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INCOMINCIA LA TERZA GIORNATA, NELLA QUALE SI RAGIONA, SOTTO IL REGGIMENTO DI NEIFILE, DI CHI ALCUNA COSA MOLTO DA LUI DESIDERATA CON INDUSTRIA ACQUISTASSE O LA PERDUTA RICOVERASSE.



[ INTRODUZIONE ]

L'aurora già di vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando la domenica, la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare e avendo già il siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle cose oportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo già la reina in cammino, prestamente fatta ogn'altra cosa caricare, quasi quindi il campo levato, con la salmeria n'andò e colla famiglia rimasa appresso delle donne e de' signori.

La reina adunque con lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del canto di forse venti usignuoli e altri uccelli, per una vietta non troppo usata ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo sopravegnente sole tutti s'incominciavano a aprire, prese il cammino verso l'occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo con la sua brigata, senza essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse a un bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, e avendo le gran sale, le pulite e ornate camere compiutamente ripiene di ciò che a camera s'appartiene, sommamente il commendarono e magnifico reputarono il signor di quello. Poi, abbasso discesi e veduta l'ampissima e lieta corte di quello, le volte piene d'ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che quivi surgea, più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il tempo e di frondi, postisi a sedere, venne il discreto siniscalco e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini ricevette e riconfortò.

Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, in quello, che tutto era dattorno murato, se n'entrarono; e parendo loro nella prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti di quello cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime; tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare; e tutte allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere tra tutta la spezieria che mai nacque in oriente; le latora delle quali vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto, sotto odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da quello, vi si poteva per tutto andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n'è laudevole, la quale il nostro aere patisca, di che quivi non sia abondevolmente. Nel mezzo del quale (quello che è non men commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto più), era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e i nuovi e i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all'odorato facevan piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli. Iv'entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La qual poi (quella dico che soprabbondava al pieno della fonte) per occulta via del pratello usciva e, per canaletti assai belli e artificiosamente fatti, fuori di quello divenuta palese, tutto lo 'ntorniava; e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea l'uscita, e quindi verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e con non piccola utilità del signore, due mulina volgea.

Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante la e la fontana co' ruscelletti procedenti da quella, tanto piacque a ciascuna donna e a' tre giovani che tutti cominciarono a affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d'albori ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d'uccelli quasi a pruova l'un dell'altro cantare, s'accorsero d'una dilettevol bellezza, della quale, dall'altre soprappresi, non s'erano ancora accorti; ché essi videro il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l'uno all'altro mostrandolo, d'una parte uscir conigli, d'altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a questi, altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero.

Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti su si levarono, e a' suoni e a' canti e a' balli da capo si dierono, infino che alla reina, per lo caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s'andasse a dormire. De' quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle, ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.

Ma poi che, passata la nona, ciascuno levato si fu, e il viso colla fresca acqua rinfrescato s'ebbero, nel prato, sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine e in quello secondo il modo usato postisi a sedere, a aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De' quali il primo a cui la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa.



NOVELLA PRIMA

Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.

-- Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come a una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de' feminili appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n'odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a sé medesimi, li quali la piena licenzia di poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio e della solitudine. E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto a' lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto e d'avvedimento grossissimi. Ma quanto tutti coloro che così credono sieno ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della proposta fatta da lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta.

In queste nostre contrade fu e è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne tornò. Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero servisse.

A cui Nuto rispose: « Io lavorava un loro giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. » E, oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io lavorava alcuna volta l'orto, l'una diceva: 'Pon qui questo', e l'altra: 'Pon qui quello', e l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: 'Questo non sta bene', e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi volli star più e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.

A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse: « Deh come ben facesti a venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse. »

Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose divisate seco, imaginò: « Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto. »

E in questa imaginazion fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire a alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se n'andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l'amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l'asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse.

Il quale le disse: « Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c'erano. Se egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n'avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, e egli è forte e potrebbene l'uom fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani. »

A cui la badessa disse: « In fè di Dio tu di'il vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare. »

Il castaldo disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto diceva: « Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l'orto che mai non vi fu così lavorato. »

Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò. Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de' mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.

Or pure avvenne che, costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l'una, che alquanto era più baldanzosa, disse all'altra: « Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare. »

L'altra rispose: « Di'sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona. »

Allora la baldanzosa incominciò: « Io non so se tu t'hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l'altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l'uomo. Per che io m'ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è. E egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi ch'egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello che a te ne pare. »

« Oimè! » disse l'altra « che è quel che tu di'? non sai tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio? »

« Oh » disse colei « quante cose gli si promettono tutto 'l dì, che non se ne gli attiene niuna! se noi gliele abbiam promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele attengano. »

A cui la compagna disse: « O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto? »

Quella allora disse: « Tu cominci a aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo. »

Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse l'uomo, disse: « Or bene, come faremo? »

A cui colei rispose: « Tu vedi ch'egli è in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam per l'orto se persona ci è, e s'egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con lui e l'altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s'acconcerà comunque noi vorremo. »

Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto a ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser preso dall'una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, e egli incontanente si levò in piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, e egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fe ce che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a trastullare.

Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l'altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi. Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l'ombra d'un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto. La qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual essa prima all'altre solea biasimare.

Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolone e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire: « Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo. »

La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse: « Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo. »

« Madonna, » disse Masetto « io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Idio quant'io posso. »

La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto. Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato. E essendo di que'dì morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa, saputa, di leggier gli fece venir fatto.

Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s'era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra 'l cappello. --



NOVELLA SECONDA

Un pallafrenier giace con la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e tondalo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.

Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne arrossate e alcun'altra se ne avevan riso, piacque alla reina che Pampinea novellando seguisse. La quale, con ridente viso incominciando disse:

-- Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l'accrescono in infinito; e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l'astuzia d'un forse di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d'un valoroso re, vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato.

Agilulf, re de' longobardi, sì come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d'Autari re stato similmente de' longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta molto, ma male avventurata in amadore. E essendo alquanto per la virtù e per lo senno di questo re Agilulf le cose de' longobardi prospere e in quiete, avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s'innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuor d'ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre a ogn'altro de' suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.

Ma come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l'amor maggior farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse. Né altro ingegno né via c'era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare. Per che, acciò che vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l'altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver dall'una mano un torchietto acceso e dall'altra una bacchetta, e andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l'uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.

La qual cosa veduta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di così dover fare egli altressì: e trovato modo d'avere un mantello simile a quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l'odore del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n'andò all'uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n'entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l'avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n'andò , e come più tosto potè si tornò al letto suo.

Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte; e essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: « O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l'usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate. »

Il re, udendo queste parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n'era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: « Io non ci fu'io, chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne? » Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s'arebbe vitupero recato.

Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato: « Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci? »

A cui la donna rispose: « Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute. »

Allora il re disse: « E egli mi piace di seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo'tornare. »

E avendo l'animo già pieno d'ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s'uscì della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un picciolissimo lume in una lanternetta, se n'andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de' cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva; e estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e 'l battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente, cominciato dall'uno de' capi della casa, a tutti cominciò a andare toccando il petto per sapere se gli battesse.

Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n'aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s'avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme, diliberò di far vista di dormire e d'attender quello che il re far dovesse.

Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: « Questi è desso. » Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l'una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera sua.

Costui, che tutto ciò sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s'avvisò per che così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v'erano alcun paio per la stalla per lo servigio de' cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l'orecchie tagliò i capelli; e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.

Il re, levato la mattina, comandò che avanti che le porti del palagio s'aprissono tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la maggior parte di loro co' capelli a un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: « Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d'essere d'alto senno. » Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch'egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d'ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti rivolto disse: « Chi 'l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio. »

Un altro gli averebbe voluti far collare, martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire; e essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n'avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n'avrebbe la sua vergogna, e contaminata l'onestà della donna sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse se non colui solo a cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna. --



NOVELLA TERZA

Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che il piacer di lei avesse intero effetto.

Taceva già Pampinea, e l'ardire e la cautela del pallafreniere era dà più di loro stata lodata, e similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le 'mpose il seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente così incominciò a parlare:

-- Io intendo di raccontarvi una beffe che fu da dovero fatta da una bella donna a uno solenne religioso, tanto più a ogni secolar da piacere, quanto essi, il più stoltissimi e uomini di nuove maniere e costumi, si credono più che gli altri in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sì come quegli che per viltà d'animo non avendo argomento, come gli altri uomini, di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar come il porco. La quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per seguire l'ordine imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi, à quali noi, oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e sono alcuna volta, non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente beffati.

Nella nostra città, più d'inganni piena che d'amore o di fede, non sono ancora molti anni passati, fu una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d'altezza d'animo e di sottili avvedimenti quanto alcun'altra dalla natura dotata, il cui nome, né ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli che per questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da trapassare.

Costei adunque, d'alto legnaggio veggendosi nata e maritata a uno artefice lanaiuolo, per ciò che ricchissimo era, non potendo lo sdegno dell'animo porre in terra, per lo quale estimava niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna degno; e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze da niuna altra cosa essere più avanti che da saper divisare un mescolato o fare ordire una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non volere de' suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse; ma di volere a soddisfazione di sé medesima trovare alcuno, il quale più di ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno, e innamorossi d'uno assai valoroso uomo e di mezza età, tanto che qual dì nol vedeva, non poteva la seguente notte senza noia passare. Ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne curava; e ella, che molto cauta era, né per ambasciata di femina né per lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de' pericoli possibili a avvenire.

E essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e il suo amante; e avendo seco pensato che modo tener dovesse, se n'andò a convenevole ora alla chiesa dove egli dimorava, e fattosel chiamare, disse, quando gli piacesse, da lui si volea confessare.

Il frate, vedendola, e estimandola gentil donna, l'ascoltò volentieri; e essa dopo la confessione disse: « Padre mio, a me convien ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete. Io so, come colei che detto ve l'ho, che voi conoscete i miei parenti e 'l mio marito, dal quale io sono più che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero che da lui, sì come da ricchissimo uomo e che 'l può ben fare, io non l'abbia incontanente, per le quali cose io più che me stessa l'amo; e, lasciamo stare che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al suo onore e piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei io. Ora uno, del quale nel vero io non so il nome, ma per sona dabbene mi pare, e, se io non ne sono ingannata, usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni bruni assai onesti, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione abbia come io ho, pare che m'abbia posto l'assedio, né posso farmi né a uscio né a finestra, né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi; e maravigliom'io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per ciò che questi così fatti modi fanno sovente senza colpa alle oneste donne acquistar biasimo. Hommi posto in cuore di fargliele alcuna volta dire à miei fratelli; ma poscia m'ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta l'ambasciate per modo che le risposte seguitan cattive, di che nascon parole e dalle parole si perviene à fatti; per che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son taciuta, e diliberami di dirlo più tosto a voi che a altrui, sì perché pare che suo amico siate, sì ancora perché a voi sta bene di così fatte cose, non che gli amici, ma gli strani ripigliare. Per che io vi priego per solo Idio che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che più questi modi non tenga. Egli ci sono dell'altre donne assai le quali per avventura son disposte a queste cose, e piacerà loro d'esser guatate e vagheggiate da lui, là dove a me è gravissima noia, sì come a colei che in niuno atto ho l'animo disposto a tal materia. » E detto questo, quasi lagrimar volesse, bassò la testa.

Il santo frate comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e commendata molto la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo quello esser vero che ella diceva, le promise d'operar sì e per tal modo che più da quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le lodò l'opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccontandole.

A cui la donna disse: « Io ve ne priego per Dio; e s'egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che questo v'abbia detto e siamevene doluta. »

E quinci, fatta la confessione e presa la penitenza, ricordandosi de' conforti datile dal frate dell'opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò che messe dicesse per l'anima dei morti suoi; e dai piè di lui levatasi, a casa se ne tornò.

Al santo frate non dopo molto, sì come usato era, venne il valente uomo, col quale poi che d'una cosa e d'altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai cortese modo il riprese dello intendere e del guardare che egli credeva che esso facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato a intendere. Il valente uomo si maravigliò, sì come colui che mai guatata non l'avea e radissime volte era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma il frate non lo lasciò dire, ma disse egli: « Or non far vista di maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io non ho queste cose sapute dà vicini; ella medesima, forte di te dolendosi, me l'ha dette. E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella è dessa; e per ciò, per onor di te e per consolazione di lei, ti priego te ne rimanghi e lascila stare in pace. »

Il valente uomo, più accorto che 'l santo frate, senza troppo indugio la sagacità della donna comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non intramettersene per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n'andò della donna, la quale sempre attenta stava a una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi passasse. E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa gli si mostrò, che egli assai bene potè comprendere sé avere il vero compreso dalle parole del frate; e da quel dì innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne fosse cagione, continuò di passar per quella contrada.

Ma la donna, dopo alquanto già accortasi che ella a costui così piacea come egli a lei, disiderosa di volerlo più accendere e certificare dello amore che ella gli portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e postaglisi nella chiesa a sedere à piedi, a piagnere incominciò. Il frate, questo vedendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse.

La donna rispose: « Padre mio, le novelle che io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io mi vi ramaricai l'altr'ieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né mai ardirò poi di più pormivi a' piedi. »

« Come! » disse il frate « non s'è egli rimaso di darti più noia? »

« Certo no, » disse la donna « anzi, poi che io mi vene dolfi, quasi come per un dispetto, avendo forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passar vi solea, credo che poscia vi sia passato sette. E or volesse Idio che il passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì ardito e sì sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue frasche, e quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò una borsa e una cintola; il che io ho avuto e ho sì forte per male, che io credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io avrei fatto il diavolo, ma pure mi son rattemperata, né ho voluto fare né dire cosa alcuna che io non vel faccia prima assapere. » E oltre a questo, avendo io già renduta indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata l'avea, che gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che ella per sé non la tenesse e a lui; dicesse che io l'avessi ricevuta, sì com'io intendo che elle fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di mano e holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate e gli diciate che io non ho bisogno di sue cose per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio io ho tante borse e tante cintole che io ve l'affogherei entro. E appresso questo, sì come a padre mi vi scuso che, se egli di questo non si rimane, io il dirò al marito mio e a' fratei miei, e avvegnane che può; ché io ho molto più caro che egli riceva villania, se ricevere ne la dee, che io abbia biasimo per lui: frate, bene sta.

E detto questo, tuttavia piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale, pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le prese, e disse: « Figliuola, se tu di queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare; ma lodo molto che tu in questo seguiti il mio consiglio. Io il ripresi l'altr'ieri, e egli m'ha male attenuto quello che egli mi promise: per che, tra per quello e per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera riscaldare gli orecchi; che egli più briga non ti darà; e tu colla benedizion d'Idio non ti lasciassi vincer tanto all'ira, che tu a alcuno dei tuoi il dicessi, ché gli ne potrebbe troppo di mal seguire. Né dubitar che mai di questo biasimo ti segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo testimonio della tua onestà. »

La donna fece sembiante di riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l'avarizia sua e degli altri conoscea, disse: « Messere, a queste notti mi sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime pene, e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la quale mi pare sì afflitta e cattivella, che è una pietà a vedere. Credo che ella porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico d'Idio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per l'anime loro le quaranta messe di san Grigorio e delle vostre orazioni, acciò che Idio gli tragga di quel fuoco pennace; » e così detto, gli pose in mano un fiorino.

Il santo frate lietamente il prese, e con buone parole e con molti essempli confermò la divozion di costei e, datale la sua benedizione, la lasciò andare. E partita la donna, non accorgendosi ch'egli era uccellato, mandò per l'amico suo; il qual venuto, e vedendol turbato, in contanente s'avvisò che egli avrebbe novelle dalla donna, e aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli le parole altre volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato parlandogli, il riprese molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto. Il valente uomo, che ancor non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé aver mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di ciò, se forse data gliele avesse la donna.

Ma il frate, acceso forte, disse: « Come il puoi tu negare, malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l'ha recate; vedi se tu le conosci! »

Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse: « Mai sì che io le conosco, e confessovi che io feci male, e giurovi che, poi che io così la veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete più parola. »

Ora le parole fur molte; alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura allo amico suo, e dopo molto averlo ammaestrato e pregato che più a queste cose non attendesse, e egli avendogliele promesso, il licenziò. Il valente uomo, lietissimo e della certezza che aver gli parea dello amor della donna e del bel dono, come dal frate partito fu, in parte n'andò dove cautamente fece alla sua donna vedere che egli avea e l'una e l'altra cosa; di che la donna fu molto contenta, e più ancora per ciò che le parea che 'l suo avviso andasse di bene in meglio. E niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse in alcuna parte per dare all'opera compimento, avvenne che per alcuna cagione non molto dopo a questo convenne al marito andare infino a Genova.

E come egli fu la mattina montato a cavallo e andato via, così la donna n'andò al santo frate e dopo molte querimonie piagnendo gli disse: « Padre mio, or vi dico io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l'altr'ieri io vi promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta a iscusarmivi, e acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che 'l vostro amico, anzi dia volo del ninferno, mi fece stamane poco innanzi mattutino. Io non so qual mala ventura gli facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, se non che stamane, all'ora che io v'ho detta, egli entrò in un mio giardino e venne sene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è sopra il giardino, e già aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare, quando io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e per Dio e per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi tacqui, e ignuda come io nacqui corsi e serragli la finestra nel viso, e egli nella sua mal'ora credo che se ne andasse, perciò che poi più nol sentii. Ora, se questa è bella cosa e è da sofferire, vedetel voi; io per me non intendo di più comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe. »

Il frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi, se non che più volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse stato altri.

A cui la donna rispose: « Lodato sia Idio, se io non conosco ancor lui da un altro! Io vi dico ch'e'fu egli, e perché egli il negasse, non gliele credete. »

Disse allora il frate: « Figliuola, qui non ha altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo mal fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandarnelo come facesti. Ma io ti voglio pregare, poscia che Idio ti guardò di vergogna, che, come due volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta facci, cioè che senza dolertene a alcuno tuo parente lasci fare a me, a vedere se io posso raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo; e se io posso tanto fare che io il tolga da questa bestialità, bene sta; e se io non potrò, infino a ora con la mia benedizione ti do la parola che tu ne facci quello che l'animo ti giudica che ben sia fatto. »

« Ora ecco » disse la donna « per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire; ma sì adoperate che egli si guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non tornar più per questa cagione a voi; » e senza più dire, quasi turbata, dal frate si partì.

Né era appena ancor fuor della chiesa la donna, che il valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate, al quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che mai a uomo fosse detta, disleale e spergiuro e traditor chiamandolo. Costui, che già due altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate, stando attento, e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare, primieramente disse: « Perché questo cruccio, messere? Ho io crocifisso Cristo? »

A cui il frate rispose: « Vedi svergognato! Odi ciò ch'e'dice! Egli parla né più né meno come se uno anno o due fosser passati e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestà dimenticate. Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di mente l'avere altrui ingiuriato? Ove fostù stamane poco avanti al giorno? »

Rispose il valente uomo: « Non so io ove io mi fui; molto tosto ve n'è giunto il messo. »

« Egli è il vero » disse il frate « che il messo me n'è giunto; io m'avviso che tu ti credesti, per ciò che il marito non c'era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere in braccio. Hi, meccere: ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor d'alberi. Credi tu per improntitudine vincere la santità di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna cosa è al mondo che a lei dispiaccia, come fai tu; e tu pur ti vai riprovando. In verità, lasciamo stare che ella te l'abbia in molte cose mostrato, ma tu ti se'molto bene ammendato per li miei gastigamenti. Ma così ti vo' dire: ella ha infino a qui, non per amore che ella ti porti ma a instanzia de' prieghi miei, taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più ; conceduta l'ho la licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, ch'ella faccia il parer suo. Che farai tu, se ella il dice à fratelli? »

Il valente uomo, avendo assai compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il mattutino della seguente notte fu, così egli nel giardino entrato e su per lo albero salito e trovata la finestra aperta, se n'entrò nella camera, e come più tosto potè nelle braccia della sua bella donna si mise. La quale, con grandissimo disidero avendolo aspettato, lietamente il ricevette, dicendo: « Gran mercé a messer lo frate, che così bene t'insegnò la via da venirci. » E appresso, prendendo l'un dell'altro piacere, ragionando e ridendo molto della simplicità del frate bestia, biasimando i lucignoli e'pettini e gli scardassi, insieme con gran diletto si sollazzarono.

E dato ordine a' lor fatti, sì fecero, che senza aver più a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovarono; alle quali io priego Idio per la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte l'anime cristiane che voglia ne hanno. --



NOVELLA QUARTA

Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenza: la quale frate Puccio fa, e dom Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.

Poi che Filomena, finita la sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo 'ngegno della donna commendato e ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la reina ridendo guardò verso Panfilo e disse: -- Ora appresso, Panfilo, continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto. -- Panfilo prestamente rispose che volontieri e cominciò:

-- Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si sforzano d'andarne in paradiso, senza avvedersene vi mandano altrui; il che a una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire, intervenne.

Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e fu chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una sua donna e una fante, né per questo a alcuna arte attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori. La moglie, che monna Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito e forse per la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non avrebbe; e, quand'ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar con lui, e egli le raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il lamento della Maddalena o così fatte cose.

Tornò in questi tempi da Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di san Brancazio, il quale assai giovane e bello della persona era e d'aguto ingegno e di profonda scienza, col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per ciò che costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò, avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo incominciò frate Puccio a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli faceva onore. Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s'avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire. E, postole l'occhio addosso e una volta e altra bene astutamente, tanto fece che egli l'accese nella mente quello medesimo disidero che aveva egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò il suo piacere. Ma, quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all'opera compimento, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo del mondo si voleva fidare a esser col monaco se non in casa sua; e in casa sua non si potea, perché fra Puccio non andava mai fuor della terra; di che il monaco avea gran malinconia. E dopo molto gli venne pensato un modo da dover potere essere colla donna in casa sua senza sospetto, non ostante che fra Puccio in casa fosse.

E essendosi un dì andato a star con lui frate Puccio, gli disse così: « Io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir santo, alla qual cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n'è una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono che ella si mostri; per ciò che l'ordine chericato, che il più di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sì come quello al quale più i secolari né con limosine né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu se'mio amico e ha' mi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona del mondo l'appalesassi, e volessila seguire, io la t'insegnerei. »

Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò 'a pregare con grandissima instanzia che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto gli piacesse, a alcuno nol direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguir la potesse, di mettervisi.

« Poi che tu così mi prometti, » disse il monaco « e io la ti mosterrò. Tu dei sapere che i santi dottori tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare la penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore come tu ti se'; ma avverrà questo, che i peccati che tu hai infino all'ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati; e quegli che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione, anzi se n'andranno con l'acqua benedetta, come ora fanno i veniali. Conviensi adunque l'uomo principalmente con gran diligenzia confessare de' suoi peccati quando viene a cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e una astinenzia grandissima, la qual convien che duri quaranta dì, ne'quali, non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene astenere. E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo, e in su l'ora della compieta andare in questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in pie', vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare a alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star senza muoverti punto insino a matutino. E, se tu fossi litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei; ma, perché non se', ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenzia della Trinità, e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria Idio essere stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in quella maniera che stette egli in su la croce. Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra 'l letto tuo e dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n'hai alcuno, e poi desinare, e essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, sì come io feci già, spero che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa della beatitudine etterna, se con divozione fatta l'avrai. »

Frate Puccio disse allora: « Questa non è troppo grave cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio al nome di Dio cominciar domenica. »

E da lui partitosene e andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenzia perciò, alla moglie disse ogni cosa. La donna intese troppo bene per lo star fermo infino a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva dire; per che, parendole assai buon modo, disse che di questo e d'ogn'altro bene, che egli per l'anima sua faceva, ella era contenta, e che, acciò che Idio gli facesse la sua penitenzia profittevole, ella voleva con esso lui digiunare, ma fare altro no.

Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer lo monaco, convenutosi colla donna, a ora che veduto non poteva essere, le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all'ora del matutino, al quale levandosi se n'andava, e frate Puccio tornava al letto. Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata e ella con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa; di che, avendo già detti cento de' suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva. La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose: « Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso. »

Disse allora frate Puccio: « Come ti dimeni? che vuol dir questo dimenare? »

La donna ridendo (e di buon'aria e valente donna era e forse avendo cagion di ridere) rispose: « Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera non cena, tutta notte si dimena. »

Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di buona fede disse: « Donna, io t'ho ben detto, non digiunare; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che ci e'. »

Disse allora la donna: « Non ve ne caglia no; io so ben ciò ch'i' mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io, se io potrò. »

Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano à suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con grandissima festa si stavano, e a una ora il monaco se n'andava e la donna al suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate Puccio. Continuando adunque in così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più volte motteggiando disse con lui: « Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiam guadagnato il Paradiso. » E parendo molto bene stare alla donna, sì s'avvezzò à cibi del monaco che, essendo dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere.

Di che, acciò che l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio, faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le fece. --



NOVELLA QUINTA

Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna; e ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l'effetto segue.

Aveva Panfilo, non senza risa delle donne, finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la reina a Elissa impose che seguisse. La quale, anzi acerbetta che no, non per malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare:

-- Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono; per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a tentar le forze dello altrui ingegno. Ma perché forse ogn'uomo della mia oppinione non sarebbe, quello che a un cavalier pistolese n'addivenisse, l'ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.

Fu in Pistoia nella famiglia dei Vergellesi un cavalier nominato messer Francesco, uomo molto ricco e savio e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar podestà di Melano, d'ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero. Era allora un giovane in Pistoia, il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima, e avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto. Ora aveva costui un de' più belli pallafreni di Toscana e avevalo molto caro per la sua bellezza; e essendo a ogn'uom publico lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse, che egli l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna portava. Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.

Il Zima udendo ciò, gli piacque, e rispose al cavaliere: « Messere, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse, con questa condizione che io, prima che voi il prendiate, possa con la grazia vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto da ogn'uom separato che io da altrui che da lei udito non sia. »

Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera alla donna, e quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafreno guadagnare, le impose che a udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo; e appresso al marito andò nella sala a udire ciò che il Zima volesse dire.

Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala assai lontano da ogn'uomo colla donna si pose a sedere, e così cominciò a dire: « Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia condotto la vostra bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di ciascun'altra che veder mi paresse giammai; lascio stare de' costumi laudevoli e delle virtù singolari che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo. E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello essere stato il maggiore e il più fervente che mai uomo a alcuna donna portasse; e così senza fallo sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi membri, e ancor più ; che', se di là come di qua s'ama, in perpetuo v'amerò. E per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto farne conto come di me, da quanto che io mi sia, e il simigliante delle mie cose. E acciò che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi piacesse mi comandaste, che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubbidisse. Adunque, se così son vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde; e sì come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell 'anima mia, che nello amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata, che vostro sono, che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire che, come per la vostra bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita, la quale, se à miei prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la conscienza, ve ne dorrebbe d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: 'Deh quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio!' e questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione. Per che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v'incresca, e anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora. Spero tanta essere la vostra cortesia che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto. » E quinci tacendo, alquante lacrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò a attender quello che la gentil donna gli rispondesse.

La donna, la quale il lungo vagheggiare, l'armeggiare, le mattinate, e l'altre cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero le affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè che amor si fosse. E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto.

Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s'incominciò a accorgere dell'arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiare d'occhi di lei verso di lui alcuna volta, e oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a rispondere a sé medesimo in cotal guisa: « Zima mio, senza dubbio gran tempo ha che io m'accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne contenta, sì come io debbo. Tutta fiata, se dura e crudele paruta ti sono, non voglio che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel viso mi sono dimostrata: anzi t'ho sempre amato e avuto caro innanzi a ogni altro uomo, ma così m'è convenuto fare e per paura d'altrui e per servare la fama della mia onestà. Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare se io t'amo e renderti guiderdone dello amore il qual portato m'hai e mi porti; e per ciò confortati e sta a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per andare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai, che per mio amore donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sarà, senz'alcun fallo ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore il quale io ti porto, che in fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro amore daremo piacevole e intero compimento. » E acciò che io non t'abbia altra volta a far parlar di questa materia, infino a ora quel giorno il qual tu vedrai due sciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte, guardando ben che veduto non sii, fa che per l'uscio del giardino a me te ne venghi; tu mi troverai ivi che t'aspetterò, e insieme avrem tutta la notte festa e piacere l'un dell'altro sì come disideriamo.

Come il Zima in persona della donna ebbe così parlato, egli incominciò per sé a parlare e così rispose: « Carissima donna, egli è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata, che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur potessi, come io disidero, favellare, niun termine è sì lungo che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io disiderando fornir con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto m'avete, così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di tanto dono quanto conceduto m'avete, m'ingegnerò a mio potere di rendervi grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al presente altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dea quella allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, e a Dio v'accomando. »

Per tutto questo non disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il cavaliere cominciò a tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e ridendo disse: « Che ti pare? Hott'io bene la promessa servata? »

« Messer no, » rispose il Zima « ché voi mi prometteste di farmi parlare colla donna vostra e voi m'avete fatto parlar con una statua di marmo. »

Questa parola piacque molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne la prese migliore, e disse: « Omai è ben mio il pallafreno che fu tuo. »

A cui il Zima rispose: « Messer sì; ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto n'ho, senza do mandarlavi ve l'avrei donato; e or volesse Idio che io fatto l'avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno, e io non l'ho venduto. »

Il cavaliere di questo si rise: e essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in cammino e verso Melano se n'andò in podesteria. La donna, rimasa libera nella sua casa, ripensando alle parole del Zima e all'amore il qual le portava e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso passare, disse seco medesima: « Che fo io? perché perdo io la mia giovanezza? Questi se n'è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e quando me gli ristorerà egli giammai? quando io sarò vecchia? e oltre a questo, quando troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d'alcuna persona paura; io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente; questa cosa non saprà mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e pentere, che starsi e pentersi. »

E così seco medesima consigliata, un dì pose due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; li quali il Zima vedendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se n'andò all'uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto, e quindi n'andò a un altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che l'aspettava. La qual veggendol venire, levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette; e egli, abbracciandola e baciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d'amore. Né questa volta, come che la prima fosse, fu però l'ultima, per ciò che, mentre il cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell'altre volte. --



NOVELLA SESTA

Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfi; la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere a un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata si truova che con Ricciardo è dimorata.

Niente restava più avanti a dire a Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la reina impose alla Fiammetta che procedesse con una. La qual tutta ridente rispose: -- Madonna, volentieri -- e cominciò:

-- Alquanto è da uscire della nostra città, la quale, come d'ogn'altra cosa è copiosa, così è d'essempli a ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per l'altro mondo avvenute son, raccontare; e per ciò, a Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi, che così d'amore schife si mostrano, fosse dallo ingegno d'un suo amante prima a sentir d'amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti; il che a una ora a voi presterà cautela nelle cose che possono avvenire e daravvi diletto dell'avenute.

In Napoli, città antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo. Il quale, non ostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s'innamorò d'una, la quale, secondo l'oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l'altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d'un giovane similmente gentile uomo, chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, più che altra cosa amava e aveva caro. Amando adunque Ricciardo Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e l'amor d'una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere.

E in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che in van si faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia viveva, che ogni uccel che per l'aere volava credeva gliele togliesse. Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a' suoi piaceri e cominciò a mostrarsi dello amor di Catella disperato, e per ciò in un'altra gentil donna averlo posto; e per amor di lei cominciò a mostrar d'armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella solea fare. Nè guari di tempo ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell'animo che non più Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che, non ch'altri, ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui aveva dell'amor che portar le solea, e dimesticamente. come vicino, andando e vegnendo il salutava come faceva gli altri.

Ora avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l'usanza dei napoletani, andassero a diportarsi a' liti del mare e a desinarvi e a cenarvi, Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v'andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di ragionare dava materia. A lungo andare essendo l'una donna andata in qua e l'altra in là, come si fa in que'luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d'un certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro cominciò a arder tutta di disidero di saper ciò che Ricciardo volesse dire. E poi che alquanto tenuta si fu, non potendo più tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò che detto aveva di Filippello.

Il quale le disse: « Voi m'avete scongiurato per persona, che io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e per ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser vero quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v'insegnerò come vedere il potrete. »

Alla donna piacque questo che egli addomandava, e più il credette esser vero, e giurogli di mai non dirlo. Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò così a dire: « Madonna, se io v'amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma, per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno d'aprirvi il vero d'ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giammai onta dello amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi amato fossi; ma, corne che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa ne mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a :me quello che io dubito che egli non tema ch'io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia; e per quello che io truovo egli l'ha da non troppo tempo in qua segretissimamente con più ambasciate sollicitata, le quali io ho tutte da lei risapute; e ella ha fatte le risposte secondo che io l'ho imposto. Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era, per che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di mandasse. Ella mi disse: 'Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu, con fargli risposte e dargli speranza, m'hai fatto recare addosso, e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente a un bagno in questa terra; e di questo mi prega e grava; e se non fosse che tu m'ha'fatto, non so perchè, tener questi mercati, io me l'avrei per maniera levato di dosso che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata.' Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la vostra intera fede, per la quale io fui già presso alla morte. E acciò che voi non credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei che l'aspettava, questa risposta, che ella era presta d'esser domani in su la nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si partì da lei. Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi; ma, se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me in luogo di colei cui trovarvi si crede; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse ne gli farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che a una ora la 'ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe. »

Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a' suoi inganni, secondo il costume de' gelosi, subitamente diede fede alle parole, e certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto; e di subita ira accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a fare; e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo. Ricciardo, contento di questo e parendogli che 'l suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola non dimeno che dir non dovesse giammai d'averlo udito da lui, il che ella sopra la sua fè gli promise.

La mattina seguente Ricciardo se n'andò a una buona femina, che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove 'l bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale niuna finestra che lume rendesse rispondea. Questa, secondo l'ammaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che potè il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò a aspettare Catella.

La donna, udite le parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d'altro pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era, seco medesima dicendo: « Veramente costui ha l'animo a quella donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma ferma mente questo non avverrà; » e sopra cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò.

Ma che più? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramente consiglio se n'andò a quel bagno il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi trovata la buona femina, la dimandò se Filippello stato vi fosse quel dì.

A cui la buona femina ammaestrata da Ricciardo disse: « Sete voi quella donna che gli dovete venire a parlare? »

Catella rispose: « Sì sono. »

« Adunque, » disse la buona femina « andatevene da lui. »

Catella, che cercando andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi. Ricciardo, vedendola venire, lieto si levò in piè e, in braccio ricevutala, disse pianamente: « Ben vegna l'anima mia! » Catella, per mostrarsi ben d'essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui conosciuta. La camera era oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi più di potere. Ricciardo la condusse in su il letto, e quivi, senza favellare in guisa che iscorger si potesse la voce, per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell'una parte che dell'altra stettero.

Ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira accesa cominciò a parlare: « Ahi quanto è misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l'amor di molte ne'mariti! Io, misera me!, già sono otto anni, t'ho più che la mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore d'una donna strana, reo e malvagio uom che tu se'. Or con cui ti credi tu essere stato? Tu se'stato con colei la quale otto anni t'è giaciuta a lato, tu se'stato con colei la qual con false lusinghe tu hai, già è assai, ingannata mostrandole amore e essendo altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleale che tu se'; ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e parmi mille anni che noi siamo al lume, che io ti possa svergognare come m se'degno, sozzo cane vituperato che tu se'. Oimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A questo can disleale, che, credendosi in braccio avere una donna strana, m'ha più di carezze e d'amorevolezze fatte in questo poco di tempo che qui stata son con lui, che in tutto l'altro rimanente che stata son sua. Tu se'bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e senza possa. Ma, lodato sia Idio, che il tuo campo, non l'altrui, hai lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi ti appressasti: tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia; ma, lodato sia Idio e il mio avvedimento, l'acqua è pur corsa all'in giù, come ella doveva. Ché non rispondi, reo uomo? Ché non di'qualche cosa? Se'tu divenuto mutolo udendomi? In fè di Dio io non so a che io mi tengo, che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti. Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento; per Dio! tanto sa altri quanto altri, non t'è venuto fatto; io t'ho avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi. »

Ricciardo in sé medesimo godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l'abbracciava e baciava e più che mai le faceva le carezze grandi. Per che ella, seguendo il suo parlar, diceva: « Sì, tu mi credi ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se', e rappacificare e racconsolare; tu se'errato; io non sarò mai di questa cosa consolata, infino a tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti parenti e amici e vicini noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, così bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? Non son io così gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane? Che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai troppo fatto d'arme per oggi. Io so bene che oggi mai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu ciò che tu fa cessi faresti a forza; ma, se Dio mi dea la grazia sua, io te ne farò ancor patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il qual più che sé m'ha amata e mai non potè vantarsi che io il guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto avere la moglie qui, e è come se avuta l'avessi, in quanto per te non è rimaso; dunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare. »

Ora le parole furono assai e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se andar ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva, disse: « Anima mia dolce, non vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno m'ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo. »

Il che Catella udendo, e conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non potè; ond'ella volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l'una delle mani la bocca, e disse: « Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra; e se voi griderete o in alcuna maniera fa rete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose ne avverranno. L'una fia (di che non poco vi dee calere) che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui a inganno v'abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e per doni che io v'abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati non v'ho come sperava te, vi siete turbata e queste parole e questo romor ne fate; e voi sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il bene; e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirà tra vostro marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate a una ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me. Voi non siete la prima, né sarete l'ultima, la quale è ingannata, né io non v'ho ingannata per torvi il vostro, ma per soverchio amore che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e a essere vostro umilissimo servidore. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno e al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sien più che mai. Ora, voi siete savia nell'altre cose, e così son certo che sarete in questa. »

Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte, e come che molto turbata fosse e molto si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile a avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per ciò disse: « Ricciardo, io non so come Domeneddio mi si concederà che io possa comportare la 'ngiuria e lo 'nganno che fatto m'hai. Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e soperchia gelosia mi condusse; ma di questo vivi sicuro che io non sarò mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica di ciò che fatto m'hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai avuto ciò che disiderato hai, e ha'mi straziata quanto t'è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io te ne priego. »

Ricciardo, che conoscea l'animo suo ancora troppo turbato, s'avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme. E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l'amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore. Idio faccia noi goder del nostro. --



NOVELLA SETTIMA

Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di pellegrino dopo alcun tempo, parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il marito di lei da morte, ché lui gli era provato che aveva ucciso, e co' fratelli il pacefica; e poi saviamente con la sua donna si gode.

Già si taceva Fiammetta lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente a Emilia commise il ragionare; la qual cominciò:

-- A me piace nella nostra città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come uno nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.

Fu adunque in Firenze un nobile giovane, il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d'una donna, monna Ermellina chiamata e moglie d'uno Aldobrandino Palermini, innamorato oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo disiderio. Al qual piacere la Fortuna, nimica de' felici, s'oppose; per ciò che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna maniera; di che egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole; ma sì era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.

E poi che egli in diverse maniere si fu molto ingegnato di racquistare l'amore che senza sua colpa gli pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo, per non far lieta colei che del suo male era cagione di vederlo consumare, si dispose. E, presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far motto a amico o a parente, fuor che a un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò via e pervenne a Ancona, Filippo di Sanlodeccio faccendosi chiamare; e quivi con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore e in su una sua nave con lui insieme n'andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò, ma il fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de' suoi fatti mettendogli tra le mani; li quali esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso in pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende, ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che sette anni vinse quella battaglia. Ma avvenne che, udendo egli un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella quale l'amore che alla sua donna portava e ella a lui e il piacer che di lei aveva si raccontava, avvisando questo non dover potere essere, che ella dimenticato l'avesse, in tanto disidero di rivederla s'accese, che, più non potendo sofferir si dispose a tornar in Firenze.

E, messa ogni sua cosa in ordine, se ne venne con un suo fante solamente a Ancona, dove essendo ogni sua roba giunta, quella ne mandò a Firenze a alcuno amico dell'ancontano suo compagno, e egli celatamente, in forma di pellegrino che dal Sepolcro venisse, col fante suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n'andò a uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse. Ma egli vide le finestre e le porti e ogni cosa serrata; di che egli dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi. Per che, forte pensoso, verso la casa de' fratelli se n'andò, davanti la quale vide quattro suoi fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto; e conoscendosi in tanto trasfigurato e d'abito e di persona da quello che esser soleva quando si partì, che di leggieri non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente s'accostò a un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti costoro.

Al quale il calzolaio rispose: « Coloro sono di nero vestiti, per ciò che e'non sono ancora quindici dì che un lor fratello, che di gran tempo non c'era stato, che avea nome Tedaldo fu ucciso; e parmi intendere che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l'uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie e eraci tornato sconosciuto per esser con lei. »

Maravigliossi forte Tedaldo che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui; e della sciagura d'Aldobrandino gli dolfe. E avendo sentito che la donna era viva e sana, essendo già notte, pieno di vari pensieri se ne tornò all'albergo, e poi che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel più alto della casa fu messo a dormire. E quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la malvagità del letto e forse per la cena ch'era stata magra, essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che, essendo desto, gli parve in su la mezza notte sentire d'in su il tetto della casa scender nella casa persone, e appresso per le fessure dell'uscio della camera vide là su venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener questo lume, e verso lei venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l'un di loro alla giovane: « Noi possiamo, lodato sia Idio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la morte di Tedaldo Elisei è stata provata da' fratelli addosso a Aldobrandin Palermini, e egli l'ha confessata e già è scritta la sentenzia; ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino. » E questo detto con la donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi a dormire.

Tedaldo, udito questo, cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a' fratelli che uno strano avevano pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de' rettori, li quali assai volte, quasi solliciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il falso provare, e sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del diavolo esecutori. Appresso questo alla salute d'Aldobrandino il pensier volse, e seco ciò che a fare avesse compose.

E come levato fu la mattina, lasciato il suo fante, quando tempo gli parve, solo se n'andò verso la casa della sua donna; e per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra in una saletta terrena che ivi era, e era tutta piena di lagrime e d'amaritudine, e quasi per compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi disse: « Madonna, non vi tribolate: la vostra pace è vicina. »

La donna, udendo costui, levò alto il viso e piagnendo disse: « Buono uomo, tu mi pari un peregrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione? »

Rispose allora il pellegrino: « Madonna, io son di Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime in riso e di liberare da morte il vostro marito. »

« Come, » disse la donna « se tu di Costantinopoli se'e giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io ci siamo? »

Il pellegrino, da capo fattosi, tutta la istoria della angoscia d'Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata e altre cose assai, le quali egli molto ben sapeva de' fatti suoi; di che la donna si maravigliò forte, e avendolo per uno profeta, gli s'inginocchiò a' piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d'Aldobrandino era venuto, che egli s'avacciasse, per ciò che il tempo era brieve.

Il pellegrino, mostrandosi molto santo uomo, disse: « Madonna, levate su e non piagnete, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di mai a alcun non dirlo. Per quello che Idio mi riveli, la tribulazione la qual voi avete v'è per un peccato, il qual voi commetteste già, avvenuta, il quale Domeneddio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuole del tutto che per voi s'ammendi; se non, sì ricadereste in troppo maggiore affanno. »

Disse allora la donna: « Messere, io ho peccati assai, né so qual Domeneddio più un che un altro si voglia che io m'ammendi; e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò ciò che io potrò per ammendarlo. »

« Madonna, » disse allora il pellegrino « io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio, ma per ciò che voi medesima dicendolo n'abbiate più rimordimento. Ma vegnamo al fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante? »

La donna, udendo questo, gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna persona saputo l'avesse, quantunque di que'dì, che ucciso era stato colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose: « Io veggio che Idio vi dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi i miei. Egli il è vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito; la qual morte io ho tanto pianta, quanto dolent'è a me; per ciò che, quantunque io rigida e salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua partita, né la sua lunga dimora, né ancora la sventurata morte me l'hanno potuto trarre del cuore ».

A cui il pellegrin disse: « Lo sventurato giovane che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma ditemi: qual fu la cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giammai? »

A cui la donna rispose: « Certo no, che egli non mi offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d'un maladetto frate, dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi l'amore il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi, io n'andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei messa nel fuoco pennace. Di che sì fatta paura m'entrò, che io del tutto mi disposi a non voler più la dimestichezza di lui; e per non averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata più volli ricevere; come che io credo, se più fosse perseverato, come (per quello che io presuma) egli se n'andò disperato, veggendolo io consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato, per ciò che niun disidero al mondo maggiore avea. »

Disse allora il pellegrino: « Madonna, questo è sol quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza alcuna; quando voi di lui v'innamoraste, di vostra propria volontà il faceste, piacendovi egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e usò la vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli mostraste che, se egli prima v'amava, in ben mille doppi faceste l'amor raddoppiare. E se così fu, che so che fu, qual cagion vi dovea poter muovere a torglivi così rigidamente? Queste cose si volean pensare innanzi tratto, e se credevate dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Così, come egli divenne vostro, così diveniste voi sua. Che egli non fosse vostro potavate voi fare a ogni vostro piacere, sì come del vostro, ma il voler tor voi a lui, che sua eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua volontà stata non fosse. Or voi dovete sapere che io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo alquanto largo a utilità di voi, non mi si disdice come farebbe a un altro, e egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li conosciate che per addietro non pare che abbiate fatto. Furon già i frati santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl'inventori de' frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dello animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadria e pontificale, in tanto che paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le loro robe i secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio il pescatore d'occupare nel fiume molti pesci a un tratto, così costoro colle fimbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine e uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, e è lor maggior sollicitudine che d'altro esercizio. E per ciò, acciò ch'io più vero parli, non le cappe de' frati hanno costoro, ma solamente i colori delle cappe. E dove gli antichi la salute disideravan degli uomini, quegli d'oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti delli sciocchi e in mostrare che con limosine i peccati si purghino e colle messe, acciò che a loro, che per viltà, non per divozione, sono rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de' lor passati. E certo egli è il vero che le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro che le fanno vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il guarderieno o dinanzi a altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che essi conoscono, quanti meno sono i possessori d'una gran ricchezza, tanto più stanno a agio, ogn'uno con romori e con ispaventamenti s'ingegna di rimuovere altrui da quello a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l'usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori di quegli, si possano fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi e l'altre prelature maggiori, di ciò che mostrato hanno dover menare a perdizione chi l'avesse. E quando di queste cose e di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l'avere risposto: 'Fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo' estimano che sia degno scaricamento d'ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l'esser costanti e di ferro che a' pastori. E quanti sien quegli a' quali essi fanno cotal risposta, che non la intendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il sanno. Vogliono gli odierni frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti, perdoniate le 'ngiurie, guardiatevi del maldire, cose tutte buone, tutte oneste, tutte sante; ma questo perché? Perché essi possano fare quello che, se i secolari faranno, essi fare non potranno. Chi non sa che senza denari la poltroneria non può durare? Se tu ne'tuoi diletti spenderai i denari, il frate non potrà poltroneggiare nell'ordine; se tu andrai alle femine dattorno, i frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d'ingiurie, il frate non ardirà di venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo io dietro a ogni cosa? Essi s'accusano quante volte nel cospetto degl'intendenti fanno quella scusa. Perché non si stanno eglino innanzi a casa, se astinenti e santi non si credono potere essere? O se pure a questo dar si vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola dello Evangelio: 'Incominciò Cristo a fare e a insegnare'? Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri. Io n'ho de' miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori, non solamente delle donne secolari, ma de' monisteri; e pur di quegli che maggior romor fanno in su i pergami. A quegli adunque così fatti andrem dietro? Chi 'l fa, fa quel ch'e'vuole, ma Idio sa se egli fa saviamente. Ma, posto pur che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse, cioè che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è molto maggiore il rubare uno uomo? Non è molto maggiore l'ucciderlo o il mandarlo in essilio tapinando per lo mondo? Questo concederà ciascuno. L'usare la dimestichezza d'uno uomo una donna è peccato naturale; il rubarlo o l'ucciderlo o il discacciarlo da malvagità di mente procede. Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v'è dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra spontanea volontà eravate divenuta. Appresso dico che, in quanto in voi fu, voi l'uccideste, per ciò che per voi non rimase, mostrandovi ogn'ora più crudele, che egli non s'uccidesse colle sue mani; e la legge vuole che colui che è cagione del male che si fa sia in quella medesima colpa che colui che 'l fa. E che voi del suo essilio e dello essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si può negare. Sì che molto maggiore peccato avete commesso in qualunque s'è l'una di queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima già confessato l'avete; senza che io so che egli più che sé v'ama. Niuna cosa fu mai tanto onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogn'altra donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà, tutta nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? Non era egli tra gli altri suoi cittadin bello? Non era egli valoroso in quelle cose che a' giovani s'appartengono? Non amato? Non avuto caro? Non volentier veduto da ogn'uomo? Né di questo direte di no. Adunque come, per detto d'un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s'è quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre a ogn'altro animale data all'uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollicitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giammai. Il che come voi faceste, mossa dalle parole d'un frate, il qual per certo doveva esser alcun brodaiuolo manicator di torte, voi il vi sapete; e forse disiderava egli di porre sé in quello luogo, onde egli s'ingegnava di cacciar altrui. Questo peccato adunque è quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue operazion mena a effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così come voi senza ragione v'ingegnaste di tor voi medesima a Tedaldo, così il vostro marito senza ragione per Tedaldo è stato e è ancora in pericolo, e voi in tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi conviene promettere e molto maggiormente fare, è questo: se mai avviene che Tedaldo dal suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in quello stato il ripognate nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate. »

Aveva il pellegrino le sue parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva, per ciò che verissime le parevan le sue ragoni, e sé per certo per quel peccato, a lui udendol dire, estimava tribolata, disse: « Amico di Dio, assai conosco vere le cose le quali ragionate, e in gran parte per la vostra dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino a ora da me tutti santi tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò che contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri l'amenderei nella maniera che detta avete; ma questo come si può fare? Tedaldo non ci potrà mai tornare; egli è morto; e per ciò quello che non si dee poter fare non so perché bisogni che io il vi prometta. »

A cui il peregrin disse: « Madonna, Tedaldo non è punto morto, per quello che Idio mi dimostri, ma è vivo e sano e in buono stato, se egli la vostra grazia avesse. »

Disse allora la donna: « Guardate che voi diciate; io il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello, e ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le quali forse furon cagione di farne parlare quel cotanto che parlato se n'è disonestamente. »

Allora disse il pellegrino: « Madonna, che che voi vi diciate, io v'accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto. »

La donna allora disse: « Questo fo io e farò volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che sarebbe il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo. »

Parve allora a Tedaldo tempo di palesarsi e di confortare la donna con più certa speranza del suo marito, e disse: « Madonna, acciò che io vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate. »

Essi erano in parte assai remota e soli, somma confidenzia avendo la donna presa della santità che nel pellegrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l'ultima notte che con lei era stato, e mostrando gliele disse: « Madonna, conoscete voi questo? »

Come la donna il vide, così il riconobbe, e disse: « Messer sì, io il donai già a Tedaldo. »

Il pellegrino allora, levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo il cappello, e fiorentino parlando disse: « E me conoscete voi? »

Quando la donna il vide, conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo come de' morti corpi, se poi veduti andare come vivi, si teme; e non come Tedaldo venuto di Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi tornato fosse, fuggir si volle temendo.

A cui Tedaldo disse: « Madonna, non dubitate, io sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori'né fu'morto? che che voi e i miei fratelli si credano. »

La donna, rassicurata alquanto e tenendo la sua voce e alquanto più riguardatolo e seco affermando che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo e baciollo, dicendo: « Tedaldo mio dolce, tu sii il ben tornato. »

Tedaldo, baciata e abbracciata lei, disse: « Madonna, egli non è or tempo da fare più strette accoglienze; io voglio andare a fare che Aldobrandino vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì veramente, se io l'ho buone, come io credo, della sua salute, io voglio stanotte poter venir da voi e contarlevi per più agio che al presente non posso. »

E rimessasi la schiavina e 'l cappello, baciata un'altra volta la donna e con buona speranza riconfortatala, da lei si partì e colà se n'andò dove Aldobrandino in prigione era, più di paura della soprastante morte pensoso che di speranza di futura salute; e quasi in guisa di confortatore col piacere dei prigionieri a lui se n'entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse: « Aldobrandino, io sono un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua innocenzia è di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un picciol dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo avanti che doman sia sera, dove tu la sentenzia della morte attendi, quella della tua assoluzione udirai. »

A cui Aldobrandin rispose: « Valente uomo, poi che tu della mia salute se'sollicito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai più averti veduto, amico dei essere come tu di'. E nel vero il peccato per lo quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giammai; assai degli altri ho già fatti, li quali forse a que sto condotto m'hanno. Ma così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al presente misericordia di me, ogni gran cosa, non che una picciola, farei volentieri, non che io promettessi; e però quello che ti piace addomanda, ché senza fallo, ov'egli avvenga che io scampi, io lo serverò fermamente. »

Il pellegrino allora disse: « Quello che io voglio niun'altra cosa è se non che tu perdoni a' quattro fratelli di Tedaldo l'averti a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello esser colpevole, e abbigli per fratelli e per amici, dove essi di questo ti dimandin perdono. »

A cui Aldobrandin rispose: « Non sa quanto dolce cosa si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se non chi riceve l'offese; ma tuttavia, acciò che Idio alla mia salute intenda, volentieri loro perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci esco vivo e scampo, in ciò fare quella maniera terrò che a grado ti fia. »

Questo piacque al pellegrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore stesse, ché per certo che, avanti che il seguente giorno finisse, egli udirebbe novella certissima della sua salute.

E da lui partitosi se n'andò alla Signoria, e in segreto a un cavaliere che quella tenea disse così: « Signor mio, ciascun dee volentieri faticarsi in far che la verità delle cose si conosca, e massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non portino le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien puniti. La qual cosa acciò che avvenga, in onor di voi e in male di chi meritato l'ha, io son qui venuto a voi. Come voi sapete, voi avete rigidamente contro Aldobrandin Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero lui essere stato quello che Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che è certissimamente falso, sì come io credo avanti che mezza notte sia, dandovi gli ucciditori di quel giovane nelle mani, avervi mostrato. »

Il valoroso uomo, al quale d'Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del pellegrino; e molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in su 'l primo sonno i due fratelli albergatori e il lor fante a man salva prese; e lor volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, nol soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono sé essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo. Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell'un di loro, non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e volutola sforzare a fare il voler suo.

Il pellegrino, questo avendo saputo, con licenzia del gentile uomo si partì, e occultamente alla casa di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogn'altro della casa andato a dormire, trovò che l'aspettava, parimente disiderosa d'udire buone novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo. Alla qual venuto, con lieto viso disse: « Carissima donna mia, rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo Aldobrandino; -- e per darle di ciò più intera credenza, ciò che fatto avea pienamente le raccontò. »

La donna di due così fatti accidenti e così subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il quale fra pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne fosse mai, affettuosamente abbracciò e baciò il suo Tedaldo; e andatisene insieme al letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l'un dell'altro prendendo dilettosa gioia. E come il giorno s'appressò, Tedaldo levatosi, avendo già alla donna mostrato ciò che fare intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito pellegrino si uscì del la casa della donna, per dovere, quando ora fosse, attendere a' fatti d'Aldobrandino.

La signoria, venuto il giorno e parendole piena informazione avere dell'opera, prestamente Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a' malfattori, dove commesso avevan l'omicidio, fece tagliar la testa. Essendo adunque libero Aldobrandino, con gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e conoscendo manifestamente ciò essere per opera del pellegrino avvenuto, lui alla lor casa condussero per tanto quanto nella città gli piacesse di stare; e quivi di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna, che sapeva a cui farlosi.

Ma parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non solamente per lo suo scampo scornati, ma armati per tema, domandò a Aldobrandino la promessa. Aldobrandino liberamente rispose sé essere apparecchiato. A cui il pellegrino fece per lo seguente dì apprestare un bel convito, nel quale gli disse che voleva che egli co' suoi parenti e colle sue donne ricevesse i quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso medesimo andrebbe incontanente a invitargli alla sua pace e al suo convito da sua parte. E essendo Aldobrandino di quanto al pellegrino piaceva contento il pellegrino tantosto n'andò a' quattro fratelli, e con loro assai delle parole che intorno a tal materia si richiedeano usate, al fine con ragioni irrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono, l'amistà d'Aldobrandino racquistare; e questo fatto, loro e le lor donne a dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl'invitò; e essi liberamente, della sua fè sicurati, tennero lo 'nvito.

La mattina adunque seguente, in su l'ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l'armi in terra, nelle mani d'Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di ciò che contro a lui avevano adoperato. Aldobrandino lagrimando pietosamente gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise. Appresso costoro le sirocchie e le mogli loro, tutte di bruno vestite, vennero, e da madonna Ermellina e dall'altre donne graziosamente ricevute furono.

E essendo stati magnificamente serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo fresco dolore rappresentato ne'vestimenti oscuri de' parenti di Tedaldo (per la qual cosa da alquanti il diviso e lo 'nvito del pellegrino era stato biasimato e egli se n'era accorto), come seco disposto avea, venuto il tempo da torla via, si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse: « Niuna cosa è mancata a questo convito a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che avendolo avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio mostrare. »

E di dosso gittatasi la schiavina e ogni abito pellegrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto fu lungamente, avanti che alcun s'arrischiasse a credere ch'el fosse desso. Il che Tedaldo vedendo, assai de' lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de' suoi accidenti raccontò. Per che i frategli e gli altri uomini, tutti di lagrime d'allegrezza pieni, a abbracciare il corsero, e il simigliante appresso fecer le donne, così le non parenti come le parenti, fuor che monna Ermellina.

Il che Aldobrandino veggendo disse: « Che è questo, Ermellina? Come non fai tu, come l'altre donne, festa a Tedaldo? »

A cui, udenti tutti, la donna rispose: « Niuna ce n'è che più volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che farei io, sì come colei che più gli è tenuta che al cuna altra, considerato che per le sue opere io t'abbia riavuto; ma le disoneste parole dette ne'dì che noi piagnemmo colui che noi credevam Tedaldo, me ne fanno stare. »

A cui Aldobrandin disse: « Va via, credi tu che io creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene dimostrato ha quello essere stato falso, senza che io mai nol credetti; tosto leva su, va abbraccialo. »

La donna, che altro non desiderava, non fu lenta in questo a ubbidire il marito; per che, levatasi, come l'altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta festa. Questa liberalità d'Aldobrandino piacque molto ai fratelli di Tedaldo, e a ciascuno uomo e donna che quivi era; e ogni rugginuzza, che fosse nata nelle menti d'alcuni dalle parole state, per que sto si tolse via. Fatta adunque da ciascun festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri in dosso a' fratelli e i bruni alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri vestimenti si facessero venire. Li quali poi che rivestiti furono, canti e balli e altri sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che tacito principio avuto avea, ebbe sonoro fine. E con grandissima allegrezza, così come eran, tutti a casa di Tedaldo n'andarono, e quivi la sera cenarono; e più giorni appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.

Li fiorentini più giorni quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo; e a molti, e a' fratelli ancora, n'era un cotal dubbio debole nell'animo se fosse desso o no, e nol credevano ancor fermamente, né forse avrebber fatto a pezza, se un caso avvenuto non fosse che fe'lor chiaro chi fosse stato l'ucciso; il quale fu questo.

Passavano un giorno fanti di Lunigiana davanti a casa loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero sirocchie dicendo: « Ben possa stare Faziuolo! »

A' quali Tedaldo in presenzia de' fratelli rispose: « Voi m'avete colto in iscambio. »

Costoro, udendol parlare, si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo: « In verità che voi risomigliate, più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro, un nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da Pontremoli, che venne, forse quindici dì o poco più fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse. Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per ciò che esso era, sì come noi siamo, masnadiere. »

Il maggior fratel di Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato vestito quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto così essere stato come costor dicevano; di che, tra per questi e per gli altri segni, riconosciuto fu colui che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non Tedaldo; laonde il sospetto di lui uscì a' fratelli e a ciascun altro.

Tedaldo adunque, tornato ricchissimo, perseverò nel suo amare, e, senza più turbarsi la donna, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Idio faccia noi goder del nostro. --



NOVELLA OTTAVA

Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura è messo in prigione e fattogli credere che egli è in Purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuol dell'abate nella moglie di lui generato.

Venuta era la fine della lunga novella d'Emilia, non per ciò dispiaciuta a alcuno per la sua lunghezza, ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo rispetto alla quantità e alla varietà de' casi in essa raccontati; per che la reina, alla Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le diè cagione di così cominciare:

-- Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una verità che ha, troppo più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza, e quella nella mente m'ha ritornata l'avere udito un per un altro essere stato pianto e sepellito. Dico adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come colpevole ne dovea più tosto essere condannato.

Fu adunque in Toscana una badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in ogni cosa era santissimo fuor che nell'opera delle femine; e questo sapeva sì cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava, per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa. Ora avvenne che, essendosi molto collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo, uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza piaceva allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue simplicità), e in questa dimestichezza s'accorse l'abate Ferondo avere una bellissima donna per moglie, della quale esso sì ferventemente s'innamorò che a altro non pensava né dì né notte. Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a tanto Ferondo, che egli insieme colla sua donna a prendere alcuno diporto nel giardino della badia venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine di vita etterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui e chiesene la licenzia da Ferondo e ebbela.

Venuta adunque a confessarsi la donna allo abate, con grandissimo piacer di lui e a piè postaglisi a sedere, anzi che adire altro venisse, incominciò: « Messere, se Idio m'avesse dato marito o non me lo avesse dato, forse mi sarebbe agevole co' vostri ammaestramenti d'entrare nel cammino che ragionato n'avete che mena altrui a vita etterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stultizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito aver non posso; e egli, così matto come egli è, senza alcuna cagione è sì fuori d'ogni misura geloso di me, che io, per questo, altro che in tribulazione e in mala ventura con lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io a altra confession venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la cagione del mio ben potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco mi gioverà. »

Questo ragionamento con gran piacere toccò l'animo dello abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al suo maggior disidero aperta la via, e disse: « Figliuola mia, io credo che gran noia sia a una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l'avere un geloso; per che, avendo voi e l'uno e l'altro, agevolmente ciò che della vostra tribolazione dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si guarisca. La medicina da guarirlo so io troppo ben fare, purché a voi dea il cuore di segreto temere ciò che io vi ragionerò. »

La donna disse: « Padre mio, di ciò non dubitate, per ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa dicessi a altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si potrà far questo? »

Rispose l'abate: « Se noi vogliamo che egli guarisca, di necessità convien che egli vada in purgatoro. »

« E come, » disse la donna « vi potrà egli andare vivendo? »

Disse l'abate: « Egli convien ch'e'muoia, e così v'andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Idio che in questa vita il ritorni, e egli il farà. »

« Adunque, » disse la donna « debbo io rimaner vedova? »

« Sì, » rispose l'abate « per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare che voi a altrui non vi lasciate rimaritare, per ciò che Idio l'avrebbe per male, e, tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe più geloso che mai. »

La donna disse: « Purché egli di questa mala ventura guarisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io son contenta; fate come vi piace. »

Disse allora l'abate: « E io il farò; ma che guiderdon debbo io aver da voi di così fatto servigio? »

« Padre mio, » disse la donna « ciò che vi piace, purché io possa; ma che puote una mia pari, che a un così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole? »

A cui l'abate disse: « Madonna, voi potete non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi; per ciò che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion dee essere, così voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia. »

Disse allora la donna: « Se così è, io sono apparecchiata. »

« Adunque, » disse l'abate « mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la quale io ardo tutto e mi consumo. »

La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose: « Oimè, padre mio, che è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo; or conviensi egli a' santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di così fatte cose? »

A cui l'abate disse: « Anima mia bella, non vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per ciò che ella dimora nell'anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma, che che si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne a così fare. E dicovi che voi della vostra bellezza più che altra donna gloriar vi potete, pensando che ella piaccia a' santi, che sono usi di vedere quelle del cielo. E oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli altri, e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E non vi dee questo esser grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo starà in purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella consolazion che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona niuna s'accorgerà, credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne credevate. Non rifiutate la grazia che Idio vi manda, ché assai sono di quelle che quello disiderano che voi potete avere, e avrete, se savia crederete al mio consiglio. Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che d'altra persona sieno che vostri. Fate adunque, dolce speranza mia, per me quello che io fo per voi volentieri. »

La donna teneva il viso basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per che l'abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendo gliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime continuandosi, avanti che egli ristesse l'ebbe nel capo messo che questo fosse ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata a ogni suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in purgatoro. A cui l'abate contentissimo disse: « E noi faremo che egli v'andrà incontanente; farete pure che domane o l'altro dì egli qua con meco se ne venga a dimorare; » e detto questo, postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna lieta del dono e attendendo d'aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare della santità dello abate e con loro a casa se ne tornò.

Ivi a pochi dì Ferondo se n'andò alla badia, il quale come l'abate vide, così s'avvisò di mandarlo in purgatoro. E ritrovata una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti di Levante avuta avea da un gran principe (il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o trarlone, e che ella, più e men data, senza alcuna lesione faceva per sì fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto colui in sé aver vita) e di questa tanta presane che a fare dormir tre giorni sufficiente fosse, e in un bicchier di vino non ben chiaro, ancora nella sua cella, senza avvedersene Ferondo, gliele diè bere, e lui appresso menò nel chiostro, e con più altri de' suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il quale non durò guari che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s'addormentò e addormentato cadde. L'abate, mostrando di turbarsi dello accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna fumosità di stomaco o d'altro che occupato l'avesse gli volesse la smarrita vita e 'l sentimento rivocare; veggendo l'abate e'monaci che per tutto questo egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli, tutti per constante ebbero ch'e'fosse morto; per che, mandatolo a dire alla moglie e a' parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, e avendolo la moglie colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l'abate mettere in uno avello.

La donna si tornò a casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva partirsi giammai; e così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che stata era di Ferondo, cominciò a governare.

L'abate con un monaco bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna era venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e lui in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de' monaci che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi vestimenti e a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero e lasciaronlo stare tanto ch'egli si risentisse. In questo mezzo il monaco bolognese, dallo abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona niuna cosa, cominciò a attender che Ferondo si risentisse.

L'abate il dì seguente con alcun de' suoi monaci per modo di visitazion se n'andò a casa della donna, la quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo 'mpaccio di Ferondo o d'altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello, disse che era apparecchiata; e con lui compose che la seguente notte v'andasse. Per che, venuta la notte, l'abate, travestito de' panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, v'andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si giacque, e poi si ritornò alla badia, quel camino per così fatto servigio faccendo assai sovente; e da alcuni e nello andare e nel tornare alcuna volta essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per quella contrada penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa della villa contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, più volte fu detto.

Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran battitura.

Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che domandare: « Dove sono io? »

A cui il monaco rispose: « Tu se'in purgatoro. »

« Come? » disse Ferondo « dunque sono io morto? »

Disse il monaco: « Mai sì; » per che Ferondo sé stesso e la sua donna e 'l suo figliuolo cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.

Al quale il monaco portò alquanto da mangiare e da bere. Il che veggendo Ferondo, disse: « O mangiano i morti? »

Disse il monaco: « Sì; e questo che io ti reco è ciò che la donna, che fu tua, mandò stamane alla chiesa a far dir messe per l'anima tua, il che Domeneddio vuole che qui rappresentato ti sia. »

Disse allora Ferondo: « Domine, dalle il buono anno. Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva tutta notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche faceva altro quando voglia me ne veniva »; e poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo buono, disse: « Domine, falla trista, ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro. »

Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran battitura.

A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse: « Deh, questo perché mi fai tu? »

Disse il monaco: « Per ciò che così ha comandato Domeneddio che ogni dì due volte ti sia fatto. »

« E per che cagione? » disse Ferondo.

Disse il monaco: « Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie. »

« Ohmè, » disse Ferondo « tu di' vero, e la più dolce: ella era più melata che 'l confetto, ma io non sapeva che Domeneddio avesse per male che l'uomo fosse geloso, ché io non sarei stato. »

Disse il monaco: « Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii mai più geloso. »

Disse Ferondo: « O ritornavi mai chi muore? »

Disse il monaco: « Sì, chi Dio vuole. »

« Oh! » disse Ferondo « se io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane, e anche non ci ha mandato candela niuna, e emmi convenuto mangiare al buio. »

Disse il monaco: « Sì fece bene, ma elle arsero alle messe. »

« Oh! » disse Ferondo « tu dirai vero; e per certo se io vi torno, io la lascerò fare ciò che ella vorrà. Ma dimmi chi se'tu che questo mi fai? »

Disse il monaco: « Io sono anche morto, e fui di Sardigna, e perché io lodai già molto a un mio signore l'esser geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture, infino a tanto che Idio di libererà altro di te e di me. »

Disse Ferondo: « Non c'è egli più persona che noi due? »

Disse il monaco: « Sì, a migliaia, ma tu non gli puoi né vedere né udire, se non come essi te. »

Disse allora Ferondo: « O quanto siam noi di lungi dalle nostre contrade? »

« Ohioh! » disse il monaco « sèvi di lungi delle miglia più di be' la cacheremo. »

« Gnaffé! cotesto è bene assai; » disse Ferondo « e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del mondo, tanta ci ha. »

Ora in così fatti ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da dieci mesi in fra li quali assai sovente l'abate bene avventurosamente visitò la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo. Ma, come avvengono le sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse all'abate; per che a amenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere essere di purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, e ella di lui dicesse che gravida fosse.

L'abate adunque la seguente notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione, e dirgli: « Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia. »

Ferondo, udendo questo, fu forte lieto e disse: « Ben mi piace. Dio gli dea il buono anno a messer Domeneddio e allo abate e a san Benedetto e alla moglie mia caciata, melata, dolciata. »

L'abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ora il facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il tornarono nello avello nel quale era stato sepellito. La mattina in sul far del giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume, il quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser vivo, cominciò a gridare: « Apritemi, apritemi » e egli stesso a pontar col capo nel coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura avea, lo 'ncominciava a mandar via; quando i monaci, che detto avean matutino, corson colà e conobbero la voce di Ferondo e viderlo già del monimento uscir fuori; di che, spaventati tutti per la novità del fatto, cominciarono a fuggire e allo abate n'andarono.

Il quale, sembianti faccendo di levarsi d'orazione, disse: « Figliuoli, non abbiate paura, prendete la croce e l'acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare; » e così fece.

Era Ferondo tutto pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello avello uscito. Il quale, come vide l'abate, così gli corse a' piedi e disse: « Padre mio, le vostre orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia donna, m'hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita, di che io priego Idio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia. »

L'abate disse: « Lodata sia la potenza di Dio. Va dunque, figliuolo, poscia che Idio t'ha qui rimandato, e consola la tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidore di Dio. »

Disse Ferondo: « Messere, egli m'è ben detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò, così la bacerò, tanto bene le voglio. »

L'abate, rimaso co' monaci suoi, mostrò d'avere di questa cosa una grande ammirazione, e fecene divotamente cantare il Miserere. Ferondo tornò nella sua villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose, ma egli, richiamandogli, affermava sé essere risuscitato. La moglie similmente aveva di lui paura.

Ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell'anime de' parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole del mondo de' fatti purgatoro, e in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per la qual cosa in casa colla moglie tornatosi e in possessione rientrato de' suoi beni, la 'ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo, secondo l'oppinione degli sciocchi che credono la femina nove mesi appunto portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il qual fu chiamato Benedetto Ferondi.

La tornata di Ferondo e le sue parole, credendo quasi ogn'uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza fine la fama della santità dello abate. E Ferondo, che per la sua gelosia molte battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la promessa dello abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì veramente che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente ne'suoi maggior bisogni servita l'avea.



NOVELLA NONA

Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno; dove, vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui e ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.

Restava, non volendo il suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse cosa che già finita fosse la novella di Lauretta. Per la qual cosa essa, senza aspettar d'essere sollicitata da' suoi, così tutta vaga cominciò a parlare:

-- Chi dirà novella omai che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e così spero che avverrà di quelle che per questa giornata sono a raccontare. Ma pure, chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m'occorre vi conterò.

Nel reame di Francia fu un gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva un medico, chiamato maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo figliuol piccolo senza più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e piacevole, e con lui altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra'quali era una fanciulla del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e oltre al convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo. Al quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a Parigi; di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari appresso, essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta avere, volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea. E essendo ella già d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti, a' quali i suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la cagion dimostrare.

Ora avvenne che, ardendo ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto e era male stata curata, gli era rimasa una fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s'era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti l'avean peggiorato, per la qual cosa il re, disperatosene, più d'alcun non voleva né consiglio né aiuto. Di che la giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non solamente per questo aver ligittima cagione d'andar a Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella credeva, leggiermente poterle venir fatto d'aver Beltram per marito. Laonde, sì come colei che già dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a Parigi n'andò. Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo; e appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità gli mostrasse. Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe disdire, e mostrogliele.

Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si confortò di doverlo guerire, e disse: « Monsignore, quando vi piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in otto giorni di questa infermità renduto sano. »

Il re si fece in sé medesimo beffe delle parole di costei dicendo: -- Quello che i maggiori medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? -- Ringraziolla adunque della sua buona volontà e rispose che proposto avea seco di più consiglio di medico non seguire.

A cui la giovane disse: « Monsignore, voi schifate la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non medico colla mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse. »

Il re allora disse seco: « Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare, poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? » E accordatosi di provarlo, disse: « Damigella, e se voi non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne segua? »

« Monsignore, » rispose la giovane « fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà? »

A cui il re rispose: « Voi ne parete ancor senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente. »

Al quale la giovane disse: « Monsignore, veramente mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi domanderò, senza dovervi domandare alcun de' vostri figliuoli o della casa reale. »

Il re tantosto le promise di farlo. La giovane cominciò la sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità. Di che il re, guerito sentendosi, disse: « Damigella, voi avete ben guadagnato il marito. »

A cui ella rispose: « Adunque, monsignore, ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io cominciai a amare e ho poi sempre sommamente amato. »

Gran cosa parve al re dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè mancare, se 'l fece chiamare e sì gli disse: « Beltramo, voi siete omai grande e fornito. Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie data. »

Disse Beltramo: « E chi è la damigella, monsignore? »

A cui il re rispose: « Ella è colei la qual n'ha con le sue medicine sanità renduta. »

Beltramo, il quale la conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei non esser di legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso disse: « Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta femina prenda giammai. »

A cui il re disse: « Dunque volete voi che noi vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito? »

« Monsignore, » disse Beltramo « voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal maritaggio contento. »

« Sì sarete, » disse il re « per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto; per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con una donna di più alto legnaggio non avreste. »

Beltramo si tacque, e il re fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze. E venuto il giorno a ciò determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava. E questo fatto, come colui che seco già pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo contado tornar si voleva e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al re; e montato a cavallo, non nel suo contado se n'andò, ma se ne venne in Toscana. E saputo che i fiorentini guerreggiavano co' sanesi, a essere in lor favore si dispose; dove, lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa quantità di gente capitano e da loro avendo buona provisione, al loro servigio si rimase e fu buon tempo.

La novella sposa, poco contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu ricevuta. Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era, ogni cosa guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte di ciò ch'egli di lei non si contentava.

Avendo la donna tutto racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, e ella per compiacergli si partirebbe. Alli quali esso durissimo disse:« Di questo faccia ella il piacer suo; io per me vi tornerò allora a esser con lei che ella questo anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato. » Egli aveva l'anello assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato a intendere ch'egli avea. I cavalieri intesero la dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la sua risposta le raccontarono.

La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove, acciò che per conseguente il marito suo riavesse. E avendo quello che far dovesse avvisato, ragunati una parte de' maggiori e de' migliori uomini del suo contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che già fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva; e ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua dimora quivi il conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di consumare il rimanente della sua vita in peregrinaggi e in servigi misericordiosi per la salute dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il governo del contado prendessero e al conte significassero lei avergli vacua e espedita lasciata la possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare. Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei porti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente montarono.

Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua cameriera in abito di peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza sapere alcuno ove ella s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in Firenze; e quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava, disiderosa di sentire novelle del suo signore. Avvenne adunque che il seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo con sua compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la buona donna dello albergo chi egli fosse.

A cui l'albergatrice rispose: « Questi è un gentile uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e molto amato in questa città; e è il più innamorato uom del mondo d'una nostra vicina, la quale è gentil femina, ma è povera. Vero è che onestissima giovane è, e per povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già fatto di quello che a questo conte fosse piaciuto. »

La contessa queste parole intendendo raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio; e apparata la casa e 'l nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno tacitamente in abito pellegrino là se n'andò; e la donna e la sua figliuola trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna, quando le piacesse, le volea parlare.

La gentil donna, levatasi, disse che apparecchiata era d'udirla; e entratesene sole in una sua camera e postesi a sedere, cominciò la contessa: « Madonna, e'mi pare che voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste, per avventura voi potreste voi e me consolare. »

La donna rispose che niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente.

Seguì la contessa: « A me bisogna la vostra fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri fatti e i miei. »

« Sicuramente, » disse la gentil donna « ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi troverete ingannata. »

Allora la contessa, cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che intervenuto l'era infino a quel giorno le raccontò per sì fatta maniera, che la gentil donna, dando fede alle sue parole, sì come quella che già in parte udite l'aveva da altrui, cominciò di lei a aver compassione. E la contessa, i suoi casi raccontati, seguì: « Udite adunque avete tra l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le possa aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che 'l conte mio marito sommamente ami vostra figliuola. »

A cui la gentil donna disse: « Madonna, se il conte ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per ciò in questo adoperare che voi disiderate? »

« Madonna, » rispose la contessa « io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola bella e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa. Io intendo che, in merito del servigio che mi farete, di darle prestamente de' miei denari quella dote che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia convenevole. »

Alla donna, sì come bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse: « Madonna, ditemi quello che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il farò volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerà. »

Disse allora la contessa: « A me bisogna che voi, per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà mai, se egli non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito ch'egli ama cotanto; il quale se egli 'l vi manda, voi 'l mi donerete. E appresso gli manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra figliuola gli metterete al lato. Forse mi farà Idio grazia d'ingravidare; e così appresso, avendo il suo anello in dito e il figliuolo in braccio da lui generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorar con marito, essendone voi stata cagione. »

Gran cosa parve questa alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo marito e che essa a onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e onesta affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, e ebbe l'anello, quantunque gravetto paresse al conte, e lei in iscambio della figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise. Ne'quali primi congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio, la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto fece manifesto. Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la contessa degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente operando, che mai parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la moglie, ma con colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir si venia la mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente la contessa guardava.

La quale, sentendosi gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse: « Madonna, la Dio mercé e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si faccia quello che v'aggraderà, acciò che io poi me ne vada. »

La gentil donna le disse che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella non avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare a voler ben fare.

A cui la contessa disse: « Madonna, questo mi piace bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi domanderete per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba così fare. »

La gentil donna allora, da necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per maritar la figliuola. La contessa, cognoscendo la sua vergogna e udendo la sua cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che valevano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie più che contenta, quelle grazie che maggiori potè alla contessa rendè, la quale da lei partitasi se ne tornò allo albergo. La gentil donna, per torre materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con la figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco tempo da' suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s'era dileguata, se ne tornò.

La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in Firenze dimorò che 'l tempo del parto venne, e partorì due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e quegli fe'dilingentemente nudrire. E quando tempo le parve, in cammino messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta con essi a Monpolier se ne venne; e quivi più giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e sentendo lui il dì d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di donne e di cavalieri, pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se n'andò.

E sentendo le donne e'cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra uomo e uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi a' piedi disse piagnendo: « Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando. Io ti richieggo per Dio che le condizioni postemi per li due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; e ecco nelle mie braccia non un sol figliuol di te, ma due, e ecco qui il tuo anello. Tempo è adunque che io debba da te, sì come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa. »

Il conte, udendo questo, tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili erano a lui; ma pur disse: « Come può questo essere intervenuto? »

La contessa, con gran meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò che stato era, e come, raccontò. Per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso due così be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei come sua ligittima sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose giù la sua ostinata gravezza e in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e baciò e per sua ligittima moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli. E fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma più altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa e moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.



NOVELLA DECIMA

Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in Inferno: poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.

Dioneo, che diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo cominciò a dire:

-- Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza partirmi guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato avete, io il vi vo'dire; forse ancora ne potrete guadagnare l'anima avendolo apparato, e potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra'folti boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.

Adunque, venendo al fatto, dico che nella città di Capsa in Barberia fu già un ricchissimo uomo, il quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca, il cui nome fu Alibech. La quale, non essendo cristiana e udendo a molti cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede e il servire a Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con meno impedimento a Dio si potesse servire. Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che più delle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de' diserti di Tebaida andati se n'erano. La giovane, che semplicissima era e d'età forse di quattordici anni, non da ordinato disidero ma da un cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne a alcuna persona sentire, la seguente mattina a andar verso il diserto di Tebaida nascosamente tutta sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l'appetito, dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta di lontano una casetta, a quella n'andò, dove un santo uomo trovò sopra l'uscio, il quale, maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando. La quale rispose, che, spirata da Dio andava cercando d'essere al suo servigio, e ancora chi le 'nsegnasse come servire gli si conveniva.

Il valente uomo, veggendola giovane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo 'ngannasse, le commendò la sua buona disposizione; e dandole alquanto da mangiare radici d'erbe e pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse: « Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore maestro che io non sono; a lui te n'andrai; » e misela nella via.

E ella, pervenuta a lui e avute da lui queste medesime parole, andata più avanti, pervenne alla cella d'uno romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e quella dimanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma le fece da una parte e sopra quello le disse si riposasse.

Questo fatto, non preser guari d'indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi assalti voltò le spalle e rendessi per vinto; e lasciati stare dall'una delle parti i pensier santi e l'orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza e la bellezza di costei 'ncominciò, e oltre a questo a pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s'accorgesse lui come uomo dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato primieramente con certe domande, lei non aver mai uomo conosciuto conobbe e così essere semplice come parea; per che s'avvisò come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a' suoi piaceri. E primieramente con molte parole le mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e appresso le diede a intendere che quello servigio che più si poteva far grato a Dio si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domeneddio l'aveva dannato.

La giovinetta il domandò, come questo si facesse. Alla quale Rustico disse: « Tu il saprai tosto, e perciò farai quello che a me far vedrai; » e cominciossi a spogliare quegli pochi vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così ancora fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa che adorar volesse e dirimpetto a sé fece star lei.

E così stando, essendo Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla così bella, venne la resurrezion della carne, la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse: « Rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l'ho io? »

« O figliuola mia, » disse Rustico « questo è il diavolo di che io t'ho parlato. E vedi tu? ora egli mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire. »

Allora disse la giovane: « Oh lodato sia Idio, ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io. »

Disse Rustico: « Tu di'vero, ma tu hai un'altra cosa che non la ho io, e haila in iscambio di questo. »

Disse Alibech: « O che? »

A cui Rustico disse: « Hai il ninferno; e dicoti che io mi credo che Idio t'abbia qui mandata per la salute della anima mia, per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa noia, ove tu vogli aver di me tanta pietà e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai grandissima consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu per quello fare in queste parti venuta se', che tu di'. »

La giovane di buona fede rispose: « O padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerà. »

Disse allora Rustico: « Figliuola mia, benedetta sia tu; andiamo dunque, e rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci stare. »

E così detto, menata la giovane sopra uno de' loro letticelli, le 'nsegnò come star si dovesse a dovere incarcerare quel maladetto da Dio.

La giovane, che mai più non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di noia, per che ella disse a Rustico: « Per certo, padre mio, mala cosa dee essere questo diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso. »

Disse Rustico: « Figliuola, egli non avverrà sempre così. »

E per fare che questo non avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, ve 'l rimisero, tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace.

Ma ritornatagli poi nel seguente tempo più volte, e la giovane ubbidiente sempre a trargliele si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a Rustico: « Ben veggio che il ver dicevano que'valentuomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimetter il diavolo in inferno; e per ciò io giudico ogn'altra persona, che a altro che a servire a Dio attende, essere una bestia »; per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico, e gli dicea: « Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno. »

La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta: « Rustico, io non so perché il diavolo si fugga del ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai. »

Così adunque invitando spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo che un altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: « E noi per la grazia di Dio l'abbiamo sì sgannato, che egli priega Idio di starsi in pace »; e così alquanto impose di silenzio alla giovane.

La qual, poi che vide che Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno: « Rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la rabbia al mio ninferno, com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo. »

Rustico, che di radici d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse; e così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone; di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che no.

Ma mentre che tra il diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea; per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede. Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che la corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico e contra al volere di lei la rimenò in Capsa e per moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio divenne erede. Ma, essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il diavolo in inferno, e che Neerbale aveva fatto gran peccato d'averla tolta da così fatto servigio.

Le donne domandarono come si rimette il diavolo in Inferno. La giovane tra con parole e con atti, il mostrò loro. Di che esse fecero sì gran risa che ancor ridono, e dissono: « Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso teco Domenedio. »

Poi l'una all'altra per la città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più piacevol servigio che a Dio si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual motto passato di qua da mare ancora dura. E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire. --



[ CONCLUSIONE ]

Mille fiate o più aveva la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte loro parevan le sue parole. Per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo, quella assai piacevolmente pose sopra la testa a Filostrato, e disse: -- Tosto ci avvedremo se il lupo saprà meglio guidare le pecore, che le pecore abbiano i lupi guidati.

Filostrato, udendo questo, disse ridendo: -- Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno, non peggio che Rustico facesse a Alibech, e perciò non ne chiamate lupi, dove voi state pecore non siete; tuttavia, secondo che conceduto mi fia, io reggerò il regno commesso. --

A cui Neifile rispose: -- Odi, Filostrato: voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno, come apparò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riavere la favella a tale ora che l'ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare. --

Filostrato, conoscendo che falci si trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a darsi al governo del regno commesso cominciò. E, fattosi il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire; e oltre a questo, secondo che avviso che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi alle donne rivolto, disse: -- Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d'alcuna di voi stato sono a Amor suggetto, né l'essere umile né l'essere ubbidiente né il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in tutti i suoi costumi, m'è valuto, ch'io prima per altro abbandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla morte; e per ciò non d'altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quella che a' miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto --; e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena licenziò ciascuno.

Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi fu che eleggesse di quello uscire per più piacere altrove dover sentire; anzi, non faccendo il sol già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte per mezzo lor saltando eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare. Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di Messer Guiglielmo e della Dama del Vergiù; Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole d'intorno alla bella fonte, quivi con grandissimo diletto cenaron la sera.

Filostrato, per non uscir del camin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furono le tavole, così comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una canzone. La qual disse: -- Signor mio, delle altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle che io ho volete, io ne dirò volentieri. --

Alla quale il re disse: -- Niuna tua cosa potrebbe essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale qual tu l'hai, cotale la di'. --

La Lauretta allora, con voce assai soave ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre, cominciò così:

Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
ch'invan sospiro, lassa innamorata.

Colui che move il cielo e ogni stella
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra, graziosa e bella,
per dar qua giù a ogni alto intelletto
alcun segno di quella
biltà che sempre a Lui sta nel cospetto;
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non mi gradisce, anzi m'ha dispregiata.

Già fu chi m'ebbe cara e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e dentro a' suoi pensieri,
e de' miei occhi tututto s'accese,
e 'l tempo, che leggieri
sen vola, tutto in vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a me!, privata.

Femmisi innanzi poi presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e valoroso,
e presa tienmi e con falso pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi mi dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al mondo
venuta, da uno essere occupata.

Io maledico la mia sventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai; sì bella nella oscura
mi vidi già e lieta, dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima reputata onesta
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal caso provata!

O caro amante, del qual prima fui
più che altra contenta,
che or nel ciel se' davanti a Colui
che ne creò, deh! pietoso diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso: fa ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia che per me t'arse,
e costà su m'impetra la tornata.

Qui fece fine la Lauretta alla sua canzone, la quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa; e ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa. Altri furono di più sublime e migliore e più vero intelletto, del quale al presente recitare non accade. Il re, dopo questa, su l'erba e 'n su'fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece più altre cantare infin che già ogni stella a cader cominciò che salia; per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si tornasse.


FINISCE LA TERZA GIORNATA DEL DECAMERON


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume IV", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1976







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