:: TEONEL BROCK ::
RACCONTI
IL LABORATORIO BIANCO

Figura marmorea, seduta su detriti di realtà poco esposta. Aveva gli occhi fissi verso il muro, sorseggiava aria per quanto riuscisse. Aveva una gran voglia di piangere, una necessità impellente di svuotare la mente. Udiva i lamenti del suo vicino di panca, la distolse dal suo freddo percorso sulla scia del "non ci pensare". Il tizio si contorceva, saltellava convulsamente con un'espressione pressochè allucinata. Lei lo fissava con le labbra socchiuse, una bolla di saliva le si formò tra il labbro inferiore e la gengiva ma la ingoiò prima che le uscisse dalla bocca. Un'ombra la fece voltare e tornò a guardare di fronte a sé. Un uomo molto alto e magro la fissava aspramente. "Cosa guardi? Tu stai peggio di lui" disse l'infermiere. Lei lo guardò inebetita e riuscì solo a scuotere il capo in senso di diniego. "Si, si... tu sei toccata, stai sempre qua!" sbottò lui e andando rise di gusto. Lei lo fissò fino a quando la figura in camice bianco non scomparve dalla sua vita. Sbattè le palpebre ed udì una voce. "Prego, entra". Lei si alzò dando un'ultima occhiata al suo vicino, arrivò all'uscio della stanza, lo varcò e una mano la prese con violenza costringendola con la faccia al muro. L'uomo le stava di dietro, teneva la mano premuta sulla sua schiena per impedirle di muoversi. Lei nemmeno si ribellava. Conosceva molto bene l'iter e si era pacatamente adeguata nel corso del tempo. L'uomo le tirò giù i pantaloni e calò la siringa con forza sulla sua chiappa. Valium, 10 Ml. Lei cadde a terra, dormiva. Come una mucca marchiata a fuoco, la si riconosceva. Un tatuaggio sul cuore. Vittima delle circostanze, adolescenza rubata. Quei posti ora li si vedono solo in sogno, quegli incubi madidi di sudore che disturbano il sonno. Il laboratorio delle torture. A volte mi ricorda la stanza dei morti di Poppy Z.Brite in "cadavere squisito", che posto indimenticabile! Ricordo Edea con affetto, dividevamo la stanza, dividemmo il dolore. Il passato torna prepotente e ti prende a colpi di mannaia, ti fa a pezzi e poi ti rimonta come un gioco sorpresa dell'ovetto kinder. Non esiste più un posto così, questo lo sappiamo entrambe. Ma esistette abbastanza per rovinare tutte le nostre aspettative. Non so più che fine ha fatto Edea ma ricordo bene quando andai via la scena raccapricciante di lei stesa sul letto con un casco di metallo sul capo, la testa immobile sul lettino, il corpo saltare a spasmi violenti. Arrivava. La lavavano. Attendeva. La drogavano. La ricoveravano. Le dissero che era affetta da schizofrenia acuta. Edea si era solo costruita un mondo parallelo per colmare i vuoti della vita reale. La famiglia assente, le insoddisfazioni di una gioventù sbagliata, gli amori fulminei, le disillusioni, le voci. Io soffrivo di scissione della personalità. Roba da poco. Lei entrava ed usciva, in continuazione. L'ho vista piangere tante di quelle volte, e tante altre l'ho vista tacere, incantata ad osservare un particolare, per ore. Le parlavo ma lei non sentiva. In quelle occasioni la disegnai, ho un sacco di ritratti a matita di Edea. Era bellissima, un fascino acerbo, infantile. Bocca imbronciata, occhi troppo grandi e di un colore indefinito tra il verde e il castano, seno piatto, bassa statura, capelli corti. La sua voce era particolare, la ricordo nella musica. Una rindondante e il suo tagliente sussurrare, ti colpiva dentro. Di quell'asilo destinato al ricovero degli alienati e maniaci di ogni genere ricordo perfettamente il disservizio offerto. Non potrò mai dimenticare quell'infermiere dal nome sconosciuto che, dopo aver avvolto Edea con la camicia di forza, la obbligò in lavoretti a sfondo sessuale. Ancora oggi mi chiedo a cosa siano serviti quei luoghi se i veri pazzi altro non erano che gli stessi dottori. Tremava una donna, sul lettino da visita, satura di iper-nervosimo, viso bianco, scarno, capelli sfibrati. Le dita oramai colme di sangue, dai denti barbaramente consumati. E loro lì. Di fianco a lei. Un mazzo di carte. La visita fu fatta. L'igiene in quel luogo stava di casa solo nei posti frequentati da camici bianchi. Noi ricoverati, come cani nei canili vivevamo nella merda più assoluta. La sudicia puzza di piscio giaceva puntuale nelle nostre camere, ce ne accorgevamo solo quando andavamo a visitarci, lì, l'aria era meno pesante. Da tempo avevo capito che dovevo aiutare Edea, non bisognava curarla dalla schizofrenia, ma dalla sua paura: I DOTTORI. Io e lei eravamo così uguali e pure così diverse. Così vicine. Così lontane. Ogni giorno venivo assalita dalla disperazione e dalle lacrime che, inevitabilmente, Edea mi trasmetteva. Venivo assalita da quella voglia di salvarmi, di salvarla. Di comune accordo, io e lei. Più forti di un patto di sangue. Di notte. Chiuse le cucine. Io e Edea, dirette verso di esse. Mi sentivo forte, per la prima volta agivamo insieme, tutte e due, coerenti di ciò che stavamo facendo. Edea aprì lo sportello dove venivano contenuti i coltelli da cucina, senza far rumore, ne afferrò uno. Passo freddo, fermo, quasi autoritario. Dirette, concise, sicure di noi stesse verso l'uscita del manicomio. Superammo con angoscioso successo il corridoio delle camere. Per la prima volta nella mia vita il silenzio prese parola, ci annunciava il via libera. Ci infiltrammo nei reparti frequentati dai camici bianchi, bisognava passare di lì, per avere la libertà. Tensione a mille. Mi tremavano le mani, afferravano il coltello. Edea tranquilla al mio fianco. Da lontano, intravedemmo un'infermiere camminare verso noi. Presto seguimi! Esordì in silenzio Edea. Mi condusse verso un'armadietto nel corridoio lì presente. Chiuse li dentro, 
aspettammo che l'infermiere passasse. Sudavamo tensione. Quando ci passò davanti, dai piccoli fori dell'armadietto ebbi modo di identificarlo. Era l'infermiere dal nome sconosciuto che obbligava Edea in atti sessuali. Edea non lo vide, per fortuna. Esaurito il rumore delle scarpe dell'infermiere, decisimo di uscire. In silenzio, aprimmo il portello dell'armadietto. Un braccio mi afferrò con immane forza, mi scosse violentemente, poi, uno schiaffo secco, deciso, brutalmente violento. Cascai per terra. Subito venni rialzata da Edea. Gridò all'infermiere: Guarda! Vidi il coltello trapassare il camice bianco dozzine di volte. Continuava ad infierire Edea, su quel corpo ormai senza difese. Lasciammo il cadavere lì per terra e iniziammo a correre verso l'uscita con i vestiti colmi di sangue. Piangevo. Tra lacrime, singhiozzi e gemiti di orrore non mi accorsi di essere giunta all'uscita del manicomio. Aprimmo simultaneamente la porta. Finalmente fuori da quel posto. Pioveva a dirotto. Continuammo a correre per altri due chilometri fino a quando non cademmo per terra, volevo ringraziare Edea. Fù lei che mi diede la sicurezza necessaria per afferrare quel coltello, quella libertà. Ma quando mi voltai, Edea era sparita. Dissolta. Nube di fumo. Triste illusione. I miei occhi infusi di lacrime. Guardavo il cielo. Grazie Edea; ovunque tu sia.
REAZIONE A CATENA

Stordita. Sballottata da un sentimento all'altro neanche fossero caramelle. Cindy Lopez, di anni 25. Vittima dei suoi idealismi prettamente psicologici, scaturrita dal sentimento crudeltà. 
Visionaria di scempi macrobiotici e liti biologiche. Cambiò la sua vita un giorno, mollò il colpo, abbandonò tutto. Si lasciava dietro le spalle una vita vissuta con sentimento, e camminava ora, con la fiaccola della crudeltà tra le mani. La stessa crudeltà, che un tempo decise di scagliarsi contro di lei dopo la morte del suo partner: Andy Mc. Bryan. Avevano litigato quel giorno, lei, per telefono, disse ad Andy che quel litigio era l'ultima spiaggia, che non avrebbe più voluto vederlo, che forse, non lo amava più come un tempo. Lui, gli chiese se poteva vederla quel giorno, 
se poteva andare da lei per scongiurarla di ripensarci. Piangeva. Dopo averla implorata l'unica cosa che lei riuscì a dirgli fu: Sparisci dalla mia vita. Riattaccarono. Cuori battevano da entrambe le parti. Si amavano e tutti e due lo sapevano. Ovviamente Andy non si arrese a quelle parole e si sollevò con velocità dalla sedia dove pochi secondi prima parlava attraverso l'ennesima invenzione dell'uomo. Con passo spedito si diresse verso l'ingresso di casa dove su un mobile antiquato le chiavi della macchina lo chiamavano. Uscì. La macchina era parcheggiata a un isolato di distanza, percorso interamente correndo. Correndo verso la morte. Verso un attraversare la strada. Il conducente di un piccolo camioncino bianco non lo vide e lo investì. Tre anni di galera per il pilota pazzo, una condanna morale invece, per la Lopez. A distanza di un'anno nella sua mente pensava: Ho amato una volta e non ho saputo farlo. Pensava di non volere amare più nessuno. Si creò una barriera psicologica, come qualcosa che l'avrebbe resa immune agli effetti dell'amore. Ma non agli effetti di un'amicizia che di amore, sapeva molto di più. La ormai gelida Cindy conobbe una ragazza di nome Laura, una ragazza che riuscì a farla sentire pulita, la ragazza della quale lei si innamorò. La barriera fu rotta solo per far entrare lei, colei che la salvò dalle sue colpe, o almeno, ci provò. Erano finiti finalmente i giorni delle angosce per la 25enne gelida, dopo un'anno si sentiva psicologicamente bene con se stessa, pronta ad amare nuovamente, dolcemente sorpresa al pensiero che lo avrebbe fatto con una donna. E viveva tranquilla al fianco di Laura, dolci parole sussurrate ad un telefono, piacevoli momenti di libido, nell'aria il 
profumo di vita. Era ormai l'otto marzo, il giorno in cui tutte le donne si sarebbero auto-festeggiate in feste spartane accompagnate da spogliarellisti pronti a qualsiasi prestazione per portare a casa lo stipendio più alto di tutto l'anno. Cindy e Laura decisero di prendere una suite in albergo per stare dolcemente abbracciate tutta la notte sussurrandosi le ormai consuete parole dolci. Erano le sette e mezza di sera e Cindy aveva appuntamento sotto casa dell'amata alle otto meno un quarto. Laura era già davanti alla porta di casa che la aspettava e giunta l'ora stabilita, ancora non si fece viva. Fu allora che Laura decise di chiamarla sul cellulare. Uno squillo e dall'altra parte del telefono rispose in tono di perdono Cindy. Disse: Scusami amore, arrivo tra cinque minuti, mi ero dimenticata a casa i vestiti di ricambio. Poi continuò rivolgendosi ad un automobilista che le viaggiava di fianco: Chi cazzo ti ha dato la patente!! - Stai buona - Rispose l'altra. 
- Amore quando guidano alla cazzo io mi ... - Non fece in tempo a finire di parlare, stava urlando.. Un urlo secco. Glaciale. Di terrore. Morte. Laura dall'altra parte sentì tutto, compreso il clacson della macchina di Cindy, che ormai era dietro l'angolo di casa sua. Suonava. Attivato dalla testa sanguinante della stessa. Sentiva Cindy lamentarsi. Lentamente morire. Laura chiamò immediatamente i soccorsi. Nulla di fatto. Cindy morì. Sull'ambulanza. Piangeva Laura. Pensava di non volere amare più nessuno. Si creò una barriera psicologica, come qualcosa che l'avrebbe resa immune agli effetti dell'amore. Ma non agli effetti di un'amicizia che di amore, sapeva molto di più. La gelida Laura conobbe Denise.
SCRITTO NEL CUORE

E piangevo. Piangevo. Piangevo. Piangevo. Mi manchi. Ora. Ma comunque mi manchi, perchè non ci sei?? Perchè non c'eri??!! Amore ho pianto stasera, l'ho fatto pensandoti. Afferro affamato il cellulare, sperando che il battito del mio cuore torni lento come uno squillo. Invece no, risponde lei; stupida registrazione automatizzata: IL CLIENTE DA LEI CHIAMATO, NON E' AL MOMENTO RAGGIUNGIBILE... Dio quanto la detesto! Ma poi.. riattacco. Sfrego lentamente il cellulare sul mio volto: lo guardo, chiudo gli occhi. Ti rivedo sorridente. Piango nuovamente. Ti amo ANCORA. Amore ho pianto stasera, l'ho fatto amandoti. Pensavo a noi due, ubriachi; a casa tua. Pensavo ai tuoi occhi, al tuo cuore. Il tenero accarezzarti il volto. Il petto dove riposai 
così, chiuso e sconvolto. Per fortuna posso baciarti.. - Come baciarmi? Ti chiederai.. - Ora che siamo una sola luce in questo cielo stellato, sento di dirti che tu sei in me. Ecco.. mordo le mie labbra, prestando attenzione al non sciuparle. Quella labbra; sono tue. Mi guardo allo specchio, mi vedo sciupato e corro in bagno a sistemarmi il volto, ne asciugo le lacrime. Quel volto; è tuo. Oh Romeo! Dove ti nascondesti in tutti questi lustri? Ricordo di me. Guardavo la foto di un bimbo. Su un davanzale. A casa tua. Sogghigno dolce, rubato al vento. Patetico! Dissi un giorno. Mi detesto. Se tu fossi patetico, io sarEi la monotonia delle tue paranoie. E infatti lo sono. Sono monotono. E tu? ..si, tu sei patetico. Sei patetico quando dici di amarmi. Quando pronunci a bassa voce due parole racchiuse tra cinque lettere. Ma io ti amo così. Nella tua patetica concezione. Siamo nati difettati. Ci amiamo proprio per questo. Mi fai fare un giretto in vespa? Voglio guardare 
la città da cima a fondo! ..sono un bravo attore lo sò. Mento spesso. Non voglio guardare la città. NO. Ottimo movente per stingerti forte a me, per poggiare la mia testa-involucro sulla tua scapola per piangere in silenzio. Piangere felicità, libertà, indipendenza: la nostra, indipendenza. Ma tu cosa ne sai tatino mio? Non ne sai nulla. Io ti amo anche quando volti lo sguardo. Ti amo, se mi fai arrabbiare.. Dio che bello! Io ci sono. Sono qui. Pronto. Partenza. Tuo. Amore ho riso stasera, l'ho fatto col cuore. So che domani mattina stringerai le mie mani. Riscalderai i miei occhi. Mi vivrai fino in fondo: SERENAMENTE. E piangevo. Piangevo. Piangevo. Piangevo. Perchè piangevo? Perchè non ti trovai in mezzo alla folla. Sei sempre stato nel mio cuore.

Ad Andrea.
TEONEL BROCK
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