. : SCARLET BALK : .

Chi è Scarlet?
Un'invenzione, lo sperimento di un folle. Mal riuscita questa bambola di cera, ma pur sempre forte, dannatamente fragile, malinconicamente sola. E scrive. Sogna. Lamento dell'anima, vagito del neonato.
Scarlet Balk è un personaggio ma dietro di lei v'è una donna, alla sua prima comunione, vestita di bianco.
Questi sono i suoi parti.
SCARLET BALK
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ALICE NEL PAESE DEGLI ORRORI

La farfalla. Ali variopinte. Armoniosa. Sul fiore. Sulla rugiada. Guardava attraverso le gelide sbarre. E la sognava. La desiderava negli occhi. Nella mente. A volare leggiadra tra i suoi neuroni. Un rigagnolo di saliva sul mento. Gli occhi vitrei posati sullo stesso, identico panorama di tutti i giorni. Uno scorcio di cielo e niente più. Ora era limpido, ora era plumbeo. Restava lì, immobile, ciondolava solo la testa ogni tanto, come se cambiare la sua posizione significasse modificare quel che i suoi occhi vedevano, come se potesse in qualche modo cambiare il verso della realtà. La sua stanza era nuda, priva di un aspetto confortante, lo stesso tepore che solo la propria dimora dovrebbe infondere.  Lei non aveva altro che le cinghie, l'unica vera abitudine della sua vita. E continuava a fissare il vuoto di fronte a lei, in quel cielo si perdeva la sua mente, i suoi più profondi pensieri. Un sorriso le si formava sulle labbra secche e screpolate. Era bella un tempo, quelle stesse labbra avevano suscitato l'ardore di molti ragazzi, e i suoi occhi color dell'ebano, avevano incantato, catturato... La sua bellezza si era persa su quei lettini, si era confusa con il tempo ma era ancora dentro di lei, in attesa di germogliare nuovamente. Non sentiva nemmeno l'anchilosarsi dei muscoli, il sangue circolava lentamente e male, stava seduta da ore ormai a fissare sempre la stessa farfalla invisibile... quella che si era inventata. La farfalla volava stanca, le sue ali riflettevano i colori dell'arcobaleno. Si posava su di un fiore, un bellissimo fiore scarlatto, sui suoi petali dolce rugiada scintillava alla luce del sole. Era come se lei ne sentisse il profumo, come se ne assaporasse il nettare. La farfalla riprendeva poi a volare e lei la seguiva nel suo gioco soave, nel bizzarro movimento nell'aria, era come se l'insetto stesse sorridendo insieme a lei. Percorreva un tratto e si riposava ancora su di una pianticella appesa sul balcone di una casa. Ora i suoi occhi si spostavano dalla farfalla alla casa, e viceversa, per più volte. L'insetto restava immobile sulla pianta verde ad osservare con lei i tendaggi color pastello, le vetrate limpide, i raggi del sole a posarsi sui muri beige. La voce dell'infermiera. La pastiglia. L'assicurarsi che tutto fosse a posto. Alice non urlava, Alice non vomitava. Alice stava solo guardando dietro le sbarre. Poteva andare. Il rumore della porta chiudersi non l'aveva distolta dalla casa. La farfalla si mosse, poco, ma non volò via, sembrava si stesse appisolando sulla foglia umida di acqua piovana. Gli occhi di lei si posero sulla ventola posta sul soffitto della camera che scorgeva dalle tendine. Un movimento veloce la sorprese. I suoi occhi scesero verso il giardino. Un dolce coniglietto correva qua e là, era bianco, pulito, giocherellone. Il sorriso di lei si fece più ampio e altra saliva le colò sul mento per poi ricadere sul camice a piccole gocce. Il coniglio si fermò, come se avesse avvertito la sua presenza, si passò le zampette sul muso e scappò via. Lei scosse di poco il capo e tornò a guardare la ventola in movimento, era lenta ma sentiva il getto dolce d'aria fresca tra i capelli. L'ape. Sulla margherita gigante, posta nel centro del giardino fiorito e generoso. Si muoveva rapidamente sul nettare. I suoi colori erano affascinanti, il giallo colpiva negli occhi in contrasto al nero striarsi del pelo, era l'ape Maya. La televisione accesa e sua madre che gridava. Era grande per guardare i cartoni animati, era troppo grande per qualsiasi cosa. Ma era pazza, la si poteva compatire. Avevano diagnosticato schizofrenia, ma le voci, Alice, le sentiva davvero? Furtiva entrava dalla finestra aperta e con lei la farfalla. Si era accorta di lei e la seguiva, ancora più armoniosa e leggiadra di prima. Le sue ali morbide e vellutate sbattevano contro vento, le stava sempre all'altezza delle spalle. Non c'era nessuno in quella camera, poteva osservare ogni cosa con calma, senza paura di essere scoperta. Le tende, viste da vicino, erano ancora più belle, candide. Il profumo nella stanza era di lavanda, non poteva confonderlo. Inspirò a piene narici quell'aroma e sorrise. La testa ciondolava tutta a destra ora, come per focalizzare l'immagine. La farfalla si posò sul suo naso, strizzando gli occhi la fece andar via ma con un gesto dolce, senza spaventarla. Il coniglio restava sotto la finestra ad osservare ogni cosa mentre l'ape laboriosa non la degnava di uno sguardo. Si voltò e vide la cassettiera in noce, in ordine, sopra di essa profumi di ogni genere, boccette colorate e trasparenti, cofanetti in legno e altri in avorio, uno specchio con la cornice variopinta, peluche sul letto dalle lenzuola bianche, carta da parati di un color celeste pallido e le fotografie sul comodino. Si avvicinò per vederle meglio. Il Dottore. Lampadina negli occhi. Stringe le cinghie. Mano sulla fronte. Va tutto bene, per ora. Nessun segno di crisi violenta. Tanti anni lì dentro e nessun miglioramento. Stati di psicosi alternati a completi momenti di stallo. Usciva. Stesso rumore della porta. Nessuna distrazione, solo un leggero dolorino ai polsi e un amaro sapore in bocca. Le cornici d'argento intorno alle fotografie, volti allegri e festosi, sguardi gentili e labbra piegate in teatrali ma sinceri sorrisi. Vi era una donna adulta, un uomo accanto e una bambina. Lei era bionda, in una fotografia teneva il coniglio tra le braccia e i capelli raccolti in simpatiche treccine. Quanto era estasiante guardare quei volti, immaginare di essere in quelle cornici lucenti... La farfalla sembrava richiamare la sua attenzione. Rumori nella testa. Anche il coniglio si muoveva allarmato. Il cielo si stava annuvolando. L'ape volò via. Lei si voltò verso la finestra. Le tende si erano macchiate del tempo. Lo specchio non rifletteva più la stessa immagine. Grida nel cervello. Chiuse per un attimo gli occhi e lo stralcio di cielo scomparve per un attimo dalla sua visuale, poi li riaprì, ma lentamente, spaventata. Le cinghie stringevano troppo, ora. La porta. Era una di quelle vecchie porte in legno con la maniglia d'ottone opaco, mai lucidata. La sedia sembrava stringerla tra le sue morse d'acciaio. Indietreggiava. La farfalla si posò sulla cassettiera, le sue ali persero il colore, divenne completamente nera. Qualcuno voleva entrare nella sua camera, con insistenza. Ora sobbalzava e la sedia insieme a lei, rumori forti sul pavimento. Ora entrava. Lui. Le solite parole prima del dolore estremo, le solite pulsazioni del cuore, martellante in petto. Blasfema figlia del Diavolo. Un bel tocco di carne per la piccola Alice. E le favole? Roba da bambini! Era troppo grande per queste cose, il Paese Delle Meraviglie non esisteva! Come non esistevano i sogni, le speranze, le gioie. La farfalla era solo una sua invenzione come quella di un incantevole libro di fiabe. Ecco che la faceva sua, continuamente. Poi l'ultima, indelicata affermazione. La sedia cadde. L'urlo. Il dottore. L'infermiera. Tanto Alice avrà chi si prenderà cura di lei e della sua malattia. E' pazza Alice. Una bambina che non conosce le favole. Non amerà mai. Le cinghie fanno male.Il sangue dal naso. Le grida. Le mani che la toccano. Le voci che la invadono. Apre gli occhi pieni di lacrime. Li vede. Il lettino. Le sbarre. Le cinghie. Il dottore. L'infermiera. La farfalla.
IL CORPO DI CLARA

Gli occhi. Stelle luminose in pozzi infiniti, ma ingannano. Lei non avrebbe mai creduto che i suoi occhi si sarebbero posati su di quel corpo, che si sarebbero soffermati su quello scempio, ma fu così. Nel vicolo, accanto all'immondizia, come residuo di un mondo inutile, giaceva un corpo senza vita. La morte ti prende e ti porta via,nei più svariati modi, ma atroce fu la Morte a prendere quella donna, senza pietà, senza un velo di umanità. Così pensò lei mentre si avvicinò a quel corpo senza identità..tentennante e timorosa, una stretta allo stomaco, un urto di vomito quando la puzza della decomposizione la colpì come un pugno inaspettato.
Non c'era nessuno, non sentiva rumori, nella città dormiente dell'una del pomeriggio, miscelata come un incanto in quella silente musica di sottofondo, il nulla. Rimase per un po' in piedi, a contemplare quel tragico spettacolo al quale le sue perle non riuscivano a dare forma. Poi si avvicinò piegando le ginocchia, ignorando l'odore forte e crudo della Morte, cercando di concentrarsi solo sulle onde martoriate del cadavere. Era una donna, come lei. Mutilata, dilaniata, uccisa, seviziata, svuotata.... Ma era una donna, lo era stata, il suo cuore batteva un tempo.  Un'angoscia terribile le compresse lo sterno come avesse un ferro da stiro piantato contro, a spingere senza pietà. Voleva forse trapassarla? La paura era svanita quasi subito, ma quell'ansia, quella deprimente sensazione la stava annientando. Cercò di non pensare e si concentrò sui capelli biondi della donna morta. Erano sporchi, colmi di terriccio e di umidità, forse la pioggia della notte trascorsa. 
Le ciocche erano sparse sul suolo, avvolte in una patina di gelida brina, così come i pensieri di chi la stava guardando. Incelofanati in un freddo sacchetto di plastica. Con la punta delle dita volle sfiorare quei fili d'orati per poi ritrarre la mano inorridita. Scese a guardare i due pozzi neri, gli occhi senza espressione, sbarrati e forse increduli, uno sguardo che diceva qualcosa...Il viso era cereo, in alcune parti tumefatto, gonfio come se il sangue si fosse fermato tutto nel cranio, sembrava quasi volesse esplodere da un momento all'altro. Il collo con un taglio sorprendentemente profondo, un sorriso nella gola, sangue coagulato impediva alla vista di andare ad esplorare quella caverna di orrori. Le spalle piegate come un aquila che richiude le ali, meccanicamente spinte verso il petto anch'esso distrutto, aperto, i seni un cumulo di carne senza forma, brandelli della sua femminilità, del dolce ondulare delle forme. Atroce. Triste. Il ventre un buco senza fondo e da esso, come un cratere in eruzione, l'intestino, le budella, l'anima. Chi guardava ora sentiva la bruciante venuta delle lacrime ma le respinse. Cercò di respirare con la bocca ma fu come ingerire l'essenza della Morte. Tornò ad osservare il cadavere, spostandosi un pò per inquadrare al meglio la donna. Ora poteva vedere, tra i resti degli abiti eleganti, il pube riccioluto coperto di sangue e pelle, poteva però distinguerlo, il dolce e arrendevole fulcro di una donna, straziato da chissà quali inaudite violenze. D'un tratto chi guardava vide quel sesso gioire, come una fiore che sboccia. Vide il corpo della donna danzare con lei nel nudo movimento di un bacio, vide quei capelli muoversi con la brezza prepotente della primavera, un sorriso sincero, aperto, denti bianchi e la lingua che li bagnava, poi le labbra, morbide...ed ora penosi rigonfiamenti violacei, perle di saliva biancastra sui lati, il sogno di quella danza si era annullato su quelle labbra. Le mani. Arti inesistenti, ormai. I moncherini troneggiavano sul grembo martoriato, appoggiato come per simboleggiare comicamente un dolce riposo. Dove erano finite le sue mani? Candide e affusolate dita, quanto di bello avevano toccato quando il sangue scorreva caldo nelle vene? Le immaginò, la donna che guardava. Vide quelle mani in un ruscello che increspava la sottile lama dell'acqua blu cobalto e poi tanti pesci, piccoli e rossi che sguazzavano nei gentili cerchietti che si andavano formando e poi alligatori inferociti a sbranare le mani della donna morta. Il braccio, colmo di lividi e bruciature, contusioni e segni diabolici, terminava in un taglio netto, un'interruzione drastica, che dava mal di aria. La donna che guardava ebbe un sussulto e chiuse per un attimo le perle ora luminose di sincera pietà. Le gambe. Ora guardava le lunge gambe coperte solo a strati da collant smembrate da chissà quale furia. Erano aperte, rigide e stese al suolo, un piede terminava accanto ad uno dei bidoni dell'immondizia. L'altro era stato piegato in una posizione non naturale, terrificante. Poco si soffermò a guardare quello. Le ginocchia sbucciate e la rotula di una delle due in evidenza, fuoriusciva dalla carne, come un trofeo colore dell'avorio. La donna che guardava sentì un gelido brivido per la schiena e distolse lo sguardo. Si alzò in piedi e tornò ad avere la visione del cadavere abbandonato. Vista dall'alto la donna sembrava un manichino dei grandi magazzini, buttato via per il troppo uso. Ma la donna che guardava era come se riuscisse a vedere quel corpo vivere, il sangue fluire, la pelle levigata e candida diventare ruvida al tocco spietato dell'inverno, la vedeva danzare... sempre danzare. Quasi non voleva abbandonare il cadavere, come se averla esplorata così meticolosamente, anche se per un breve lasso di tempo, l'avesse resa un'intima amica. Una lacrima bruciante le rigò la guancia ma subito scomparse al contatto con il freddo gelo di quel pomeriggio. Guardò l'orologio, erano passati venti minuti. Doveva andar via, non poteva restare. Lasciare il cadavere, quel corpo di donna senza vita, era come un malinconico addio alla stazione dei treni dopo un'estate tra amici. Ma doveva. I suoi occhi belli si posarono per l'ultima volta sul corpo morto, si posarono sulla fronte spaziosa, poi ancora sul ventre, e sulle gambe, lentamente, come per fotografare quello scempio e poterlo trasformare nella bellezza del suo sogno tutte le volte che voleva, un bel gioco il lego. Mise le mani in tasca, mani ora congelate dal freddo, mani insensibili. Toccò qualcosa di duro, un pennarello. Si avvicinò per l'ultima volta alla donna senza vita, alla donna inutile ed imperfetta. Su quella fronte ancora pulita la donna che guardava diede un nome alla Morte, la chiamò Clara.
METALLO

Sei sdraiato sul mio letto. La luce lunare filtra dalle tapparelle abbassate. Posso scorgere la sinuosità del tuo corpo sopra le bianche lenzuola. Immobile. Mi avvicino a te con passo lento, quasi a fatica, come se il suolo facesse attrito al mio cammino, come se volesse impedire la mia venuta a te. Ma non posso starti lontana.
Sembra passata un'eternità dal mio primo movimento verso di te ma ora riesco a vederti completamente, i miei occhi dapprima ciechi ora hanno messo a fuoco la bellezza estasiante delle tue forme, la durezza sensuale del tuo sguardo che mi trapassa, mi penetra come lama affilata nelle carni deboli e femmine. Sento il calore dei tuoi occhi sul mio corpo, il dolce svolazzare di ali immaginarie sopra di me, ogni centimetro della tua pelle è per me continente da esplorare e bramo dal desiderio di camminare su di te, sentire il molle cedere della tua essenza sotto i miei piedi. E' una misteriosa melodia nel mio cervello che batte forte contro i miei pensieri, annebbiando tutto intorno e dentro me. Non riesco a immaginarmi senza questa paradisiaca visione. Mi siedo sul letto alzandomi la gonna... le gambe nude ora sfiorano le lenzuola che si muovono con il vento della mia immaginaria realtà. La nostra realtà amore mio, la fantastica storia che stiamo vivendo, una terrificante fiaba senza fine. E assaporo gli istanti, uno alla volta, come un degustatore centellina il vino. I tuoi occhi belli si spostano di poco seguendo i miei movimenti ed io li sento, come riflettori su di me e sorrido. Lievemente. Per non darti fastidio, mio principe, per non rovinare l'idillio tra noi. Rimani impassibile, l'espressione del tuo viso del tutto inesistente, ferma, tesa la pelle del viso, contratto in una smorfia leggera di disgusto. Quanto amore leggo in questo. Ora le mie mani fremono, un leggero formicolio mi attanaglia, mi avvicino con le dita... accarezzo lievemente la tua fronte, sento la pelle liscia e calda sui polpastrelli, li muovo appena per percepire ogni piccola imperfezione e la trovo con piacere estremo. La cicatrice crea minuscoli dossi e cunette sul percorso delle mie dita, mi soffermo sulla crudele scia di dolore che si dilunga verso il sopracciglio. Mi mordo un labbro. Ora sfioro il tuo naso, disegno una croce sui tuoi occhi, ma sempre con passionale lentezza per non perdermi nulla di questo piacere. Il tuo respiro è quasi impercettibile ma lo sento, come posso non udire i rumori da te prodotti? Adoro tutto di te. Con la coda dell'occhio vedo le tue labbra socchiudersi per emettere un suono, forse per parlare. Non posso permetterti di spezzare l'incanto. Con il dito indice ti fermo appoggiandolo con una leggera pressione sulla bocca... sento la screpolata lussuria su di essere, una piccola perla di saliva all'angolo, lo asciugo con lo stesso dito e poi lo porto alla mia bocca. Amaro. Torno a toccare l'assenza delle tue parole e passo la lingua sui miei denti. Sento brividi sul palato e mi viene da ridere ma non lo faccio. Con le dita sento la pelle delle labbra che si stacca, poi entro nella cavità tiepida e sento la lingua, il bagnato lussurioso del tuo dentro. Tu non ti muovi. La tua lingua morta sui denti. Con il dito medio disegno una curva sul tuo palato, solletica anche il tuo ora ma tu non sorridi. Piego la testa di lato per focalizzarti meglio, i tuoi occhi si muovono con me e questo mi fa felice. Come sei stupendamente arrendevole. Mi attrae ora il tuo metallo. Stuzzico con leggera violenza la barretta nella lingua, ci gioco e la muovo su e giù a simulare un amplesso sessuale. La lingua come la vagina. La barretta come il pene. Esco dalla caverna degli umori più elettrizzanti per giungere rapidamente all'anello prezioso sul tuo labbro inferiore. Così ruvido, così martoriato dai troppi morsi. Ma come sei delizioso. Tiro l'anello più volte, mi avvicino per vedere il foro e una gocciolina di sangue stilla sul mento. La prendo subito per farla mia, per nutrirmi di te. Ora le mie mani non possono attendere questo splendido continente di metallo. Il tuo petto, le ferite cicatrizzate e sensuali sono come bocche cucite che non possono parlare, come te. Le guardo cercando di visualizzare com'erano prima di essere chiuse per sempre, ermetiche alla mia passione. Il sangue. La pelle lacerata. Ma ora vedo solo grossi segni indelebili su di te e mi accontento. Il tuo capezzolo turgido e l'anellino luccica al mio tocco. Si muove e la luce furtiva lo coglie all'improvviso, come un dono a me riservato. Debbo ringraziarti. Questo anello è più largo dell'altro e ci infilo il mignolo... lo passo all'interno di esso per sentire il fresco interno liscio, ora lo tiro un po' ed il capezzolo lo segue, sembra fatto di gomma. I tuoi occhi ora si chiudono ma poco. Questo mi eccita. L'esplorazione non è terminata, amore. Il tuo ventre è così dolce. Mi sposto di poco dalla posizione presa per poter agire con più facilità e tu mi sembri d'accordo, un lieve movimento del tuo capo me lo fa intuire e proseguo. Dentro di me scorrono veloci sensazioni irripetibili che solo tu sai farmi provare, ogni volta che mi doni il tuo metallo. Svuoto la mente per te, per godere degli attimi che mi sai regalare. Hai un segno orribilmente affascinante accanto all'ombelico, quasi sembra un foro mal rimarginato. Non ti hanno messo i dannati punti qui vero? Sono felice di questo, non immagini quanto amore, e lo sei anche tu. Questo è naturale come ogni foro sul tuo corpo. Visibile in maniera differente. Passo il dito pollice sul foro, è abbastanza ampio, la cavità profonda come un secondo ombelico. Immagino un cordone che sale come flebo per darti vita. Il mio viso ora è sul tuo ventre, lecco dolce questo arrendevole strato della tua pelle e strofino il naso per sentire l'odore, sei sudato ma non troppo. L'umidità mi rallegra. Ed ora il trofeo della mia avventura. Ho vinto il primo premio. Mi sento tanto Indiana Jones e questo mi fa un po' ridere e un suono emerge dalle mie labbra tumefatte. Questo ti ha irritato, lo vedo, quindi smetto subito. Lo scettro mi attende e anch'esso porta con sé il metallo ruggente della passione mia. So che ti ha fatto male ma quale dono migliore per la tua dama? Sei sempre stato così generoso... Sei un angelo caduto dal cielo, lo so, l'ho sempre saputo. Vedo il tuo petto ora che si alza più forte di prima, il tuo respiro si fa celere. So che hai paura. Mi arrabbio un po'. Abbandono l'idea di impossessarmi dello scettro, anche se è di mio diritto. Ma resta lì, immobile ma duro trofeo di una vittoria d'amore. Ti guardo un po', negli occhi ora privi di colore, come pozzi senza fondo, spregevoli specchi di me stessa. Che schifo. Mi alzo di scatto, irritata e confusa. Scorgo appena la lacrima infernale che scorre sulla tua guancia rossa di graffi e ti detesto. Alzo le spalle, so che ti passerà. Mi sistemo i capelli in una coda spettinata, mi danno fastidio sugli occhi ora, vedo appena il letto, le lenzuola ed il tuo corpo nudo come un masso. E' così lento ora il tuo solito gesto. Una rotazione di 90° verso un altro punto, quello opposto della stanza, per non vedermi più. Scuoto il capo e mi volto per raggiungere l'uscita dall'Eden ma mi scontro con la tua maledetta realtà. Quasi cado ma riesco a mantenermi in equilibrio, per fortuna. Vorrei urlare la mia rabbia ma non lo faccio. Potresti non donarmi più tali sensazioni. Prima di andarmene rimetto a posto la tua sedia a rotelle. Poi esco. Ti amo.
I SENZA FACCIA

Dieci anni. Lunghissimi. Interminabili. La prima cosa che vide fu la luce al neon, forte, gelida, senza anima. Contro di lei. Rifletteva un bagliore inaudito e i suoi occhi non riuscirono a restare aperti, socchiusi verso un mondo a lei sconosciuto. Aprì la bocca per dire qualcosa ma era come se le labbra fossero diventate di carta, deboli, quasi inesistenti, ed il palato asciutto, secco e ruvido al contatto con la lingua pesante. Nessun suono dalla sua gola. Non era un sogno... era tutto quel che non si era aspettata. Era tornata a vivere, in un attimo. Aprendo gli occhi era come se avesse spalancato una porta, la porta sull'Eternità. Dottori ed infermiere scorrevano davanti a lei come onde di frequenza, percorrevano la sua visuale e scomparivano. Frasi lontane, suoni forti o impercettibili. Confusione primordiale. Sentì parole di conforto, carezze sul suo volto tirato, vide sorrisi sinceri... ma chi erano quelle persone? Un coma durato 10 anni. La notizia. L'evento. Scosse la testa e poi si destò come da un letargo. Si era svegliata da un coma durato 10 anni. Si era svegliata così, senza immaginare che sarebbe stato solo l'inizio del suo più grande incubo: ricordare. Rimase sotto osservazione per qualche giorno ancora, ma sembrava tutto normale, tanto normale da apparire surreale. Sveglia e sana. Ma dentro di lei solo angoscia, paura, disperazione. Nel tempo a venire si domandò spesso se fosse stato meglio morire. La risposta non tardò ad arrivare. Lei non solo era un "miracolo". Era anche uno scoop da telegiornale, non facevano che parlare di lei e questo le fece del male. Si guardava spesso allo specchio, toccava la sua pelle candida quasi trasparente, i cuoi capelli biondi tagliati male da chissà quale infermiera pazza... i segni del sonno profondo negli occhi neri. Erano così profondi ma spenti, vuoti, privi di espressione che era sicura che mai li avrebbe visti rinascere. Erano morti in quel coma. Per sempre. Occhi specchio dell'anima, dicono. Ci dormì sopra. Il Miracolo. Era questo il titolo, l'inizio di una storia forse ripetuta ma per tutti tanto importante. Ma per lei non lo era. Leggeva e rileggeva quegli articoli scoprendo tutto di lei, di quel che era stata e di quel che era successo. La sua famiglia. Fatti a pezzi. Madre e padre uccisi senza pietà, tagliati e gettati nella vasca da bagno a galleggiare nell'acqua fetida della Morte Inaspettata. Il fratello decapitato e lasciato a ciondolare sul piatto della doccia, il sangue a farne da padrone. E lei? Lei stuprata, accoltellata ma viva. Dieci anni di sogni interminabili, tutti così difficili da decifrare, eppure nel suo sonno ricordava di farne parte davvero, come se stesse vivendo una vita parallela. Ora piangeva, ricordando la sua famiglia. Amava molto i suoi genitori, il fratello maggiore, la sua casa piccola ed accogliente. Ma ricordava solo così, leggendo la sua vita su una pagina di giornale, tutto questo la rendeva triste. La disperazione era sua compagna nei giorni a seguire...e non era complicato riuscirla a materializzare nel suo inconscio, ogni momento. Pensava di farsene una ragione e di aspettare la Nera Signora in pace, nell'appartamento dell'assistenza sociale, godendosi i panorami e gli orizzonti, ascoltando musica classica (ma le piaceva prima?) e disegnando su carta assorbente la stessa faccia...un identikit di sé stessa. Ma non fu come credeva. Una donna, forse una giornalista, non le pose la stessa, ripetitiva domanda e quando l'udì per la prima volta si sentì stranita. Nessuno aveva cercato di sapere quello, tutti a parlare di miracoli, di seconde vite, di Padre Pio. Ma ora sentì una stretta allo stomaco: chi ha ucciso la sua famiglia? Lei, unica vera testimone dello scempio tanto chiacchierato e mai risolto. Lei, unica vera giustiziera dei suoi cari. Avrebbe voluto uccidere la giornalista per averle posto quella domanda, per aver portato in lei lo sconforto e la paura più profonda, vermi la stavano divorando ora, non aveva più carne. Mentre l'eco della domanda le inondava il cervello, migliaia di flashback le sfondavano la mente. Era tutto insopportabile. La cacciò via, come cacciò via la verità. Forse le faceva male ricordare? Probabilmente dieci anni della sua vita non erano altro che un minuto, un istante rapido e freddo. Inesistente come i suoi occhi. Morti per sempre. Che senso aveva ora dare un volto al suo carnefice o chiedersi perché lei non era morta? O perché l'assassino l'aveva risparmiata? Non a caso lei era tutta intera, non l'aveva mutilata o fatta a pezzi come gli altri. Perché? Ci dormì sopra. Si mise a scrivere un diario, creò dei personaggi, decise di manovrare la sua vita costruendo un finale perfetto. Si sarebbe suicidata. Per mesi scrisse senza sosta, ricordandosi ogni due ore di prendere il suo psicofarmaco, la pillola della felicità. Alle volte si ubriacava per prendere sonno e ci riusciva. La madre, il padre, il fratello. Morti. La sua storia scritta dalla protagonista. Lei che si era salvata, l'unica superstite. Ora l'assassino. Non poteva non menzionarlo. Erano tanti, innumerevoli alieni impazziti, folli e sanguinari baroni del male. Anime. A caccia di anime pure e famelici di carne umana. Ma lei, angelo ferito era solo un buco. Appetibile fiore da stuprare. Poi il coltello, ma decise di non metterlo nel suo diario. No. Nessun coma. Il suicidio era la fine perfetta. Nessuno avrebbe saputo il nome dei suoi assassini, forse nemmeno lei. Guardava fuori dalla finestra lo stesso identico tramonto di tutte le sere, sospirò. Il racconto della sua vita (quale vita?) era terminato. Non si uccise. Era morta su quel letto d'ospedale e tutti ora portavano fiori in segno di lutto. Su quelle lenzuola bianche riposavano inerti mille crisantemi.
SPECCHIO & RIFLESSO

La prima volta che si erano esplorate fu in un cesso pubblico, alle porte della città, in una notte umida e fredda. Si erano spogliate della sola inibizione, si erano toccate sopra il maglione pesante, alla ricerca quasi pudica di un'emozione diversa. Le loro labbra si erano sfiorate ma mai toccate davvero, i respiri mischiati in una fitta coltre di gelido alitare. Ubriache e sfinite si erano conosciute, avevano iniziato il gioco tanto agognato: specchio, riflesso. Una delle due si era pisciata addosso mentre l'altra sistemandosi i capelli rideva a crepapelle. La puzza inondava le loro narici, le risate echeggiavano sulle magnoliche zozze. L'altra si era pulita come poteva mentre l'amica, ora, si guardava attorno, la testa roteava impazzita... avrebbe vomitato, ma non dentro quel lurido cesso. Avrebbe vomitato a casa sua, nella sua linda tazza del water. Quella sera, per le due amiche, fu qualcosa da ricordare ma non erano ancora sazie di conoscenza, non avevano ancora capito cosa realmente si nascondeva sotto quella stupida vergogna, e volevano scoprirlo. Vi furono tanti altri momenti propiziatori, altri istanti colmi di paura ed eccitazione. Ma mancava l'elemento alcol che le rendeva meno inibite, pù lanciate verso la totale perdita dei sensi e del tempo. Si erano conosciute al liceo, fin dall'inizio si erano piaciute. Avevano condiviso gli stessi interessi, erano andate negli stessi locali, avevano frequentato le stesse compagnie. Ma non erano mai state davvero amiche. A malapena si salutavano all'entrata della scuola, quando, in mezzo alla folla di ragazzi, si cercavano con gli occhi e si incontravano, per poi abbassarli dopo un timido sorriso. Ma quante cose si erano dette in quei brevi momenti, solo loro lo sapevano. Erano diverse ma tanto simili. Ma come si erano davvero unite? E quando? La gita scolastica era sempre stata l'occasione migliore per fare nuove amicizie. Le classi erano come delle piccoli prigioni, ognuno faceva parte della sua cella e comunicava solo con i detenuti di quella cella. Ma durante le gite i detenuti si mischiavano tra loro e alcuni si sarebbero liberati delle sbarre da lì in avanti, per sempre. A loro due successe così, mentre percorrevano annoiate l'autostrada sopra quel pullman dalla moquette soffocante. Si erano sedute accanto, si erano sfiorate le braccia nude, avevano sentito la musica dallo stesso walkman, il tutto senza nemmeno chiedere il proprio nome. Avevano riso insieme per tutta la durata della gita, avevano fatto le stupide con i ragazzi del luogo e si erano raccontante le proprie esperienze, alcune se le erano anche inventate pur di piacersi di più. Avevano dormito nello stesso letto, ascoltando il rumore del loro respiro. Divennero inseparabili. Crescere era un po' come morire, la loro spensierata adolescenza si spezzava di continuo traballando da amori barcollanti, da gesti insensati, da litigate furiose, da noiose telefonate. Ma il tempo passava e le teneva sempre unite. Alla fine di una storia vi era sempre un nuovo capitolo per entrambe. Si perdevano di vista ma si trovavano di nuovo, ritmicamente, senza mai cambiare dentro. Fino a quella sera, alla sera del cesso pubblico, quando entrambe volevano assolutamente completare il loro sentimento, quelle emozioni che le avevano legate da anni dovevano comporre il mosaico della loro avventura, chiamata da molti "amicizia". I giorni a venire furono difficili, temporali mistici nelle loro menti, evocazioni strambe e scritti paranoici sui diari dimenticati, ma ci riprovarono, combattendo la loro battaglia interiore contro la stronza legge della natura. Si baciarono. In camera, con la porta chiusa, lo stereo a palla, un dolce profumo d'incenso aleggiava nell'aria. Le loro lingue pudicamente si incontrarono per poi danzare un valzer conosciuto ma mai vissuto così intensamente come in quel momento di abbandono totale. Chiusero gli occhi, gustarono il sapore della loro saliva, godettero della morbidezza delle loro labbra, dapprima tese, poi rilassate una nell'altra. Era tutta un'altra cosa, ora. Non erano ubriache, non erano in un lurido cesso di strada, ma erano insieme in un paradiso artificiale ed era come se non ci fossero, come se la musica fosse dentro di loro, come se fossero uno specchio, un riflesso. Poi le mani, alla ricerca dei loro sessi, vogliose e divertite dal magico incontro con la pelle liscia dell'altra. Carezzevoli movimenti di mano, sulle braccia, sulla schiena e poi sui seni. Il loro bacio interrotto spesso da risatine imbarazzate. Per niente appassionate ma ampiamente curiose una dell'altra. Irrefrenabile desiderio di non smettere. Si guardarono a lungo, osservarono ogni centimetro del loro corpo, sorridendo, mordendosi le labbra, sussurrando parole incomprensibili. Non andarono fino in fondo, anche se lo avrebbero voluto. Ebbero paura del dopo: cosa vi sarebbe stato una volta fatto l'amore? La loro vita, forse, sarebbe mutata? Non lo seppero mai. Una di loro conobbe un ragazzo, si innamorò follemente e s'aprì, come sempre durante il periodo della loro amicizia. Avrebbe dovuto finire, sarebbe dovuta tornare, alzare la cornetta e chiamarla piangendo, ripetendo senza fiato: "è finita, mi ha lasciata". Ma non fu così. E l'altra attese invano quella telefonata che mai arrivò. Ancora oggi, forse, è lì che l'aspetta, mentre fa l'amore con suo marito, mentre fa la spesa con la vicina, mentre coccola suo figlio, mentre fa la fila in posta per pagare la bolletta. Forse lei ancora la cerca. Ma non sa dove sia. Non importa, il dolore non la prese, sicuramente lo sconforto, negli anni a venire dopo quel pomeriggio, fu suo compagno, la prese per mano e la condusse altrove. Ma mai pianse per lei. Non ne era innamorata. Non furono mai davvero innamorate. Ma, quando le capita di guardare una loro fotografia, si domanda sempre cosa sarebbe successo se quella chiamata fosse giunta a destinazione. E la risposta è sempre la stessa: specchio, riflesso. Torna indietro al mittente.
BABETTE

Avete sempre considerato Babette come l'emblema della forza. Una donna di pietra, impossibile far male a Babette. Babette si rialza sempre. Ad ogni sconfitta, dopo qualsiasi batosta, Babette torna in piedi, più agguerrita di prima. Babette è sempre stata per tutti voi una donna da imitare o da invidiare. Quando Babette è stata lasciata da lui, dopo 7 anni di vita insieme, sapevate bene che ce l'avrebbe fatta. Senza grossi sforzi, senza piangersi addosso per troppo tempo. Come tutte le persone avrebbe gridato al mondo la sua rabbia, avrebbe cercato di capire cosa avesse sbagliato, si sarebbe domandata come può cessare di esistere un sentimento che per anni l'ha nutrita, cresciuta, rassicurata. Avrebbe singhiozzato durante la notte, si sarebbe alzata la mattina con le occhiaie per la veglia dei pensieri. Ma tutti sapevate che Babette, nel giro di poco, si sarebbe ripresa. Tutto sarebbe rimasto un brutto ricordo, un amaro passaggio nella sua vita. Eppure prima o poi qualcosa doveva scuotere anche l'anima di Babette, perché anche lei era carne e sangue, anche lei sentiva incessante il battito del cuore, anche lei, come voi, non era corazzata, ad un certo punto della vita avrebbe pianto, forse per sempre, le lacrime del primo vero dolore, quello che difficilmente riesci a cancellare. Una mattina di Luglio. La voce squillante di Sara le dava la sveglia, come tutte le domeniche. La colazione era pronta, il sole brillava alto nel cielo. Babette aprì gli occhi. Luce. Immenso fascio di luce abbagliante. Li richiuse. Le palpebre si alzarono nuovamente, stanche e tremolanti. Il buio. Il nero più completo. L'oblio. Babette credette per un attimo che fosse un incubo. Pensò alla notte trascorsa tra fiumi di birra e superalcolici. La sbornia. Residui bellici di una sbornia in piena regola. Tutto sotto controllo. No. Non era niente sotto controllo. Sbatté le palpebre più e più volte, niente. Il sole non brillava per Babette. Credevate che tutto rimbalzasse per lei, eravate convinti che qualsiasi cosa la trapassasse come un fantasma, niente spezza Babette. Ed ora Babette è cieca. Non vede più i vostri volti sorridenti, non vede più il sole dell'estate, la neve invernale, le foglie dell'Autunno rosso che cadono a terra, il dolce fiorire nei suoi giardini. No, ora Babette non vede più niente, solo il buio, solo quello. Un tumore per anni è avanzato nei suoi occhi. Nessun sintomo, il Male ha lavorato dentro di lei senza fare rumore e l'ha catturata...solo alla fine. No, questa volta Babette non ce la fece. Il suo lamento dell'anima vi ha colto di sorpresa vero? Nessuno di voi avrebbe mai creduto di vedere Babette impotente, fragile, spezzata, piegata in due dal dolore. Il pianto non cessava e l'inondava di malinconia e terrore. Si chiese ad alta voce un sacco di volte "perché?" senza ottenere risposta, solo sguardi basiti, inespressivi, timorosi di dover rispondere a tale quesito. Gli amici fedeli di Babette non erano pronti per capirla, coccolarla, rassicurarla. Voi, siete voi. La circondate di voci, di risate,cercate di strapparle un sorriso mentre i suoi occhi roteano all'impazzata alla ricerca anche solo di un'ombra, una minuscola fiammella nella sua oscurità. Vi fa impressione quel suo non guardare, quella bocca sempre aperta ed un sorriso appeso, di circostanza. Sono passati mesi e Babette non ha retto. Ora sta in un istituto e ogni tanto la si va a trovare. Le volte che sono con lei e le parlo, la sua voce è spezzata da feroci singhiozzi o tremori, mi si apre il cuore credetemi, e mi sento così impotente di fronte al suo male. Non v'è rimedio ed è atroce quando gli occhi di Babette mi cercano e non mi trovano. Cercano la luce del giorno e trova il nero della notte, la sua notte. Non ha mai saputo dirmi cosa significa essere ciechi, nemmeno lei in realtà ebbe il tempo di capirlo, di realizzare che non avrebbe più potuto guardare la luna. Lei amava osservare la luna e voi lo sapete. La sto a guardare per ore quando vado da lei, a volte cerco di non farmi sentire. Non è bella Babette ma è sempre stata la donna ideale per tutti, quando si parlava di fidanzata perfetta era lei che nominavate. Quante volte si è alzata dal tavolo sorridendo e ripeteva: "non sapete ancora con chi avete a che fare"...troppo volte. Ora di quella voce decisa e risoluta non v'è rimasto nulla. Non avrei mai immaginato che avremmo perso Babette così, per un crudele gioco del destino, lo stesso fato che lei credeva di poter distruggere e invece è stata distrutta. Quante volte avete detto che Babette era la più fortunata? Quanti di voi la ricordano bambina con i fiori tra i capelli? Quanti di voi hanno preso il due di picche dopo una serata al cinema durante il liceo? Innumerevoli risposte, inesistenti verità. Una frase mi rimbomba nel cervello...la sua quando piangendo mi ha detto: "quando mi ha lasciata ho sofferto davvero tanto, un male che mi ha divorato dentro e quando quel giorno il dottore mi ha annunciato che sarei rimasta cieca per tutta la vita ho riso, istericamente...e mi sono detta che quella era la fine. Il sipario della mia vita era calato per sempre, senz'amore Babette non può vivere, non ha senso continuare a guardare la porta di casa e sperare di vederlo rientrare...". Occhi ciechi, occhi morti. A lei non servivano più perché non lo avrebbe rivisto. Chiamiamola metafora. Ma lei ci crede sul serio e dobbiamo rispettare la sua scelta. Forse tutto potrà ora avere un senso per lei. Ora mi guardate tutti e puntate il dito contro di me, chiedendomi con arroganza: "ma tu chi sei? Chi sei per giudicarci? Per sapere cosa proviamo per Babette?". Chi sono io? Vi guardo dall'alto in basso, scrutando la vostra paura che come serpe vi striscia dentro, stringendo il cuore in una morsa d'acciaio. L'estremo terrore di doverla guardare ancora e trovare il vuoto nei suoi occhi spalancati, di non sapere che dire. Io so cosa devo fare. Le sto accanto senza timore. Io sono la Babette che non avete mai conosciuto o che non avete mai voluto conoscere. La Babette che soffre, che non si rialza. Io sono la donna di piume. Io sono la donna di vetro.
MALINCONICI FOLLETTI

Sedevo. Il culo quadro e il sedile scomodo. Era piena estate e il sotterraneo della città era privo di aria, era come se l'unico ossigeno disponibile fosse l'alitare della folla, come se io respirassi il respiro altrui. Il rumore dell'attesa era un esasperante beep della metropolitana. Le porte aperte come fauci meccaniche pronte a sbranarci tutti. La gente si accalcava nei vagoni, altra scendeva imprecando. Lo sciopero stava impazzando in tutta la città ed io avevo preso l'ultimo treno di quel pomeriggio che ora tardava a ripartire. Trattenevo a stento la voglia di urlare. Il sudore colava sulla schiena e sentivo la camicia bagnarsi rapidamente. Restavo immobile a contemplare ogni cosa. I miei occhi come rettili ad insinuarsi nelle vite di quegli sconosciuti. Nell'attesa mi divertivo così. Avevo un tremendo prurito alle palle che mi tormentava ma non potevo fare nulla e cercavo di stringere a più non posso le cosce mentre le accavallavo, mi veniva da ridere. Tutto era assurdo. Passai una mano tra i capelli e i miei occhi si posarono sulla famiglia di fronte a me. Padre, madre e bambina (o mostro?). Rimasi dapprima fermo sul padre. Lunga barba brizzolata, viso cereo e spigoloso, terminava in un mento aguzzo, sembrava non finire mai. La barba era rada anche se lunga, potevo scorgere senza problemi i lineamenti duri del viso, aristocratici ma disgustosi. Aveva le gambe accavallate come me ma lui le teneva con le mani incrociate sulle ginocchia, aveva una grossa vera all'anulare, dita enormi e rugose, poteva avere al massimo 45 anni ma li portava male. Era ora di punta e portava giacca e cravatta, colori impensabili e accostati malamente, mi dava l'aria dell'uomo distratto, senza ideali. Era pensieroso, lo guardavo fissare il culo della portoricana che masticava nervosamente la chewingum, ma anche in quel suo sguardo trovavo solo stanchezza, vuoto, nessun interesse a livello sessuale, casomai credo stesse pensando ""dovrebbe mettersi a dieta, ha un culo enorme". Il folletto uscì dal suo orecchio sinistro, giocoso e saltellante, portava un cappuccio giallo con una punta che cascava simpaticamente sulla fronte, occhi vispi e orecchie a punta, era grande poco più di cinquanta centesimi ma io lo vedevo bene. E lui vedeva me. Abbandonava l'orecchio dell'uomo per scendere fin sulla spalla e ora rivolgeva il suo occhietto dispettoso sulla donna, la moglie, la madre. Così anch'io mi soffermai su di lei, con estrema pietà, perché era questo il sentimento che scaturiva in me nel solo guardarle gli occhi: spenti pozzi senza fine, un abisso cosmico di malinconia. Aveva i capelli color topo a caschetto appena sotto le orecchie, non troppo puliti a dire il vero, senza trucco, pelle ruvida e olivastra, occhiaie del poco sonno. Mi rattristava guardare quelle mani giunte sul grembo, lei e lui non si rivolgevano la parola. Lei restava con lo sguardo vacuo, fisso al pavimento e di tanto in tanto guardava le labbra della bambina, quelle labbra spalancate del fanciullo incantato. La bambina guardava un gruppo di neri, parlavano la loro lingua in un vociare confuso. La madre restava ferma su quelle labbra bagnate, tra l'infastidito e l'affettuoso. Non sapevo decifrare quello sguardo. Non era penetrabile. La bambina con le mani stese allo stesso modo della madre, i piedi a ciondoloni nel vuoto come se sotto di lei ci fosse un immenso cratere. I suoi occhi neri come l'ebano correvano dal gruppo di neri al suo cratere. Con la medesima espressione sbalordita. Portava vestitini scialbi, stinti, orribili. Una famiglia moderna. Una famiglia infelice. Una delle tante domeniche...non si parlavano, la bambina guardava la tv con la bocca aperta, bavetta le colava sul mento. Lui beveva la birra e osservava la città fuori dalla finestra. La notte una scopata veloce, senza venire. Poi il maledetto russare di lui. I sogni terribili della bambina e i singhiozzi della moglie nel cuscino. Il folletto danzò su di loro, sulle spalle, tra i capelli, sulle mani e cadde a terra rotolando per raggiungere la portoricana. Le salì su un piede sghignazzando per il tacco a spillo. Guardai la donna in viso. Aveva un colore della pelle fantastico ma un volto squadrato, lineamenti forti, quasi mascolini. Portava occhiali da sole scuri, capelli corvini a morbidi ricci cadevano sulla schiena. Un gran culo, enorme ma sodo. Ondeggiava il corpo avanti e indietro e mi accorsi solo dopo un po' che aveva gli auricolari. Chissà che stava ascoltando? Era seria, un'aria quasi volgare ma non voluta, naturale. Le portoricane sanno essere molto sensuali quanto porche. Un corpo sproporzionato ma sinuoso, onde di mare ovunque, nei capelli soprattutto. Il folletto adorava quei riccioli puliti e leggeri e sprofondò in essi per un po'. Non era bella la donna ma era profumata. Nella cucina, di domenica, lei ed un uomo. Anche lui portoricano. Una lingua sconosciuta, ma loro si capivano. Fuori dalla finestra la stessa città, la stessa afa e la stessa soltudine. Una scopata sul tavolo. Il cibo piccante. Un saluto senza sentimento e la donna con la radio accesa muoveva il bacino mentre lavava i piatti. Adorava quei momenti in cui poteva ascoltare la sua canzone preferita. Il folletto ora camminava lentamente. Il rumore dell'attesa non era ancora cessato. Sentivo perle di sudore sulla fronte ma mi sporsi un po' per vedere meglio dove stava dirigendosi la piccola creatura. Due ragazzine sui 15 anni stavano cazzeggiando e parlando di ragazzi, discoteche e nuove droghe. Alle volte alzavano la voce, altre l'abbassavano a lievi sussurri per non far sentire i loro peccati. Il folletto si nascose tra i capelli della biondina. Era bionda naturale, sopracciglia chiare e lentiggini sul viso. Era di una bellezza inglese sopraffina. Mi piaceva. Non aveva seno, quasi piatta. Sorrisi. Jeans elasticizzati mettevano in evidenza un corpo senza forme, troppo magra, probabilmente anoressica. L'amica era tinta, di un rosso tiziano squallido. Il viso truccato ma sfatto. Un sorriso giallino dal troppo fumo. Magra ma non troppo. Il folletto preferì restare sulla bionda. Portavano degli zaini enormi sulle spalle, forse tornavano da scuola, forse nemmeno ci erano andate a scuola. Vedevo in loro due diverse realtà. La biondina vittima della famiglia rigida, una madre frigida ed un padre padrone. La rossa nel mezzo di una crisi coniugale, forse si stavano separando ma, a dire il vero, a lei non interessava granché, le importava solo di poter uscire, divertirti, sballarsi. E la domenica la ragazzina bionda si prestava a pranzare con la sua patriarcale famiglia del nord. Un sacco di roba unta. Tanti pensieri atroci nella mente e il tremore convulso delle viscere. Il bagno. Vomitava. Tutto. Nemmeno un grammo in più. Il folletto ora era stanco. Quanta gente affollava la metro in quell'ora di punta, nel caldo afoso di Giugno. Non era il momento forse. La corsa frenetica della piccola creatura fantastica era alla fine. Ma il folletto mi guardava come se fosse strano. Quel suo stanco passo verso la porta della metropolitana. Fece un saltello per non cadere nel cratere. Mi salutò senza dire nulla, senza nessuna espressione, ma sapevo che mi stava salutando. Mi rimisi eretto sul sedile, appoggiando la schiena fradicia di sudore. Chiudi gli occhi un attimo mentre la nausea mi attanagliò lo stomaco. Sentì un rumore assordante. Poi le porte si chiusero. Aprii gli occhi e vidi dal finestrino il mondo muoversi. Ora torno a casa, pensai. Ora tornano tutti a casa. Domani è domenica.
SCARLET BALK
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