molte stelle, ricevi con tutti i tuoi iddii le nostre voci, e tu, terra, co' tuoi, e similemente co' suoi il verdeggiante mare; e della nostra salvazione, visitati con possibili sacrificii, vi rallegrate, e per inanzi di bene in meglio ne prosperate, acciò che nelle nostre bocche sempre cresca la vostra loda --. Biancifiore e Glorizia, Ascalion e 'l duca e gli altri compagni e servidori di Filocolo, tutti ginocchioni nel tempio davanti a' crepitanti fuochi dimoravano, seguendo con tacita voce ciò che Filocolo alto dicea nel cospetto degl'immortali iddii. Ma finite le divote orazioni, e levati da quelle, ordinarono, ad onore di quelli, giuochi con solenne ordine, e di quindi se ne vennero sopra la bella fontana; alla quale venuti, sopra la verde erbetta che i margini di quella adornava, Biancifiore prima e poi ciascuno degli altri si posero a sedere e videro quella per li due luoghi del mezzo, sì come usata era per adietro, bollire. Di che Biancifiore, che ancora veduta non l'avea, si maravigliò, e pensando allo stato di Fileno nel quale già per adietro veduto l'avea, e a quello in che ora il vedea, pietosa sanza fine quella riguardando divenne, e parlato avria la sua pietà dimostrando, se non che avanti di lei cominciò verso Filocolo Menedon a dire queste parole:



[35]

-- O grazioso signore, debita pietà mi muove, la quale, dentro al cuore, del misero Fileno mi porge compassione, pensando che gli avversarii fati tanto tempo fuori della sua forma in questa l'abbiano tenuto: e certo se benivoli mi fossero gl'iddii, io gli pregherei per la sua salute, dove a voi dispiacere non credessi, però che egli mi fu assai caro e a voi non dovria già dispiacere, però che se voi avete i vostri disii ricevuti, degli altrui danni non dovete essere vago --. -- Non m'aiutino essi iddii -- disse Filocolo, -- se io la salute di Fileno non disidero, e se quella non mi fosse cara, se la vedessi --.



[36]

Mentre così sopra la chiara onda si ragionava, quella, tutta commossa, del mezzo di sé mandò fuori una pietosa voce, e disse: -- O tu, il quale da debita pietà de' miei danni se' mosso a sì bene per me parlare, e cui alla voce riconoscere mi pare, se lungo dolore, o voce a quella ch'io credo simile, non m'inganna, gl'iddii mettano il tuo piacere avanti, e te guardino da simile caso, acciò che mai non pruovi quello di che se' con ragione pietoso. Io ti priego per quella pietà che di me nel tuo petto dimora che, s'io mai ti fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch'io così ti possa vedere come io t'odo parlare, e adempiasi quello che la speranza mi promette --. Menedon e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta l'avessero udita parlare, e tacquero alquanto; poi Menedon rincominciò: -- Niuna ammirazione ho se la mia voce conosci, però che sì com'io credo, le avversità non danno a chi le riceve dell'amico oblianza; ma dimmi, se non t'è grave, qual via sia a' tuoi beni più utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel pristino stato --. A cui Fileno: -- Oimè, quanto lontano a quella ti sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo dell'alto re Felice, a cui già ti conobbi compagno: gl'iddii me ne sieno testimonii che fedelmente l'amai e amo! E' non è lungo tempo passato che i miei dolori multiplicarono, sentendo io da un giovine, di Marmorina vicino, che quinci passò, com'egli avea la sua bella Biancifiore perduta, e pellegrinando con dolore la ricercava: e se quella riavessi, certo io conosco gl'iddii sì misericordiosi, ch'essi mi renderieno la perduta forma. Dunque, sola quella mi procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se me vuoi trarre d'affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi, io tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come giovane amai: e cui? Non sua nimica, ma quella giovane che lui sopra tutte le cose del mondo amava: io dico di Biancifiore, la cui bellezza quanti la vedeano tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo l'avessi, ben che il cuore dell'amore di lei portassi feruto, con forza mi sarei infinto di non amarla. E ben che io pur molto l'amassi, guastava però il mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non mutò cuore? Certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi fu di tanto male, quant'io sento e ho poi sentito, cagione, ella, invita, comandandogliele la reina, mel concedette: dunque per amore puoi vedere ch'io mi dolgo. Oimè, che se l'ira d'uno potesse trarre amore del cuore ad un altro, io direi che licito gli fosse stato l'adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l'ha però mancato il lungo essilio. Or quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente ti giuro che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch'io sconcia cosa di Biancifiore disiassi, né disidererei già mai, sentendo com'io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch'egli più si debba contentare che io la ami che se io la odiassi. E se quello c'ho detto non si concede, e dicasi pure ch'io gravemente abbia fallito, consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a' suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi domandano perdono. Veramente mi saria grazia, s'io fallii, che 'l mio signore mi perdoni, ché s'io non fallii, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto servigio. Se io fossi in Marmorina e servissilo e avessi la sua grazia intera, di ciò al mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a' signori dovria essere spesso caro il fallire de' suggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza mostrassero. Sanno però gl'iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sì fatta pena, sotto questo titolo d'avere Biancifiore amata, non sanza ragione, m'ha menato. Bel la vittoria e grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore e per lo mio utile priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l'affanno, che non fia piccolo, malagevole, acciò che me possa rendere lieto a' miseri parenti, ignoranti de' miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se 'l farai, spero che lungamente gl'iddii ti serveranno lieto a' tuoi, se gli hai --.



[37]

-- Non fia sì lungo come pensi l'affanno --, rispose Menedon alla fonte. E volto a Filocolo, a cui niente riferire bisognava, ché tutto avea udito, con umile preghiera gli domandò che la sua grazia gli rendesse, e con Menedon ciascuno degli altri in merito del lungo affanno similemente la dimandarono. A' quali Filocolo liberamente la concedette, giurando per se medesimo che di perfetto amore l'amerà per inanzi, e le preterite cose sì come fanciullesche metterà in oblio: di che tutti il ringraziarono. E Filocolo a Biancifiore commise che sì lieta novella narrasse all'aspettante, la quale graziosa non aspettò il secondo comandamento, ma voltato sopra la fonte il viso, riguardando in essa, disse: -- O giovane, che nelle liquide onde la tua forma nascondi, confortati, la grazia del tuo signore t'è renduta: e però sicuro nella sua presenza ti presenta --. La chiara fonte sì tosto come in sé riceveo la bella imagine della sua donna, così la conobbe, e lasciato l'usato bollire, con soave movimento intorno a quella mostrava festa, e la voce entrata per le dolenti caverne rendé letizia al misero; per che così parlò: -- O immortali iddii, a' quali niuna cosa si occulta, sia lodata la vostra inestimabile potenza. Io per la vostra benignità di quella dolcezza ho gustata, che la nemica fortuna mi tolse quando Marmorina abandonai, e quella donna, per cui l'amara iniquità sostenni, quella la riavuta grazia m'ha annunziata. Piacciavi adunque misericordiosamente operare ch' io nella prima forma tornando lieto a' cari amici mi presenti --. Egli dicea ancora queste parole, quando i circunstanti videro le chiare acque coagularsi nel mezzo e dirizzarsi in altra forma abandonando il loro erboso letto, né seppero vedere come subitamente la testa, le braccia e 'l corpo, le gambe e l'altre parti d'uno uomo, di quelle si formassero, se non che, riguardando con maraviglia, co' capelli e con la barba e co' vestimenti bagnati tutti trassero Fileno del cavato luogo, e davanti a Filocolo il presentarono. Al quale egli, come il vide, s'inginocchiò davanti e con pietose voci dimandò perdono, e appresso di Filocolo la benivolenza: le quali cose benignamente Filocolo gli concesse. Egli fu di nuovi vestimenti adorno, e i raviluppati capelli e la male stante barba furono rimessi, in ordine, levandone le superflue parti, e lieto si diede con gli altri cavalieri a far festa, maravigliandosi non poco qual caso quivi gli avesse menati insieme con Biancifiore. Il cui viso poi ch'egli ebbe veduto, stimandolo più bello che mai gli fosse paruto, contento tacitamente si dispose al vecchio amore, credendo sanza quello niuna cosa valere.



[38]

Queste cose così faccendosi, s'udì nel luogo un grandissimo romore, come di gente che, combattuto, avesse la vittoria del campo acquistata. Del quale Filocolo e' suoi si maravigliarono e dubitarono alquanto, e domandarono Fileno se noto gli fosse che significasse il romore e chi 'l facesse. A' quali Fileno rispose sé molte volte simili romori avere uditi, ma per che fatti fossero del tutto ignorava. Allora sì come a Filocolo piacque, il duca Ferramonte e Messaallino, sopra forti cavalli, armati e accompagnati da molti de' servidori, andarono per cono scere la cagione di tanto romore, e usciti del folto bosco videro nel piano, alla riva del picciolo fiume, dall'una parte e dall'altra, molta gente rustica nel sembiante, a' quali non tenda, non padiglione era, ma tagliati rami dava loro le disiate ombre; né alcuno v'era di cappello d'acciaio o d'elmo che rilucesse, né alcuno cavallo facea fremire il povero campo, né tromba risonare, ma rozzi corni movea la disordinata gente a' suoi mali; e quasi la maggior parte delle loro arme erano bastoni, e poche spade teneano occupati i loro lati, le quali poche non aveano forza di piegare i solari raggi in altra parte, che dove il sole gli mandava. I loro scudi erano ad alcuni le dure scorze del morbido ciriegio, e altri si copriano di quelle della robusta quercia, e alcuni, forse più nobili, gli aveano, ma sì affumicati, che in essi niun'altra cosa che nera si vedea. In luogo di balestra usavano rombole, e i loro quadrelli erano ritondi ciottoli; le loro lance si prendeano da' fronduti canneti. Archi erano loro assai, le cui saette in luogo di ferro erano apuntate col coltello, né era loro bandiera alcuna, fuori che una di tela assai vile, la quale mezza bianca e mezza vermiglia si mostrava al vento, credo più tosto di pecorino sangue tinta che di colore; e simigliante l'avversa parte l'avea di tanto diversa, che all'una era il bianco di sopra e all'altra di sotto; e di dietro a queste ora qua, ora là, quale poco e quale assai, correano disordinati.



[39]

Come il duca e Messaallino videro il rozzo popolo, di loro si risero, e alquanto gli riguardarono, e già aveano determinato di ritornarsi indietro, quando Messaallino disse: -- Perché non andiamo noi a loro, e di loro condizione ci facciamo certi, acciò che tornando a Filocolo, il quale di tutto loro essere ci domanderà, non sappiendo gliele ridire, non siamo da lui scherniti? --. -- Andiamo --, rispose il duca; e verso quelli che già mostravano di loro dubitare, con segno di pace s'appressarono, e con graziosa voce, non mostrando d'avere la loro picciola condizione a schifo, gli salutarono, e quelli, che sopra la riva del fiume dimoravano dal lato del bosco, domandarono chi essi fossero e perché quivi stessero, e quale era stata la cagione del loro romore poco avanti. A' quali uno di loro, il quale forse degli altri avea il maestrato, così rispose: -- Noi, i quali voi qui vedete, siamo abitatori d'un picciolo poggio qui vicino, il quale i nostri antichi chiamarono Caloni, e noi da quello Caloni ci chiamiamo, popolo robusto e fiero nelle nostre armi, né niuno altro è a cui il lavorio della terra meglio sia noto, né che fatica in ciò a comparazione di noi possa durare: e la cagione per che qui dimoriamo è acciò che passare possiamo questo fiumicello e di sopra quel terreno cacciare in perdizione la gente che vi vedete, la quale nuovamente venuta qui, un poggio simile al nostro, che nostra iurisdizione era, s'hanno preso, e abitanio oltre a nostro volere, e chiamansi Cireti. I quali, come voi vedete, a contradirci il passo qui a fronte a noi sopra la riviera si sono posti, né in alcuna parte possiamo su per quella andare che essi non ci vengano tuttavia davanti. Il gran romore che fu poco avanti fu per due che nell'acque si combatteano, a conforto de' quali ciascuna col gridare aiutava il suo; ma ultimamente il nostro ebbe vittoria, per che di quercia il coronammo, come là vedere il potete --. Disse allora Messaallino: -- Secondo ch'io avviso, voi dovreste con pace poter sostenere che coloro abitassero il vostro poggio, però che si gran popolo non mi parete che soperchio terreno sanza quello che coloro hanno preso non abbiate, ma n'avete tanto che sanza cultura la maggior parte veggiamo --. -- Certo -- disse il villano -- più contrarietà di sangue che vaghezza di terreno ci muove a queste brighe, per mio avviso --. -- E che contrarietà di san gue è tra voi? -- disse Messaallino; -- non siete voi tutti uomini, e in una contrada abitate e in un luogo? --. A cui colui rispose: -- Noi fummo dell'antica città di Fiesole, e allora di quella uscimmo quando Catellina, de' nostri mali singolare cagione, superato da Antonio e da Afranio ne trasse i nostri antichi, i quali della mortale battaglia appena campati qui fuggirono, e quasi in dubbio di loro salute abitarono quel poggetto che davanti vi dissi, sotto quel nome ch'avete udito che ci chiamiamo. Ma costoro, non è gran tempo passato, quando Attila guastò la nuova città da' romani fatta a piè della nostra, temendo le fiamme e l'ira del tiranno, qui fuggirono, e sanza alcuno congedo s'abitarono il paese prima da noi occupato: per che noi, a giusta ira mossi, ogni anno a quello che ora ne vedete ne siamo e saremo infino a tanto o che noi di questo paese fuggendo gli cacceremo o che essi noi alle nostre case renderanno vinti --.



[40]

Udite queste cose, il duca Ferramonte e Messaallino si partirono da loro e tornarono a Filocolo, e ciò che udito aveano e veduto gli dissero: di che Filocolo si rise, e volle andare a vedere. E venuto ad essi, tanto con parole gli commosse che essi, preso ardire, si misero a passare il fiume, il quale non sopra la cintura gli bagnava. Ma essi non furono giunti all'altra riva, che i loro avversarii armati loro vennero incontro, e in mezzo 'l fiume incominciarono sanza ordine la loro battaglia, forte co' duri bastoni lacerando le salvatiche armi e i loro dossi. Arco né rombola non ci avea luogo per la loro vicinità; e se alcuna spada v'era, o dava in fallo o se feriva si torceva. L'acqua che già più rossa che bianca correa gl'impediva molto, e tal volta i più codardi facea valorosi combattitori, ritenendo i loro piedi nella molle arena, i quali per lo duro campo sarieno fuggiti. Ma poi che lungo spazio combattendo ebbero durato, tornandone molti dall'una parte e dall'altra magagnati, avendo Filocolo assai riso co' suoi compagni de' modi nuovi di costoro, col suo cavallo entrò nell'acqua, e i pochi rimasi alla battaglia divise, e ciascuno pari fece al suo campo tornare. Ritornati così costoro, non dopo molto spazio le risa di Filocolo si voltarono in pietà, vedendo i magagnati dolersi e sanza alcuno compenso a' loro mali. E però che a lui parea di ciò essere cagione, si pensò di volergli pacificare, e in restaurazione de' loro danni edificare loro una terra nella quale sicuri vivessero sotto savio duca: e questo narrando a' compagni, da tutti li fu lodato.



[41]

Allora Filocolo fece a sé chiamare dell'una parte e dell'altra i principali, e la cagione domandò della loro discordia. De' quali l'uno perché combatteva, l'altro perché si difendeva narrarono interamente, a' quali Filocolo così disse: -- O miseri, poveri d'uomini e d'avere, perché al piccolo numero di voi, il quale ha più tosto d'aumento bisogno che d'altro, combattendo cercate distruzione? A voi dovria bastare seguire di Saturno la dottrina, sanza volere di Marte usurpare l'uficio, però che in voi né nobiltà di cuore, né ordine, né senno, né arme non dimora. Voi combattete acciò che soli qui rimagnate in questo piano, ma voi non v'avvedete che se questo continuate in brieve tempo il piano di voi rimarrà solo, e le case che voi avete con affanno fatte e dovreste in pace abitare, gente strana verrà che sanza affanno le si goderà. Or fu dagl'iddii data alla terra l'ampia superficie, perché un popolo solo la dovesse abitare? Non vi bastava il luogo che possedete? Che vi facea se costoro alquanto da voi lontani si posero a dimo rare, i quali, pensando che vostri antichi fratelli furono, se ben si guarda, dovavate nelle vostre case propie ricevere, pensando similmente che voi così come essi fuggitivi veniste in questo luogo, e quella ragione ci avavate che essi ora per loro difendono? Io pietoso de' vostri danni voglio che l'uno all'altro perdoni le ricevute offese, e sia tra voi vera e perfetta pace; e sì come voi foste fratelli, così ritorniate, e de' due popoli piccoli e cattivi divegnate uno buono e grande. E io, acciò che l'uno non disdegni andare a casa l'altro ad abitare, vi darò nuova abitazione, la quale io vi cignerò di profondi fossi e d'altissime mura e di forti torri, e in quella vi donerò armi, per le quali, se alcuno vicino invidioso del vostro luogo ve 'l volesse torre, il potrete difendere. Io vi darò in quello similemente chi vi guiderà con ragionevole ordine e le vostre quistioni con diritto stile terminerà, e sotto la cui protezione sicuri viverete come uomini: e oltre a tutto questo, vi donerò doni, per li quali ornare vi potrete e parer belli quando gli altrui paesi visitare vorrete --. Dinanzi al viso del magnifico uomo niuno seppe che dirsi, ma contenti dell'alte promesse, strignendo le spalle, dopo alquanto risposero: -- Messere, noi faremo ciò che voi vorrete --. E tornati, ciascuno a' suoi queste cose riferì. E quale migliore novella poria loro essere contata? Essi, poco davanti stati in tanta discordia, insieme nel cospetto di Filocolo tutti ne vennero, e quelli che impotenti erano per li ricevuti colpi vi si fecero portare, e gittatiglisi a' piedi, con una voce tutti la proferta grazia domandarono, la quale Filocolo disse di dare. E fattigli entrare nel santo tempio, prima per la futura pace offersero sacrificio agl'iddii e quella con orazione divota domandarono, poi in presenza degl'iddii e di Filocolo e de' suoi baciandosi tutti insieme giurarono mai per alcuno accidente tal pace non rompere, ma intera essi e' loro successori servarla, e sempre essere a Filocolo, o a chi per lui vi rimanesse, suggetti.



[42]

Queste cose fatte, Filocolo rimase in sollecitudine d'osservare le promesse cose, e co' suoi compagni cavalca per la contrada salvatica, essaminando con gli occhi e con la mente qual luogo più alle nuove mura fosse atto, appresso del quale insieme andavano Fileno e Caleon simile cosa guardando. E avendo per lungo spazio attorniato il paese, Caleon disse a Fileno: -- Perché Filocolo sopra questo poggio, dove questo cerreto dimora, non edifica la nuova terra? Niuno luogo ho veduto ancora in queste parti tanto atto a tal mestiero: questo tutta la contrada signoreggia, questo forte luogo e bello, questo d'acque abondevole, sì come molti piccioli rivi ne mostrano. Questo è quasi in mezzo tra l'una abitazione e l'altra de' due popoli tornati uno. Niuno difetto è qui, per lo quale più tosto sia da cercare altro luogo. Elli ha similemente dalla orientale piaggia vicino il fiume ove fu la sconcia zuffa di costoro, e 'l mezzogiorno dà loro il veloce fiume chiamato Elsa. Io direi che questo fosse il migliore luogo che avere si potesse in questa parte --. Questo diviso piacque a Fileno, e parveli di dirlo a Filocolo. Le quali cose come Filocolo udì, così acconsentì al loro consiglio dicendo: -- Veramente così è come voi dite, e qui per lo vostro consiglio fermeremo a' villani la nuova terra --.



[43]

Chiamaronsi i villani come a Filocolo piacque, e l'antica selva, dove mai scure non avea suo taglio provato né dente d'alcuna bestia fatto offesa, per paura degl'iddii, credendo i circunstanti che eziandio qualunque fronda era in quella fosse piena di deità, comandò che si tagliasse tutta, prima con pietosa orazione scusandosi agl'iddii, se in essa forse alcuni n'abitavano, così dicendo: -- O iddii di questo luogo abitatori, se alcuno ce ne abita, perdonatemi la nuova ingiuria la quale io non arrogante contro alla vostra potenza commetto come Erisitone fece, ma disideroso di darvi per abitaculo più fruttuosa selva che di cerri, fo questo --. E dette queste parole, con le propie mani faccendo quello che molti dubitavano di fare, a tutti porse ardire.



[44]

Tagliasi l'antico bosco, e Filocolo, pietoso de' disperati popoli, pensa al loro riposo, con sollecitudine, disiderando poi di rivedere il padre. Ma Biancifiore da altra sollecitudine è molestata: Glorizia, che il dolce aere della vicina Roma sentiva, accesa d'ardente disio di rivedere quella oltre all'usato modo, dimorando sola un giorno con Biancifiore, così le cominciò a dire: -- O giovane donna lungamente per lo mondo errata, come non ti strigne l'amore della tua patria? Come non disideri tu di vedere la tua Roma la quale tu mai non vedesti? Or non ti saria egli caro vedere gli stretti parenti del tuo padre e quelli della tua madre, i quali tu niente conosci né essi te? Tu ora se' a quella vicina, né niuno tempo puoi a rivederla eleggere migliore: e certo quello che fu in disiderio agli strani, posti nell'ultime parti de' regni, de' quali io ancora ti vedrò coronata, ben dee essere a te, di lei figliuola, in volontà: pregane il tuo Florio che di quindi andiamo, il quale niuna cosa pare che tanto disideri quanto piacerti. E se egli forse per la nuova impresa vuole pure essere qui, e questo fornito, non vuole più tempo mettere in mezzo a rivedere il padre, concedati almeno che in questo mezzo noi possiamo andar a vederla, accompagnate dal suo e tuo maestro Ascalion. Noi peneremo poco a tornare qui, ché certo quinci par tendoci non si vedrà il sole sei volte nuovo, prima che Roma tu, veduti i tuoi strettissimi parenti e di Roma grandissimi prencipi, vedrai. Le grandissime nobiltà della tua terra, tra le quali il gran palagio ove i romani consigli si faceano, vedrai, e similemente il Coliseo, e Settensolio, fatto per gli studii delle liberali arti. E vedrai la sepoltura del magnifico Cesare, tuo antico avolo, posta sopra aguto marmo di Persia; e vedrai la colonna Adriana e l'arco adorno delle vittorie d'Ottaviano. O quante cose mirabili ancora, vedute queste, ti resteranno a vedere! Io poi da tutti i tuoi parenti conosciuta, darò con le mie parole ferma fede che tu di Lelio e di Giulia sii stata figliuola, e sarò creduta, però che i miei parenti, ancora che io al tuo servigio sia, non sono ignobili. E essendo tu riconosciuta da' tuoi, sarai ricevuta negli alti palagi e intorniata di nobilissime donne, le quali per grande amore che t'avranno e per le tue bellezze ti guarderanno per maraviglia, faccendoti ciascuna onore a pruova, e sarai da tutte tacitamente ascoltata narrando i tuoi casi, i quali esse ascoltando spanderanno lagrime d'amore baciandoti mille volte, e appena parrà loro che tu con esse sia, tanto fia il disiderio loro d'essere con teco. E i fratelli del tuo padre, lieti di sì bella nipote, ordineranno feste, parendo loro avere racquistato il perduto Lelio, e saranno molto più di te ora contenti che se piccolina t'avessero avuta, e massimamente sentendo la verità della tua virtuosa vita, laudevole infra le dee del cielo, e ancora veggendoti sposa di Florio, figliuolo di sì alto re, come è quello di Spagna: e più si rallegreranno, sentendo che corona d'oro sia alla tua testa apparecchiata quando il vecchio re morisse, ancora che molti de' tuoi antichi la portassero. Perché mi fatico io di dirti quanto tu dell'andarvi diverrai contenta, con ciò sia cosa che io mai la menoma parte dire non te ne potrei? Però andianvi, ché, se niuna altra cosa te ne seguisse, se non che tu conoscerai te non essere quella che forse tal volta la coscienza ti dice, per le udite parole sì vi dovresti tu volere andare. E con tutte queste cose ancora farai tu me lieta più ch'altra femina fosse mai, però che io rivedrò i miei, i quali forse già è lungo tempo dierono per me pietose lagrime, credendo ch'io fossi morta. Non essere a' miei prieghi dura, io te ne priego, ma se io mai grazia da te meritai, concedi quello ch'io con tanti prieghi t'adimando --.



[45]

Glorizia tacque, e Biancifiore così le rispose: -- O donna, a me più cara che madre, e cui io sola per madre riconosco, perché con tanto effetto priego sopra priego aggiugnendo mi prieghi, né più né meno come se tu avessi in me sì poca fede che incredibile ti fosse ch'io per te non facessi ciò che per me si potesse operare? Tu disideri d'essere in Roma, e a me t'ingegni, dov'io d'esservi non disiderassi, di farmelo disiderare con le tue parole, le quali in verità il gran disio, ch'io ho di vederla, assai m'hanno acceso: e se io mai disiato non l'avessi, vedendolo a te disiare, sì lo disidererei; ma come poss'io mettere ad effetto, se non quanto piace al mio Florio? Non sai tu che per matrimoniale legge gli sono legata? Io non posso, né debbo, far più ch'e' voglia, però che egli è mio signore per molte ragioni. Non fu' io in casa sua nutricata? Non sono io da lui per tutto 'l mondo stata ricercata? Non m'ha egli con pericolo della sua persona tratta delle mani della canina gente, ov'io era in servaggio venduta? Non sono io per lui due volte stata liberata da morte? Non sono io similemente sua sposa? Dunque seguire i suoi piaceri deggio, non egli i miei. Se tu vuoi ch'io il prieghi, ben so che nulla cosa è che a mio priego e' non facesse; ma io debbo riguardare di che io priego, però che sovente priegano alcuni di cose che pregando a sé negano il servigio. Come potrei io giustamente pregare Florio che a Roma venisse, con ciò sia cosa ch'egli m'abbia detto, già è assai, che egli sopra tutte le cose del mondo disidera di rivedere il vecchio padre, della cui morte egli dubita molto, per lo dolore nel quale il lasciò, quando da lui per cercar me si partì? Dirogli io: « Veggiamo in prima Roma », sappiendo ch'egli altro disidera? E come tu di', la magnificenza e la bellezza di Roma ha potere di trarre a sé gli uomini de' lontani paesi a farsi vedere: dunque, quanto maggiormente dee potere, veduta, ritenergli! Ecco che Florio a' miei prieghi vi venisse, e di quella vago oltre la sua intenzione vi dimorasse, e in questo tempo alcuna novità nel suo regno nascesse, la quale egli andandovi trovasse, non direbbe egli: « Biancifiore, per te m'è questo avvenuto, che mi tirasti a Roma »? E s'egli il dicesse, qual dolore mi saria maggiore? E forse ancora per quello che il suo padre fece al mio, dubita di venirvi, e non sanza ragione: però ch'io ho già udito che i romani niuna ingiuria lasciano inulta. Ma tu di': « Andiamvi sanza lui »; ora non pensi tu come mai me da sé partiria, a cui, per l'essere noi divisi, tanta noia quanta tu sai ci è avvenuta? Certo egli tenendomi in braccio appena mi si crede avere, e continuamente dubita che i contrarii fati non tornino che me gli tolghino; e non una ma molte volte m'ha detto che mai altro che morte non ne dividerà, la quale gl'iddii facciano lungo tempo lontana da noi. E s'egli pure avvenisse che sanza sé in alcuna parte mi fidasse, non è alcuna ove egli più tosto non mi lasciasse andare che a Roma, però che egli s'imagina che i miei parenti incontanente a lui mi togliessero, e ad altrui mi dessero, la qual cosa io mai non consentirei: dunque seguiamo prima i suoi piaceri, però che si conviene lasciargli rivedere il vecchio padre e la dolente madre e il suo regno; i quali veduti, con più audacia gli domanderò Roma vedere co' miei parenti. Tanto abbiamo sostenuto, ben possiamo questo piccolo termine sostenere; e io te ne priego che infino allora, per amore di me, con pazienza sostenghi il tuo disio --.



[46]

Non parlò più avanti Glorizia, se non: -- Quanto ti piace attenderò --; e tacitamente da lei partendosi, fra sé disse: -- Quello Iddio cui io adoro e in cui io spero, tosto me la faccia vedere --. Sopravenuta la notte, Biancifiore nel dilicato letto si diede al notturno riposo: la quale poi che de' gradi con che sale ebbe passati cinque, nel sonno furono da Biancifiore mirabili cose vedute. A lei pareva essere in parte da lei non conosciuta, e quivi vedere davanti da sé sospesa in cielo una donna di grazioso aspetto molto, e le bellezze di quella le sue in grandissima quantità le parea che avanzassero; a cui ella vedea sopra la bionda testa una corona di valore inestimabile al suo parere, e i suoi vestimenti vermigli e percossi da una chiara luce fiammeggiavano tutto il circunstante aere, de' quali niuna parte d'essa era sanza adornamento di nobilissime pietre o d'oro; e nella destra mano le vedea una palma verde, simile da lei mai non veduta, e la sinistra tenea sopra un pomo d'oro, che sopra il sinistro ginocchio si riposava, e sedea sopra due grifoni, i quali verso il cielo volando, tanto l'avevano verso quello portata, che le parea che la sua corona con le stelle si congiungesse, e sotto i suoi piedi tenea un altro pomo, nel quale Biancifiore rimirando estimava che tutte le mondane regioni descritte vi fossero e potesservisi vedere. Ella vide similemente dal destro e dal sinistro lato di costei, da ciascuno, un uomo di grandissima autorità ne' suoi sembianti; ma quelli che dalla destra della bella donna sedea, le parea che fosse antico, e negli atti suoi modesto molto, similemente come la donna incoronato di corona significante incomparabile dignità, il quale era vestito di vestimenti bianchi, ben che un vermiglio mantello sopra quelli avesse disteso, e sopra uno umile agnello le parea che si sedesse, nella mano destra tenendo due chiavi, l'una d'oro e l'altra d'ariento, e nella sinistra un libro, e i suoi occhi sempre avea al cielo. Ma certo colui che dalla sinistra della donna sedeva, era d'altro aspetto: egli era giovane e robusto e fiero ne' sembianti, incoronato d'una corona tanto bella che quasi con la luce che da essa movea e la donna e 'l vecchio tutti facea risplendenti, e era di vermiglio vestito come la donna, e sedea sopra un ferocissimo leone, nella sinistra mano tenendo una aquila e nella destra una spada, con la quale in quel ritondo pomo che la bella donna sotto i piedi tenea, faceva non so che rughe. Le quali cose Biancifiore con ammirazione riguardando, e massimamente la bellezza della gentil donna, fra sé le parea così dire: -- O bella donna, la quale nel viso non sembri mortale, beato colui che sì singulare bellezza possiede come è la tua! Certo io non vorrei per alcuna cosa che così com'io ti veggio il mio Florio ti vedesse, però che mi pare essere certa che di leggiere me per te metteria in oblio; ma caro mi saria molto conoscerti, acciò che la degna laude che tu meriti, con la mia voce manifestassi agl'ignoranti --. Queste parole dette, parea a Biancifiore che la donna così le parlasse: -- O cara figliuola, tanto si stenderà la mia vita quanto il mondo si lontanerà; e allora che tutte le cose periranno, e io. Le mie bellezze, secondo la tua estimazione, n'hanno già molti fatti beati e fanno e faranno, solamente che di quelle si truovino disianti, le quali però sì come tu imagini, non hanno potenza di nuocere alle tue. Tu disiderosa nel tuo parlare di conoscermi, il dì passato rifiutasti di venirmi a vedere e a conoscere. Io per te perdei il tuo padre e la tua madre, e tu di loro non vuoi il difetto rintegrare. Se io ti paio così bella come tu di', come a vedere non mi vieni? Ora io voglio che tu sappi ch'io sono la tua Roma. E se i peccati del tuo suocero, de' qua li gran parte fieno, per costui, volgendosi al vecchio, davanti la maestà del sommo Giove deleti, non fossero, il tuo Florio la spada di quest'altro ancora terrebbe; però viemmi a vedere sanza alcuno indugio: il tuo fattore vuole, e non sanza gran bene di te e del tuo marito --. E questo detto sparì, né più la vide avanti Biancifiore; per che rimasa stupefatta nel sonno di tanta bellezza, dopo picciolo spazio si svegliò, né più dormì quella notte: anzi, sopra ciò che veduto avea, pensosa stette infine che il sole apparve. Allora ella e Filocolo levati e venuti a' verdi boschi, e rimirando i nuovi tagliatori, ciò che Glorizia il passato giorno l'avea parlato e quello che la notte avea veduto, detto e udito gli raccontò; dopo ciò che detto l'avea, intimamente pregandolo che, se essere potea sanza disturbamento del suo avviso, che essi avanti a tutte l'altre cose dovessero visitare Roma, la quale mai veduta non aveano. Molto si maravigliò Filocolo di ciò che a Biancifiore udì contare, e vedendo il disio di Biancifiore così acceso d'andare a Roma, mutò disio, e rispose: -- Biancifiore, cara sposa, tanto m'è caro quanto a te piace: a tuo volere sia la nostra andata, quando ordinato avrò quello che i fati hanno voluto ch'io incominci --. A cui Biancifiore disse: -- Signor mio, a tua posta sta e l'andare e 'l dimorare; ma se di ciò il mio disio si seguisse, il più tosto che si potesse saremmo in cammino --. -- E sì saremo noi --, rispose Filocolo.



[47]

Egli era già al piccolo monte levata tutta la verde chioma, né niuna cosa alta sopra quello si vedea se non le mura del vecchio tempio, quando Filocolo, fatti prendere buoi, con profondo solco disegnò i fondamenti delle future mura, e appresso ordinò i luoghi delle torri, e in quali parti le mura aperte per dar luogo agli entranti dovessero rimanere. E similemente divisò le diritte rughe, e quali luoghi per etterne abitazioni rimanessero. E fatto questo, chiamò a sé Caleon, a cui egli disse: -- Giovane, tu, secondo il tuo parlare, ami crudelissima donna sanza essere da lei amato; e se io ho bene le tue parole per adietro notate, così come già ti fu caro l'essere suggetto ad amore, così ora carissimo partirti del tutto da lui ti saria: alla qual cosa fare, ottimo oficio t'ho trovato, quando e' ti piaccia. Io, come tu vedi, la nuova terra ho cominciata, la quale producere a fine, concedendolo gl'iddii, ho proposto, e con ciò sia cosa che sollecitudine mi stringa maggiore, questo affatto intendo di commettere altrui, insieme col quale il dominio del luogo concederò a chi il prenderà. Se tu il vuoi prendere, la sollecitudine tua converrà essere molta, e in molte cose e diverse, la quale avendo, la vaga anima per forza abandonerà gli amorosi pensieri, e quelli abandonando, metterà in dimenticanza, e, dimenticati, potrai dire te essere dalla infermità che sostieni liberato, e fuori delle mani dell'amore della crudele donna. E non ti sia noia se io edificatore ti faccio di mura, e gente rozza e grossa ti do a governare più tosto che terra fatta con gente ordinata, la quale alla tua gran virtù conosco si converria, però che se io ti dessi quelli a reggere, il loro ordine e la loro mansuetudine poco affanno o niuno daria alla tua mente, e così in quelli pensieri ove dimori, in quelli perseverando staresti, né mai liberato saresti da amore. Ma costoro, inordinati e materiali, sovente ti moveranno ad ira, la quale tu paziente sosterrai, e la loro inordinatezza ti sarà materia di pensare come a ordine li possi recare: de' quali pensieri, e d'altri molti, quello che già ti dissi ti seguirà. A diverse infermità, diversi impiastri adopera il savio medico: prendi questo alla tua per mio consiglio, se disideri di sanare --.



[48]

Caleon, udendo il savio consiglio e conoscendo la liberalità di Filocolo, e similmente il perpetuo onore e l'utile che di ciò che Filocolo gli proferea gli potea seguire rispose: -- Signor mio, a molto più valoroso di me sì alto uficio si converria, il quale ancora, come voi dite, ottimo rimedio il conosco alla mia infermità, e però in luogo di grazia singulare da voi il ricevo, apparecchiato ad ogni riconoscenza che voi vorrete di tanto dono; e là dov'io insofficiente fossi, quant'io posso divoto priego gl'iddii che in luogo di me il mio difetto suppliscano, e voi lungo tempo conservino in vita, sempre di bene in meglio aumentando --. Concessegli adunque Filocolo il luogo, e de' suoi tesori gran parte gli fece donare, acciò che la cominciata opera potesse magnificamente adempiere; e fatti convocare tutti e due i pacificati popoli, i quali del nuovo luogo doveano essere abitatori, a Caleon fece intera fedeltà giurare, e promettere che elli lui per signore e per difenditore avrebbero sempre, né i suoi comandamenti in alcuno atto trapasserebbero: i quali se passassero, secondo il suo giudicio del passamento sosterrieno la punizione; e quelle leggi, che egli desse loro, quelle serverieno, essi e i loro discendenti. E così similemente Caleon promise di servarli e guardarli e governarli come cari fratelli e suggetti, da qualunque persona ingiustamente offendere li volesse. Allora Filocolo disse a Caleon: -- Omai edifica, e di bene in meglio la tua terra, la quale tu chiamerai Calocepe, accrescerai --. E fatti i suoi arnesi acconciare, a ciascuno vietando che sanza sua licenza chi e' fossero non manifestasse ad alcuno, in abito di pellegrini montarono a cavallo, e accomiatati da Caleon, cavalcarono verso Roma.



[49]

Rimase Caleon col rozzo popolo chiamato Calocepi, e il primo comandamento fatto da lui alla nuova gente fu che da essi fossero tutte le loro case disfatte e che essi dentro al cerchio fatto per le mura future dovessero le loro case apportare, e in quello abitare co' loro figliuoli e con le loro famiglie: di che egli fu ubidito sanza niuno indugio, faccendo a difensione de' solari raggi e del lagrimoso verno case di giunchi assai rozze, di terra e di bovino sterco mescolato murate. Questo fatto, egli fece i profondi fondamenti cavare, e di cotti mattoni fece fare bellissime mura, delle quali circuì tutta la nuova terra, faccendo a quelle otto porte, e a ciascuna di sopra ad essa una fortissima e alta torre, e dopo questo, ampissimi fossi aggiunse al circuito. Ella parea già terra, e di lontano le merlate mura si poteano guardare: per che egli pensando che le mura sanza uomini e gli uomini sanza arme niuna cosa a resistenza de' nimici valeano, a ciascuno uomo all'arme possibile donò arme, mostrando loro con non poca fatica come vestire e usare le dovessero, e poi riparò il vecchio tempio con gran divozione dedicandolo a Giove; e quivi sacerdoti ordinò, ammaestrati a' sacrificii statuiti per lui al sommo Giove; e similmente i giuochi da Filocolo ordinati rinnovò, e quelli comandò che si facessero ciascuno anno, entrante il sole nel suo Leone. Queste cose così fatte, gli piacque nella più alta parte della sua terra edificare a sé reale abituro, il quale magnifico fece, e, sopra esso dimorando, potea tutto il suo popolo vedere: nella gran corte del quale avea ordinato di dare leggi al popolo, per le quali essi debitamente vivessero. E già veggendo a ciascuno avere la rustica casa in bello abituro tornato di pietre e di mattoni cotti a instanza del suo, e le rughe essere diritte e piene di popolo contento, volle loro dare modo di vestimenti, e diede, acciò che uomini e non selvagge fie re paressero. Similmente statuì loro ferie, nelle quali cessare dalle fatiche dovessero e darsi al riposo: egli similmente a diversi studii delle liberali arti ne dispose alcuni, e altri alle meccaniche. Né lungo spazio si volse che con ordine costoro serrati nel picciolo cerchio sicuri, la notte dormiano contenti di tal reggimento, e conoscenti che divenuti erano uomini per la discrezione e sollecitudine di Caleon: e egli similemente di tali suggetti si contentava, vedendogli abili e disposti a qualunque cosa egli volea. Che più dirò di lui? Egli in tale ordine e disposizione recò il luogo in pochi anni, che le mura ampliare si convennero, le quali poi invidiate ne' futuri tempi, miseramente caddero sotto altro duca.



[50]

Il pellegrino Filocolo in pochi giorni pervenne a Roma, e in quella tacitamente entrarono, e sì come a lui piacque, in un grande ostiere smontarono, vicino agli antichi palagi di Nerone. Quivi dimorati alcun giorno sanza essere conosciuti, avvenne che andando Filocolo insieme con Ascalion, col duca, con Fileno e con gli altri in pellegrina forma vedendo le mirabili cose di Roma, Mennilio Africano, a Lelio stato fratello, si scontrò con loro, e vide Ascalion, la cui riconoscenza non gli tolse l'abito pellegrino, ma con alta voce chiamandolo, ricordandosi lui essere stato congiunto di stretta amistà con Lelio, gli disse: -- O santo Ascalion, or privaci la tua santità delle tue parole, perché peccatori siamo? Perché sì largo passi sanza parlarne? --. Allora Ascalion, che ben lo riconoscea, si volse e disse: -- Dolce amico, tutto, il contrario mi facea dubitare di parlarti --. Elli s'abbracciarono quivi molte volte e insieme gran festa si fecero, ripetendo i tempi preferiti; ma dopo l'amichevoli accoglienze, Mennilio domandò chi fossero i compagni, al quale Ascalion rispose: -- Questi sono giovani miei amici, i quali udendo la gran fama della vostra città, con meco, pellegrino, pellegrinando vollero venire a vederla, e già qui dimorati siamo più giorni, e omai credo ci partiremo --. Disse allora Mennilio: -- Ora conosco che solo l'amore di Lelio mio fratello alla mia casa ti menava, e non il mio, poi che, lui tolto di mezzo, alla nostra casa disdegni di venire. Oimè, come tu gravemente offeso m'hai, essendo altrove dimorato in Roma, che meco! Io ti priego per quella fede che tu a Lelio portasti, che tu co' tuoi compagni ad esser meco vegnate, mentre in Roma a dimorare avete --. A cui Ascalion assai disdisse, pregandolo che di ciò nol gravasse, con ciò fosse cosa che a' compagni forse non piaceria, però che le donne d'alcuni erano con essi loro A cui Mennilio disse: -- E le donne di loro con le nostre saranno, e voi con noi --. Ascalion, non potendosi da' prieghi di Mennilio difendere, con licenza di Filocolo quello che Mennilio volle consentì, e tutti insieme con Biancifiore e con Glorizia entrarono nel gran palagio per adietro stato di Lelio, nel quale le donne dalle donne e gli uomini dagli uomini onorevolemente ricevuti furono.



[51]

Onorati così costoro da Mennilio, tenendo Ascalion stato di maggiore di tutti, sì come a Filocolo piacea, egli in sé rimembrando le passate cose, s'incominciò a dolere, veggendosi per l'antica amicizia di Lelio onorare da' fratelli, e egli avea avuta paura di dare sepoltura al morto amico, essendovi presente, avvegna che tardi gli fosse noto: e similemente a Giulia più benivolo non essersi mostrato, e a Biancifiore nelle sue avversità: e le cose che già di lei avea dette per ritrarre Filocolo da tale amore, ora l'incominciarono a dolere. Egli fece a Filo colo vietare a Glorizia che in nulla maniera a Biancifiore dovesse narrare chi coloro fossero dove albergati erano, sappiendo bene che essa gli conoscea. Ma Filocolo, dopo alcun giorno, vedute le magnificenze de' due fratelli, cioè di Mennilio e di Quintilio, e essendogli molto piaciute, e similemente l'onore che ad Ascalion e a loro tutti era fatto, e quello che Clelia, di Mennilio sposa, stata per adietro di Giulia sorella, e Tiberina, moglie di Quintilio, facevano a Biancifiore e a Glorizia e all'altre che con Biancifiore erano, li venne volontà di sapere chi costoro fossero, e domandonne Ascalion. -- Come, caro figliuolo, non sai tu dove tu se' e in casa cui? --. -- Certo -- disse Filocolo -- in Roma so ch'io sono, e in casa di Mennilio; ma chi esso sia io non so: e s'io il sapessi, a che fare te ne domanderei io? --. Disse allora Ascalion: -- Ora sappi che di costoro fu fratello Lelio, il padre di Biancifiore, il quale dal tuo padre fu ucciso, e quella donna chiamata Clelia, la quale tanto Biancifiore onora, sorella carnale fu di Giulia sua madre. Vedi ove la fortuna ci ha mandati! Io penso che senno sarebbe omai di qui partirci, però che di leggieri, se conosciuti fossimo da loro, potremmo in questa fine del nostro cammino ricevere impedimento: e io ho veduto, e molte volte udito, nave correre lungo pileggio con vento prospero, e all'entrare del dimandato porto rompere miseramente. La fortuna ci è in molte cose stata contraria: che sappiamo noi se ancora la sua ira verso noi è passata? Da fuggire è la cagione acciò che l'effetto cessi --. Queste parole udendo Filocolo si maravigliò molto, pensando alla grande nobiltà de' zii di Biancifiore, e alla miseria in che la fortuna l'avea recata, ponendola nella sua casa come serva, e così da tutti riputata; e molto in se medesimo si contentò che donna di sì nobile progenie gli fu dagl'iddii per amante mandata e poi per isposa: e con Ascalion delle iniquità del padre e della madre verso di lei usate si duole, e più che mai le biasima e odia, e con turbato viso grievemente riprende il suo maestro riducendogli a memoria ciò che per adietro sconciamente della giovane aveva parlato, e dice che -- meritamente gl'iddii dovriano a costoro notificare chi tu se', acciò che dove tu onore ricevi, fossi, come hai servito, guiderdonato --. Poi con più temperato viso dice: -- Veramente io dubito che conosciuti non siamo in questo luogo, però che costoro hanno sangue toscano: essi non mettono mai l'offese in oblio sanza vendetta. Se io forse da loro fossi conosciuto, io non credo che mi riguardassero per ch'io loro congiunto sia: ma come mi potrò io anche partire sanza la loro pace, o almeno sanza la loro conoscenza, la quale io in niuna parte posso meglio che qui trattare? --. Ascalion, che tutte le sue parole ascoltava, né niente si turbò per riprensione udita, però che già debita compunzione per se medesimo avea presa della commessa colpa, così gli disse: -- Filocolo, tu e' tuoi compagni siete giovani e per diverse parti del mondo sconosciuti siete pellegrinati, per la qual cosa alcuna persona non è che vi conosca per quelli che siete: però, se di qui partirti disideri, fare lo possiamo, né fia chi saputo abbia chi voi vi siate. Se la conoscenza e la pace de' tuoi parenti disideri, non è prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, infino a tanto o che mi parlino d'alcuna cosa, per la quale io possa a ragionare de' tuoi fatti debitamente venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun'altra via ci si prenda migliore, per la quale il loro intendimento possiamo conoscere; il quale conosciuto, quello che operare deggiamo conosceremo --. A questo s'accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.



[52]

Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il migliore, Filocolo solo con Menedon dall'ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si poteano di guardare, lodando la magnanimità di coloro che fatte l'aveano fare e de' facitori il maestro. E così andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s'adorna che prima nel diserto comandò penitenza a' peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e dalla rana cognominato del rabbioso Nerone; e in quello entrarono, e rimirando di quello le grandezze in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell'universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare: e qual fosse la cagione delle forate mani, de' piedi e del costato pensare non sapea, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella quale dimoranza stando, uno uomo antico non troppo e di bella apparenza, in iscienza peritissimo, il cui nome, secondo ch'egli poscia manifestò, era Ilario, disceso di parenti nobilissimi, d'Attene quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell'inclito imperadore Giustiniano, quivi venuto, e all'ordine de' cavalieri di Dio scritto, forse a guardia del bel luogo diputato, gli sopravenne, e vide Filocolo così quella imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il mirò molto, e parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non conoscendolo, così l'incominciò a parlare: -- O giovane, con molta ammirazione l'effige del creatore di tutte le cose riguardi, come se mai da te non fosse stato veduto --. A cui Filocolo graziosamente rispose: -- Sanza dubbio, amico, ciò che tu di' è vero; e però ch'io mai più nol vidi, con ammirazione ora il riguardava --. -- E come può essere -- disse Ilario -- che tu molte volte non l'abbi veduto, se de' servatori della sua legge se'? --. -- Certo -- disse Filocolo -- né lui, come già dissi, mai più vidi, né qual sia la sua legge conosco --. -- Adunque qual legge servi, o cui adori? --, disse Ilario. A cui Filocolo rispose: -- La legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond'io sono servano, e io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii posseditori delle celestiali regioni, a' quali, quante volte di loro abbiamo bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e le dimandate cose riceviamo --. -- Dunque tu idolatrio se' della setta de' gentili? --. -- Così sono come tu di' --, rispose Filocolo. -- Ora ignori tu -- disse Ilario -- che noi cotesta setta abbiamo, e degnamente, in odio, sì come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio? -- -- Non lo ignoro --, disse Filocolo. -- Dunque -- disse Ilario -- come sicuro qui, gentile, vivi tra 'l popolo di Dio? Non sai tu che come voi a noi parate insidie, così a voi potrebbero essere da noi parate? Ma che? Di questo per nulla ti domando, ché chi alla salute dell'anima non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare? Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro: escitene fuori! --. A cui Filocolo disse: -- Male può servare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra legge udissi o quello ch'io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio diventerei --. -- Già per udirla, se mai più non l'udisti, non perderai: io la ti mostrerò tutta, avvegna che a ben volerlati fare intendere mi converrà distendere in molte parole, le quali dubito non ti fossero tediose ad udire --. A cui Filocolo disse: -- A te non sia affanno il dire, che a me mai l'ascoltare non rincrescerà --. -- Adunque -- disse Ilario -- sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che fruttuose siano le mie parole --.



[53]

Posersi a sedere Filocolo e Menedon, e Ilario in mezzo di loro, nel cospetto della reverenda imagine. A' quali parlando Ilario con soave voce mostrò chi fosse il creatore di tutte le cose, e come sanza principio era stato, così niuna fine era da credere a lui dovere essere; e dopo questo loro dichiarò di tanto fattore le prime opere, cioè il cielo e la terra, con ciò che in essi di bene e di bellezza veggiamo o sentiamo, o vedere o sentire si puote. Egli mostrò loro appresso la creazione de' belli spiriti, i quali non conoscenti prima contro al loro fattore alzaron le ciglia, per la qual cosa etterno essilio meritarono de' beati regni, essendo loro per perpetua carcere l'infimo centro della terra donato. E dopo questo narrò come a restaurazione de' voti scanni, il primo padre con la sua sposa furon formati in Ebron e messi in paradiso; e fatto loro dalla divina voce il mai servato comandamento, il trapassare del quale a loro e a' loro successori guadagnò morte e affanno. Piacqueli ancora di dire quanto il principio della prima età fosse dalle seguenti variato, mostrando come i loro digiuni le ghiande solveano, e gli alti pini davano piacevoli ombre, e i correnti fiumi davano graziosi beveraggi agli assetati, e l'erbe soavissimi sonni; e come semplici vestimenti contenti gli copriano, e come ciascuno sola la sua contrada conoscea sanza cercare l'altrui, e come i terribili suoni delle battaglie tacevano e l'armi non erano e l'arte di quelle non si sapea, per che la terra il beveraggio dell'umano sangue non conoscea; seguendo come a costoro, a' quali sì semplice vita bastava, non bastarono gli ordini della natura, né la lussuria, né il loro vero Iddio per adorare, ma passando nell'una e nell'altra cosa i termini meritarono l'ira del sommo fattore, per la quale il mondo allagò, riserbato solamente da Dio un padre con tre figliuoli e con le loro spose, però che erano giusti, nella salutifera arca, con l'altre co se necessarie alla mondana restaurazione. Appresso questo, dimostrò loro con aperta ragione l'uscimento dell'arca lontanamente stata a galla, e 'l nascimento de' popoli discesi di Cam, Sem e Iafet, e le edificazioni e della gran torre e dell'altre città fatte da' rifiutanti l'ombre degli alberi; e il primo trovamento di Bacco schernitore del suo primo gustatore, e le varie maniere de' vestimenti e de' loro colori, e i cercamenti degli altrui paesi, e quali fossero i fedeli servatori de' piaceri di Dio, e quali da quelli diviassero: né niuna notabile cosa lasciò a narrare che stata fosse infino a' tempi del primo Patriarca. Qui posta alla prima e alla seconda età fine, della terza cominciò a parlare, e le cose state fatte da Abraam, dal fratello, dal figliuolo e dal nepote tutte disse, insieme con le vedute e udite da loro. E contando del duodecimo fratello, trenta danari dagli altri venduto, narrò le sue avversità e l'uscimento di quelle e 'l salimento alla sua gloria; e 'l passamento del popolo di Dio in Egitto di dietro a lui, e quello che qui operasse, e quanto i discendenti vi stessero, e sotto quale servitute mostrò aperto, infino alla natività di colui che, dell'acque ricolto, da Dio i dieci comandamenti della legge riceveo, da' quali, quelle che noi oggi serviamo, tutte ebbero origine. E questo detto, seguì quanti e quali fossero i segni fatti nella presenza del crudo prencipe, che oltre al loro volere nella provincia d'Egitto gli tenea racchiusi. Né tacque come sotto la sua guida esso popolo, per dodici schiere passando il rosso mare, uscissero di quello con secco piede, avendo per pedoto la notte una colonna di fuoco e 'l giorno una nuvola, e similemente come, seguiti, gli avversarii nelle rosse acque rimasero. Mostrò ancora quanta e quale fosse la vita loro nel diserto luogo, e come, morto il primo legista, sotto il governo di Iosué rientrarono in terra di promissione, e quivi con quali popoli avessero le già cominciate battaglie, dicendo loro ancora con quanta reverenza trovata fosse e servata e riportata l'arca santa. E come lo sciolto popolo si reggesse, e sotto quali giudici, e chi fra loro con divina bocca parlasse, e di che, disse, e come elli disiderasse re e fosse loro dato, narrò infino a David. Qui alla terza età pose fine e cominciò la quarta, le avversità di David e le sue opere tutte narrando, dicendo all'altre principali come Micol acquistasse, e quello che per Bersabè operasse, né tacque d'Ansalon come morisse e per che, né della mirabile forza di Sansone, né della scienza di Salamone, mostrando com'egli a Dio il gran tempio di Ierusalem avea edificato, e con questa l'altre sue operazione tutte. E per consequente de' suoi discendenti e degli altri prencipi successori disse ciò che stato n'era e che operato aveano: e de' profeti stati per li loro tempi, infino che alla trasmigrazione di Bambilionia pervenne. Quivi la quinta età cominciò, della quale a dire niuna cosa lasciò notabile, infino alle gloriose opere de' Maccabei, le quali furono non poco da commendare. E con tutto che egli queste cose del popolo di Dio narrasse, non mise egli in oblio però le notabili cose state fatte per gli altri di fuori da quello, ma per i suoi tempi ogni cosa narrò. Egli mostrò come di Nebrot fosse disceso Belo, primo re degli Assiri, il cui figliuolo Nino era stato primo prevaricatore de' patrimoniali termini, con mano armata soggiogandosi l'oriente. E disse ciò che Semiramis avea già fatto, e degli altri ancora successori ciò che vi fu notabile, e come per trentotto re, l'uno succedente all'altro, il reame era pervenuto a mano di Sardanapalo, il quale i bagni e gli ornamenti delle camere e 'l dilicato dormire e i piacevoli cibi trovò, al quale Cirro, re di Persia, tolse il regno, e similmente a Baldassar, di Nabucdonosor, re di Bambillonia, successore, insieme con Dario re de' Medi, e a' Medi soggiogato rimase. Né lasciò a dire che il regno de' Medi cominciò sotto Arbato, e Arbato fu il primo re, e dopo il settimo re pervenne ad Alessandro, e similemente quello de' Persi, de' quali Cirro fu principio e Dario fine, tra l'uno e l'altro avuti undici re, il quale Alessandro discese de' greci re, de' quali il primo fu Saturno, cacciato da Giove. È mostrò loro ancora da costui, lasciante a Tolomeo quello per eredità, essere ricominciato il regno degli Egiziaci, finito poi nel tempo di Cleopatra per la forza de' romani, che 'l soggiogarono; e narrò come degli Argivi il primo re fu Inaco, e de' Lacedemoni Foroneo, primo donatore di legge a' suoi popoli. E non di meno mostrò a che tempo l'antica Tebe s'era edificata, e chi fossero i suoi re, e sotto cui distrutta. E similemente della gran Troia e de' suoi reali e della sua distruzione disse. Né mise in oblio di narrare lano essere d'Italia stato primo re, e Romolo de' romani, contando di quella la notabile edificazione. E disse d'Agrileon stato primo re di Sitronia; e molte altre cose recitò laudevoli intorno a quelle, del giudaico popolo: mostrando ancora i diversi errori di molti erranti e non sappienti, che e come agl'idoli sacrificare s'era pervenuto dagli antichi, abandonata la diritta via. Ma parendogli delle vecchie cose avere assai detto, quelle lasciando disse: -- Giovani, ciò che davanti detto avemo poco è a quello che dire intendiamo, necessario di sapere, ma vuolsi credere, e è introducimento a ciò che dire vi credo appresso: e però ascoltate e con diligenza notate le mie parole --.



[54]

-- Quanto sia stato nelle cinque età passate, vi credo con aperta ragione aver mostrato -- disse Ilario; -- ora alla sesta piena di grazia, nella quale dimoriamo, con più lento passo ci conviene procedere, e dicovi così. Come voi poteste nel principio del mio parlare comprendere, se bene ascoltaste, uno è il creatore di tutte le cose, a cui principio non fu né fine sarà mai, il quale, da sé gittate le superbe creature, volle di nobile generazione riempiere i voti luoghi, e creò l'uomo, al quale morte annunziò se il mandato passasse, com'io vi dissi. Ma quelli, vinta la sua sposa dalle false subduzioni dell'etterno nimico, piacendo a lei il trapassò, per che cacciato con lei insieme del glorioso luogo, agli affannosi cultivamenti della terra ne venne, e morì; e noi, sì come suoi successori, corporalmente tutti moriamo. Ma però che le nostre anime, fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a' dolenti regni de' malvagi angeli, non tanto giustamente fosse col corpo vivuta, né niuna era possibile per suo merito a risalire colà donde peccando era caduta, il creatore di quelle per sua propia benignità verso noi divenne pietoso, e nel principio di questa sesta età, regnante Ottaviano Augusto e tenendo tutto il mondo in pace quieta, il suo unico Figliuolo volle che s'incarnasse in una vergine di reale progenie discesa, il cui nome fu e è Maria, alla quale in Nazaret, città di Giudea, per convenevole messo il fece annunziare. Dal quale essa rassicurata, al volere del suo signore sì rispose, dicendo: « Ecco l'ancilla del Signore, sia a me secondo la sua parola ». La quale risposta fatta, cooperante la virtù del Santo Spirito, l'unico Figliuolo di Dio fu incarnato; alla quale incarnazione niuna naturale operazione fu mescolata, né opportuna, se bene si guarda. Fu adunque la incarnazione, come detto v'ho, del Figliuolo di Dio, il quale poi glorioso nacque, acciò che poi passione e morte sostenendo le nostre colpe lavasse, e facessene possibili a salire a quella gloria donde ne cacciò disubidendo il primo padre, non perché Iddio non avesse con la sua parola sola potutone perdonare e rifarci degni, che bene avria potuto, però che nella sua potenza ogni cosa si richiude; ma egli fece questo acciò che più apertamente la benivolenza, la quale continua ha verso di noi, ne dimostrasse, e acciò che noi più pronti a' suoi servigi ci disponessimo, veggendone tanto dono conceduto sanza averlo servito, ma più tosto diservito. Incarnato adunque costui, le leggi della presa carne seguendo, nove mesi nel ventre della Vergine fé dimora, la quale venendo con Giosep suo sposo, uomo di lunghissima età, il quale abandonare l'avea voluta per la non conosciuta pregnezza, se l'ammonizione dell'angelo non fosse, da Betelem in Ierusalem a pagare una moneta che dieci piccioli valesse, detta denaro, sì come Ottaviano avea mandato comandando, acciò che 'l numero de' suoi sudditi sapesse, menando un bue e uno asino seco: il bue per vendere acciò che le spese sostentasse del parto, e l'asino per leviare l'affanno del cammino. Sentendo la Vergine il tempo del partorire, così andando, ad una grotta, la quale lungo la via era dove i viandanti soleano tal volta loro bestie legare per fuggire l'acque o' caldi, o per riposo, entrarono, però che per li molti andanti ogni casa era presa. Quivi poveramente la notte si riposarono, la quale già mezza passata, la Vergine, così come con diletto carnale non avea conceputo, così sanza alcuna doglia spuose il suo santo portato: il quale, acciò che dal freddo che era grande il guardasse, povera di panni, nel fieno, che davanti al bue e all'asino era, l'involse. E che deono fare gli uomini, poi che quelle bestie, conoscendo il Salvatore del mondo, s'inginocchiarono, quella reverenza faccendogli che il loro poco conoscimento amministrava? In quell'ora s'udirono l'angeliche voci degli angeli tornanti al cielo, cantando 'Gloria in excelsis Deo', con quanto di quello inno si legge poi. In quell'ora si videro per lo mondo mirabili cose, e massimamente in questa città. Or non ruinò elli quella notte il gran tempio della pace, il quale, secondo a' romani domandanti fu risposto, doveva tanto durare che la Vergine partorisse, per che essi, imaginando quella mai non dover partorire, nella sommità della porta di quello scrissero « il tempio della pace etterno », e sopra le ruinate mura fu poi edificato un altro salutifero tempio, da colei nominato che Vergine partorì? Non la imagine di Romolo, re de' romani, cadde e tutta si disfece? Certo sì; e l'imagini fatte a dimostrazione delle mondane provincie, a' romani suddite, tutte si ruppero, né restò nel mondo alcuno idolo intero. Quella notte, oscurissima, divenne chiara come bel giorno, e una fonte d'acqua viva in liquore d'olio in questa città si converse, e olio corse tutto quel glorioso giorno infino al Tevero. E apparve a tre re orientali, stanti sopra il vittoriale monte, quel giorno una stella chiarissima, nella quale elli videro un fanciullo piccolo con una croce in testa, e parlò loro che in Giudea il cercassero. E quel giorno medesimo, avvegna che alcuni dicano che prima apparissero, apparvero in oriente tre soli, i quali, poi che veduti furono, in un corpo tutti e tre ritornarono, per li quali assai aperto l'essenza della Trinità si manifestò. E certo Ottaviano Augusto volle da' romani essere adorato per iddio, ma egli, discreto, i consigli della savia Sibilia domandò; alla quale, venuta a lui il giorno di questa natività gloriosa, egli disse: « Vedi se niuno dee di me nascere maggiore, o se io per iddio a' romani mi lascio adorare ». La quale, nella sua camera dimorando, in un cerchio d'oro, contra il sole apparito, gli mostrò una vergine con un fanciullo in braccio, la quale egli con maraviglia riguardando, s'udì dire: « Hec est Ara celi », né vide chi 'l dicesse. A cui la Sibilla poi disse: « Quelli è maggiore di te, e lui adora ». Le quali parole udite, egli gli offerse incenso, e in tutto a' romani rinunziò l'esser adorato per iddio, però che mortale e non degno di ciò si sentiva. E in questo medesimo giorno apparve un cerchio, il quale tutta la terra circuì, fatto a modo che iri; e le vigne d'Egando, le quali proferano il balsamo, fiorirono quella notte, e diedero frutto e liquore. E pochi dì avanti questo si truova che arando alcuni con buoi, i buoi dissero: « Gli uomini mancheranno, e le biade aumenteranno ». Similemente i pastori, che in quella notte guardavano le loro bestie, essendo loro dagli angeli nunziato il nascimento del garzone, andando in quella parte, trovarono vero ciò che loro era stato detto, e ado raronlo. In quella notte similmente si truova che quanti soddomiti erano, tanti ne furono estinti, avendo Iddio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contra natura nell'umana natura operarsi, per poco non rimase d'incarnarsi. Dunque tante cose, e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sì estrema povertà nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli, signore di tutte le cose, è credibile che se voluto avesse, potea ne' gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie; ma acciò che l'umiltà mostrasse a tutti dovere esser cara, così bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con più disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque così costui, fu all'ottavo giorno della sua natività circunciso secondo la giudaica legge. E i tre re d'oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, però che udito avea il re de' Giudei dovere nascere, disse: « E' non è qui, andate e trovatelo, e da me tornate, acciò che io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo ». I quali, usciti di Ierusalem, e riveduta la stella, in Betelem lo trovarono, e adoraronlo, e offersonli oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall'angelo, per altra via nelle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch'egli incominciò: « Nunc dimittis etc. ». Erode poi, veggendosi da' tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giosep, ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggì in Egitto: gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli già nel duodecimo anno, nel tempio di Dio co' dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente sanza peccare fino al trentesimo anno servò: il quale venuto, andato nel deserto ove Giovanni era, da lui prima prese battesimo, e quello per che era venuto cominciò a mostrare nelle sue predicazioni, eleggendosi dodici discepoli, i quali sì come fratelli amò e loro la diritta via del regno suo mostrò, la quale essi, sì come le loro opere manifestano, conobbero bene, e seguironla. E avendo già cominciato questo Figliuolo di Dio a mostrare come egli vero Iddio e vero uomo fosse, convitato alle nozze d'Alclitino, il vino mancandovi, di pura e vera acqua fece bonissimo vino tornare. Elli, fatta la quadragesima e vinte le tentazioni dell'antico oste, cominciò a predicare alle turbe e a sanare gl'infermi, a liberare gl'indemoniati, a mondare i leprosi, a dirizzare gli attratti e a guarire i paraletici, e qualunque altra infermità, e a suscitare i morti, per le quali cose da molti era seguito. Egli similemente liberò una femina presa in adulterio, scrivendo in terra a' Farisei: « Quale di voi è sanza peccato pigli la prima pietra ». Egli pascé di cinque pani e di due pesci cinquemila uomini, e femine e fanciulli sanza fine, e avanzonne dodici sporte, e ad una Samaritana, cercando bere ad una fonte, narrò le più segrete sue cose, per ch'ella, questo manifestato nella città, con molti il seguitò. Egli a' prieghi delle care sorelle suscitò Lazzaro, stato già quattro giorni nella sepoltura; e mangiando con Simone fariseo, alla donna di Magdalo, lunga peccatrice stata, la quale con le lagrime gli avea lavati i piedi e asciutti co' capelli e unti con prezioso unguento, perdonò i molti peccati, dicendo: « Va, e non peccare più ». Egli similemente sanò un povero, lungo tempo stato alla pescina per lavarsi nella commossa acqua. Ma poi per le molte cose da' Giudei invidiato, fu cercato di lapidare, la cui ira egli la prima volta fuggì, ma poi con onore grandissimo, sedendo sopra una asina, essendogli tutta Ierusalem con rami d'ulive e di palma e con canti uscita incontro, rientrò in quella, ove poco tale onore gli durò. Ma egli già conoscendo il tempo della sua passione essere vicino, cenò co' discepoli e loro com'egli dovea essere tradito da uno di loro nunziò. Dopo la qual cena, lavati a tutti i piedi, andò in un giardino fuori della città ad orare con alcuni di quelli; ma colui che 'l tradimento avea ordinato, venuto quivi co' sergenti del prencipe de' Farisei, tradendolo, con gran romore e furore come un ladrone fu preso. Ma s'egli avesse voluto fuggire, niuno era che 'l tenesse, quando tramortiti caddero tutti nel suo cospetto; ma egli sollicito alla nostra redenzione stando fermo, rendute loro le prime forze, si lasciò pigliare: e volete udire più benignità di lui? Avendo Pietro Simone, uno de' suoi discepoli, il quale egli capo degli altri e suo vicario avea ordinato, tagliata l'orecchia a uno de' servi de' prencipi, ammonendo lui che il coltello riponesse, l'orecchia sanò al magagnato. Fu adunque, così preso, costui menato nel cospetto di Caifas e d'Anna, i quali a Pilato il mandarono, di lui ponendo false accuse, sì come quelli che per invidia la sua morte cercavano, pensando che se egli vivesse tutto il loro popolo trarrebbe alla vera fede da lui predicata, e essi rimarriano sanza. Pilato, il quale quivi per li romani era preside, infino alla mattina legato il tenne. La mattina, udendo che galileo fosse, il mandò ad Erode, il quale, disideroso di vederlo, poi a Pilato, vedutolo, il rimandò; e stato lungamente suo nimico, per questo, suo amico è ritornato. Pilato non trovando in lui alcuna colpa, il volea lasciare, ma il gridante popolo lo spaventava, ond'egli, fattolo flagellare duramente, credendo che ciò bastasse, il volle loro rendere, i quali gridando la sua morte, a quella il condussero e in croce in mezzo a due ladroni il crocifissero, schernendolo e dandogli aceto e fiele a bere con una spugna: sopra la quale egli morì. Quello che, mo rendo costui, avvenne, ascoltatelo: elli tremò la terra fortissimamente; le pietre, sanza essere tocche, si spezzarono in molte parti; il velo del tempio di Salamone si divise per mezzo; i monumenti s'aprirono, e molti corpi risuscitarono; il sole oscurò, essendo la luna in quintadecima, e tutta la terra universalmente sostenne tenebre per più ore: le quali cose Dionisio veggendo, essendo in Attene, e della vostra setta, disse: « O il signore della natura sostiene ingiuria o tutto il mondo perirà ». E Longino, cieco cavaliere, ferendo con la sua lancia il santo costato, di quello sentì sangue e acqua viva venire giù per la lancia, per che agli occhi ponendosela riebbe la vista. Centurione, stato avanti degli schernitori, vedendo queste cose, confessò lui veramente essere stato Figliuolo di Dio. Dunque dove tante e tali cose si videro, ben si puote credere colui Figliuolo di Dio e Redentore a noi essere stato. Venuto il vespro, fu il beato corpo diposto della croce da Nicodemo e da Giosep di Bramanzia e con odorifere cose involto in un mondo lenzuolo, fu posto in una sepoltura, la quale da armate guardie e suggellata fu guardata, acciò che i suoi discepoli, i quali tutti abandonato l'aveano, quando fu preso, non venissero e furasserlo, e poi dicessero: « Risuscitato è ». Ma la santa anima sì tosto com'ella il corpo abandonò, cosa discese all'etterna prigione e rotte le porti della potenza dell'antico avversario, trasse i santi padri, i quali in lui venturo debitamente credettero, e, aperta la celestiale porta infino a quel tempo stata serrata, nella gloria del suo Padre gli mise. Poi al terzo dì ritornando al vero corpo, con quello veramente risuscitò, e più volte apparve e a' suoi discepoli e ad altrui. E dopo il quarantesimo giorno, vedendolo tutti i discepoli suoi e la sua madre, se ne salì al cielo, faccendo loro nunziare che ancora a giudicare i vivi e i morti ritornare dovea. E dopo il decimo giorno tutti del Santo Spirito gl'infiammò, per lo quale ogni scienza e ogni locuzione di qualunque gente fu loro manifesta: e predicando la santa legge, tutti per diverse parti del mondo andarono --.



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-- Ora -- disse Ilario -- avete udito quello che noi crediamo, adoriamo e la cui legge serviamo. Udito avete la cagione della sua incarnazione, la quale né per angelo né per altra creatura si potea supplire se non per questa. Udito avete la gloriosa natività come fosse, e la concezione. Udito avete la laudevole e virtuosa e miracolosa vita di lui. Udito avete l'affannosa e vituperosa fine e cruda morte ch'egli per noi sostenne; e similemente la pia redenzione, la vittoriosa resurrezione, e la mirabile apparizione, e la gloriosa ascensione v' ho mostrato, e ultimamente la donazione graziosa del Santo Spirito, e nunziato v'ho il futuro giudicio: le quali cose se ben pensate, vero Iddio e vero uomo incarnato, nato, vivuto e passo e morto e risuscitato essere il conoscerete. Né vi si occulterà ne' vostri pensieri quanta la sua infinita pietà sia stata verso di noi, il quale per la nostra salute diè se medesimo. Gran cosa è quando un servo per la liberazione del signore, o l'uno amico per l'altro, o l'uno per l'altro fratello, o 'l padre per il figliuolo, o 'l figliuolo per il padre prende morte: ma quanto è maggiore il signore, per lo servo liberare, vituperosa pigliarla! Noi, servi del peccato, tanto perfettamente da lui fummo amati, che egli non disdegnò l'altezza de' suoi regni abandonare per pigliare carne, acciò che possibile si facesse a patire e a pigliare morte per nostra redenzione. Adunque non vi vinca la terrena cupidità, alla quale le vostre false e abominevoli leggi sono più atte che la nostra, ma cacciate da voi i giuochi dello ingannevole nimico delle nostre anime, e nuovi davanti a Dio vostro Creatore vi presentate --.



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Ascoltarono con gran maraviglia Filocolo e Menedon le cose dette da Ilario, e quelle notarono, parendo loro, sì come erano, grandissime: e visitando poi Ilario più volte, ogni fiata ridire se ne faceano parte, né niuna cosa rimasa decisa fu che essi distesamente dire non si facessero, e come e quando e dove di tutte si fecero narrare. Le quali udite tutte, Filocolo domandò Ilario in che la credenza perfetta di chi salvare si volea si ristringesse. A cui Ilario cominciò così: -- Noi prima fedelmente crediamo, e semplicemente confessiamo uno solo Iddio etterno e incommutabile e vero, in cui ogni potenza dimora. Crediamo lui incomprensibile e ineffabile Padre, Figliuolo e Santo Spirito, tre persone in una essenzia, in una sustanzia, overo natura semplice omnino. Crediamo il Padre da niuno creato, il Figliuolo dal Padre solo e lo Spirito Santo da ciascuno procedere: né mai ebbono principio e così sempre saranno sanza fine. Crediamo lui di tutte le cose principio e creatore delle visibili e invisibili, delle spirituali e corporali. Crediamo lui dal principio aver creato di niuna cosa la spirituale e corporale creatura, cioè l'angelica e la mondana, e appresso l'umana, quasi comune di spirito e di corpo. Crediamo che questa santa e individua Trinità al profetato tempo desse all'umana generazione salute, e l'unigenito Figliuolo di Dio di tutta la Trinità comunemente della Vergine, cooperante il Santo Spirito, fu fatto vero uomo di razionale anima e di corpo composto, avendo una persona in due nature. Egli veramente ne mostrò la via della verità, con ciò sia cosa che, secondo la divinità, immortale e impassibile fosse, secondo l'umanità si fece passibile e mortale. Il quale ancora per la salute dell'umana generazione crediamo che sopra il legno della croce sostenesse passione e fosse morto, e discendesse all'inferno, e risuscitasse da morte e salisse in cielo. E crediamo che vera mente egli discendesse in anima, e risuscitasse in carne, e salisse in cielo parimenti con ciascuna. E crediamo che nella fine del secolo egli verrà a giudicare i vivi e i morti, e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, o buone o ree che state sieno, e così a' malvagi come a' buoni, i quali tutti con li loro propii corpi che ora portano risurgeranno, acciò che come avranno meritato ricevano: quelli con Pluto in pena etterna, quelli con Giove in gloria sempiterna. Crediamo ancora de' fedeli una essere l'universale ecclesia, fuori della quale niuno crediamo che si salvi, nella quale esso Iddio è sacerdote e sacrificio, il cui corpo e sangue nel sacramento dell'altare sotto spezie di pane e di vino veramente si contiene, transustanziati il pane in corpo e 'l vino in sangue per divina potenza, acciò che a compiere il ministerio dell'unità togliamo del suo quello che egli del nostro tolse; e questo sacramento niuno il può fare, se non quello sacerdote che sarà dirittamente ordinato secondo le chiavi della chiesa, le quali egli agli apostoli concedette e a' loro successori. Crediamo similemente il sacramento del battesimo, il quale ad invocazione della individua Trinità, cioè Padre e Figlio e Santo Spirito, si consacra nell'acqua: così a' piccoli come a' grandi, da chiunque egli è, secondo la forma della chiesa, dato, giova a salute. Dopo il quale ricevuto, s'alcuno cadesse in peccato, crediamo che sempre per vera penitenza può tornare a Dio: e non solamente le vergini e' continenti, ma ancora i congiugati per diritta fede, piacenti a Dio, crediamo potere ad etterna beatitudine pervenire. E così a te e a qualunque altro di quella vuole essere partefice conviene credere, dannando ogni altra oppinione che alcuni altri avessero avuta e avessero delle predette cose, sì come eretici e contrarii alla diritta fede --.



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-- Grandissime cose e mirabile credenza ne conta il tuo parlare -- disse Filocolo ad Ilario, -- le quali tanto piene d'ordine, di santità e di virtù veggio, che già disidero con puro animo d'essere de' tuoi; ma sanza i miei compagni, con li quali riferire voglio l'udite cose, niuna cosa farei, ancora che faccendolo sanza loro conosco saria ben fatto --. A cui Ilario: -- Giovane, confortati nelle mie parole, e con teco i tuoi compagni vi conforta: e fuggendo le tenebre, nelle quali colui, cui voi orate, vi tiene, venite alla vera luce da cui ogni lume procede, e che per la vostra e nostra salute se medesimo diede a obbrobriosa morte. Correte al santo fonte del vero lavacro, il quale, lavando l'oscura caligine delle vostre menti, vi lascerà conoscere Iddio, il quale l'orazioni de' peccatori essaudisce nel tempo opportuno. Assai è tra' miseri miserabile colui che può uscire d'angoscia e entrare in festa, se in quella pur miseramente dimora. Venite adunque e lavatevi nel santo fonte, e di quelle tre virtù nobilissime, Fede, Speranza e Carità vi rivestite, sanza le quali niuno può piacere a Dio; e così chi le veste, impossibile è che gli etterni regni siano serrati. Dunque v'è licito venire al donatore di tutti i beni a servire, e la prigione etterna fuggite mentre potete. Né vi faccia vili la poca autorità, che forse io confortante dimostro, ché le parole da me dette a voi non sono mie, anzi furono de' quattro scrittori delle sante opere del nostro fattore, de' quali ciascuno testimonia quello che parlato v'ho, e con loro insieme molti altri, i quali, avvegna che fossero più e diversi, un solo fu il dittatore, cioè il Santo Spirito, la cui grazia discenda sopra voi, e vi dimori sempre --.



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Partironsi adunque Filocolo e Menedon da Ilario, sopra l'udite cose molto pensosi, e ripetendole fra loro più volte, quanto più le ripeteano, più piaceano: per che essi in loro deliberarono del tutto di volere alla santa legge passare, e di narrarlo a' compagni proposero. E accesi del celestiale amore, tornarono lieti al loro ostiere, dove essi il duca e Parmenione e Fileno e gli altri trovarono aspettargli, maravigliandosi di loro lunga dimora così soli. Co' quali poi che Filocolo fu alquanto dimorato, non potendo più dentro tenere l'accesa fiamma, chiamatili tutti in una segreta camera, così loro cominciò a parlare:



[59]

-- O cari compagni e amici, a me più che la vita cari, i nuovi accidenti nuove generazioni di parlari adducono, e però io sono certo che voi vi maraviglierete assai di ciò ch'io al presente ragionare vi credo; ma però che da nuova fiamma sono costretto, e secondo il mio giudicio il debbo fare, non tacerò ciò che il cuore in bene di voi e mio conosce. Noi, sì come voi sapete, non siamo guari lontani al giorno nel quale il terzo anno si compierà che voi per amore di me seguendomi lasciaste, sì com'io, le case vostre, e in mia compagnia, non uno solo, ma molti pericoli avete corsi, per li quali io ho la vostra costanza e fidele amicizia conosciuta, e conosco perfetta, e sanza fine ve ne sono tenuto. Ma come che l'avversità sieno state molte, prima da Dio e poi da voi la vita e 'l mio disio riconosco: per le quali cose mi si manifesta che se io a ciascuno donassi un regno, quale è quello ond'io la corona attendo, non debitamente vi avrei guiderdonati; ma il sommo Iddio, proveditore di tutte le cose, e degli sconsolati consiglio, ha parati davanti agli occhi miei degni meriti alle vostre virtù, i quali da lui, non da me, se 'l mio consiglio terrete come savi, prenderete, e in etterno sarete felici. E acciò che le parole, le quali io vi dirò, voi non crediate che io da avarizia costretto le muova, infino da ora ogni potenza, ogni onore, ogni ricchezza che io avere deggio nel futuro tempo nel mio regno, nella vostra potenza rimetto, e quello che più vostro piacere è, liberamente ne fate come di vostro: e ciò che io in guiderdone de' ricevuti servigi v'intendo di rendere si è che io annunziatore dell'etterna gloria vi voglio essere, la quale e a voi e a me, se prendere la vogliamo, è apparecchiata, e dirovvi come --. E cominciando dal principio infino alla fine, ciò che Ilario in molte volte gli avea detto avanti che si partisse, quivi a costoro disse, come se per molti anni studiato avesse ciò che dire loro intendea. E mirabile cosa fu che, secondo ch'egli disse poi, nella lingua gli correano le parole meglio che egli prima nell'animo non divisava di dirle; la qual cosa superinfusa grazia di Dio essere conobbe, seguendo dopo queste parole dette: -- Non crediate, signori, che io come giovane vago d'abandonare i nostri errori sia corso a questa fede sanza consiglio e subito: io ci ho molto vegghiato, e molto in me medesimo ciò ch'io vi parlo ho essaminato, e mai contrario pensiero ho trovato alla santa fede. E poi penso più inanzi che dove il mio consiglio non bastasse a discernere la verità, dobbiamo credere che quello di Giustiniano imperadore, il quale, in uno errore con noi insieme, quello lasciando, ricorse alla verità, e in quella dimora, come noi sappiamo, vi fia bastevole. Dunque de' più savi seguendo l'essemplo, niuno può degnamente essere ripreso, o fare meno che bene. Siate adunque solleciti meco insieme alla nostra salute --.



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I giovani baroni, che ad altre cose credeano costui dovere riuscire nel principio del suo parlare, udendo queste cose si maravigliarono molto, e guardando al ben dire di costui, similemente così com'egli, conobbero grazia di Dio nella sua lingua essere entrata; e i nobili animi, i quali mai da quello di Filocolo non erano stati discordi, così come nelle mondane e caduche cose aveano con lui una volontà avuta, similemente di subito con lui entrarono in un volere della santa fede, e ad una voce risposero: -- Alti meriti ne rendi a' lunghi affanni: sia laudato quel glorioso Iddio, che con la sua luce la via della verità t'ha scoperta. Fuggansi le tenebre, e te, essendo duce, seguiamo alla luce vera. I vani iddii e fallaci periscano, e l'onnipotente, vero e infallibile Creatore di tutte le cose, sia amato, onorato, adorato e creduto da noi. Venga il vivo fonte che dalle preterite ordure, nelle quali come ciechi dietro a cieco duca siamo caduti, ci lavi, e facciaci Iddio essere manifesto --.



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Levansi lieti i giovani dal santo parlare, e tra gli altri più che alcuno, Ascalion, però che il suo lungo disio il quale per tiepidezza mai mostrato non avea, vede venire ad effetto. E essendo già tempo più di dormire che di ragionare, Filocolo entrò nella sua camera, e con Biancifiore cominciò le sante parole a ragionare, la quale da Clelia sua zia, santissima donna, di tutte era informata; ma udendole a Filocolo dire, contenta molto gli rispose: -- Quello che tu ora vuoi che io voglia, io ho già più dì disiderato, e dubitava d'aprirti il mio talento: però qualora ti piace, io sono presta, e già mi si fa tardi, che io sopra mi senta la santa acqua versare, e nella salutifera leg ge divenga esperta --. Queste parole udendo Filocolo contento ringraziò Iddio e ne' pensieri della santa fede il più della notte dimorò, con disio attendendo il giorno, acciò che in opera mettesse il suo diviso con la sua sposa e co' compagni.



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Rendé la chiara luce di Febo i raggi suoi confortando le tramortite erbette, e Filocolo di quella vago, levato con Menedon lieto tornò ad Ilario, il quale sopra la porta del santo tempio trovarono: e lui salutato, con esso passarono nel tempio, e con chiara verità ciò che fatto aveano gli narrarono, e come i loro compagni di tal conversione letizia incomparabile aveano avuta e mostrata, per la qual cosa disposti alla predicata credenza erano del tutto. Allora Ilario, lietissimo di tanta grazia, quanta il datore di tutti i beni avea nelle sue parole messa, ringraziò Iddio e disse a Filocolo: -- Dunque niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo lavacro --. A cui Filocolo rispose: -- Sì faremo, ma prima, ove io di voi fidare mi possa, alcuno mio segreto vi vorrei rivelare, acciò che, come all'anima porto avete salutifero consiglio, così similemente provveggiate al corpo --. -- Ciò mi piace -- disse Ilario, -- e con quella fede a me parla ogni cosa che con teco medesimo faresti, sicuro che mai per me niuno il sentirà --. Per che Filocolo così cominciò a dire:



[63]

-- Caro padre, io il quale voi in abito pellegrino così soletto vedete, ancora che a me non stiano bene a porgervi queste parole (ma costretto da necessità le dico), sono di Spagna, e figliuolo unico del re Felice signoreggiante quella; e nelle fini de' nostri regni, sì come alcuni m'hanno detto, uno tempio ha ad uno dei dodici discepoli del Figliuolo di Dio dedicato, al quale i fedeli della santa legge che voi tenete e ch'io tenere credo, hanno divozione grandissima, e sovente il visitano. E avendo a quello uno di questa città nobilissimo singulare fede, il cui nome fu Lelio Africano, con più giovani a visitarlo si mise in cammino, e con lui menò una sua donna, il cui nome era Giulia. Né erano ancora pervenuti a quello, che essendo al mio padre stato dato a vedere che suoi nimici fossero e assalitori del suo regno, passando essi per una profonda valle, da lui e da sua gente furono virilmente assaliti: e per quello che io inteso abbia, egli co' suoi mirabilissima difesa fecero, ma ultimamente tutti, nel mezzo de' cavalieri di mio padre, che di numero in molti doppii loro avanzavano, rimasero morti, tra' quali Lelio similemente fu ucciso. Dopo cui in vita Giulia rimase, e gravida per singulare dono, per la sua inestimabile bellezza fu alla mia madre presentata, la quale da lei graziosamente ricevuta e onorata fu: e di ciò mi sia testimonio Iddio ch'io dico vero. Era similemente la mia madre pregna, e amendune in un giorno, la mia madre me, e Giulia una giovane chiamata Biancifiore partorì, e rendé l'anima a Dio, e sepellita fu onorevolemente in uno nostro tempio secondo il nostro costume. Noi, nati insieme, con grandissima diligenza nutricati fummo, e in molte cose ammaestrati, e sì come io ora credo, volere di Dio fu che l'uno dell'altro s'innamorasse, e tanto ne amammo, che diverse avversità, anzi infinite, n'avvennero. Ma ultimamente il mio padre, credendo lei di vile nazione essere discesa, acciò che io per isposa non la prendessi; né mai avanti la vedessi, come serva la vendé a' mercatanti, e fu portata in Alessandria, e a me dato a vedere ch'era morta. Ma io poi la verità sappiendo, con ingegni e con affanni e con infiniti pericoli seguendola la racquistai, e per mia sposa la mi congiunsi, e lei amo sopra tutte le cose del mondo. E certo io n'ho un piccolo figliuolo, al quale appena che il sesto mese sia compiuto, e è 'l suo nome Lelio; e però che del padre di Biancifiore valore oltre misura intesi, così il chiamai: ella e egli sono qui meco. E dicovi più, che la fortuna n'ha portati ad essere in casa di Quintilio e di Mennilio, fratelli carnali, secondo ch'io ho inteso, di Lelio; ma già non ne conoscono, né Biancifiore di loro conosce alcuno, né sa chi essi sieno, avvegna che con lei sia una romana, la quale con la madre fu presa e che sempre con essa è stata, il cui nome è Glorizia, la quale tutti li conosce, e a lei per mio comandamento il tien celato. Adunque quello per che io queste cose v'ho detto è che, prendendo il santo lavacro, dubito non mi convenga palesare, e palesandomi, costoro la vendetta della morte del loro fratello sopra me non prendano: e d'altra parte, ancora che io sanza palesarmi, potessi il santo lavacro pigliare, sì mi saria la pace di tanti e tali parenti carissima, né sanza essa volentieri mi partirei, se per alcun modo credessi poterla avere. E avvegna che io nella morte del loro fratello niente colpassi e il mio padre disavedutamente ciò facesse, sì mi metterei io ad ogni satisfazione che per me si potesse fare molto volentieri. Certo la vita di Lelio mi saria più che un regno cara: Iddio il sa. Voi, dunque, discreto mostratore della via di Dio, quella del mondo non dovete ignorare, ché chi sa le gran cose, le piccole similemente dee sapere. Udito avete in che il vostro consiglio a me bisogni: dunque, per amore di colui alla cui fede recato m'avete, vi priego che al mio bisogno, utile consiglio porgendo, proveggiate --.



[64]

Ilario ascoltò con maraviglia le parole di Filocolo, e più volte reiterare se le fece, né alcuna particularità fu ch'egli sapere e udire non volesse, e dell'alta condizione di Filocolo, e del basso stato che egli mostrava quivi ebbe ammirazione, e penollo assai a credere, e poi così gli rispose: -- La tua nobiltà mi fa più contento d'averti tratto d'errore, che se tu un particulare uomo fossi; e allora che tu sarai uomo di Dio, come tu se' dell'avversaria parte, io t'onorerò come figliuolo di re si dee onorare. E certo se io noto bene le tue parole, lunga è stata la sofferenza di Dio, che di tanti e tali pericoli t'ha liberato, sostenendo la vita tua. Ma nullo altro merito ti ha tanta grazia impetrata, se non la conversione alla quale ora se' venuto, di che tu, se 'l conosci, molto gli se' tenuto: e veramente di ciò che tu dubiti è da dubitare, ma confortati, ché io spero che colui, che di maggior pericolo t'ha tratto, così similemente di questo ti libererà. E io ci prenderò modo utile e presto, come tu vedrai, però che Quintilio è a me strettissimo amico, né niuna cosa voglio che egli similemente non voglia, per che di leggiere la loro pace avrai. Ma certo tanto ti dico: siati la tua sposa cara, né guardare perché in guisa di serva la sua madre fosse alla tua donata: ella fu del più nobile sangue di questa città creata, sì come de' troiani Iulii, e il padre fratello di costoro, in casa cui tu tacitamente dimori, trasse origine dal magnanimo Scipione, l'opere e la nobiltà del quale risonarono per tutto l'universo. E acciò che tu non creda che io forse meno che 'l vero ti dica, tu il vedrai. Egli è in questa città patrizio Bellisano, figliuolo di Giustiniano imperadore de' romani, il quale alla cattolica fede, come avanti ti dissi, tornò, non sono ancora molti anni assati, dirizzandolvi Agapito sommo pastore; il quale Bellisano è di lei congiuntissimo parente: io il farò a te benivolo, sì come colui che come padre m'ubidisce, e farollo al tuo onore sollicito, insieme con Vigilio qui sommo pontefice e vicario di Dio. Dunque confortati e spera in Dio, che il sole non vedrà l'occaso, che tu conciliato sarai co' fratelli del tuo suocero --.



[65]

Niuno indugio pose Ilario alla sua promissione fornire; ma partito Filocolo, mandò per Quintilio e per Mennilio, i quali a lui insieme con le loro donne venire dovessero. I quali, questo udito, maravigliandosi che ciò esser volesse, prima essi e le loro donne appresso v'andarono, lasciando sola Biancifiore con Glorizia; e venuti a lui nel gran tempio, in una parte di quello così Ilario disse loro: -- Mirabile cosa è a' miei orecchi pervenuta oggi, come udirete. Questa mattina andando io per questo tempio, un giovane di piacevole aspetto assai con un suo compagno, così come io, andavano; il quale io donde egli fosse dimandai. Egli mi rispose: « Spagnuolo sono ». Per che io entrando in ragionamento con lui delle cose di quelli paesi, per avventura mi venne ricordato Lelio vostro fratello, il quale là rendé l'anima a Dio, e dimanda'lo se di lui mai alcuna cosa sentito avea: a che e' mi rispose che, vigorosamente combattendo, dall'avversaria parte non conosciuto fu morto, e che dietro a lui rimase una bellissima donna chiamata Giulia, gravida, la quale una fanciulla, il cui nome egli non sa, partorendo, di questa vita passò nelle reali case del re di Spagna. E in quel giorno similemente la reina del paese, a cui donata era stata, un figliuolo fece. Il quale, secondo che lui mi narra, crescendo, e con la giovane insieme nutrito, di lei molto s'innamorò e ultimamente, oltre a' piaceri del padre, per isposa se l'ha copulata: e dopo la morte di lui, sì come unigenito, la sua fronte ornerà della corona del regno, e ella, reina, insieme con lui viverà. Le quali cose udendo, mi furono care, e volsivele fare sentire, però che quinci possiamo conoscere Iddio i suoi mai non abandonare: ché, s'egli a sé chiamò Lelio, egli vi donò una che 'l numero delle corone della vostra casa aumenterà, di che mi pare che vi deggiate contentare, avendo novellamente una reina per nipote ritrovata, della quale niuna menzione era tra voi. E secondo che il giovane mi dice, il marito di lei assai vi ama, e ciò manifesta un piccolo figliuolo, il quale poco tempo ha che egli nacque di lei, il quale elli per amore del vostro fratello chiamò Lelio. Egli sanza comparazione la vostra conoscenza disidera, e sariali sopra tutte le cose cara la vostra pace, e se avere la credesse, volentieri vi verria a vedere; ma sentendo la vostra potenza, con ragione teme non sopra di lui la morte del vostro fratello, alla quale egli, non nato ancora, niente colpò, voleste vengiare: per che a me parria che a lui sì come innocente si dovesse ogni cosa dimettere e ricevendolo per parente, dargli la vostra pace: e così la vostra cara nipote rivedreste reina --.



[66]

L'antica morte, per le molte lagrime sparte per adietro, non rintenerì i cuori con tanta pietà, che per l'udite parole agli occhi venissero lagrime, anzi riguardando l'un l'altro stettero per ammirazione alquanto muti, né seppero tristizia della ricordata morte mostrare, né letizia della viva nipote; ma poi Quintilio disse: -- Quanto dura e amara ne fu la morte del nostro fratello, tanto ne saria dolce e cara la sua figliuola vedere e tenere come nipote; ma come sanza vendetta si possa sì fatta offesa mettere in oblio non conosco, avvegna che dir possiate il giovane innocente, e i piaceri di Dio convenirsi con pazienza portare: il quale è da credere che così come egli combattendo consentì che morisse, così vivendo, l'avria potuto fare essere vittorioso. Non per tanto ciò che tu ne consiglierai faremo, fidi che altro che nostro onore non sosterresti --. A cui Ilario così rispose: -- Veramente in tutte le cose vorrei l'onore vostro. Io conosco in queste cose che voi potete molto piacere a Dio, e sanza vostra vergogna, la quale, ancora che ci fosse, la dovreste prendere per piacergli, se voi volete, e a voi grandissima gloria e consolazione acquistare. A Dio piacere, ricevendo il giovane in Roma, il quale, tenendo per difetto d'amaestramento contraria legge, a quella di Dio di leggiere tornerà, e similemente la vostra nipote, e per consequente tutto il loro grandissimo reame. Che vergogna non vi sia il pacificamente riceverlo è manifesto: voi state in pensiero di vendicare la morte di Lelio, la quale non vendicata vergogna vi riputate. Or non la vendicò egli avanti che morisse? Egli col suo forte braccio uccise un nipote del nimico re e molti altri, e quando pure vendicata non l'avesse, a Dio si vogliono le vendette lasciare, il quale con diritta stadera rende a ciascuno secondo che ha meritato. Che consolazione e che gloria vi fia vedervi una nipote in casa reina, pensatelo voi! Elli ancora se ne poria aumentare la nostra republica, però ch'egli potrebbe il suo regno al romano imperio sommettere come già fu: per che a me pare, e così vi consiglio, che s'egli la vostra pace vuole, che voi gliela concediate, e qui venendo esso onorevolemente il riceviate --. A questo niuno rispondea; ma Clelia udendo che viva fosse la sua cara nipote, di cui mai alcuna cosa più non aveano udito, accesa di focoso disio di vederla, con assidui prieghi cominciò a pregare Mennilio e Quintilio che la loro pace concedessero al giovane, secondo il consiglio d'Ilario, e facessero in Roma con la cara sposa venire. Per che Mennilio, dopo alquanto, conoscendo la verità che Ilario loro parlava, e vinto da' prieghi della sua donna, disse: -- E come si poria questa cosa trattare, con ciò sia cosa che esso a noi non manderia, perché dubita, e noi a lui non manderemmo, però che contrarii sono alla nostra fede e i mandati offenderiano? --. A cui Ilario: -- Se voi la vostra pace volete rendere al giovane, e promettermi che venuto egli qui come parente il riceverete e avretelo caro, io credo sì fare con la speranza di Dio, che tosto lui e la vostra nipote e 'l piccolo Lelio vi presenterò --. -- E noi faremo ciò che tu divisi --, rispose Mennilio. E andati davanti al santo altare, davanti alla imagine di Colui a cui la morte per la nostra vita fu cara, per la sua passione e resurrezione giurarono in mano d'Ilario che qualora egli la loro nipote e 'l marito e 'l figliuolo di lei loro presentasse davanti, che essi come carissimo parente il riceverebbero e onorerebbero, e più, che ciò che Lelio con Giulia già possedeo li donerebbero. -- Niuna cosa più vi domando -- disse Ilario; -- andate, e quando io vi farò chiamare verrete a me --. Per che costoro da Ilario partiti verso la loro casa tornarono.



[67]

Biancifiore rimasa con Glorizia sola nel gran palagio del suo padre, essendo già in Roma dimorata molti giorni co' suoi zii, sanza conoscerne alcuno, né osante di dire alcuna cosa a' dimandanti, o dimandare, tutta in sé ardeva di disio di conoscere i suoi, i quali Glorizia per adietro le avea detto; per che così a Glorizia cominciò a dire: -- O Glorizia, o donna mia, ove sono i gran parenti, i quali già mi dicesti che io qui troverei? Ove i molti abbracciari? Ove la gran festa della mia venuta? Oimè, io non ho ancora niuno veduto, né tu mostrato me n'hai alcuno. Deh, perché alcuno almeno non me ne mostri? Io dubito che tu non m'abbi gabbata, e datomi ad intendere quello che non è vero, per venire a vedere la tua Roma, ov'io ancora a nessuno ti vidi parlare. Certo io mi pento già d'essere qui venuta per tale conveniente che io non conosca né sia da alcuno conosciuta, ché in verità già per vedere alti palagi o intagliati marmi io non avrei il mio Florio dal suo intendimento svolto --. A cui Glorizia rispose: -- Tanto a te e a me convien sostenere, quanto piacere sarà di Florio, che taciturnità n'ha imposta --. E fra sé di dire come dalla sorella carnale della sua ma dre e da' fratelli del suo padre era onorata, tutta ardea, e similemente di farsi a Clelia conoscere, a cui piccola giovane era stata congiunta compagna, e ora, più d'anni piena, da lei non era riconosciuta, e ancora alcuno de' fratelli le parea aver veduto in compagnia di Mennilio; né d'avere avuto ardire d'abbracciarlo, tutta si consumava. E stando essa e Biancifiore in questi ragionamenti, sopravenne Clelia, da loro lietamente ricevuta, e ruppelo loro, narrando ciò che udito aveano. A' quali ragionamenti Filocolo sopravenne: e se non fosse che a Biancifiore accennò, che già costei le parea riconoscere per zia, quivi erano scoperti. Ma Biancifiore, vedendo Filocolo, chetò alquanto l'ardente disio, sperando che tosto con li loro si rivedrebbono.



[68]

Fece Ilario chiamare a sé Filocolo, e come egli nelle sue mani de' suoi parenti la pace avea giurata gli narrò: della qual cosa Filocolo contentissimo, che fare dovesse il domandò. A cui Ilario disse: -- Giovane, io ho promesso di farti qui di Spagna venire, e però acciò che essi, alquanto la tua venuta tardandosi, più nel disio s'accendano di vederti, va, e con li tuoi compagni per modo convenevole prendi congedo, e fuori di questa città ne va a dimorare in alcuno luogo vicino, nel quale sì cheto stia, che la fama di te non pervenga a' loro orecchi: e quivi tanto aspetta, che io per te mandi. E quando il mio messaggiere vedrai, allora come figliuolo d'alto re che tu se' t'adornerai, acciò che con la tua sposa magnificamente e con la tua famiglia venghi; e sì come tu vedrai, io a' tuoi parenti sicuro ti presenterò --.



[69]

Sanza niuno indugio partitosi Filocolo da Ilario, e tornato all'ostiere, narrò a' suoi compagni che fare doveano, e similemente a Biancifiore e a Glorizia, acciò che malcontente nel piccolo spazio non dimorassero. Per che veduto luogo e tempo, Ascalion disse a Mennilio che partire li convenia: e preso da lui congedo e da Quintilio, e Filocolo e gli altri compagni similemente rendendo degne grazie del ricevuto onore, e Biancifiore e Glorizia da Clelia e da Tiberina ancora s'accomiatarono, con pietose lagrime partendosi. E saliti sopra i buoni cavalli, con tutta la famiglia e 'l piccolo figliuolo, che all'ostiere loro primo era rimaso, fattisi venire li grandi arnesi, cercarono, Alba, antica città da te, o Enea, edificata, alla quale assai tosto pervennero: e quivi stando celati, attesero il messaggio d'Ilario.



[70]

Ilario, che all'impresi fatti era sollecito, avendo con molti altri ragionamenti gli animi di Mennilio e di Quintilio accesi d'ardente disio di vedere Filocolo e la loro nipote e 'l piccolo Lelio, parendogli tempo, per singulare messo a Filocolo nunziò che la futura mattina venisse sanza alcuno indugio. E questo fatto, andato a Vigilio sommo sacerdote, e avvisatolo della venuta del giovane prencipe, e la cagione, con umili prieghi ad obviarlo il commosse con eccellente processione, e dopo lui il vittorioso Bellisano a simile cosa richiese: il quale, udendo chi il giovane fosse, graziosamente il promise. Allora Ilario mandò per Mennilio e per Quintilio, e loro la venuta di Filocolo nunziò, confortandoli che onorevole, mente gli uscissero incontro e graziosamente il ricevessero.



[71]

Venne il grazioso giorno, bello per molte cose e da Biancifiore e da Glorizia sopra tutte le cose disiderato. Filocolo comandò che il grande arnese si caricasse e alla città n'andasse avanti: la qual cosa secondo il suo comandamento fu fatta. E egli, lasciato il pellegrino abito, d'un bellissimo drappo a oro si vestì co' suoi compagni insieme e stette sopra un gran cavallo, bellissimo a riguardare come il sole, nell'aspetto mostrando bene quello che era, da molti sergenti intorniato e da' suoi compagni, sé nobilissimi nella vista ripresentanti, seguito: e dopo loro, e avanti, scudieri e altra famiglia assai bene e onorevolemente adorni cavalcavano. Appresso i quali Biancifiore, vestita d'un verde velluto adorno di risplendente oro e preziosissime pietre, messi con maestrevole mano i biondi capelli in dovuto ordine e sopr'essi un sottilissimo velo, e sopra quello una nobilissima corona portava, cara e per magistero e per pietre grandissimo tesoro, veniva, bellissima tanto quanto ogni comparazione ci saria scarsa. E dall'una parte a piccolo passo cavalcava Ascalion, e dall'altra le veniva il duca: e dopo loro Glorizia magnificamente con molte altre donne, d'Alessandria venute in loro compagnia, e in braccio portava il piccolo garzonetto. Mennilio, che in sollecitudine d'obviare Filocolo dimorava, come vide il giorno, così con Quintilio e con molti altri parenti e amici e compagni e con Ilario onoratamente molto salirono a cavallo, e con istrumenti molti e con gran festa ad obviare Filocolo uscirono, e appresso di loro Clelia e Tiberina in guisa di grandissime principesse ornate: e da' nobili uomini di Roma e da molte donne accompagnate, cavalcando di Roma uscirono, non credendo Clelia poter pervenire a tanto che la sua cara nipote vedesse: la quale ella non conoscendo, né da lei conosciuta, tanti giorni veduta avea. E cavalcando così costoro verso Filocolo, e Filocolo verso loro, non molto lontani a Roma, dalla lungi si videro i cari parenti, per la qual cosa Ilario, a tutti entrato inanzi, come vide Filocolo, smontò del cavallo, e Filocolo, vedendolo dismontato, similemente discese, e Mennilio e Quintilio già discesi s'appressarono ad Ilario. A' quali llario disse: -- Nobili giovani, ecco qui il figliuolo di Felice re di Spagna, e sposo della vostra nipote: onoratelo e pacificamente il ricevete come avete promesso, e come dovete --. E a Filocolo disse: -- Altissimo prencipe, ecco qui i zii della tua sposa: come degni li conosci, così li onora --. E posta la destra di Filocolo nelle destre di Quintilio e di Mennilio, tacque, e le trombe e gli altri strumenti infiniti riempierono l'aere di lieto suono. Essi allora s'abbracciarono e baciaronsi in bocca, e fecersi maravigliosa festa, ben che alquanto Mennilio e Quintilio stupefatti fossero, ricordandosi che poco avanti loro oste era stato, e non l'aveano conosciuto. E non essendo ancora a cavallo rimontati, Biancifiore sopravenne, la quale veggendo il suo signore a piè, dismontò di presente, e Ilario, presala per la mano, e di braccio a Glorizia recato in braccio a sé il piccolo Lelio, nel cospetto di coloro la menò ove Clelia e Tiberina con l'altre donne già giunte e dismontate onoravano Filocolo, e disse: -- Signori e donne, ecco qui Biancifiore vostra nipote e 'l piccolo Lelio suo figliuolo --. A questa voce furono mille grazie rendute a Dio, e Mennilio e Quintilio con tenero amore abbracciarono la loro nipote, sopra tutte le cose del mondo maravigliandosi della sua bellezza. E Clelia, che mai vedere non la credea, l'abbracciò mille volte e baciandola, di tenerezza lagrimando, tutto il bel viso le bagnò, e 'l simile fece Tiberina, e molte altre donne a lei congiuntissime parenti, dolendosi del tempo che con loro non conosciuta da esse era stata. Poi Clelia, preso in braccio il grazioso garzonetto, con maravigliosa festa mirandolo, ringraziava Iddio dicendo: -- O dolce signore Iddio, omai consolata viverò ne' tuoi servigi, poi che Lelio e Giulia renduti m'hai --. La festa fu grande: e chi la poria intera narrare? Chi pellegrinando alcuna volta per lungo tempo andò, tornando alla casa, quale essa fu il può pensare. La quale faccendosi, essi rirnontarono a cavallo; e Filocolo dall'una parte e 'l duca dall'altra accompagnando Clelia cavalcarono; Tiberina in mezzo di Menedon e di Messaallino veniva; Mennilio e Quintilio, che della bellezza della loro nipote non si poteano ricredere, accompagnavano Biancifiore, e Parmenione e Ascalion Glorizia, che il piccolo Lelio portava, tanto contenta, quanto mai fosse stata, da Clelia sanza fine onorata e riconosciuta: e l'altre nobili donne da nobili uomini accompagnate, delle grandissime bellezze di Biancifiore e della magnificenza di Filocolo ragionando, cavalcarono infino all'entrata della nobile città. Quivi Vigilio, sommo pastore, già venuto trovarono, al freno del cui cavallo videro Bellisano e Tiberio nobilissimo romano: il quale come Filocolo di lontano vide, così lasciate le donne, da cavallo dismontò, e, inginocchiandosi, gli fece debita riverenza, e poi umilemente a baciargli il piè li corse. Poi volto a Bellisano, il quale egli ben conoscea, inchinandosi molto, l'abbracciò, e poi dirizzandosi si baciarono e fecersi graziosa festa, e Tiberio fece il simigliante: e Biancifiore similmente da cavallo discesa, e trattasi la ricca corona, di lontano dovuta reverenzia fece al santo padre. Al freno del quale, rinunziandolo Vigilio, Filocolo con Bellisano volle essere, riputando sconvenevole cosa che il figliuolo di tanto imperadore andasse a piè e egli a cavallo, e, concedendogliele Tiberio, vi fu: e così infino al santo tempio, ove la predicazione della santa fede udita avea da Ilario, andarono, al quale tutta Roma era corsa per vederlo e Biancifiore similemente. Quivi pervenuti, ogni uomo dismontò da cavallo e entrò nel santo tempio, ove onorevolemente da Ilario era stata aprestata la santa fonte con l'acqua per battezzarli, nella quale prima che altro si facesse, Filoco lo e il piccolo Lelio e tutti i suoi compagni, nel cospetto di tutti i romani, da Vigilio ricevettero, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, battesimo, confessando la santa credenza e rinunziando la iniqua. Nella qual fonte Filocolo il suo appositivo nome, cioè Filocolo, lasciò, e Florio, suo naturale, riprese. Biancifiore similemente con le sue donne in più segreta parte simile lavacro con divoto cuore ricevettero. E rivestiti tutti, con la benedizione del santo padre si partirono; e accompagnati da Bellisano e da Tiberio e dagli altri romani prencipi, con grandissimo onore e festa, a' grandi palagi di Mennilio pervennero.



[72]

Quivi pervenuti e saliti alle gran sale, si rincominciano le mirabili carezze e feste. E Mennilio con gli altri, parlando con Ascalion escono di dubbio udendo la cagione per che altra volta a loro si tenessero celati: e rimasi contenti, niuno ad altra cosa che a festeggiare intende. Florio, delle avvenute cose oltre contento, quivi la sua magnanimità comincia a mostrare, e i gran tesori lungamente guardati dona e dispende, pure che i prenditori sieno. Niuno gli va davanti, che sanza dono si parta, e 'l simigliante il duca e gli altri fanno: e quasi niuno è in Roma che per ricevuto dono o molto o poco non sia loro tenuto. Ampliasi la loro fama, e come dii vi sono riveriti. Niuno v'è che non s'ingegni di piacere loro e di servirgli: e questo aggrada molto a Mennilio e a Quintilio, e lieti vivono di tale parente, e con gli altri faccendo festa, quella lungamente fanno durare.



[73]

Glorizia, onorata molto da Clelia, dalla quale veramente fu riconosciuta, di rivedere il padre e la madre e' suoi sollicita, con licenza di Biancifiore, accompagnata da molti, ricerca i suoi palagi, ove due fratelli solamente avanti nati di lei lasciò nel suo partire, e ora piena di molti la ritruova. Ella due sorelle già grandi, e con figliuoli, e tre fratelli più che gli usati vi vede, e, non conosciuta, non è chi le parli. Il padre vecchissimo giace, e appena vede alcuna cosa. Sempronio di lei maggior fratello, il quale ella bene riconosce, ma egli lei no, però che nell'aspetto nobile donna gli pare, e vedela di bellissimi vestimenti ornata e accompagnata da molti valletti, l'onora e dicele: -- Gentil donna, cui adomandate voi? --. A cui Glorizia: -- O caro fratello Sempronio, or non mi conosci tu? Non vedi tu che io sono la tua Glorizia, la quale sì piccola da voi mi partii seguendo Giulia e Lelio al lontano tempio? Che? Voi ora non mi riconoscete? Certo io riconosco ben voi --. A cui Sempronio: -- Gentil donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice: e non è atto di nobile donna andare gli antichi dolori delle morte persone per modo di beffe ritornando a memoria. Noi vi siamo, quando vi piaccia, e fratelli e servidori, e la nostra casa è a' vostri piaceri apparecchiata, ma cessi che sotto colore di Glorizia noi qua entro ricevere vi vogliamo, però che già Apollo è oltre a venti volte tornato alla sua casa, poi che Glorizia mutò vita, sì come noi ben sappiamo, che la piangemmo molto come cara sorella, e questo ancora a tutta Roma è manifesto; e sappiamo ancora Domeneddio ora non essere in terra sceso a risuscitar lei. Voi siete errata: guardate che caso non vi faccia meno che bene parlare --. Allora Glorizia, tutta nel viso cambiata per le due sorelle di lei e per li tre fratelli nati dopo la sua partita, i quali ella non conoscea, e per gli altri circunstanti, dopo un gran sospiro disse: -- Oimè, fratello, or come mi parli tu? Sono io femina cui in alcuno atto la gola leda? Certo per singulare grazia da Dio questo conosco, che tra l'altre io sono una delle più modeste. Oimè, che io perché io le mie case ricerco, m'è detto che io meno che bene parlo! E più, che m'è detto che io, che mai non morii, già è gran tempo fui morta, pianta e sepellita. Deh, Iddio!, come può egli essere che Clelia, a cui io niente per consanguinità attengo, m'abbia riconosciuta, e i miei fratelli non mi conoscono, ma mi scacciano? --. Ma poi, lasciando del dolersi i sembianti, passò più avanti dicendo: -- Io sono Glorizia, e vivo, né mai morii. Onoratemi nella mia casa come è degno. Mostratemi Lavinio mio padre e Vetruria mia madre, e fate venire Scurzio mio promesso marito, il quale io giovane qui con voi e con Afranio mio fratello lasciai --. Sempronio, udendo questo, più s'incominciò a maravigliare, e più fiso mirandola, quasi già la veniva raffigurando; ma la memoria del falso corpo, per adietro da lui sepellito, non gli lasciava credere ciò che vera imaginazione gli raportava. Il vecchio padre udì la questionante figliuola, e la voce, non udita di gran tempo, riconobbe, e già quasi gli fu manifesto essere per adietro stato ingannato; e chiamato a sé Sempronio, gli comandò che dentro a lui menasse la donna, la quale prima alla sua poca vista non fu palese, che egli, come potea, grave, la corse ad abbracciare, dicendo: -- Veramente tu se' Glorizia mia cara figliuola --. E narratole come morta pianta l'aveano, sanza fine la fecero maravigliare, e poi dolere della trapassata madre e rallegrare della multiplicata prole, a' quali faccendola nota con intera chiarezza, con festa a Scurzio suo marito, il quale lei credendo morta un'altra n'avea menata, che poco tempo era passato che similemente morta s'era, la rendeo, con cui ella felicemente poi lungamente visse.



[74]

Ricevuta Glorizia, e riso molto di questo accidente da Biancifiore e da Clelia alle quali poi essa lo narrò, e durante ancora la festa grande di Florio, Ascalion, già molto pieno d'anni, infermò, e dopo lunga infermità, in buona disposizione rendé l'anima a Dio. Il cui passare di questa vita sanza comparazione a Florio dolfe, ma fattolo di nobilissimi vestimenti vestire e a guisa di nobile cavaliere adornare sopra un ricchissimo letto, vergognandosi di spandere lagrime nella presenza de' circunstanti, quindi comandò ogni persona partire, e rimaso solo, con amarissimo pianto bagnando il morto viso, così cominciò a dire:



[75]

-- O singulare amico a me intra molti, a cui le mie avversità sempre furono tue, dove se' tu? Quali regioni, o Ascalion, cerca testé la tua santa anima? Certo io credo le celestiali, però che la tua virtù le meritò. O caro amico, quanto amara cosa da me t'ha diviso! Ove a te il ritroverò io simile? Chi, se la contraria fortuna tornasse, di vivere mitissimamente mi daria consiglio, come tu facesti più volte, essendo amore di morte nel mio misero petto? Chi alle mie gravi avversità aiutarmi sostenere gli avversari fati sottentrerebbe, come tu sottentravi? Oimè, che queste cose sempre mi saranno fitte nell'intime medolle, e prima il mio spirito le sottili aure cercherà, ch'elle passino della mia memoria. Alcuni vogliono lodare per amicizia grandissima quella di Filade e d'Oreste, altri quella di Teseo e di Peritoo mirabilemente vantano, e molti quella d'Achille e di Patrocolo mostrano maggiore che altra; e Maro, sommo poeta, quella di Niso e di Eurialo cantando sopra l'altre pone, e tali sono che recitano quella di Damone e di Fizia avere tutte l'altre passate: ma niuno di quelli che questo dicono la nostra ha conosciuta. Certo niuna a quella che tu verso di me hai portata si può appareggiare. Se Filade Oreste furioso lungamente guardò, egli però te non passò di fermezza. E chi fu alla mia lunga follia continua guardia se non tu? E quale più dirittamente si può dire folle, o fa maggiori follie, che colui che oltre al ragionevole dovere soggiace ad amore sì come io feci? Se Peritoo ardì di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé più maraviglia che odio mettendo nel doloroso iddio, gran cosa fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patrocolo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu più robustamente operasti, faccendo sì con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d'amore verso lui mostrando, e tu similemente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morire meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l'udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fossi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistà, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto più l'avversità m'infestava, tanto più a' miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta, e molte cose al mio petto fidatamente davi a tenere coperte, e tu similemente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che tu, dolce amico, non eri di quelli che così vanno con l'amico, come l'ombra con colui cui il sole fiere, tra' quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu così nell'un tempo come nell'altro, sempre fosti equale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontà dalla mia non partisti, ove pari a te il ritroverò? O discreto mae stro, e a me più che padre, i cui ammaestramenti seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so chi mi fia fido duca negli ignoti passi. A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterà al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s'egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanto amara mi pare la tua partenza! Or fosse piacere di Dio che la morte teco m'avesse tratto! Io ne venia contento sì come colui che della sua Biancifiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con così fatto compagno, partendomi di questa vita, non crederia potere esser passato se non a più felice. Ora io credo che tu in lieta vita dimori, e Iddio nel mondo grazia mirabile ti concedeo, faccendoti tanti anni vivere che alla vera conoscenza tornassi: per che da sperare è che nel secolo ove tu dimori da lui similemente abbi ricevuta grazia, la quale se così hai com'io credo, ti priego che per me dinanzi al tuo e al mio Fattore impetri grazia, che mi lasci, mentre io vivo, nel suo servigio divotamente vivere, e quando a passare di questa vita vengo, costà su mi chiami, ov'io spero che grazioso luogo mi serberai, acciò che, com'io qua giù nella mortale vita sempre fui caro teco, così nella etterna carissimo teco dimori --.



[76]

Queste parole dette, Florio, asciutti i lagrimosi occhi, uscì della camera ove stava, e con onore grandissimo in Laterano fece sepellire il morto corpo, il quale Biancifiore, sanza prendere alcuna consolazione, più giorni pianse, dicendo sé mai altro padre di lui non avere conosciuto, e il simigliante Glorizia, la quale molto l'amava; il duca Ferramonte ancora, e Messaallino e Parme nione e gli altri, non era chi potesse riconfortare. E certo Mennilio e Quintilio e le loro donne, di ciò dolenti, assai il fecero molto onorare alla sepoltura.



[77]

Essendo la gran festa della tornata di Florio e di Biancifiore lungamente durata, e venuta a fine, e le lagrime cessate del trapassato Ascalion, a Florio si raccese il disio di rivedere il padre. Per che egli a Mennilio e al fratello e alle donne cercò licenza di poterlo andare a vedere, e similemente la madre e il suo regno: la quale benignamente gli fu conceduta, ben che più caro fosse stata a' conceditori la loro dimoranza. Ma prima che essi si partissero, di grazia fece loro Vigilio mostrare la santa effigie di Cristo, recata di lerusalern a Vespasiano. E dopo quella, la quale Florio con divozione riguardò, la inconsutile tunica fu loro mostrata; e quella testa appresso, che fu, per servare il giuramento d'Erode, merito della saltatrice giovane. E poi videro quella del Prencipe degli apostoli, insieme con quella del gran Vaso di elezione: né niuna altra notabile reliquia in Roma fu che essi non vedessero. Le quali vedute, Florio di grazia impetrò dal sommo pontefice che Ilario con lui dovesse andare, acciò che nelle cose da lui ignorate fosse da Ilario chiarificato, e insegnateli, e appresso perché egli quello che a lui avea predicato, predicasse al vecchio padre e a molti popoli del suo regno, e a quelli che si convertissono desse battesimo. E concedutogli da Vigilio, prese comiato e con la sua benedizione si partì; nella cui partenza, Bellisano con molti altri romani nobili uomini andarono infino fuori della città, e similemente Clelia e Tiberina con Biancifiore. Ma Florio, ringraziando Bellisano e gli altri nobili e accomiatatosi da loro, si partì, cavalcando con Mennilio e con Ilario, i quali seco menava avanti, e Biancifiore appresso con pietose lagrime promettendo di ritornare tosto, lasciò Quintilio, suo zio, e Clelia e Tiberina, seguendo Florio suo marito.



[78]

Cavalcati adunque costoro verso Marmorina più giorni, e a quella già forse per una dieta vicini, piacque a Florio di significare al padre la sua felice tornata per convenevoli ambasciadori, la quale esso attendeva e sopra tutte le cose disiderava, avendo da' marinari de' tornati legni interamente saputa la sua fortuna, della quale saria stato contento, se la nobiltà di Biancifiore avesse saputa, ma per quello dolente vivea, ben che con disiderio attendesse il figliuolo: e ancora, con tutto che Florio suscetta avesse di lei graziosa prole, gli andavano per lo iniquo cuore pensieri dì nuocerle. Andarono adunque i mandati al vecchio re, e lui d'età pieno trovarono salito sopra un'alta torre del suo real palagio; e sopra quella stando, rimirava i circunstanti paesi, acciò che di lontano potesse conoscere la venuta del suo figliuolo. A cui i mandati ambasciadori lietamente di quello la venuta nunziarono, aggiungendo, come loro fu imposto, che con ciò fosse cosa che egli la verace credenza battezzandosi avesse presa, che similemente a lui dovesse piacere di pigliarla nel suo venire, se non, che mai nella sua presenza non tornerebbe. Le quali cose udendo il re, prima della sua venuta allegrissimo, come l'altre cose ascoltò, così divenne turbato, e con grandissimo romore alzando la grave testa disse: -- O misera la vita mia, perché figliuolo mai d'avere disiderai niuno? Avanti che io l'avessi, chi fu più di me felice, ben che io il contrario mi reputassi, tenendo che alla mia felicità niuna cosa se non figliuoli mancasse, e sanza quelli nulla fossi? E, avutolo, che felicità si fosse mai non conobbi! Oimè, ora non mi fosse mai nato, che certo ancora col mio nome durerebbe l'effetto. Io, misero, nella sua natività mi pote' uno IN aggiungere al santo nome, acciò che in misero l'avessi mutato, come la fortuna mutò le cose. Io mi credetti avere bastone alla mia vecchiezza, e io gravissimo peso mi v'ho trovato aggiunto. Questi dalla sua puerizia cominciò quella cosa a fare, per la quale io dovea vivere dolente, e essendo infino a qui tristo, di lui e della sua pellegrinazione sempre temendo, vivuto, credendo per la sua tornata alquanto menomare la mia doglia, l'ho accresciuta, e egli l'accresce continuo. Sia maladetta l'ora ch'egli nacque, e che io prima d'averlo disiderai! Egli a me s'ha lungamente tolto, e ora in etterno a' nostri iddii s'ha furato, e me similemente vuole loro torre; ma e' non sarà così, né mai farò cosa che gli piaccia e cessino gl'iddii che io di farla abbia in pensiero. Dunque ha egli i nostri veri iddii, da' quali egli ha tanti beni ricevuti, abandonati per altra legge, e ha creduto a' sottrattori cristiani, de' quali maggiori nimici non ci conosce? Ora ha egli messo in oblio la santa Venere, la quale, secondo ch'io udii, gli porse celestiale arme a difendere l'amata Biancifiore contra mio volere? Ha egli dimenticato Marte, il quale non isdegnò abandonare i suoi regni per venirlo ad aiutare nell'aspra battaglia campale, ov'egli, se l'aiuto di quello non fosse stato, saria rimaso morto? Ha egli dimenticati gl'iddii, da cui prima risponso ebbe della perduta Biancifiore, o quelli che lui nello acceso fuoco difesero? Ora sia la loro potenza maladetta, poi che da lui tanto sostengono. A loro avviene, e a me similemente, come a colui che nel suo grembo con diligenza il serpente nutrica: egli è il primo morso dal velenoso dente. Quando riceverà egli mai dal nuovo Iddio tante grazie, quante da quelli, ch'egli ha abandonati, ha ricevute? Certo non mai. Io non credo che egli fosse mio figliuolo; ma più tosto delle dure quercie e delle fredde pietre fu generato, e dalle crudeli tigre bevve il latte. Mai niuna mia afflizione il fé pietoso, ma sempre quelle cose che egli ha sentito che noiose mi siano, quelle ha operate: e però guardisi mai a me inanzi non apparisca; niuno nimico di me potrà aver maggiore. Egli, continua tristizia dell'anima mia, so che quella, divisa dal corpo, trista manderà agl'infernali iddii: quelli iddii, i quali elli ha per nuova credenza abandonati, me ne facciano ancora vedendolo turpissimamente morire essere contento! --.



[79]

Tacque il re, e costoro la fiera risposta udita, gli si levarono davanti, né a rispondere poterono tornare a Florio, per la sopravenuta notte. Ma la reina, la quale non picciola cura stringea di sapere del figliuolo novelle, vedendo costoro partiti dal turbato re, a sé chiamare li fece, e da loro particularmente dello stato del figliuolo s'informa, e dell'essere di Biancifiore: delle quali cose di tutte saria stata contenta, se la nuova ira del padre non fosse stata per la nuova legge dal figliuolo novellamente presa. Ella, udendo che per quella sì aspramente il padre da sé l'accomiata, e lui d'altra parte fermo di non venire davanti a lui, se la presa legge non prende, vorria morire. Ma dopo lungo pensiero, con dolci parole priega gli ambasciadori che l'adirata risponsione del padre non portino al suo figliuolo; ma mitigandola sì gli dicano che egli nella sua presenza venga, però che il re prima nol vedrà che egli si muterà d'animo, e il debito amore che tra loro dee essere sanza niuna sconcia parola o altro mezzo gli concederà. -- Certo qualora il vecchio re -- dicea la reina -- vedrà la chiara giovanezza del figliuolo, egli lieto in se medesimo disidererà di piacergli, né niuna cosa sarà che egli a lui domandi, che esso non disideri di adempierla. Dunque venga, che molte cose a' principali si concedono, le quali l'uomo non si vergogna di disdire a' medianti --. Con molte altre parole ancora la reina conforta i messaggi che il figliuolo a venire dispongano, disposta, se egli non viene, d'andare lui a vedere ove ch'e' sia.



[80]

Era già della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partì, e essi molto onorati, sì come ella avea comandato, andarono a dormire. Il vecchio re, a cui il riposo più ch'altro porgea nutrimento alla debole vita, andato di grande spazio avanti a riposarsi, e rivolgendosi sopra i niquitosi pensieri, in quelli s'adormentò, e più fiso dormendo, sentì nella sua camera uno strepito grandissimo, simile a quello che suol fare squarciata nube: per che egli pieno di paura riscotendosi si svegliò, e la camera sua piena di mirabile splendore vide. E non sappiendo che ciò si fosse, prima ruina avendo temuta, e ora temendo fuoco, pavido cominciò a dire: -- Or che è questo? --. Ma poi che fuoco non essere il conobbe, con aguto viso cominciò a riguardare per la luce, nella quale, o perché ella fosse molta o perché la vista del re fosse poca, niuna cosa dentro vi discernea; ma bene udì alle sue parole rispondere: -- Io sono colui che tutto posso, e a cui niuno pari si truova, e in cui il tuo figliuolo con la sua sposa e co' suoi compagni credono novellamente, a' cui piaceri se tu benignamente non acconsenti, io il farò in tua presenza, o vuogli tu o no, regnare tanto che de' suoi giorni il termine fia compiuto, il quale niuno può passare: e te farò viver tanto, che tu la sua morte vedrai. Appresso la quale, la ribellione de' tuoi baroni ti fia manifesta, i quali davanti agli occhi tuoi, contradicendolo tu, a poco a poco il tuo regno ti leveranno: e quello perduto, in tanta miseria verrai, che il morire di grazia mille volte il giorno domanderai, né ti sarà dato, prima che le mani t'abbia per rabbia rose; e dopo, questo vituperevolemente morrai, e abominevole a tutto il mondo --. E questo detto, a un'ora tacque la voce e sparve lo splendore. Per che il re desto e pauroso, in sé molte volte ripeté l'udite parole dicendo: -- Or chi potrebbe esser costui che tutto puote, che sì aspramente ne minaccia? Certo la sua venuta venuta di Dio risembra, e similemente il partire! Dunque è da temere, e da fare i piaceri suoi, anzi che incorrere nella sua ira: ma come gli farò, ch'io nol potei vedere né nol conosco? --. E in questi pensieri stando, sanza punto più la notte dormire che dormito infino allora avesse, venne il giorno, e egli si levò. E sappiendo che gli ambasciadori di Florio non erano partiti, a sé gli fece chiamare, e umilemente li pregò che di ciò che detto avea la passata sera niente al figliuolo narrassero, però che egli, spaventato con minacce la notte dal novello Iddio, avea mutato proposito, e però gli dicessero ch'egli venisse, e troverialo ad ogni suo piacere disposto.



[81]

Allora si partirono costoro, e in brieve tornati a Florio, ciò che fu loro imposto renderono: di che Florio contento, come di Marmorina per dolore uscito era vestito di violato, così in quella propose di rientrare vestito di bianco in segno di letizia e di purità, e così sé e' suoi fé vestire. E montato a cavallo, con tutti verso Marmorina cavalcarono, a' quali i nobili uomini di Marmorina a cavallo menando grandissima gioia e con strumenti infiniti uscirono incontro; né fu alcuna ruga in Marmorina che di nobili drappi non fosse ornata, per le quali le donne e i garzoni faccendo festa, attesero il loro signore, ciascuna con la più bella roba fattasi bella. Con la quale così grande allegrezza Florio entrò in Marmorina sotto onorevole palio, e Biancifiore similemente dopo lui. E pervenuti al real palagio, ricevuti furono con mirabile allegrezza dal vecchio padre e dalla pietosa madre, e con loro insieme tra gli altri fu molto onorato Mennilio: e' compagni di Florio prima dal re e dalla reina lietamente veduti, poi da' suoi stretti amici e parenti con maggiore letizia furono ricevuti. Né niuna cosa è che non sia lieta in tutto il paese: solamente i grandi parenti del trapassato Ascalion piangono la morte del valoroso uomo, la quale già in brieve non si mise in oblio.



[82]

Mentre la gran festa dura, e Biancifiore è dal re e dalla reina come figliuola onorata, da loro saputo che d'imperiale stirpe discesa sia, domandatole delle passate offese perdono, alle quali etterno silenzio ella comandò e pregò che fosse, più giorni trapassano. Dopo i quali, già alquanto riposandosi il festeggiare, Florio domanda che il re e la reina si dispongano a prendere la santa fede, sì come promesso aveano, e appresso loro tutto il marmorino popolo e l'altro rimanente del regno: al cui piacere il re si dispose in tutto. E fatto in una gran piazza ragunare la molta gente della città, tacitamente la predicazione di Ilario ascoltarono, dopo la quale il re prima e la reina appresso e tutta l'altra gente, uomini e femine, piccoli e grandi, presero da Ilario il santo lavacro. La qual cosa fatta, Florio per tutto il regno mandò legati a seminare la santa semenza, e per tutto mandò comandando che chi la sua grazia disiderasse, prendesse il battesimo, e abbattessero i fallaci idoli a reverenza fatti de' falsi iddii: e de' templi fatti a loro facessero templi al vero Iddio dedicati, e lui adorassero e temessero e amassero. Il cui comandamento non dopo molto tempo per tutto fu messo ad essecuzione.



[83]

Faccendosi della venuta di Florio la gran festa, Sara, a cui notificato fu, acciò che il suo voto adempiesse, una corona di grandissima valuta, venendo alla corte del suo signore, recò, e quella presentò a Biancifiore, la quale, di tanto dono ringraziandolo, benignamente la prese. E Messaallino, che il suo vanto non avea messo in oblio, i cari piantoni fece venire, e con lieto viso glieli presentò, a cui ella, ringraziandolo, disse mai ad albero sì fatte radici non avere vedute: -- ricca è la terra che le produce --. E in questa maniera la festa grande e notabile, ricominciata per lo preso lavacro, dura lungamente. E i paesani, che vedovi credeano rimanere di signore, ora riconfortati, lieti il riveggono.



[84]

Quanta l'allegrezza di Florio fosse, dire non si poria. Egli si vede la disiderata Biancifiore sposa, e di nobile stirpe, a lui ignota nel principio dello innamoramento, discesa, e di lei un bellissimo figliuolo. Egli si vede, dopo molti pericoli, da tutti campato, nel suo regno salvo tornato. Egli si vede il vecchio padre e la cara madre, i quali egli appena credea ritrovare vivi. Egli si vede il molto popolo, e da tutti essere amato: e quello che sopra tutte queste cose gli è grazioso è che della setta de' fedeli a Dio è divenuto, e con lui tutti i suoi seguaci. Nella quale letizia di tutte queste cose dimorando, chiamò a sé i cari compagni con lui stati nel lungo pellegrinaggio, de' quali alcuno ancora alla sua casa non era tornato, e disse loro: -- Signori e cari amici, finito è il lungo cammino, il quale noi più anni è cominciammo: e, lodato sia Iddio!, non invano avemo camminato. Ma ben che io la disiderata cosa abbia acquistata, la vostra fatica, e la paura e l'affanno de' corsi pericoli, non è stata meno, ne' quali mai da voi non mi vidi diviso, ma solleciti sempre per levare me de' mali voi volonterosi conobbi a sottentrarvi; le quali cose in me più volte pensate, con ragione mi vi conosco obligato. E però io qui giovane, e ancora sotto paterna potestate obligato, più lontano ch'io possa profferire non vi posso, ma a quello che per me si puote, tutto sono vostro, disposto a niuno pericolo né affanno rifiutare per voi già mai. E dopo questo, se mai avviene che la mia fronte sostenga corona, io sia chiamato re e voi governate e possedete il reame, del quale se il nome come l'utilità si può comunicare in molti, molto più sono contento che di quello ancora così com'io godiate: e dove tutto questo a satisfazione di tanto servigio non bastasse, che so che non basta, Iddio per me vi meriti il rimanente. Siavi adunque licito omai a vostro piacere rivedere le vostre case, e fare lieti i padri e le madri e gli stretti amici e parenti, i quali voi, già è tanto tempo, sanza pigliar congedo per accompagnarmi abandonaste. Né sia però dalla mia anima la vostra lontana, perché lontanandovi partiamo i corpi, ma così congiunte, come per adietro state sono, le tenete sempre, tornando a rivedermi quando riveduti i vostri avrete: e riposatevi tanto che sieno contenti --.



[85]

La grande liberalità di Florio e il suo dolce parlare gli animi prese de' valorosi giovani, e a' suoi servigi disposti legò con più forte catena. Elli quasi a tanta proferta non sapeano che rispondere, che a quella loro paresse degno ringraziare, ma dopo alquanto spazio, ciascuno per sé e tutti insieme dissero: -- Florio, assai ci è caro, e di maggior servigio il terremo guiderdone, che Iddio sì liberale giovane ci ha dato per signore; per che della gran pro ferta, l'attenere della quale crediamo che saria molto, maggiormente ti siamo tenuti: Iddio il tuo regno e i tuoi beni aumenti sempre, e la grandezza della corona, che sarà tua, con gloriosa fama prolunghi fino al gran giorno. Sempre siamo tuoi, e se 'l proferire altrui le sue cose non fosse arroganza, ci profferremmo; poi che a te quello che a noi medesimi aggrada, cioè che noi le nostre case riveggiamo, con la già conceduta licenza ci partiremo --. E queste parole dette, pietà entrò ne' fedeli petti: e abbracciandolo ciascuno, e da Biancifiore e dal re e dalla reina prendendo congedo, lagrimando si partirono, in sei parti dividendo la lunga e unica compagnia, tornando ognuno alle sue case.



[86]

Stette Florio quanto il lagrimoso verno durò col suo padre e con la sua madre. E negli oziosi tempi narra loro i nuovi e perversi accidenti avvenutigli dopo la sua partita. Egli prima all'altre cose dice l'avversità avuta della sua nave negli ondosi mari e mostra loro come quella, da più contrarii venti combattuta, ad alcun porto dirizzare non potea la sua prora; poi come dalle rotte onde del mare, ora d'una parte ora d'altra percossa, e talora da quelle coperta, più volte perduta, e loro con lei si riputarono, e come essendo loro dal vento la vela e l'albero tolto, e dal mare i timoni, e il cielo minacciando crudelissime tempeste, spesso aprendosi con grandissimi tuoni, quella per perduta già vinti abandonarono: e giacendo sanza potersi atare si concederono alla fortuna, la quale poi in Partenope con la già rotta nave li trasportò. -- Quivi -- disse Florio -- ci ritenne contrario vento, tanto che cinque volte tonda e altretante cornuta si mostrò per tutto il mondo Febeia --. Poi per molti mezzi mostrò come in Alessandria venisse, e quello che quivi facesse, e quanto vi stesse: e con una verghetta che in mano tenea, disegna loro l'alta torre da Sadoc guardata, e le sue bellezze conta, come colui che vedute l'avea. Poi con quella verga più spazio pigliando, qual fosse e quanto il verde prato dimostra, e dove l'amiraglio sedesse, quando fra le rose nella cesta gli fu presentato avanti: e dice quanta la sua paura fosse sentendosi tirare i biondi capelli. Poi disegna da che parte della torre fosse su tirato, e come nella bella camera di Biancifiore fosse messo, e quello che egli facesse, e che dicesse, e come stesse, tutto narra. Poi il principio della stata presura ignorando, come egli collato giù della torre fosse con Biancifiore ignudi dice, e mostra con la verga in che parte del prato fosse il fuoco acceso intorno a loro due, e quando a loro l'oscuro nuvolo discese, e dove la battaglia di Ascalion e de' suoi compagni con gli avversarii fosse fatta per lo suo scampo; e conta come poi levato del pericolo, dall'amiraglio riconosciuto fu onorato. Dice ancora della sua tornata, e del trovato Fileno, e della posta terra; e similemente come in Roma entrasse, e dove prima arrivasse, e come poi uscitone, e ritornandovi, fu onorato. Le quali cose il padre e la madre udendo, subitamente paurosi divennero, e quasi a' partiti che disegnava, il pare loro vedere. Poi lieti tornando de' ricevuti onori, dimenticano la paura e lodano Iddio che loro, non per loro merito, ma per sua benignità renduto l'ha sano e salvo.



[87]

Poi che la dolente stagione fu passata, e la dolcissima primavera recata da Febo avendo già di nuove e belle erbette e fiori rivestita la terra e gli alberi, a Florio venne in disio di visitare il santo tempio, al quale Lelio non era potuto pervenire con la sua Giulia, e a ciò si dispose, e con Mennilio e con Ilario entrò al disiato cammino, e con loro Biancifiore. E 'l vecchio re, che lungo tempo in Marmorina dimorato era, volonteroso d'andare a Corduba, egli e la reina insieme con Florio infino a quella andarono, e quivi essi rimasero, con loro ritenendo il piccolo Lelio; e Florio e' suoi cavalcarono avanti al loro viaggio.



[88]

Camminando costoro per alcuna giornata, partiti da Corduba lieti, e ragionando delle bene avvenute cose per adietro, essi pervennero a' piè d'uno altissimo monte, in una profonda valle, la quale tutta d'ossa bianchissime biancheggiava; di che Florio molto si maravigliò e Mennilio; e chiamarono a sé un vecchio scudiere, non sappiendo pensare essi che ciò si fosse, e dimandaronlo se mai udito avesse per che quel luogo d'ossa sì pieno si mostrasse. A' quali il vecchio scudiere rispose: -- Io molte volte ho udito il perché, e certo ancora mi ricorda ch'io il vidi --. -- E quale è la cagione? --, disse Florio. A cui lo scudiere, però che Mennilio vedeva e Biancifiore, non rispose, ma stette alquanto, e poi disse: -- Signor mio, camminiamo avanti, e alla vostra tornata io vel dirò --. -- In verità noi non ci partiremo -- disse Florio -- che tu nel dirai --. -- E se col mio dire -- disse lo scudiere -- io vi porgo turbazione, di ciò non sarà mia la colpa --. -- No -- rispose Florio; -- sicuramente qual fosse la cagione interamente ne conta --. -- Certo, signor mio -- disse egli allora, -- in questo luogo tra infinita moltitudine di cavalieri di vostro padre, di questo monte discendenti, e tre piccole schiere di Lelio, padre di Biancifiore, fu asprissima battaglia, e io la vidi: e ben che quelli di Lelio, e Lelio similemente, molti de' vostri cavalieri uccidessero, vigorosamente difendendosi, ultimamente essi morti qui tutti rimasero; a' quali non essendo sepoltura data, e de' romani e degli spagnuoli insiememente mescolate, consumate le carni, qui l'ossa vedete --.



[89]

Udendo Mennilio e Biancifiore queste parole, alquanto da pietà ristretti sparsero molte lagrime, ma riconfortati da Florio, parendo loro il migliore di rimanere quivi quella sera, acciò che ricogliere potessero le sparte ossa, e poi metterle in santo luogo, fecero tendere un padiglione sopra un verde prato. E dismontati da cavallo, insieme con la loro famiglia, tutte per li campi andandole ricogliendo si misero; e di quelle ricolte fecero un grandissimo monte, e di portarle via diliberarono; ma Biancifiore disse: -- Che portar vogliamo? Il nostro operare niente è valuto; non qui così l'ossa de' morti cavalli raccolte sono come quelle dei nobili uomini? Per niente affannare vogliamo: e però se distinguere l'une dall'altre sappiamo, l'umane ne potremo portare; se non, qui tutte le sotterriamo, ché non è licita cosa che con le umane membra quelle de' bruti animali occupino i santi luoghi --. Alla qual cosa fare si misero, ma niente operavano, perché non sappiendo che farsi né qual partito in ciò prendersi, parendo loro male di portare le bestiali ossa a Roma e male di lasciare le romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto che la oscura notte loro sopravenne. Per la qual cosa, lasciate stare quelle, tornarono a' tesi padiglioni dicendo: -- In domattina c'indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio provederà alla nostra ignoranza --.



[90]

Entrati ne' padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancifiore in fulvida luce un giovane di gra zioso aspetto con una giovane bellissima accompagnato, di vermiglio vestiti, le apparvero, e nel suo cospetto si fermarono, i quali Biancifiore parve che riguardasse, e tanto belli e tanto lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduta avesse alcuna cosa. E volendoli domandare chi fossero, il giovane cominciò a dire: -- O bella e graziosa donna, nella pia opera faticata questa passata sera col tuo marito ricogliendo gli sparti membri, a' quali le ruinose acque hanno lungamente perdonato per la tua futura venuta, sepera le sante reliquie dalle inique, ché non è giusta cosa che una terra quella che l'altre occupi --. A cui Biancifiore parea che rispondesse: -- O glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, però che, sì come io ho veduto, più alle giuste che alle ingiuste niuno segno dimora; ma se a te piace, poi che una pietà con meco insieme hai, andiamo, e mostramele e meco insieme le scegli --. A cui il giovane: -- Sanza me le conoscerai; abandona i pigri sonni, e col tuo marito ti leva su, e con Mennilio tuo zio, e a ricogliere l'andate. Voi le vedrete tutte vermiglie rosseggiare, come se di fuoco fossero, e quelle che così fatte vedrete, di quelle sicuri vivete che siano de' romani giovani morti in questo luogo; le quali poi che raccolte avrete, con diligenza le rendete a Roma, di cui vivi furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu più lieta viva, chi io sia io mi ti manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu con meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu e è Giulia la tua madre, e così come cari e fedeli nel mondo fummo, e a Dio con puro cuore servidori, così gloriosi vivemo nella vita alla quale niuna fine sarà già mai. La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi che tu tutte le vermiglie ossa avrai ricolte, alla destra parte del tuo letto farai cavare, e quivi il mio corpo così, come Giulia il vi pose, troverai coi viso del suo vele ancora coperto, e l'armato corpo d'un verde mantello; il quale tu piglierai, e quello di Giulia togliendo di Marmorina, insieme in Roma gli sepellirai --; e più non disse. Ma volendo già dire Biancifiore: -- O Giulia, cara madre, fammiti toccare --, la luce sparve e le sante persone, e il sonno si ruppe della giovane, la quale tutta stupefatta si levò sanza indugio, e chiamati Florio e Mennilio, ciò che veduto e udito avea per ordine disse loro: di che essi maravigliatisi, assai ringraziarono Iddio, e levati tutti e tre andarono sanza alcun lume a fare il pietoso uficio. Essi non uscirono prima de' padiglioni che, la notte essendo molto oscura e non porgente alcuna luce, videro la profonda valle per diverse parti tutta rilucere, ove un poco ove un altro, sì come il cielo nel tranquillo sereno mostra le chiare stelle, e tutte le accomunate ossa sparte trovarono, e mutate del luogo ove lasciate l'aveano. Essi nel principio con paura di cuocersi, givano ricogliendo le rosseggianti reliquie, e tutte quelle per diverse parti della valle sparte risolsero divotamente, e quelle poste sotto diligente guardia, dove Biancifiore disse, cavarono. Né molto fu loro bisogno andare a fondo, che essi trovarono il promesso corpo ancora e del velo e del mantello coperto, fresco come se quel giorno di questa vita misera passato fosse: il cui viso Biancifiore, ancora che morto fosse, al bello e lucente, che veduto avea, raffigurò. Ella il bagnò di molte lagrime, nelle quali Mennilio e Florio l'accompagnarono, tanta pietà li strinse. Poi riconsolati, preso quello, e involtolo in un caro e mondo drappo, così armato come stava, il misero in una cassa; e ossa rosseggianti per la cavata terra, forse d'altri corpi in quello medesimo luogo sepelliti per Giulia, raccolte, aggiunsero all'altre.



[91]

Queste cose faccendo costoro, sopravenne il chiaro giorno. Per la qual cosa essi, il corpo e l'ossa ricolte sot to sofficiente custodia lasciate, cavalcarono avanti al loro cammino, e poco distanti, in brieve al dimandato tempio pervennero, nel quale essi entrarono e offersero grandissimi doni, e porsero pietose orazioni, e voltarono i passi loro. E venuti al luogo ove lasciato aveano il corpo di Lelio e le vermiglie reliquie, quelle prese, sanza ristare in alcuna parte, a Marmorina ne le portarono: e quivi con solennità tratta della bella sepoltura Giulia, e acconciatala in una cassa, con l'altro corpo e con le vermiglie ossa a Roma ne le portarono, e quivi fatte grandissime e belle ossequie, con li loro padri le sepellirono. Le quali cose fatte, lasciata la non profittevole malinconia, lietamente veduti e ricevuti, a far festa co' parenti loro si dierono.



[92]

Stato Florio in Roma più giorni in allegrezza e in festa co' suoi, dalla cara madre un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre gravissima infermità sostenere a Corduba, per la qual cosa egli dovesse sanza indugio tornare. Le quali cose udite Florio, egli e Mennilio con pochi compagni, lasciando Biancifiore con Clelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino: al quale essi entrarono e con pietoso viso di suo essere domandarono. I quali quando il re vide, contento molto disse: -- Omai, o signor mio Domeneddio, prendi l'anima mia quando ti piace --. Poi a Florio rivolto così gli parlò: -- Caro figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso più vivere: la lunga età e la grave infermità mi mostrano la vicina morte, la quale io certo non debbo mai volontieri prendere, però che lungamente vivuto sono, e delle sue ragioni ho più tosto prese che ella delle mie. E appresso, avanti ch'ella abbia la mia vita occupata, assai di quello ch'io ho disiderato e che ora fu, io non credetti mai vedere, ho veduto: però qualora viene lietamente la riceverò. La quale poi che del mondo tolto m'avrà, e renduta l'anima al futuro secolo, tu del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona e 'l reggimento. Per che io all'altre cose principalmente ti priego e comando che te prima regghi e governi, sì che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sarà che di bene essere retto non speri. Siati la superbia nimica, e quanto puoi la fuggi, però che ne' suggetti, seguendola, suole rebellazioni e indegnazioni d'animo e inobedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto quella, però vivi umilemente, e co' tuoi suggetti sii familiare quanto si conviene. Né l'iracunda rabbia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliono dolere. Niuna vendetta sia da te presa adirato, però che l'ira ha forza d'occupare l'animo sì che egli non possa discernere il vero: dunque, passata quella, con discrezione procedi sopra quello per che t'adirasti. E ben che talora sia fallo che aspra vendetta meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a' signori gran gloria l'avere perdonato. Né ti muova invidia a dolerti degli altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni più che i suoi uberosi, fare sanza utilità dolere altrui de' beni del prossimo, e per consequente disiderare la sua ruina: e di quella, s'avviene, far lieto altrui. Oh, che iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della fortuna sieno molte e varie, e strabocchevoli i suoi movimenti! Tale rise già degli altrui danni, che de' suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso. Dolersi con giusto animo delle altrui calamità non fu mai male. Rallegrati adunque degli altrui beni, e di quelli che tu possiedi ringrazia Iddio. E l'avarizia, divoratrice e insaziabi le male, del tutto da te fa che lontana sia: più che tu abbia non t'è di necessità disiare. I termini del tuo regno gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d'ampliarli non entrerai in sollecitudine: spesse volte, per avere l'uomo più che si convegna, quello che convenevolemente avea, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell'uomo, e per quelli moltiplicare in alto monte, far fare forze a quelli i quali più tosto per la loro vita poter governare ne bisognerebbono, che esser loro tolti quelli che hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l'avarizia, la quale ove dimora conviene che giustizia se ne parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho spesi, né ora morendo mi possono un'ora di vita accrescere né seguirmi. Sii adunque liberale, e con retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e quelli co' tuoi suggetti, non dimenticando gl'indigenti, godi: e guardati non forse tanto liberale essere disideri, che tu in prodigalità cadessi, la quale a non meno mali altrui conduce che l'avarizia. Guardati similemente che l'animo accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci, e per consequente alle operazioni: ella fa gli uomini molli e miseri di cuore, e pigri alli loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe dee essere lieta nel cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese dee essere magnanimo, e fuggire, essercitandosi, i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu similmente fa. Sia il tuo essercizio continuo e studii nelle virtù e nel ben vivere de' tuoi suggetti, le cui utilità e riposi più che le tue medesime dei pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e unità, però che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti e le gran cose commesse, perché ne' morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi, sì come pastori, a' popoli come mansuete pecore ne conviene vegghiare: la qual cosa, se sa viamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e già, come tu puoi avere udito, più uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con disordinato appetito presi superflui, generarono già molti mali: l'uomo per quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Iddio, che è peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare più che in altrui, è in coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale, quantunque si piglia genera danno, e è chiamato con ragione vizio. Similemente ti sia la lussuria nimica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa è nemica con la sua corta e fastidiosa dolcezza e singulare laccio dell'antico nemico ad inretire l'anime de' cattivi. Oh, quanti e quali mali già costei ha fatti evenire! Quello rettore che l'userà, darà a' suoi uomini materia d'enfiare, de' quali enfiamenti niuna altra cosa risulterà se non o tradimento o insidie: però schifala. A te è la tua Biancifiore, bellissima e d'alta schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata e con sollecitudine guadagnata; guardalati, e siati cara, e sola come si conviene ti basti sanza più avanti cercare. E siati a mente che il guardarsi da' vizii non basta, sanza operare le virtù, a gloriosa vita volere: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto puoi l'adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenzia, sanza la quale niuno regno bene si governa. E similmente sanza giustizia niuno regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia, in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la deono volere servare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo debito rendi: né ti muova amore, odio, amicizia, o parentado, o dono a giudicare con torta bilancia. E similemente ne' grandi uo mini fortezza d'animo si richiede, imperò che quanto maggiori sono gli uomini, tanto maggiori sogliono e possono le avversità avvenire; e però più forza a sostenere loro che agli altri si richiede, non forse negli avversi casi mostrando mestizia, negli animi de' suggetti pusillanimità generino. E in tutte le cose fa che temperato sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli onori, e aumenta la vita, e la sanità serva sanza affanno. E vivi caritevole, ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio, nella sua misericordia spera, la quale la morte de' peccatori non vuole, ma la vita, acciò ch'elli si penta e viva, acciò che tu per queste possi all'etterna gloria pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sì come io ho già compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le virtù seguire con intero animo possi, sempre davanti agli occhi porta la tua fine la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa portarsi se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero questo, che queste cose, le quali tu possederai e che io possedei, non ne sono date per nostra singulare virtù, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per divina grazia l'abbiamo e reggiamo. E però che graziosamente ricevute l'abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi, e altrui non ledere, e a ciascuno quello che suo è dà. E onora la tua madre sopra tutte le cose del mondo, acciò che la sua benedizione, quando allo infallibile passo mi seguirà, meriti. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne' teneri anni, e ne' virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti sia consolazione. E priegoti che l'anima di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t'ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata --. E queste parole dicendo, allentando a poco a poco la voce, finì le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò: -- Io me ne vo --; e seguì poi: -- O signor mio, ricevi nelle tue mani l'anima del tuo servo --. E così dicendo rendé l'anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con pietosa mano chiuse gli occhi al moriente padre, e piangendo i lieti vestimenti abandonò e pigliò i lugubri con molti compagni, tra' quali Mennilio similmente li prese.



[93]

Ilario, il quale con somma sollecitudine avea al vecchio re i santi sacramenti della chiesa con divozione donati, poi che della presente vita passato il vide, come a Florio piacque, secondo la romana consuetudine mise in ordine i grandi ossequi; e con molto onore, sì come a tanto re si convenia, il fece sepellire nella maggior chiesa della città.



[94]

Pianselo Florio molti giorni; ma venuto il tempo che le lugubri vesti lasciare si doveano e Florio fu riconfortato; i baroni e i grandi uomini del suo reame vennero nella sua presenza, acciò che, egli presa la corona, la debita fedeltà gli giurassero. Alla quale coronazione Florio fece chiamare Biancifiore, a cui la morte del re era per amore di Florio assai doluta. Con lei venne la valorosa donna Clelia, e Tiberina, e Glorizia e altre donne di Roma, le quali Quintilio con Scurzio e con Sempronio accompagnarono. E Caleon, a cui era in cura allora di fare fontane alla nuova terra, udendo della coronazione di Florio la novella, lasciato stare ogni cosa, vi venne. E Fileno, e 'l padre e la madre e' parenti lasciati, ancora vi venne, e 'l duca Ferramonte similemente, e Sara, e Parmenione, e Messaallino e Menedon e qualunque altro grande del paese, ove elli furono tutti da Florio lietamente e con onore ricevuti.



[95]

Il dolce tempo era, e il cielo tutto ridente porgeva graziose ore: Citerea, tra le corna dello stellato Tauro splendidissima dava luce, e Giove chiaro si stava tra' guizzanti Pesci; Apollo nelle braccia di Castore e di Polluce più lieto ogni mattina nelle braccia della sua Aurora si vedea entrare; Febeia correa con le sue agute corna lieta alla sua ritondità. Ogni stella ridea, e il sottile aere confortava i viventi, e la terra niuna parte di sé mostrava ignuda: ogni cosa o erba o fiori si vedea, sanza i quali niuno albero si saria trovato, o sanza frutto. Gli uccelli, che lungamente aveano taciuto, davano graziosi canti, né alcuna cosa era sanza lieto segno, quando la gran festa della futura coronazione di Florio si cominciò per Corduba: le rughe della quale, da ciascuna parte ornate di simili drappi quali quelli d'Aragne, tutte ridono. Niuna casa, niuno luogo è sanza maravigliosi suoni. E i giovani e le donne lieti e riscaldati nel festeggiare, con graziose note cantano gli antichi amori. Altri sopra i correnti cavalli, inghirlandati di novella fronde, ornati sé e i loro cavalli di molto oro e di sonanti sonagli, corrono, e i vaghi occhi delle giovani tirano a riguardarsi. Alcuni apparecchiano le forti armi per mostrare in pacifiche giostre quant'elli sotto quelle sia poderoso. E altri divisano altri giuochi, né niuno è sanza festa. E le molte e diverse brigate de' festeggianti niuno riposo conoscono, e ben che Febo co' suoi cavalli si tuffi nelle onde di Speria, non toglie egli loro il festeggiare: quello che il nasco so sole toglie, l'accese faglie suppliscono, graziose alle non così belle giovani. Ma poi che in così grande allegrezza, apparecchiate le necessarie cose, il diterminato giorno della coronazione fu venuto, Florio vestito di reali vestimenti venne in una gran piazza accompagnato da' nobili del reame, e quivi Ilario e 'l duca Ferramonte, eletti da tutti gli altri in generale all'alto mestiere, celebrato il santo uficio, invocato divotamente il nome di Dio a sua laude e reverenza, del reame di Spagna con corona d'oro coronarono Florio, in cospetto di tutto lo infinito popolo, del quale le vocì a cielo andarono sì alte, che oppinione fu di molti che dentro passassero, dicendo: -- Viva il nostro re --. Il quale, poi che la corona ricevuta ebbe, si fece venire avanti Biancifiore, e con le propie mani di simile regno la coronò reina. Queste cose fatte, rincominciò la festa grandissima, e le trombe e i molti strumenti sonarono, e l'armeggiare cominciò grandissimo, e tanta e sì generale festa per tutto si fa, che niuna altra cosa vi si vede o sente.



[96]

Florio, novello re, fattisi venire i ragunati tesori dal padre, e quelli liberamente dona a' suoi baroni, e non consente che niuno sanza grandissimo dono si parta da tanta festa. E poi con loro insieme per la terra andando, ovunque egli viene fa festa multiplicare; e festeggia sempre seco avendo i cari compagni del suo pellegrinaggio, e quelli onora e sopra tutti gli altri vede volentieri, e a coloro dà i grandissimi doni: e a dare a ciascuno il suo regno gli paria far poco. E durata per molti giorni la festa grandissima sanza comparazione, gli amici e' servidori del re Florio contenti disiderano di rivedere le loro case e cercano congedo, il quale il re Florio come può lieto concede. Caleon torna a Calocepe, Fileno a Mar morina, Mennilio e Quintilio e gli altri giovani romani con le loro donne, e con grandissimi doni lieti ricercano Roma, e con loro il reverendo Ilario. Il quale prima in quella non giunse, che con ordinato stile, sì come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane re: il quale, con la sua reina Biancifiore ne' suoi regni rimasi, piacendo a Dio, poi felicemente consumò i giorni della sua vita.



[97]

O piccolo mio libretto, a me più anni stato graziosa fatica, il tuo legno sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e già il vento richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia. Fermati, adunque, ricogliendo quelle, e a' remi stimolatori delle solcate acque concedi riposo, e agli scogli dà l'uncinute ancore, e de' segati mari e della lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosa donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerà, prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce: -- Ben sia venuto --; e forse con la dolce bocca ti porgerà alcun bacio. La qual cosa s'avviene, chi più di te si potrà dire beato? E certo se altro merito non ti seguisse del lungo affanno, se non che i suoi begli occhi ti vedranno, sì ti fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra' navicanti. Ella, la quale io sempre figurata porto nell'amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerà che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa ne fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t'è cura, dimora con lei, ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò sia cosa che tu da umile giovane sii creato, il cercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Virgilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare, e confermarla ad essere d'un solo amante contenta. E quelli del valoroso Lucano, ne' quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sermontino Ovidio, seguiti, delle cui opere tu se' confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sì come piccolo servidore molto dei reverente seguire. Lascia a costoro il debito onore, il quale volere usurpare con vergogna t'acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La cicogna figliante nell'alte torri discende a vivere a' fiumi. A te bisogna di volare abasso, però che la bassezza t'è mezzana via. E Alcione volando batte le sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua donna, a cui è licito darti alto e basso luogo secondo che le piace: dalla quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel suo grembo? Quali mani più belle ti poriano toccare, o occhi riguardare, o voce profferere le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli altrui occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de' più savi sostieni, e secondo il loro diritto giudicio ti disponi alla menda. Al cinguettare de' folli non porgere orecchi, ch'è bassa voglia; e a coloro che con benivola intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell'invidia quanto puoi schifa, ne' denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se' di tal donna suggetto che le tue forze non deono esser piccole. E a' contradicenti le tue piacevoli cose, dà la lunga fatica di Ilario per veridico testimonio, e, nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che 'l tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandatili, e de' beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua donna Amore conservi.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume I", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1976







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