autore: DISORDER - Autumna Et Sa Rose 
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:: DIONISO ::
Il presente scritto è, in un certo senso, la "cronaca" della mia partecipazione alla rappresentazione teatrale al Sociale di Rovigo l'8 Febbraio 1999 del Dioniso - Tragedia del Teatro ad opera del Teatro del Lemming (per info: www.teatrodellemming.com) di Massimo Munaro, spettacolo che prevede un numero assai ristretto di spettatori, nove, spettatori che vengono coinvolti attivamente nella rappresentazione stessa, secondo un tema caro alla compagnia ed al suo regista ed ideatore del progetto teatrale che è quello di con-fusione, confusione di ruoli, di sensi, e al tempo stesso fusione tra attore e spettatore, alla ricerca della vera comunicazione. Il Lemming fonda la propria ricerca teatrale sul mito greco e le tragedie che ne fanno la Storia (ha anche rappresentato - in chiave moderna - Edipo ed Amore e Psiche), rielaborandolo per la sensibilità contemporanea, cercando di sovvertire le presunte "regole" del teatro moderno, nella sua forma più sclerotizzata ed impoverita di capacità comunicativa.

A piedi scalzi m'incammino verso il palco immerso nel buio dove si disegna michelangiolescamente, tra luci fluorescenti ma opache, la scena dell'orgia catartica di corpi avvinti come in una spirale chiusa. Accanto, un essere femminile fantasticamente rubicondo giace assiso sul suo trono (regina e guardiana "sacra" di quell'ordine?!) e completa così il quadro. Dioniso è lì ad attendermi seduto sul seggiolino più a sinistra della prima fila di destra, e mi invita a sedere nel posto contiguo a quello immediatamente vicino al proprio, avendolo già predisposto con il sedile abbassato. Poi si alza e mi fa accomodare dove prima sedeva lui, prendendomi per mano. Nel frattempo tutti gli altri spettatori vengono invitati a cambiare posto mentre la spirale gradualmente si srotola.
Il monologo di Dioniso è chiaro, lucido seppur cupo nelle tonalità, non solo vocali. La mente si apre, lo spirito brama contorsioni, l'organo rosa diviene ossessivo ma nient'affatto ossessionante, mentre le/i Baccanti si avvicinano seguendo attentamente l'incalzare delle iterazioni melodiche: dapprima essi appaiono tutti e nove insieme alla mia vista, fin quando la loro vicinanza si fa totale e giungono così sul bordo del palco. A questo punto solo una figura femminile occupa il mio cono visivo, intenta a fissare con i suoi occhi i miei e decisa come sembra a prendermi per mano, ormai scesa dal palco. Mi sento ancora puro spettatore, al momento non del tutto incline ad accettare i suoi inviti (??) fatti di carezze ambigue ma non volgari; orbene se di inviti si tratta, non è mia intenzione accettarli con spirito passivo ed accondiscendente, avverto infatti la necessità di una reazione, non certo violenta ma comunque decisa. D'un tratto mi trovo in piedi a guardare dall'alto verso il basso i suoi occhi, lei, prostrata così in un atto di adorazione fatta di una certa ricerca di una complicità psichica, e decisa a farmi salire con lei sul palco.
In scena la complicità aumenta naturalmente, la danza aritmica coinvolge entrambi con pari iniziativa, tutto ciò che avviene si succede con estrema naturalità, anche se la Baccante tende a guidare ogni nostro movimento, facendomi assaggiare qualcosa contenuto all'interno di una ciotola - quel miele che dalle mie dita passerà presto alle sue labbra - e portandomi fin dinanzi allo specchio su cui la mia immagine si sovrappone a quella del dio sino a confondersi mimeticamente con essa.
Certo la fanciulla è calata appieno nel suo ruolo, ed arriva infatti il momento in cui mi cela forzatamente dietro il sipario... Il mio spirito filodionisiaco non accetta e brama riscatto immediato. "Perché osi vedere ciò che non si può vedere?" - recita quindi la menade rispondendo alla mia reazione apparsale (forse) piuttosto ardita fisicamente. Ma la mia libertà è infinita, sono io a decidere ed a gridare il verbo della potenza della psiche che è in me, nel mio essere non-spettatore, nel mio anelito magari disperato del contatto interiore e di quella relazione altra di cui il mondo, del quale forse quel palcoscenico è in quel momento la rappresentazione, ha estrema necessità per potere sopravvivere al vuoto da lui stesso generato nel corso dei secoli.
In seguito alla risata delle Baccanti una seconda fanciulla mi accompagna, con inviti forse più arditi di quelli della prima, inviti cui rispondo attivamente, manifestando l'intento di stabilire una certa reciprocità in quell'opera di psicoseduzione che la femmina cerca di esercitare verso di me senza mai comunque abbandonarsi ad atteggiamenti esplicitamente provocanti. Così il chicco d'uva, spezzato, passa dalla mia bocca alla sua, ed i semini accarezzano simmetricamente le sue braccia diafane, provocandole leggeri sussulti di solletico sulla pelle setosa e facendola guaire misteriosamente: cosa stava in quel frangente pensando la ragazza? Era, in sostanza, dominata dal proprio ruolo di menade, oppure stava vivendo l'esperienza teatrale come vera?
Il teatro è la Vita. Recitare dovrebbe significare vivere il proprio ruolo di attori comunque sempre e totalmente in prima persona, essere lì come se stessi, insomma, e non come altri. Bramo pensare che lo spirito altrui sia sempre interessante e che nel fiume di pensieri e memorie di ciascuno navighino battelli carichi di afflati nobili ed indispensabili. Vorrei conoscere le sensazioni di quelle fanciulle, convinto che, anche se magari per un solo, brevissimo intervallo di tempo, esse hanno provato di esserci.
Qual è, quindi, l'importanza da assegnare al ruolo, al testo? Il teatro è allora improvvisazione vera e vive nella ricerca di questa, oppure tutti, attori e/o spettatori possiedono un ruolo prefissato loro dal testo? Terminata la rappresentazione, rimango ora nel dubbio. Proteo non ero in realtà, e neppure ho vissuto l'esperienza come erotica (per l'intera durata della scena non ho avvertito eccitazione alcuna a livello fisico). Tuttavia le persone con cui ho interagito su quel palco sono alla fine parse immerse nel proprio ruolo in maniera netta.
Un'ultima figura femminile si trova destinata a "sedurmi" nel cumulo orgiastico finale, cumulo in cui il mio animo dionisiaco ha preso parte attiva, accompagnando (anche se non proprio dall'inizio) il canto delle Baccanti e mostrando un naturale agio nel ritrovarsi in quella posizione, fisica e non, come se niente di più normale fosse l'abbandono, comunque cosciente, al mélange delle proprie entità corporee, alla ricerca, nient'affatto materiale, del relazionarsi più profondo: ed a tale stadio, infatti, i caratteri sessuali anche nelle loro palesi diversità tra i due sessi, non influiscono sulla ricerca della comunicazione, sebbene questa possa finire per acquistare forme differenti se stabilita tra maschio e femmina, forme forse più appaganti (non tanto a livello puramente fisico, comunque!) di quelle manifestantisi tra individui del medesimo sesso.
L'interruzione improvvisa del caos orgiastico, durante il quale si era venuto a creare un convulso contatto corporeo tra me e la mia nuova "compagna", finisce per provocare nel sottoscritto una reazione negativa di rifiuto, ed il tentativo di allontanamento e distacco forzatamente impostimi dalla stessa fanciulla viene accolto come una castrazione dei miei desideri, ormai naviganti in tale stabilito (dis-)ordine naturale, sicché stringo con violenza le braccia di lei cercando di riacquistare la posizione eretta, andandole incontro ed aiutandomi anche con i piedi. Mi è stato poi riferito che in realtà in quel momento dovevamo tutti giacere supini per poter osservare la discesa dall'alto della testa di Dioniso, immerso nella luce bianca: ma io non ho visto niente, soltanto lo sguardo (che fortuna!) adirato della mia "partner", evidentemente risentita a causa della mia reazione che, spero non le abbia comunque provocato lividi sulle braccia! Ancora una volta c'è stato teatro vero, i volti hanno saputo esprimere ciò che magari i ruoli specifici dettati dal testo avrebbero forse negato in partenza ai personaggi; certo però che sarebbe stato devastante se avessi vinto la lotta per alzarmi ed avessi apposta insistito per farlo... Oppure...? Ho ben presto capito di essere fuori ruolo duranti gli scoordinati applausi delle Baccanti e la "fame di carne cruda": perché mai dovevo assistere a quello spettacolo? Mi sono poi illuso che alla chiusura del sipario sarebbe forse seguito chissà quale altro evento destinato a coinvolgermi, perciò sono stato l'ultimo ad alzarsi dall'altare, e solo perché sono venuti a condurmi fuori (manco avevo capito che era tutto finito, anzi, pensavo che magari mi avrebbero condotto altrove, ma non fuori!), fuori da quell'habitat ideale da cui, in quegli istanti infiniti, non avrei mai voluto uscire.
Spero che come me, anche le altre otto persone coinvolte nella rappresentazione abbiano alla fine saputo affermare i propri ruoli, rivendicandoli se necessario. Certo, nessuno poteva pretendere che la rappresentazione dovesse seguire un corso diverso, stravolgendo gli schemi fissati dal testo originale. Importante è di certo che ognuno abbia potuto riflettere sulle emozioni ricevute in quegli istanti, facendo così freudianamente autoanalisi: per quel che mi riguarda, posso dire di avere avvertito in maniera stridente il contrasto tra due situazioni antipodali a livello emotivo come quella del caldo bozzolo e quella del freddo distacco finale, sbattuto come sono stato miseramente fuori "senza meritarlo".
Spero che il Lemming continui a Vivere ed a far Vivere, anche se c'è chi potrebbe non avere gradito, ma forse proprio perché il ruolo di Penteo gli si calzava addosso alla perfezione, ed essere messi a nudo delle proprie inibizioni può far male. Per questo e per tanto altro ancora, lunga Vita quindi al teatro della nuda veritas! 

DISORDER
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