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STEFANO PANZA
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RACCONTI
ABISSO [giugno 2001]

Chi è quel folle o quell'illuso, che crede che le tenebre, la disperazione, la sofferenza, l'agonia, la pena, il tormento, il patimento, l'angoscia e ogni altro dolore psicologico abbiano un limite? Chi può dire di essere caduto talmente in basso da non poter andare oltre? Tutte queste sono stupidaggini, maligni artifizi della nostra contorta mente, che ci impediscono di vedere la Verità, la cruda e agghiacciante realtà dell'assenza di limiti allo strazio dell'animo umano. Forse in noi c'è una sorta di meccanismo di autodifesa, che ci impedisce di realizzare ciò che è palese, ciò che è inevitabile. Sì, perché certi mali sono inevitabili, è inutile struggersi nel vano tentativo di trovare una soluzione, una via d'uscita, un'ancora di salvezza.

Vi sono momenti (davvero orribili) in cui il dolore pare raggiunge il suo acume (amara illusione), e proprio allora il mondo ci è nemico. Camminando per la strada, la gente passeggia tranquilla, come se si prendesse gioco della nostra pietosa situazione; il sole brilla in cielo, ma noi ormai non proiettiamo più alcuna ombra, essa fa parte di noi, si è insinuata nelle nostre membra, nella carne, sin dentro le ossa, e ne ha risucchiato il midollo. Ma la notte non porta certo conforto ai nostri cuori. Intorno a noi c'è il buio, freddo opprimente, e le stelle sono la rappresentazione del nostro dolore: brillano come nulla al mondo, ma sono così lontane e irraggiungibili. Mi pare di vedere in esse la mia salvezza: le rimiro, le contemplo, le bramo, ma niente e nessuno mi permetterà di stringerle al petto e di dissetarmi alla fonte del loro calore.
È in questi momenti, che mi inginocchio a terra, schiacciato da un peso che un tempo credevo sopportabile, afflitto, depresso, rassegnato. Chino il volto verso il basso, quasi per scrutare le distanze che ancora devo percorrere nell'abisso del dolore, e piango. Sono lacrime amare, ognuna di esse è una fitta in ogni parte del corpo, ma non posso fermare la sofferenza, e loro continuano a scivolare sul mio volto, ora ridotto a una grottesca caricatura di quello che fu un tempo.
Le lacrime sgorgano lentamente, portando con sé gli ultimi rimasugli della mia umanità, e lasciandomi nel cuore solo la Pura Sofferenza.
I neri angeli del tormento ridono selvaggiamente nell'osservarmi cadere sempre più in basso, acquistando velocità ad ogni secondo che passa, e il dolore mi acceca, perché si è manifestato proprio quando credevo di avere raggiunto la felicità. Forse sono salito in alto, solo per cadere più in basso.

Le oscure tenebre del mondo si sono riunite in me, prendendo la mia anima come loro ricettacolo, immolato come monito per coloro che credono nelle cause perse. Ho lottato fino alla fine, ma inutilmente, eppure combatterei la stessa battaglia altre mille volte, nonostante mi aspettino altre mille sconfitte. Ora però sono vuoto, un guscio canceroso che sarebbe pretenzioso definire essere vivente. Sono vuoto perché ho dato tutto me stesso nella battaglia, l'ho donato senza alcun vincolo, senza freni, senza inibizioni né paure, come mai avrei potuto fare in tutta la mia misera esistenza, ma il mio essere è stato disperso nel freddo vento, è stato smembrato senza possibilità alcuna di cura. Il processo di disgregazione è stato breve, ma il senso di freddo, di vuoto, di silenzio che ora mi pervade mi rende folle, cieco perché i miei occhi sono colmi della tristezza più assoluta, della rassegnazione dello sconfitto, dello sconforto del disperato.
Quella fiamma possente che un tempo mi riscaldava il cuore, che un tempo mi rendeva invincibile, ora mi tormenta continuamente e ininterrottamente, mi brucia, mi corrode, consumando quelle ultime speranze che ancora serbavo ingenuamente nel profondo, nel luogo più intimo della mia anima.
Ho sempre camminato nell'oscurità, ma non me ne ero mai accorto perché i miei occhi erano chiusi. La battaglia ha avuto il potere di aprirmi gli occhi, e di permettermi di vedere l'opprimente oscurità che mi circondava, eppure non temevo le tenebre, perché in esse scorgevo una luce rifulgente, pura, indescrivibilmente radiosa. Il destino però ha voluto che la luce fosse destinata ad illuminare il cammino incerto di un altro mortale, ed io sono rimasto da solo, nel buio più profondo, incapace di ragionare, reso folle dalla paura del vuoto, ed incapace di richiudere gli occhi.

Ora continuo a precipitare in un abisso infernale, senza sapere quando tutto avrà una fine, ma soprattutto senza sapere se vi sarà una fine.
Ho smesso di esistere, non ho nemmeno più speranze, ma per qualche crudele ragione, continuo a provare un'emozione, ininterrotta e d'intensità crescente: il DOLORE.
COMA [agosto 2001]

Fu un incidente orribile. Stavo tornando a casa la sera dal lavoro, a notte inoltrata perché avevo avuto molto da fare, e già lungo il viaggio m'immaginavo disteso sul divano, a guardare qualche stupido programma in tv. Il Requiem di Mozart mi accompagnava, permettendomi di rilassarmi, mentre la pioggia batteva incessantemente, ma sembrava quasi amalgamarsi alla musica, creando un'unica melodia. Adoro viaggiare con la pioggia, mi fa sentire bene, ma non riesco a spiegarne il motivo. Fuori l'aria era gelida, e ogni cosa era bagnata dalle lacrime del cielo, mentre io mi trovavo nella mia automobile, al caldo, ascoltando della buona musica. Mi sembrava di essere a casa, di essere protetto. Eppure c'è qualcosa che preferisco ancora di più della pioggia, ed è la nebbia. Guidare con la nebbia è qualcosa di grandioso, di visionario, di soprannaturale. È come immergersi nelle nuvole, oppure viaggiare in un luogo sconosciuto. Il misterioso vapore avvolge ogni cosa, smussando gli angoli delle case, distorcendole come in un sogno e sembra di guardare il mondo con occhi nuovi.

Accadde tutto all'improvviso, senza che me ne fossi potuto rendere conto. I miei sensi furono sovraccaricati da mille stimoli esterni, che esplosero in un frammento del lungo scorrere del tempo, tanto che non provai né sentii nulla. In un istante si accavallarono un botto assordante, uno stridore maligno di lamiere contorte, una pioggia di vetro, una fitta alla gamba e al fianco sinistro, ed il calore confortante del sangue. Io non riuscii a percepire pienamente nulla di queste estreme sensazioni, e senza riuscire a capirne il motivo mi ritrovai in una posizione innaturale ed indescrivibile, che non mi spaventò assolutamente, perché ripeto, la mia mente era immobile, priva d'attività, sovraccaricata da sensazioni orribili che il cervello pareva non voler interpretare. Rimasi in quella condizione non so per quanto tempo, immobile, incapace di fare altro che fissare la distruzione davanti ai miei occhi e ad un tratto, o forse gradatamente, non so dire, il gelido buio mi avvolse nel suo abbraccio trascinandomi nel vortice dell'oblio.

Mi ritrovai immerso nell'oscurità, senza punti di riferimento, incapace di percepire anche solo il mio corpo. Non so per quanto tempo il mio compagno più intimo fu il silenzio, pesante, ininterrotto, oppressivo, soffocante e proprio durante quel periodo provai la sensazione di essere morto. Trovarsi al centro del nulla infinito, nell'immensa calma dei sensi, privo del corpo ed incapace di ricevere stimoli esterni, solo con la propria solitudine, incapace di pensare per timore delle conclusioni che si potrebbero trarre: vi erano tutti i presupposti perché potessi impazzire. 
Ritengo fermamente che la vita di un uomo sia strettamente legata al mondo esterno, e con questo non mi riferisco solo al fatto che l'uomo ha bisogno di socializzare, ma alla sua necessità di ricevere degli stimoli, anche molto semplici, dall'ambiente circostante. Anche colui che decidesse per una vita ritirata, sarebbe comunque sottoposto a stimoli e sensazioni, quali la fame, il calore del fuoco, il dolore fisico, emozioni che sono recepite grazie ai cinque sensi. Se l'uomo fosse privo di questi sensi, egli sarebbe come morto, o almeno morirebbe entro breve, perché potrebbe fare affidamento solo sul suo pensiero e la pazzia avrebbe presto il sopravvento. Era proprio questa la situazione in cui versavo pietosamente e sapevo, non so come, che presto quella desolazione sarebbe terminata, ed io con essa. Eppure la cosa più terribile era l'oblio che regnava in ogni angolo della mia mente, impedendomi di capire il motivo per cui mi trovavo in quella situazione.
Immerso in questo stato indefinibile, dal silenzio, lentamente quasi strisciando, avanzò un gorgoglio, un brontolio indistinto, vaporoso che accese in me la più insperata gioia, che non derivava dal fatto che fossi riuscito a decifrare quel suono, ma semplicemente dalla spiazzante scoperta di qualcosa di nuovo che stava accadendo intorno a me. L'alieno ribollire aumentava di volume e sembrava diventare anche più distino, sino a diventare... comprensibile.
"Le......................... stabili, ............ non possiamo................., se.............. e sperare ............... dal coma. Non possiamo ...... quanto si dovrà ..................... questione di giorni o..." Non sentii le pesanti palpebre sollevarsi, eppure vidi, se così si può dire, delle figure indistinte, delle ombre intorno a me, che lentamente presero le fattezze di parenti e amici, tutti raccolti intorno a me con volti tristi e scuri. La scena durò poco perché le figure svanirono subito ed io ripiombai nel buio dal quale ero faticosamente affiorato per alcuni istanti.

L'immagine tornò lentamente, nitida, ma sembrava che tutto fosse cambiato; soprattutto furono i vividi colori a colpirmi e a stordirmi, rendendo la scena incredibile, quasi da incubo. La stanza nella quale mi trovavo era completamente spoglia, e tutto l'ambiente, ossia pareti, soffitto e pavimento erano cremisi, così come lo era il letto sul quale stavo disteso e le coperte che mi coprivano sino al mento. La finestra aperta lasciava che lo sguardo vagasse verso il caldo rossore del cielo al tramonto, e per un attimo sembrò che proprio quel cielo fosse la causa del colore della stanza, ma non era così. Ad un tratto non vidi più la finestra, poiché di fronte ad essa si era posta una figura che non avevo ancora notato, ma presto mi resi conto che non era sola, bensì molte altre erano presenti nella stanza tutte intorno al mio letto. Alzai lo sguardo verso i loro volti, cercando di trovare una risposta a quel grottesco enigma, ma la chiave non si trovava dove avevo diretto il mio sguardo, perché là vi trovai solo un moltiplicarsi di domande alle quali non sapevo dare risposta. Quei volti erano privi di ogni tratto somatico, privi di bocca, occhi e naso, parevano quasi dei manichini di legno, e ancora una volta i colori parevano distorti, perché la loro pelle aveva riflessi bluastri; eppure, inspiegabilmente, in essi riconobbi i volti di coloro che da sempre avevo ritenuto essere i miei amici più cari e i parenti più stretti. Erano tutti intorno a me, e parevano osservarmi tramite occhi invisibili, senza fare nulla. Improvvisamente dal loro volto si aprì un'oscura fessura, là dove ci sarebbe dovuta essere la bocca, e tutti contemporaneamente iniziarono a parlare, ma io non ne potevo udire le parole. 
Ero sbalordito, incapace di proferire parola, oppresso dalla schiacciante stravaganza della scena che si svolgeva davanti ai miei occhi, incapace di credere a quello a cui stavo assistendo.

Fuori il tempo sembrava essersi interrotto ed il mondo avvampava delle fiamme cremisi del tramonto, mentre la calda aria era ora ammorbata da suoni che non potevo udire, parole che non capivo, ma nel tepore si stava infiltrando lentamente un alito gelido che mi serrava le ossa. Da quella che doveva essere la bocca di quelle figure familiari fuoriusciva un vapore diaccio, dalle indefinibili sfumature verdastre che contrastavano orribilmente con il rosso della stanza, con uno stridore che mi stordiva la vista. Nonostante non riuscissi ad udire le loro parole, che parevano essere rivolte a me, provavo un profondo disgusto nel constatare l'atroce contrasto tra il calore scarlatto che avvolgeva l'intero mondo e la realtà stessa delle cose, ed il verde glaciale del bizzarro vapore che fuoriusciva dalla cavità orale di coloro che stavano parlano. 
Contemporaneamente notai un'altra trasformazione: la pelle dei miei visitatori da bluastra che era, stava diventando nera, ed anche il loro corpo stava mutando, perdendo la consistenza corporea che aveva posseduto sino ad allora. 
Ora intorno a me strisciavano oscure ombre, nere come la pece, orripilanti creature che non avevano più nulla di familiare, abietti aborti di un folle creatore. Mi osservavano dal profondo del nulla assoluto di cui era composti, e ad un tratto scoppiarono in una risata folle, malvagia, talmente stridula da far male alle orecchie, ma non smisero di guardarmi.
Urlai come impazzito, chiedendo loro di smetterla, di andarsene e di lasciarmi in pace, ma in risposta alle mie pietose implorazioni essi rinvigorivano le loro malsane risate, provando evidente e chiaro piacere nella mia atroce sofferenza. Poi accadde tutto in una frazione di secondo: smisero di ridere, si voltarono guardandosi l'un l'altro, e si gettarono su di me divorandomi. Sentivo i loro denti affilati affondare nella carne, e il suono orribile della lacerazione, mentre il sangue caldo rendeva onore al macabro festino di cui io ero l'ospite d'onore. A nulla valsero i miei sforzi, le puerili implorazioni, le mie urla disperate... e presto il buio mi inghiottì.

La vista sembrava tornare lentamente, come se dai miei occhi si dipanasse una spessa coltre di nebbia, rivelandomi sfuocatamene l'interno asettico di una stanza d'ospedale, ma ero tranquillo, perché i colori non avevano nulla di strano. Ero stordito, e indistintamente notai intorno a me delle figure dai contorni indefiniti, ma che non appena vidi mi fecero tremare. Con loro notai un'altra figura, avvolta in quello che mi sembrava una tunica o un camice bianco, che spostava il suo sguardo alternamente su di me e su qualcosa che si trovava alla mia destra, che sembrava produrre strani rumori elettronici. Una voce soffusa giunse remota dal silenzio che mi regnava nella mente, "... pare stia reagendo bene. Non vorrei pronunciarmi in diagnosi troppo ottimistiche, ma potremmo sperare che a breve riesca a svegliarsi dal coma...". Furono parole che mi fecero tremare orribilmente, riportandomi dinnanzi agli occhi il grottesco banchetto il cui solo ricordo mi fece quasi impazzire. 
Mi resi conto che potevo svegliarmi, che potevo tornare a vivere con coloro che ritenevo i miei cari e i miei amici, ma forse mi ero sempre sbagliato. La voce che avevo da poco udito ritornò, ma in essa si era infiltrata la distorsione dello stupore, "....una...una lacrima...sta piangendo...". Guardai per un'ultima volta ciò che stavo abbandonando, e capii che la mia era una giusta decisione, poi sprofondai nuovamente nel buio dell'oblio...per l'eternità....
DARK WATER [giugno 2001]

La mia mente ha raggiunto un livello di attività superiore alla norma, non so dire se a causa della stanchezza o dell'opprimente stato di depressione in cui sono caduto con violenza. So solo che i miei pensieri vagano senza sosta, contorcendosi, in un'agonia la cui cura è quasi impossibile da trovare, e in queste dolorose contorsioni essi creano immagini ed emozioni profonde, vivide, quasi reali. I pensieri, sempre in fermento, prendono forma in ogni istante, ma spesso non riesco a dare loro un senso, perché subito nascono nuovi pensieri che sopraffanno gli altri, e il risultato finale non è che l'apoteosi della confusione, e del caos, un pandemonio di emozioni spesso contrastanti tra di loro, e che non fanno altro che acuire il mio dolore e la mia sofferenza, lacerando la Mente, l'Anima e il Cuore.

Ora mi trovo immerso in acque tenebrose, e sopra di me riesco a vedere solo un barlume di luce, che si beffa di me e del mio dolore, perché sa che non potrò mai più essere riscaldato nuovamente da lei, dal suo tocco soffice e delicato, dal suo bacio vitale e rassicurante. Vedo tutto questo, ma ormai è una realtà che non mi appartiene, perché ora mi trovo immerso in acque tenebrose, in acque gelide, sebbene il freddo non venga percepito con il corpo, ma con l'Anima ed il Cuore. La cosa più dolorosa però è accettare di essere stato escluso da una realtà che si sperava di avere raggiunto, sebbene fosse una realtà che fino a poco tempo prima non si conosceva. Il dolore è nella sua forma più terribile quando il proprio Io scopre che non potrà mai passeggiare in quei luoghi che ha sempre sognato, in quei prati fioriti, i cui esili fili d'erba sono accarezzati da una fresca brezza che avvolge ogni cosa, ed il cielo cristallino permette quasi di vedere le stelle, che paiono sorridere con noi. Non sarà possibile, ammirare con la meraviglia di un bambino che ha appena aperto gli occhi sul mondo, la trasparente cascata di acqua purificatrice, perché quei luoghi, che potevo ammirare solo con l'immaginazione, non sono destinati a me, e la mia Anima non potrà cullarsi nello splendore rifulgente dei verdi prati, del cielo cristallino, e delle dolci acque. La cascata non è più, poiché non vi è acqua che sgorga dalla fonte, e quella che un tempo vi era, è fluita in mari oscuri, nei quali sono immerso.
Questo è il dolore più atroce, perché ormai il mio Cuore ha conosciuto un'esistenza più felice, sebbene ne abbia intravisto solo un pallido riflesso, un'esistenza che avrebbe posto fine a insoddisfazioni che non pensavo facessero parte della mia vita, un'esistenza che avrebbe colmato vuoti che non percepivo, ma che c'erano sempre stati. Per una strana sensazione, che non riesco in alcun modo a spiegare, mi sono sentito come destinato a far parte di quel mondo, che stranamente mi sembrava così familiare, così vicino, come se ci fosse un legame incredibile, che ora, con il semplice ausilio delle parole, non posso nemmeno lontanamente descrivere nella sua accecante bellezza.

È inutile dire qual è la causa del mio dolore, che mi soffoca e mi schiaccia con un peso che a stento riesco a sostenere. L'unica cosa che mi permette di non sprofondare ulteriormente è il tocco salubre dell'immaginazione, quel dono superiore di cui può beneficiare ogni uomo; un'immaginazione mista ad una speranza che non potrà mai svanire, perché quando si desidera ardentemente una cosa, nonostante si sia consapevoli che non la si potrà mai avere, non si può smettere di sperare, e se lo si facesse, si perderebbe una parte fondamentale di noi, che rimarrebbe attaccata a qualcosa che ormai è scomparso all'orizzonte.

Con il consiglio della Mente, mi rendo conto che in quelle acque tenebrose non sono solo, ma distanti, quasi fossero semplicemente la proiezione dei miei tristi pensieri, intravedo altre persone, che come me soffrono dello stesso male. Nonostante molte persone soffrano le stesse pene, ognuno di loro ritiene che il loro dolore sia il più acuto di tutti, e anche il mio Cuore non riesce a trattenersi dal sussurrarmi che la mia situazione è differente, che nessuno conosce il mio dolore, e che nessuno può curarmi dalle emozioni che scuotono il mio Essere.
Ma ora sono immerso in acque tenebrose, in acque gelide. Nonostante il dolore mi accechi, non posso che essere felice di avere provato tutto questo, di avere avuto la fortuna di intravedere la Gioia, anche se per pochi istanti. Se qualcuno si offrisse di farmi dimenticare ciò che ho vissuto, gli volterei le spalle ritenendolo un folle, perché se potessi chiederei di rivivere un'altra volta tutto quanto.
Vorrei piangere con l'innocenza di un bambino, ma temo che le cose non cambierebbero; vorrei urlare sino a perdere la voce, ma in queste acque nessuno può sentire le grida di un disperato; vorrei sognare, e forse è l'unica cosa che mi resta da fare...
STEFANO PANZA
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