autore: DANNY GLICK 
 email
: danny.glick@libero.it
:: SOGNO DI BENZINA ::
A te, Jess.

"Ero inzuppato in un sogno di benzina, giocando con un fiammifero. Ero tutto ciò che sembravo, loro stavano a guardare. Mangiavo dal tuo tavolo; mangiavo dalla tua mano. Otto giorni ad aspettare, bruciavo nella sabbia."

Overkill: "Gasoline Dream"


La ragazza apre gli occhi lentamente, come emergendo da uno stagno melmoso in cui è affondata da pochi minuti. Minuti per lei, ma ore per il mondo. Il calore che ha caratterizzato il rapporto sessuale, si è sciolto come neve al sole, e di lui le rimane solamente il ricordo di un coito così intenso da essere quasi doloroso.
L'uomo è alla finestra. Le dà le spalle. Sulla sua schiena la ragazza può vedere dei lunghi tagli rossi e alcune cicatrici di scottature. Sorride. Forse hanno scherzato un po' troppo con le unghie. Le mani dell'uomo sono ai pantaloni; le dita sono indaffarate ad infilare ogni bottone nella propria asola.
"Dove vai?", chiede lei. Avrebbe tante domande da porgli, ma non ne ha voglia. Il loro rapporto è un gioco ad incastri, e se non scegli il pezzo giusto rischi di compromettere tutto quanto.
"Ho da fare", dice lui.
"Ancora quella storia?"
"Sì. Proprio quella", replica con freddezza. C'è un buco nella sua anima, e lei non riesce a trovare niente che sia abbastanza grosso da poterglielo riempire. Lei e il suo amore non bastano.
"Mi vuoi dire di che cosa si tratta?", azzarda a chiedere lei.
Lui si volta solo adesso. I capelli disegnano un piccolo ventaglio nell'aria mattutina per solo un centesimo di secondo, prima che lui le abbia gli occhi addosso. La ragazza si stringe i seni con le mani, pigramente, come se si stesse stiracchiando. Giocherella con i capezzoli inturgiditi e lo invita silenziosamente a consumare nuovamente quell'appetito che li ha fatti incontrare. Gli occhi dell'uomo sono in ombra, e lei non si accorge di quanto somiglino a ghiaccioli incastrati nel cranio.
Solo quando lui apre la bocca e parla, lei capisce che nemmeno questo invito lo indurrà a rivelarle quale segreto lo strappa da lei. Non è la prima volta che capita. "No", dice soltanto, ma quella piccola particella di negazione aleggia nell'aria per pochi istanti prima di precipitarle addosso come una lapidazione; una pioggia di pietre. In un istante la ragazza si copre i seni con il lenzuolo; d'un tratto pudica di ciò che fino ad un momento prima era la sua merce più pregiata. Lui la degna solo di un piccolo sguardo, poi afferra la maglietta ed esce, indossandola solo dopo che lo sguardo di lei è coniugato al passato remoto.
Poco tempo dopo è là, nel suo santuario segreto, a rimirare le vestigia di un passato che non potrà tornare. La macchina è parcheggiata storta come il solito. Un cane lupo con zecche grosse come gatti gli viene incontro scodinzolando allegramente.
La cascina è sempre al suo posto, anche quando il mondo sembra sottosopra; situazione che sembra verificarsi molto spesso. Sul muro ci sono insulti silenziosi e inni alla leggenda. Un tempo era sicuro che sarebbero diventati quel qualcuno con un nome e un curriculum da invidia, e invece tutto si era risolto nel modo più stupido, e loro erano rimasti un qualcuno solamente nell'ambito di quel piccolo paese con un nome eccessivamente cristiano: "Ognissanti".
Gozer mugola un invito ad una carezza, ma non appena l'uomo vede quanto è sporco e quanto fa schifo gli passa la voglia di lisciargli il pelo. Sorride con mestizia e si avvia verso l'entrata della cascina. Ad ogni passo gli sembra quasi di sentire i suoni della loro musica aleggiare come fantasmi privi di forma nell'aria del mattino, ma è solo un'impressione, anche se i passi risuonano pesanti sul selciato, molto più rumorosi da quando tutto è silenzio da quelle parti. Quelle mura sono diventate sorde per il baccano che hanno dovuto sopportare, ma hanno trovato la pace dei sensi. Nessuno suona lì dentro da almeno quindici anni. E come è capitato che lui si ritrovasse di nuovo in quel luogo dopo tutto quel tempo? Chi lo sa? Gira il mondo in lungo e in largo, ma infine capita di nuovo ad Ognissanti, quel paesino perduto tra le colline, e ci capita dopo quindici anni passati aspettando e sperando di arrivare a convincersi che, se potesse chiedere una licenza al tempo e tornare a fare quattro passi nel suo passato, ritrovandosi nella situazione che ha causato il suo esilio volontario, non troverebbe altra via di uscita che quella di ripetere esattamente ogni passo e ogni parola, proprio come se dovesse recitare una parte e non ci siano controfigure. Così un giorno prende il toro per le corna e torna ad Ognissanti. Non sa nemmeno lui il perché, ma lo fa. O forse è il volante che si è bloccato e l'acceleratore a tavoletta non torna più su, e i freni non funzionano, e l'unica strada da percorrere è quella che conduce lì, ed è per questo che si è ritrovato occasionalmente in quel paese. E adesso che è qui, e che ha scoperto che tutto è ancora uguale, gli viene voglia di tornare in quel luogo; quella cascina abbandonata e occupata abusivamente da quattro adolescenti. La evita per alcuni giorni, ma alla fine non ci riesce a resistere al magnetismo esercitato su di lui, e comincia a fare dei sopralluoghi di perlustrazione, un po' come abituarsi a piccole dosi ad un medicinale o ad una droga che presa in overdose ti ucciderebbe. Così si ritrova ad essere di nuovo un ragazzino con sogni di conquista, e non più un adulto che non ha saputo fare un cazzo della propria vita. È così che scopre che tutto è uguale anche se tutto è cambiato. Basta un attimo e ti ritrovi a fare del bungee jumping con una catena al posto di un elastico; e quando urli nessuno ti sente.
L'uomo si volta, e vede che Gozer sta pisciando sulla ruota della sua auto. Mentre lo fa sembra strizzargli l'occhio. Quel cane è vecchio ormai, ma gli scherzi gli sono sempre piaciuti. Sono passati quindici anni ma non ha perso le sue vecchie abitudini di merda.
Basta. Bisogna fare il gran passo. È inutile indugiare ancora davanti ad una porta chiusa con un lucchetto quando sai benissimo dove trovare la chiave per aprirlo. La macchina è ancora calda, se vuoi rinunciare sei in tempo. Lasci o raddoppi?
L'uomo apre la porta e si catapulta nel passato.
Yarno aveva una chitarra. Gliel'aveva regalata suo padre senza un motivo. L'aveva fatto con parole semplici ma concise: "Un giorno mi sollazzerai con qualche cosa di divertente." Così, suonarla, per lui, divenne un passatempo. Imparò abbastanza in fretta e in tre anni divenne il miglior musicista di tutta Ognissanti (anche perché con molta probabilità era anche l'unico). Un giorno Seth, (che frequentava la sua stessa scuola) andò a casa sua e gli chiese di suonare per lui. Yarno sorrise e si dilettò a fargli sentire quello che sapeva fare. Seth rimase ad ascoltare rapito i suoni prodotti da quella scatola nera che Yarno chiamava amplificatore. Sembrava che ogni nota fosse perfettamente al suo posto, in quello che Yarno stava eseguendo. Fu così facile che a volte, pensandoci gli sembra stupido: Seth si mise a canticchiare un motivetto che gli salì alle labbra così, come una caramella alla menta che si rigira nella bocca. E che cosa venne fuori? Una canzone.
Yarno capì che non bisognava smettere, anche se non sapeva che cosa diavolo stesse cantando il suo amico. Non aveva mai immaginato che potesse essere così in gamba con la voce.
E chissà com'è, non è vero? Chissà qual è quella magia che hanno i musicisti e che si chiama "orecchio", cioè quell'intuito quasi viscerale che ti fa capire nel momento stesso in cui una canzone cambia come devi cantare o suonare il pezzo seguente. Nonostante tu non l'abbia mai sentita.
Yarno continuava a suonare, improvvisando giri e riffs e sentendo che Seth azzeccava alla perfezione l'intonazione e la melodia, e riuscendo talvolta a capire che cosa stesse cantando. Quando la canzone arrivò al suo culmine e si concluse, lo intuirono entrambi; semplicemente, era così che la canzone doveva andare: fece il suo corso e si esaurì, come una slavina o un acquazzone. Yarno abbassò il volume della chitarra e guardò per alcuni secondi Seth con uno sguardo in cui si leggevano davvero una miriade d'emozioni. Una sola di queste era però l'affermazione che contava: tiriamo su un gruppo e facciamo musica. I due erano così esaltati che quasi Yarno non riusciva a tenere la chitarra tra le mani. Riprovarono nuovamente la canzone, e Seth la cantò uguale, lasciando che la musica gli scivolasse in corpo e gli invadesse le vene, colmandogli ogni spazio vuoto. Era davvero cominciata.
Alcuni giorni dopo, mentre Yarno stava suonando un nuovo pezzo nella sua stanza, con la chitarra elettrica sulle gambe come un micino che faceva le fusa, il citofono trillò elettrico in casa sua. Il ragazzo si affacciò alla finestra e vide che, due piani sotto di lui, Seth aveva portato un amico con sé. Alzò gli occhi verso i suoi e Yarno ci vide dentro una luce che non lo abbandonò mai. "Ho trovato un batterista", disse Seth. "Si chiama Ryos". Poi sorrise.
L'idea della cascina venne alla madre di Yarno, stufa di sentire i tre ragazzi suonare, cantare e battere su pentole e sedie con cucchiai di legno. "Perché non andate su alla cascina del vecchio Gozer?", chiese. "Così la smettete di fare confusione. Lì nessuno vi disturberà."
Seth smise di cantare e guardò prima Ryos a fianco a lui, che stava ancora battendo un tempo tutto suo sulla pentola che aveva tra le gambe incrociate. Il batterista smise di suonare e si voltò verso la madre di Yarno, che aveva parlato sulla soglia della stanza di Yarno.
"Signora", affermò Seth alzandosi in piedi. "Lei è un genio."
Il vecchio Gozer. Alias il quadrupede più longevo che mai l'umanità abbia avuto modo di conoscere. Nessuno sapeva di chi fosse quel cane, ma a chiunque appartenesse, anche se il suo padrone fosse il destino, avrebbe dovuto chiamarlo Matusalemme invece di Gozer. Quel cane era vecchio anche quando loro erano giovani.
L'uomo si fa avanti verso la porta. Alla sua destra un frigorifero arrugginito è la dimora di una gatta che ha partorito una cucciolata di nove micini. I piccoli sono attaccati alle mammelle della madre e succhiano, ingordi, mentre lei si guarda in giro compiaciuta, con gli occhi socchiusi.
La porta è chiusa, davanti a lui. Il lucchetto è ancora lì, vecchio come Gozer ma ancora funzionante. Per alcuni momenti l'uomo infila la mano nella tasca alla ricerca della chiave, totalmente immerso nella parte che sta recitando, quindi convinto di essere tornato il ragazzino di quindici anni che si muove tra i campi con un "Sì" dalla marmitta traballante, mentre urla la felicità della sua età. Non ha la chiave, come è certo, ma se ricorda bene...
Si avvicina alla mietitrebbia abbandonata sotto il portico della cascina; sembra uno scheletro di mammut in un museo. Sale sulla cabina, poi infila la mano nel buco sotto il volante e cerca a tentoni per pochi secondi prima che le sue dita entrino in contatto con il freddo metallo della chiave. L'uomo sorride. Scende con un piccolo salto e vede che Gozer si è appostato all'ombra della sua auto a riposare, steso a terra. Furbo, quel cane; quando respira sembra che stia ghignando.
Con la chiave in mano, l'uomo apre il lucchetto e se lo infila in tasca. Lo sente freddo e pesante a contatto con l'inguine. La sensazione è quella di una pistola infilata nei calzoni. A fianco all'entrata c'è ancora quel badile che cadeva sempre ogni volta che aprivano l'uscio. Questa volta non manca di fare il suo lavoro. Il suono è fastidioso. L'uomo spalanca la porta e un paio di piccioni si alzano in volo per la scalinata, mentre un gatto dal pelo rosso scende la scale di corsa e gli viene in contro. L'uomo lo accarezza, poi si incammina su quel tappeto di polvere che si è trasformato in moquette grigia. La porta dietro di lui rimane aperta sui campi silenziosi invasi dal sole. La scala è ripida e sporca di merda di piccione. Con passi decisi l'uomo sale. Un po' come la vita: sempre in salita e piena di merda.
Ryos comprò una batteria da un amico. Era praticamente a pezzi, ma, con l'aiuto di un po' di scotch e di un paio di saldature del padre (era metalmeccanico), riuscirono a tenerla insieme abbastanza da portarla nella stanza che avevano designato come sala prove. La camera era sotto tetto, lunga circa dieci metri per quattro, con una piccola finestrella dai vetri colorati che dava sul cortile dove Gozer scorrazzava inseguendo le macchine ferme. Trasportarla su per le scale fu un'esperienza senza paragone.
Avantitirasu, forzaanchetu, cosìnsommacazzo, aiamisonfattomale, vaccadiquellatroia stacazzodicassa. Quando arrivarono in cima alle scale, il rullante divenne un "rotolante", dato che sfuggi dalle mani di Seth e si mise ad inseguire Anubi, il gatto che vagava per la cascina, e che fuggi terrorizzato da quell'animale a forma di ruota che produceva quel rumore secco ad ogni gradino. Alla quarta botta si aprì come un melone maturo, e i filamenti di metallo che davano il suono al rullante graffiarono il pavimento come unghie. Ryos cominciò ad inveire contro Seth, il quale si mise a ridere come un idiota.
Montarono la batteria insieme, e Seth non smise di ridere per tutto il tempo in cui Ryos dovette tenere il tempo sul timpano e sui tom invece che sul rullante. Il giorno dopo, Seth arrivò alla cascina in ritardo, con un rullante nuovo sotto braccio. Quando Ryos gli chiese dove se l'era procurato, la risposta di Seth fu semplicemente: "Ho i miei giri".
Il bassista venne da sé. Un giorno, mentre stavano suonando allegramente in quella stanza che puzzava di spinello e piscio di gatto, qualcuno bussò alla porta. In un primo momento Yarno pensò si trattasse di qualcuno che veniva a lamentarsi per il troppo baccano che stavano facendo, così fece smettere Seth e a Ryos di suonare e invitò il nuovo arrivato a venire avanti, con il cuore in gola. Difficile dire quale fu la sorpresa quando si trovò davanti un ragazzo della loro età, con occhiali scuri e capelli ricci. Tra le mani aveva un basso rosso, tappezzato d'adesivi. Nell'altra mano un amplificatore da quindici watt.
Solo questo: "Vi ho sentito da fuori. Vi manca un basso." Dopodiché mise giù l'ampli, attaccò la spina, infilò il jack nella presa audio e attese che cominciassero di nuovo a suonare. I tre non dissero niente, ma il sorriso che Yarno vide sul volto di Seth bastò a convincerlo che era contento che fosse venuto. Nessuno chiese mai a Suki, ossia il bassista, come avesse fatto a trovare quella cascina in mezzo ai campi e sentire che mancava il bassista, ma ogni volta che guardava negli occhi di Seth, Yarno capiva che lui centrava sicuramente. Così ripresero a suonare, e questa volta il suono del basso riempì quegli spazi vuoti che la chitarra non poteva colmare.
L'uomo sale le scale con una lentezza esasperante, rivivendo nell'odore di muffa e piscia di gatto gli anni della sua gioventù che se ne sono andati. Quando arriva all'ultimo piano e vede la porta là in fondo, quella di metallo con ancora il cartello attaccato che dice: "Alta tensione: Accesso vietato agli estranei", quello rubato da uno scomparto ascensori, allora il mondo gli cade addosso come una badilata sulla testa. Flash gli trapassano gli occhi e la mente. Precipita in ginocchio con la testa tra le mani; ciondolandosi avanti e indietro come una sedia a dondolo senza nessuna vecchietta seduta. Fuori Gozer sta abbaiando, ma il suono è lontano, di sottofondo, come il basso di Suki.
Così si ritrova a ricordare quell'immagine che ha fatto sì che lui se ne andasse definitivamente da quel gruppo, abbandonasse tutto e fuggisse da quel posto. Torna a pezzettini, come quando devi comporre un puzzle e devi cercare i pezzi giusti in un sacchetto della spesa, pescandoci dentro la mano a caso e sperando d'avere fortuna.
I latrati di Gozer si fanno più intensi. Il sole entra dalla finestra illuminando l'uomo completamente, passando attraverso i vetri colorati e dandogli un vago aspetto esotico. Si guarda le mani, poi delle fitte lo prendono alla testa, come una morsa micidiale che gli stringe le tempie. Cade su un fianco e rimane lì, a rotolare nella polvere e nella merda di gatto, senza possibilità di liberarsi da questo dolore. Un odore terribile gli invade le narici: benzina. E quell'odore porta un ricordo che rimane aggrappato a lui come un nugolo di ami da pesca infilati nello stomaco...
Il gruppo intanto aveva anche trovato un nome: Tlaloc. Ossia il nome del Dio della pioggia degli Aztechi. Lo scelsero un giorno in cui si trovarono alla cascina e pioveva come dio la mandava. Gozer si era rifugiato all'interno insieme con Anubi; restavano accoccolati uno a fianco all'altro scambiandosi le pulci e guardando fuori con aria malinconica la pioggia che scendeva.
Così, quando i quattro ragazzi arrivarono con i loro motorini scassati, Seth scese e disse: "Tlaloc oggi ci vuole benedire... io non temerò alcun male..."
Yarno lo guardò. Seth aveva gli occhi puntati ai nembi grigi sopra di lui, e la pioggia glieli riempiva di frammenti di cielo. Ogni tanto lo trovava molto strano. Come le volte in cui si sentiva il suo sguardo addosso a lungo, specialmente mentre stava suonando. Yarno rimase a fissarlo; restava lì, con le braccia spalancate e i capelli indietro, il volto al cielo e le gocce che gli cadevano sul sorriso. "Tlaloc ci guarda, Yarno, e afferma che diventeremo famosi."
Lui sorrise. Era la prima volta che Seth parlava di un futuro per la band. Il più delle volte prendeva la cosa come una questione di vita quotidiana, un po' come mangiare o andare in bagno. Ma ci metteva sempre il massimo, quando cantava.
"Dai, vieni dentro, altrimenti ti ammalerai."
Forse fu in quel momento che Yarno capì che qualcosa tra loro non era come doveva essere. Seth si tolse maglietta e pantaloni, saltellando prima su una gamba e poi sull'altra mentre se ne liberava. Quando si fu tolto anche le mutande, cominciò a danzare nudo sotto la pioggia, ridendo e capovolgendosi su se stesso in giravolte continue, con le braccia spalancate, mentre la pioggia lo investiva.
Yarno rimase a fissarlo attonito, cercando di fermarlo e di indurlo a venire dentro alla cascina per suonare, e magari di rivestirsi, ma Seth non sentiva ragioni. "Avanti Yarno, danza con me... Tlaloc ci sta guardando... la pioggia che batte sulla terra sono i suoi applausi... i tuoni sono le sue dimostrazioni di benevolenza verso di noi... Tlaloc ci guarda, Yarno... ci guarda... e ci sente..."
Non seppe mai che cosa lo prese. Semplicemente Yarno sentì qualcosa dentro le viscere, come un uncino che lo sollevò da terra e che lo costrinse a togliersi i vestiti come l'amico e cominciare ad imitarlo nella sua danza sotto la pioggia. E se fu bello? No. Non fu bello. Fu meraviglioso. La pioggia sulla pelle nuda, il pene che ballonzolava sui coglioni, i piedi nudi sulla terra. Sì, fu un'esperienza unica. Poco dopo si unirono anche Suki e Ryos. Fu così che tutti e quattro cominciarono a danzare nudi sotto la pioggia, davanti a quella cascina, davanti al frigorifero arrugginito, alla mietitrebbia e davanti agli occhi straniti di Anubi e di Gozer, che dovevano pensare che fossero totalmente impazziti. E chissà che non fosse proprio così.
Non si ricorda più quando smisero di danzare, quella volta. Forse quando smise di piovere, o magari quando crollarono a terra, stremati. Quel giorno non suonarono, e il giorno dopo rimasero tutti a casa da scuola, perché Tlaloc aveva donato loro anche una bella influenza. Così il nome del gruppo divenne di comune accordo Tlaloc. Ed erano molto fertili. In circa due mesi composero e arrangiarono una decina di canzoni. Iniziarono a suonare ad agosto, con l'arrivo di Suki. Per ottobre cominciarono ad uscire dalla sala prove a suonare nei locali.
Salire sul palco per la prima volta fu un terno al lotto. Fecero i supporter di un gruppo di provincia che aveva una certa rinomanza nella zona, per questo suonarono per primi. Yarno era molto teso quando salì sul palco e lo rimase per tutto il concerto. Seth invece era molto disinvolto, e con lui anche Suki. Tra i due si era creata un'amicizia e un'intesa che aveva dell'incredibile. Sembravano capaci di pensare contemporaneamente la stessa cosa.
Il locale era piccolino, e a vederli c'erano per lo più quelli che si potevano definire: "Gli amici del bar"; ossia i quattro stronzi che girano sempre intorno ad uno dei due locali (ovviamente posti uno in fronte all'altro), perché il paese non offriva niente di meglio da fare se non rincoglionirsi davanti a "Pang!", ossia quel gioco dove bisogna liberare il mondo dalle bolle colorate, oppure far girare le palle su un tappeto verde per poi farsi girare quelle appese tra le gambe quando i tiri non vanno come vorresti. Naturalmente c'erano anche i fans del gruppo di provincia, che però avrebbe suonato più tardi.
Nessuno aveva mai sentito come suonavano. E quando Yarno prese in mano la chitarra e cominciò con il primo riff che aveva composto in quel dì così lontano a casa sua, quello su cui Seth aveva canticchiato, la gente drizzò le orecchie. Bastarono altri tre o quattro accordi e la maggior parte si alzarono in piedi. Quando Seth cominciò a cantare, i commenti frusciarono come carte da gioco su un tavolo dl black jack. Monsieur Tlaloc, les jeux sont fai tes. Rien vas plug. Finita la canzone cominciarono gli applausi. E furono un balsamo; per la tensione, per la propria stima. È bellissimo sentire quello scroscio di clap clap clap e sapere che sono solamente per te. Quando cominciarono a suonare la seconda canzone, il locale iniziò a riempirsi. I fans del gruppo più importante si fermarono a guardarli e applaudirono.
Seth presentò il gruppo: "Siamo i Tlaloc", disse.
" E che cazzo vuol dire?", chiese qualcuno.
Seth sorrise. "È il nome del dio azteco della pioggia, Il nostro ispiratore e protettore", affermò. Fischi. Urla. Applausi. Cominciarono di nuovo a suonare e prima che finissero avevano riportato un buon successo. Quando finirono la serata, ormai non era più un concerto: sembrava più una riunione di vecchi amici. Continuarono fino a quando il chitarrista del gruppo più importante chiamò Ryos da dietro le quinte e gli ricordò che dovevano smettere di suonare perché avevano sforato con l'orario e che adesso toccava a loro. Il batterista annuì ma continuò imperterrito a tenere il tempo della loro vita.
Così cominciarono a suonare un po' in giro. Troppo spesso erano costretti a suonare da soli perché nessun gruppo importante li voleva con sé, dato che facevano troppo successo con il pubblico. Fecero decine di concerti in tutta la regione, fino a quando cominciarono a spostarsi anche fuori.
Tutto andò per il verso giusto fino a quella sera maledetta. Fino a quando Yarno incontrò Atulya e si innamorò di lei a prima vista. Fu proprio ad un concerto. Poco dopo essere scesi dal palco, Yarno stava girando per il locale con in mano una birra, ricevendo pacche sulle spalle e strette di mano ed elargendo sorrisi a destra e a manca. Il padrone si era particolarmente affezionato a loro e aveva deciso di farli suonare spesso tra quelle quattro mura, così Yarno era anche troppo di casa, ormai. Un tipo lo aveva fermato e si era messo a dire una miriade di stronzate unite in un discorso senza né capo né coda. Yarno aveva cominciato ad annuire lentamente, continuando a ripetersi che non gliene poteva fregare proprio un cazzo in quel momento di quello che stava dicendo quel coglione. Ogni tanto il chitarrista dava un sorso alla sua birra e assentiva ancora. Poco dopo il tipo tirò fuori uno spinello, lo accese e glielo passò con disinvoltura, Yarno cominciò a fumare e in meno di un quarto d'ora capì che non avrebbe sopportato oltre la vista di quell'uomo. O si alzava o usava la sua faccia come latrina personale. Propenso per la seconda ma deciso per la prima, Yarno si alzò e si allontanò lasciando il tipo a metà discorso. Stava vagando da solo per il locale come uno spettro inquieto.
Suki e Seth erano spariti. Ultimamente dopo i concerti sparivano sempre per tornare ore dopo ubriachi fradici e in compagnia di amici e amiche per la pelle che sarebbero durati solo finché fossero durati i loro soldi. Ryos invece era dalla sua ragazza: Alice. Quei due sembrava fossero insieme da sempre e che mai si sarebbero lasciati. E Yarno appariva e spariva tra la gente, come una banconota falsa. La birra nella mano sembrava sempre più pesante, come una croce che doveva portarsi addosso e che lo marchiava a fuoco davanti agli sguardi della gente.
Fu in quel momento che la vide: era là, seduta ad un tavolo con alcune amiche. Un vestito nero e i capelli biondi. La testa che annuiva lentamente, come ad acconsentire il suo ingresso nella vita di Yarno.
Quest'ultimo si mosse verso di lei, ma, ad un tratto, sembrò proprio che le mani che si tendevano a toccarlo, o a stringergli la spalla, o a lisciargli i capelli, si fossero moltiplicate e che ognuna volesse strappargli un pezzettino di anima, di se stesso, di qualcosa di cui aveva necessariamente bisogno. Le dita smisero di accarezzarlo, ma cominciarono a graffiarlo; le voci smisero di formulare complimenti ma solo insulti, o inviti terribili cui non voleva dare ascolto.
Si trascinò arrancando sempre più verso una meta a lui sconosciuta, verso un lido che non poteva vedere attraverso la massa di gente in movimento. Un urlo sulle labbra lo stordiva prima ancora di emetterlo. Ognuno sembrava volerlo trattenere dal raggiungere quella ragazza. Seth avrebbe trovato qualcosa di divinamente profetico in questo, ma Yarno era un po' più materialista del suo cantante, così si trascinò con tutte le sue forze, spintonando e scalciando, fino a raggiungere quella ragazza; le spalle si chiudevano davanti a lui come porte, la gente si appoggiava l'una all'altra apposta per non farlo passare. Lentamente sembrava venisse fagocitato dalla gente, dalle mani, dagli occhi, dalle bocche, dalle decine di paia di gambe che si muovevano a scatti rozzi, impedendogli di raggiungere la sua meta.
Strisciò come una serpe su una pietraia e alla fine giunse a quel tavolo, come sputato fuori dalla folla che si richiuse dietro di lui, guarendo immediatamente la ferita da cui era uscito con un'abile mossa delle spalle. Yarno si trovò davanti a quel tavolo con così poche cose da dire che se avesse dovuto stilare un telegramma, probabilmente sarebbe stato necessario un solo "stop". Le tre ragazze sedute al tavolo alzarono gli occhi quasi contemporaneamente per posarli nei suoi, rossi come se avesse fatto a pugni. Erano in attesa di qualche sua rivelazione, di qualche cosa di talmente importante che il mondo avrebbe potuto anche smettere di girare dopo che lui avesse parlato. Ma il mondo, presagendo che lui non avrebbe detto niente, cominciò a deriderlo e a danzare un valzer tutto suo, vorticando e vorticando. La musica che suonava nel locale si distorse lentamente e le risate e le parole divennero un unico suono indistinto e confuso che faceva venire il vomito. Yarno guardò Atulya, seduta su quella sedia, composta, con gli occhi nei suoi, e tra loro ci fu uno scambio veloce di pensieri. Poi una mano si posò sulla sua spalla e lui si voltò con una lentezza esasperante. Seth lo stava guardando con occhi di ghiaccio. Disse qualcosa o restò zitto? Boh. Yarno non capì, ma cadde lontano; in un dirupo che sembrava non finire mai. Una caduta all'indietro, come calamitato e attirato verso un vortice da cui non sarebbe uscito presto. Una caduta lenta e senza fine, durante la quale ebbe il tempo di contare i bottoni sulla camicia del suo cantante e i sottili filamenti della gonna di Atulya, intrecciati l'uno a fianco all'altro. Cadde e cadde e cadde e caddddeeeeeeeee...
Dove era finito l'universo?
Chiuse gli occhi e li riaprì qualche istante dopo. Tutto era ancora lì, ma non era proprio al suo posto. Era disteso sul sedile posteriore di un'automobile, e sopra di sé vedeva il viso di Ryos che rideva come una iena. Un telefono stava squillando incessantemente da qualche parte e lui si trovò a maledire quel suono che gli trapanava il cervello. Si tirò a sedere e si trovò a naso a naso con il suo batterista.
"Heylà, ti sei ripreso?" Ryos non smetteva di ridere.
"Cosa è successo?"
"Sei svenuto... troppo alcol o qualche spino di troppo?", chiese.
"Dov'è quella ragazza?", chiese con una voce che sembrava giungere da Alpha Centauri.
"Quale, quella bionda con il vestito nero?"
"Sì...", rispose Yarno con un filo di voce.
"L'ho vista abbastanza stranita...", replicò Ryos. "Deve essere ancora dentro. La conosci?"
"No. Dille che l'amo, però."
"Come?", chiese Ryos divertito. Indossava un berretto dei Raiders. Se lo girò e lo contemplò senza più la visiera ad oscurargli gli occhi.
"Io l'amo, Ryos..."
"Ma se non la conosci nemmeno!"
"Tu diglielo!"
"Fossi matto, Yarno! Cosa credi che ti dirà?" Ryos attese una risposta che non venne, poi sorrise e tentò di dissuaderlo: "Ascolta, tu non stai ancora bene. Se vuoi vado ad informarmi sul suo nome, ma niente di più. Almeno per questa sera. Al resto ci penserai tu quando sarà il momento." Detto questo il batterista sparì prima che Yarno potesse fermarlo. Il cuore era a pezzi per decine di motivi nemmeno classificabili.
Yarno si lasciò cadere di nuovo sul sedile e si prese la testa fra le mani. Dovette addormentarsi perché una voce lo risvegliò dal suo torpore. Una voce di donna. La più dolce e melodiosa che mai avesse sentito nella sua insignificante vita. Ad un tratto si trovò a chiedersi come avesse fatto a vivere fino a quel momento senza averla sentita, senza averla vista.
"Come ti senti?", chiese la voce.
Yarno aprì gli occhi, ma non si rese immediatamente conto che la realtà aveva preso possesso nuovamente della sua vita. Impiegò un paio di manciate di secondi. Alzò lo sguardo al riquadro della porta e vide che lei era lì, nel suo vestito nero, con i capelli biondi che le ricadevano sui seni.
"Meglio", riuscì a dire Yarno.
La ragazza sorrise. "Il tuo batterista... credo sia lui... mi ha detto che mi cercavi."
Yarno scese dall'auto e barcollò un poco, poi si appoggiò alla portiera e si sostenne con l'aiuto di quel metallo solido e freddo. Il contatto lo rinsavì un po'.
Okay, caro Romeo, Giulietta e lì davanti a te, che cosa farai adesso che non ci sono alberi da scalare per raggiungerla, ma solo parole da pronunciare per poterla fare tua?
"Come ti chiami?", chiese lei.
"Yarno."
"Yarno? È il tuo vero nome?"
"No. Ma il nome non è niente altro che un mezzo per distinguersi dalla gente, così che cosa importa come suona questo mezzo, se distingue?" Un fraseggio niente male.
La ragazza pensò un po' poi annuì. "E suoni la..."
"Chitarra," la soccorse lui.
"Ah, già. Come si chiama il vostro gruppo?"
"Tlaloc."
"Il dio azteco?"
"Proprio lui. Tu come ti chiami?"
"Atulya."
"È il tuo vero nome?"
"Sì. Nel mio caso qualcuno ha deciso per il mio mezzo."
Yarno sorrise. In meno di dieci minuti capì di amarla alla follia e di essere pronto a morire se solo lei glielo avesse chiesto per favore.
L'uomo adesso è davanti a quella porta. Una nemesi per lui. La mano si tende lentamente e tocca quella maniglia. Sensazione di freddo. Un cocktail di dolorosi ricordi ed inutili emozioni sepolte che riaffiorano come mani che spuntano dalla terra sotto lo sguardo di una pazza luna. La mano tira quella maniglia che è attaccata a quella porta che sembra incollata a quella parete. Per alcuni attimi l'uomo ha il terrore che strattonare troppo comporti il completo disfacimento di quel tempio di ricordi troppo salati. È solo un attimo, poi la porta si schiude magicamente come una mascella che si spalanca di stupore. Dentro l'aria è ancora più stantia. L'uomo chiude gli occhi. Li riapre solo quando sa che non impazzirà a rivedere quel luogo.
Yarno e Ryos incassarono l'assegno rilasciato dall'affezionato gestore del locale dove suonavano quasi ogni week end (molto cospicuo questa volta e ceduto con una strizzata d'occhio che non era sfuggita al batterista), e andarono a far compere per rinnovare un po' la loro sala prove. Ormai avevano incassato abbastanza soldi da potersi comprare una batteria nuova di zecca. Il negozio dove si recarono era in città. Yarno si aggirò tra gli amplificatori e le chitarre con aria sognante. I piatti della batteria erano appesi davanti alla vetrina come uno stormo di dischi volanti giallo oro.
"E allora, che cosa è successo con Atulya?", chiese Ryos.
"Niente. Abbiamo solo parlato."
"Non ci credo."
"Neanche io."
Fantastico, eh? Passi per fesso anche quando sai che non potrà accadere mai, nemmeno a metterci tutto l'impegno possibile. E per Yarno era proprio così. Yarno viveva su un castello di leggende e stronzate create appositamente per poterci stare bene dentro. Stronzate che per lo più riguardavano storie di donne che mai erano esistite, o che aveva incontrato per poco tempo sulla sua strada e con cui non era stato in grado di andare fino in fondo. Atulya sarebbe stata un'altra delle loro? Sperava in sincerità di no. Sperava di poter dire la verità una volta ogni tanto, poter dire che stava assieme ad una persona e poterla presentare ai suoi amici, portarla in giro su un piatto d'argento, come un cameriere, ed urlare a tutti che lei era la sua ragazza, lei era sua, si appartenevano l'un l'altra. Andare in giro con questo vassoio per darci una sbirciata ogni tanto, così, in sicurezza, per accertarsi che quello che sventolava non fosse in realtà tutto diverso da quello che pensava si trattasse. Sì, una sbirciata ogni tanto. Così, per non ritrovarsi poi, davanti al momento della rivelazione, in cui abbassare quel vassoio e guardarci sopra ti mostrava che, posato in bella mostra su quella superficie liscia, non c'era altro che un pezzo di merda. E così stai a chiederti: dov'è quella persona che io credevo fosse così speciale, così diversa da tutte le altre? Dov'è quella persona che volevo fare mia per sempre, al mio fianco come una pistola per un cow boy o l'onore per un cavaliere? No. Non voleva che andasse a finire così. Con Atulya sarebbe stato diverso. Ne era certo.
Il giovedì, Yarno andò in sala prove da solo. Ormai era diventato il luogo dove poteva pensare, suonando un po' la sua chitarra. Atulya era nei suoi pensieri, come sempre ormai, e la musica sembrava l'unico balsamo che era in grado di lenire un po' quel dolore così intenso che lo afferrava al cuore. Si erano scambiati i numeri di telefono, ma non riusciva ancora a trovare il coraggio per alzare la cornetta e muovere il dito sulla tastiera. E chissà, magari sentire la sua voce dall'altro capo del filo rispondere: "Pronto". Sarebbe stato troppo impegnativo, come vincere all'enalotto.
Salì le scale lentamente, in coscienza di essere totalmente estraneo a quello che stava succedendo intorno a lui. Quando aprì la porta della sala prove era ancora soprappensiero. Non badò inizialmente ai due che erano in centro alla stanza. Impiegò circa due secondi per accorgersi della loro presenza. Quando li vide fu un duro colpo. Eh già. Non era poi un gran spettacolo a vedersi: Suki dietro e Seth davanti, entrambi con i pantaloni calati. Seth a cagnolino e Suki inginocchiato. Non si fermarono nel momento stesso in cui Yarno entrò in sala e li colse. No. Continuarono per alcuni secondi, immemori forse del fatto che la porta era spalancata e che qualcuno era sulla soglia. Sul volto di Seth e su quello di Suki erano dipinte le espressioni dell'estasi più pura. Ad ogni spinta che Suki dava, tenendo il piccolo sedere di Seth tra le mani, quest'ultimo era scosso da un brivido che gli attraversava il volto, contorcendolo in un'espressione di dolore e godimento.
Yarno rimase ad osservare in silenzio i due per tre lunghissimi secondi, in cui vide Suki, con gli occhiali scuri affusolati, tirare indietro la testa per togliersi i capelli dal volto. Vide il suo pomo d'Adamo salire e scendere lentamente, mentre una solitaria goccia di sudore si suicidava gettandosi dalla punta del mento mal rasato e cadendo sulla schiena nuda dell'amante. Tre secondi; ma bastarono per vedere lo schizzo di sperma fuoriuscire dal pene di Seth, indurito contro il proprio palmo. E i gemiti che cominciò ad emettere mentre lo zampillo si ripeteva, una volta, due.
Yarno si chiuse la porta alle spalle e si mise alla finestra, aspettando che i due finissero ciò che dovevano fare. Da quel punto poteva vedere i campi che sembravano sconfinati, muoversi al tocco gentile del vento. Poteva vedere le spighe che si piegavano mentre Gozer correva rincorrendo qualche uccello, saltando allegramente e abbaiando senza posa. Poco dopo la porta si aprì e Seth ne venne fuori con un sorriso, come un clown a molla che balza fuori da una scatola colorata. Non disse niente, semplicemente si appoggiò con i gomiti al davanzale come Yarno, e si mise a guardare fuori anche lui. Dopo alcuni minuti di silenzio Seth disse solo: "Oggi pioverà, Tlaloc è contento." Dopodiché si allontanò e sparì insieme a Suki. Yarno non li vide andare via. Dato che i loro motorini non erano parcheggiati davanti alla cascina a far da latrina per Gozer (il quale invece aveva approfittato della presenza del suo "Si" per svuotarsi la vescica), Yarno non poté immaginare dove fossero andati. E poi, dopotutto non gli importava proprio niente. Si limitò a continuare a fissare l'esterno, come se ci fosse qualche spettacolo davvero interessante oltre al silenzio cui assistere (escludendo Gozer che si rotolava ora nella sabbia per liberarsi dei suoi inquilini che non pagavano l'affitto). Il cielo era limpido e lui non riusciva a capire come Seth potesse affermare che si sarebbe messo a piovere. Con questo pensiero, Yarno entrò in sala prove e gettò un'occhiata distratta a quella chiazza scura sul pavimento. E lui che pensava che tutte quelle macchie non erano altro che birra rovesciata! Prese la chitarra, attaccò il jack all'amplificatore, alzò il volume e cominciò a suonare un lungo assolo, avvolto dall'odore di spinello, piscia di gatto e da quel nuovo, particolare aroma che non gli piaceva poi tanto. Le note erano parole, i suoni urla, e lui stava dicendo ad Atulya quanto l'amava e quanto volentieri avrebbe passato la sua vita con lei.
L'assolo prese vie più frenetiche, i pensieri si accavallavano come le onde del mare. Le note erano come correnti marine che si incontravano. Si immaginò di nuovo i due che stavano scopando, e poi lui, in questo stesso posto, su questo tappeto gettato a terra per rendere un po' più confortevole questa piccola mansarda.
E poi via di nuovo, in questo torrente di suoni, come travolto da questo assolo che ti prende e non ti lascia andare, avvolto in un sudario e gettato in un fiume in piena. I vestiti si appesantiscono, la testa finisce sott'acqua una volta, due. I sassi ti graffiano la schiena, la faccia, le mani, le braccia. Ed ecco che è inutile tentare di nuotare: il fiume ti ha preso, e l'unico modo per tentare di sopravvivere è far sì che passi attraverso di te, come un fulmine che si scarica sulla terra usando come autostrada il tuo corpo e come casello le tue mani. Così è come se fossi chiuso in una stanza dalle mura imbottite, e hai addosso solo una camicia di forza. Quello che dici o pensi non importa. Sono solo deliri di un pazzo. Una finestrella soltanto ti regala pochi minuti di luce, perché è stata collocata in un modo talmente crudele e strategico che il sole può entrare lì dentro per alcuni giri di lancetta lunga per giorno. E tu ti accontenti di quel regalo come se fosse l'unica cosa per cui ormai valga la pena vivere.
E i suoni sono sempre più frenetici, sempre meno studiati, sempre più veloci, fino a quando una goccia cade giù dal cielo e picchietta contro il vetro, come un sasso scagliato da qualche innamorato contro la finestra della propria fiamma. Una, due, poi guardi i piedi e ti accorgi che il pavimento non è più come prima, ma che adesso è a pois rossi, punti che compaiono velocemente, come se avesse il morbillo. Così guardi la mano sinistra e vedi che gocciola sangue e che la musica ti sta ferendo anche esteriormente oltre che dentro. I polpastrelli insanguinati corrono su quelle corde di metallo rendendole simili in tutto e per tutto a nervi tesi sulla tastiera della chitarra. Urla disperate straziano il silenzio, ma la musica non si ferma. Ti guardi in giro e cerchi la fonte di quelle urla, ma quando ti accorgi che ad emetterle sei tu, allora smetti immediatamente di avere la forza di continuare a stare in piedi. La pioggia ormai riempie il vetro e lo riga come se stesse piangendo. E anche tu cominci a piangere, ma non riesci a smettere di suonare. No. La musica è lì, hai permesso che si scatenasse e adesso non la fermerai facilmente.
Quattro gocce si trasformano in un diluvio. Le tue dita colano sangue, ma non dolgono assolutamente. La musica fa più male dentro. Poi, sempre più veloce, come una giostra folle da cui non puoi scendere ma in cui rischi di impazzire. Urli. Urli più forte, e così senti un rumore stonato, come di una campana infranta che viene scossa, gettata giù da una montagna. Una frustata t'investe il viso. Un graffio. Il dolore. Poi un'altra volta, ma senza frustata questa volta. La musica lentamente si distorce, cambia tonalità. E ancora, e ancora e ancora.
Alla fine il suono è così stridulo, rimbombante. Una sola corda è sopravvissuta, e fra poco l'Atropo della musica taglierà anche quella. Resisterà abbastanza per farti impazzire completamente o si spezzerà adesso, prima che tutto debba finire un'altra volta? Ormai la chitarra è insanguinata, come uno strumento sacrificale di cui tu sei sia la vittima che il boia.
Così, mentre Tlaloc bussa a quella finestrella con il tamburello della pioggia che disegna animali misteriosi sulle pareti e sugli oggetti, Yarno alza d'un tratto la chitarra sopra la testa; sembra un'ascia che sta per calare sul collo di qualcuno. Nei suoi occhi c'è una costante illuminazione divina che non comprenderebbe nemmeno un santone. Pochi istanti passano, poi il suono si fa terribile quando lo strumento entra in contatto con l'amplificatore. Una volta, due volte. C'è una sorta di esplosione quando il manico si spezza in due, attaccato solo da quella corda, quel Mi che resiste, tenendolo come un impiccato penzolante, con il suo suono stanco, ridondante. Poi neanche quello, dato che Yarno strappa il jack dalla presa come un coito interrotto o come una spina estratta che trancia la vita di un malato terminale: l'eutanasia della musica. Ed ecco che infine c'è l'incontro finale: la chitarra che ha un rapporto sessuale con l'amplificatore. Un rapporto pieno di scintille; così elettrico ed esplosivo che Yarno viene catapultato indietro dalla piccola detonazione. Piccole lingue di fiamma si sprigionano da quella bocca spalancata, che sembra aver ingoiato quella chitarra e che gli sia andata di traverso mentre la stava masticando. Oppure sembra una faccia straziata da un soffocamento, con una lingua penzoloni che si allarga come un mollusco.
Il temporale fuori impazzava sempre più, e dentro Yarno si mise le mani sul volto, inondando di sangue anche il viso. Mancò poco e si mise a piangere, scosso però dalle risa.
L'uomo si alza da terra e decide che non è ancora il momento di entrare lì dentro. Non dopo quello che è successo. Non dopo quello che ha visto. No. Si affaccia alla finestra, e vede che Gozer è a terra: sta dormendo coricato su un fianco. Si accende una sigaretta e rimane a contemplare quei campi che sembrano sempre così sconfinati. Da un momento all'altro si aspetta che Seth gli si appoggi a fianco e affermi che Tlaloc è contento e che oggi pioverà. Ma non succede niente. La cascina rimane silenziosa, se non fosse per il miagolio insistente di una gatta in calore. L'uomo si chiede dove possa essere finito Anubi, il leggendario amatore della cascina. Chissà, magari è morto da tempo immemorabile. Niente è per sempre. Nemmeno l'amore. No, nemmeno quello, checché se ne dica di tutti i colori a riguardo.
In lontananza dei motorini sembrano avvicinarsi. I ricordi così tornano. L'uomo sorride per dar loro un caloroso benvenuto. Incomincia ad apprezzarli.
Yarno rivide Atulya abbastanza presto. Lei lo chiamò sabato pomeriggio, e la sera uscirono insieme. La portò in città, a girare per i locali come fantasmi nella nebbia. Era abbastanza incredibile che lei fosse uscita con lui. Incredibile per Yarno, ma per il mondo non doveva sembrare così incredibile, dato che secondo quello che raccontava, ragazze come lei facevano a pugni per uscire con lui. Girarono per la città ridendo, e Yarno si sentì davvero un folle. La portò a casa che era notte tarda, e non aveva ricordo di niente di quello che si erano detti. Così, quando si trovò davanti al cancello di casa sua, immersi nell'oscurità, Yarno temette di averle fatto delle rivelazioni che non avrebbe mai voluto fare, e temette di non ricordarsene affatto. Così si raggelò quando lei lo guardò negli occhi e si mise in attesa. Yarno cominciò a tremare e iniziò a dire stronzate a raffica. Atulya colse il suo disagio e con due parole e un gesto riuscì a riportarlo alla realtà. Una realtà troppo frammista ad un sogno ad occhi aperti: "Stai zitto", disse, poi le sue labbra e quelle di Yarno si toccarono.
Quale brivido! Tlaloc lo perdoni! Non avrebbe mai immaginato che tutto potesse andare in questo modo nella realtà. Avrebbe immaginato che fosse solo un sogno. Sì. Un sogno toccare quei capelli, afferrarli dietro alla nuca e avvicinare ancora di più le sue labbra ardenti a quelle di lei. Lasciare che l'ape arrivasse al suo nettare e non indurla in tentazione di capire che il sapore del fiore non dipende sempre dal suo colore. È come dire che la follia ha un suo metodo solamente quando si cerca di spiegarla. Lasciarla banchettare così di sé, e far sì che anche lei si aprisse per poter assaggiare solo un po' di quello che lei è. Solo un pizzico. Un antipasto. Leggero e croccante come una foglia d'insalata. Un bacio che è unione e che sembra durare per sempre. Un vortice in cui lui è lei sono attorcigliati insieme, un po' come due strisce di cera che si avvolgono a formare una sola candela. Un cero che brucia lentamente, nella notte, su un candelabro solitario in una chiesa sconsacrata. E la polvere, il vento, la pioggia, l'oscurità. Niente può spegnere quella candela che brucia i sensi di colpa e uccide il peccato. Così è come trovarsi immersi in un lago di benzina, giocando con un fiammifero e sapendo di non poterlo tenere in mano ancora a lungo perché fra poco lo zolfo si consumerà e il legno si annerirà presto, arrivando alle dita. Oppure è come essere su un ponte di corda, traballante, scosso continuamente da qualcuno che sta dall'altro capo, sull'altra sponda. E quel qualcuno non vuole che si raggiunga la salvezza. Lasciarsi cadere o resistere fino a quando la testa, le mani, le gambe; tutto il corpo non chiede altro che la fine d'ogni tormento?
Yarno decise di non resistere. Si lasciò andare a quel bacio e fu investito da un'onda in piena che lo travolse e lo fece rotolare tra i sassi fino a riva, per poi risucchiarlo di nuovo nel suo vortice non appena lui piantò le unghie nella sabbia. E così, avanti e indietro, avanti e indietro. Poi, come un sipario che si chiude lentamente, come una dama che fa un inchino e si ritira, come un girasole che abbassa il capo e avvicina i petali, pronto a dischiuderli la prossima volta, il bacio finì con la stessa dolcezza con cui era cominciato. Era incredibile, ma sarebbe rimasto lì a contemplarla mentre teneva gli occhi chiusi per un tempo infinito. Così, restò con la bocca arida, senza più niente da dire. E i pensieri talmente sconnessi da sembrare un Picasso. Meglio morire in silenzio che con una cazzata sulle labbra. E ci sono momenti in cui ciò che dici è quasi essenziale. Un po' come quelle avventure sul computer in cui devi decidere tu che cosa far dire al personaggio. A volte, per andare avanti con l'avventura della vita, bisogna dire le cose giuste. Yarno si trovava in uno di quei momenti: o diceva qualcosa di sensato, qualcosa di struggente, qualcosa che valesse la pena ascoltare, oppure era meglio se se ne stava con la bocca serrata. La vasta scelta di cose da dire comprendeva per lo più cazzate, ma ne scelse una che, secondo lui, era bella da dire.
Si trovò lì, pronto ad esprimerla in tutta la sua emozione, ma alla fine gli sfuggì dalle labbra, e dato che ormai il mondo attendeva una rivelazione, tentò di rimediare: "Quando ci rivediamo?"
Non bad, sir Yarno. Really non bad.
Lei sorrise e scosse la testa. "Baciami, stupido", disse afferrandolo e ficcandogli la lingua in bocca. Poco poetico questa volta, ma eloquente.
Qualche minuto dopo, la vide sparire dentro casa; vide chiudersi quella porta come fosse una bocca spalancata che l'avesse ingollata in un sol boccone. Nemmeno il tempo per dire: "Arrivederci, cara Atulya", ed ecco che lei non c'era già più. Parte di Yarno morì in quel momento, quando la vide andarsene per la prima volta. Anche se dentro di sé sorrideva, sentì che non avrebbe resistito aspettando di rivederla, per questo gli venne da piangere.
Immaginare che qualcosa fosse cambiato in modo così radicale nella vita di Yarno era difficile. Atulya lo chiamò il giorno dopo, e si videro la sera stessa. Quella domenica non andarono in sala prove. Dovevano aspettare di incassare il nuovo assegno dello stipendio del pub per comprare una chitarra nuova e un amplificatore nuovo, e poi gli altri componenti del gruppo non erano stati molto contenti del suo comportamento. Non gli era piaciuto lo scherzetto. Proprio per niente. Quello che aveva fatto sì che tra loro non si spezzasse completamente qualcosa, era che Yarno sapeva quale fosse il segreto dei due amanti che si incontravano di nascosto in sala prove per incastrarsi come pezzi di puzzle, e restare a pomparsi per delle ore. Se solo avesse parlato, loro avrebbero finito di vivere in un paese come Ognissanti, e, anche se Yarno non aveva mostrato di avere anche solo la più vaga intenzione di aprire bocca, il rischio persisteva, e i due fidanzati non potevano rischiare di essere additati come freak per la strada. Così si arrivò ad un tacito accordo: perdonato il discorso: sclero+distruzioneamplificatore a patto del silenzio sulle perversioni anali di due musicisti minorenni.
La sera Yarno uscì con Atulya e finirono di nuovo in città, a scorrazzare in due su un motorino (ed entrambi senza casco) come api alla ricerca di un fiore su cui asciugarsi le ali e deliziarsi nell'aroma del nettare. Alla fine lo trovarono: era un locale aperto fino alle tre e mezza che metteva musica interessante. Dentro c'erano ogni tipo di persone. Il nettare lo versavano a quattordicimila lire al litro, e potevi scegliere di che nazionalità e colore prenderlo. Yarno lo amava rosso/ambrato e Atulya lo preferiva biondo/chiaro. Ne bevvero mezzo litro alla volta, finché non finirono i soldi nelle tasche di Yarno. Quando furono finiti uscirono e andarono in giro per la città con il motorino, ballonzolando come ubriachi (e lo erano).
Andarono in giro per tutta la notte, fino a quando, stremati entrambi, Yarno accompagnò a casa Atulya. Lasciatala davanti al cancello che ancora rideva come una folle, Yarno si rese conto che sentiva il bisogno di dirle che l'amava. Il problema sussisteva nella sua risposta. Troppe volte aveva ricevuto dolci dinieghi quando invece si aspettava il contrario. Niente esitazioni o niente confessioni, cosa decide senor Yarno?
"Buona notte, allora", disse Atulya e lo baciò leggermente sulla bocca.
"Buona notte."
Yarno stava per allontanarsi salendo sul motorino, quando la sua voce dolce e melodiosa lo chiamò. Lo chiamò per dirgli che voleva passare tutta la sua vita insieme con lui. Amarlo e rispettarlo nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore, finché morte non vi separi. Sì, stava per dire quello.
"Sì?" Un sorriso gli si aprì sul volto come un fiore che sboccia. Avanti, piccola, sono qui, aspetto. E aspetto proprio te.
"Sono stata bene questa sera. Grazie."
Nelle tenebre, la leggera tristezza mista a delusione che passò come un'ombra sul volto di Yarno non venne colta da Atulya, che si strinse le braccia con le mani, sorrise al suo sorriso e tornò in casa con un paio di rapidi passi, come fosse un'ombra di luce lunare; un guizzo di nebbia: un attimo c'è e dopo un attimo non c'è più.
Yarno salì sul suo destriero di metallo e cavalcò scoppiettando fino a casa. Mentre sfrecciava sulla provinciale che portava ad Ognissanti, vide una figura che camminava al lato della strada illuminata per alcuni istanti dalla scarsa luce del faro del suo motorino. In un primo momento pensò si trattasse di qualche ragazzo che era rimasto fuori di casa, e quando si rese conto di chi era, capi che non aveva tutti i torti. Era Seth.
Yarno fermò il motorino a fianco a lui e chiese se aveva bisogno di un passaggio fino a casa. Seth alzò gli occhi fino ai suoi e sorrise.
"No. Perché?"
Colto alla sprovvista, Yarno non seppe cosa dire: "Mah... ti ho visto così, da solo..."
"Scendi da quel coso e fatti una passeggiata con me, Yarno. Facciamo due chiacchiere, ti va?"
Il chitarrista scrollò le spalle e spense il "Si", cominciando a camminare a fianco a Seth e spingendo il locomotore per il manubrio. Il primo pezzo di strada lo fecero in silenzio, ascoltando i grilli che cantavano nei campi infiniti alla loro destra e alla loro sinistra, e aspettando lo sfrecciare e lo strombazzare di qualche auto di passaggio. Poi Seth alzò lo sguardo al cielo, e quello che disse fu la rivelazione più grande per Yarno. Furono poche parole, pochissime, e così insignificanti all'apparenza che uno qualsiasi di voi che state leggendo potrà considerarle una stupidaggine. Per Yarno furono però qualcosa di terribilmente vero.
Seth alzò lo sguardo al cielo come un astronomo fallito che contemplava la volta di stelle con un certo disappunto negli occhi. "Certo che è proprio finita l'estate", disse con una nota impercettibile d'amarezza nella voce. Yarno lo osservò per alcuni momenti. Mai prima d'ora delle parole pronunciate gli suonarono più vere. Quell'estate per lui, quando finì, non sembrò la fine di un'estate, ma il concludersi dell'estate, come se fosse un ciclo della sua vita che si era chiuso per sempre. Era finita l'estate ed era cominciato l'autunno? Mai aveva sentito una tal disposizione alla fine di qualche cosa. Mai.
Poi Seth e Yarno parlarono, ma quest'ultimo non aveva più la testa per ascoltare quello che l'amico diceva. Si sentiva come se stesse camminando su una lunga linea nera, disegnata dalle mani degli déi. Camminavano su quella strada che sembrava non finire mai. I campi intorno a loro scossi dal vento della notte. Se ogni tanto qualche macchina non passava a risvegliarli da quel torpore, probabilmente avrebbero continuato a parlare e camminare senza sapere che direzione stavano prendendo sia i loro discorsi sia i loro piedi.
"Dove sei stato questa sera?", chiese Seth ad un tratto. "Sei stato con Atulya?"
"Sì. Sono stato con lei. Siamo andati in città. Sai una cosa, Seth?"
"Cosa?"
"Penso di essere innamorato di lei."
Seth rise al rallentatore, in un crescendo poco passionale d'ilarità forzata. "Sono contento per te, ma stai attento. Le donne sono pericolose."
Yarno annuì lentamente, e decise di chiudere il discorso. Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma non credeva di esserne propriamente capace. Non adesso per lo meno. E poi lui non era fatto per le parole. No. Per lui erano state inventate le note. Camminarono con lentezza esasperante e ad un tratto Yarno si voltò verso Seth e gli fece una domanda fatidica. Era da un po' che ci pensava.
"Seth. I Tlaloc. Che cosa pensi del nostro futuro? Secondo te ce la faremo? Io vedo che la gente ci sta dietro... abbiamo i nostri fans che ci seguono. Credi che ce la faremo a diventare qualcuno? Uscire da Ognissanti…"
Seth sorrise nel buio. Alla luce della luna quel sorriso sembrò più un ghigno. "Vuoi la verità, Yarno?"
"Certo."
"Secondo me no. Ne avremo le possibilità." Allargò le braccia, con stanchezza, come se quel discorso lo annoiasse. "Le hanno tutti, ma forse noi ne abbiamo di più. Quello che è diverso è che non siamo tagliati per il successo. Io amo la musica e so che per te è lo stesso. Io canterei e suonerei da solo fino a quando la combinazione di tutte le note si sia esaurita, ma so che non riuscirei mai a farlo per lavoro." Seth scosse la testa. "Io voglio continuare a suonare in quella cascina, in quelle condizioni. Perché è così che mi piace. Perché è così che sono nato. Contratti discografici, manager, palate di milioni, gente che striscia, droga, schifezze... no. Queste cose non fanno per me." Scacciò una zanzara che continuava a gironzolargli intorno alla testa, ma il gesto stava ad intendere che stava cacciando anche tutto l'elenco di cose che aveva appena espresso. "E poi...", riprese dopo pochi istanti. "...e poi so già come andrà a finire: o ci scioglieremo, oppure qualcuno morirà. È sempre così che funziona. La musica è libertà, ma la vita ha i suoi schemi. Se nasci poveraccio e ti diverti come un poveraccio, non devi tentare di assaggiare il potere e la ricchezza, perché sono bocconi amari." Seth sorrise lentamente mentre camminava. Gli occhi sembravano perduti nel guardare il buio davanti a lui. "Sai cosa farei? Girerei il mondo. In lungo e in largo, misurandolo con un decimetro... ma alla fine tornerei ancora qui, Yarno. Qui con voi ad Ognissanti. A suonare le stesse quattro canzoni che la gente canta quando sono in compagnia o ascolta sulla radio in registrazioni piene di fruscii e rumori. Penso che sia questo quello che voglio davvero." Fece una pausa molto lunga, poi, come se si fosse reso conto di aver perduto il filo del discorso, riprese: "Tu mi chiedi se diverremo qualcuno? Beh, io ti rispondo che lo siamo già, Yarno. Siamo già qualcuno. Siamo i Tlaloc. Tu sei Yarno, io Seth, poi c'è Suki e Ryos. Che cos'altro importa? Non guastiamo quest'armonia e saremo sempre i migliori... anche da qui a cent'anni."
Yarno non disse niente. Restare in silenzio e spingere il motorino era la cosa che gli riusciva meglio. Continuarono così per un bel pezzo, poi Seth gli pose una domanda cui Yarno non poté rispondere: "Sceglieresti l'amore o la musica, Yarno?"
Il chitarrista rimase in silenzio, e pochi istanti dopo aprì la bocca, pronto a dare la sua risposta. Poi, quando il suono stava per uscire, qualcosa dentro di lui s'inceppò e lui non seppe più se fosse davvero la risposta che voleva dare. Anzi, dopo pochi secondi non sapeva nemmeno quale fosse la risposta che aveva scelto in un primo momento. Così restò in silenzio, e si disse che dall'uomo saggio s'impara molto anche quando sta zitto. Seth gli pose solo un'altra volta quella domanda, mesi dopo, ma, se la prima volta Yarno non seppe rispondere perché gli mancarono le parole e i pensieri nel momento stesso in cui li formulava, la seconda volta, la sua risposta la diede. Ma ebbe a pentirsi di ciò che rispose.
Così, lentamente, si avviarono in silenzio verso casa.
L'uomo è ancora sulla finestra, e osserva i quattro scooter entrare dal cancello aperto e sgommare nella terra, alzando un gran polverone. Vede i quattro ragazzi che studiano la sua auto con aria curiosa e critica. Ha ancora poco tempo per ricordare prima che lo scoprano...
I Tlaloc cominciarono a farsi una fama sempre più grande man mano che suonavano in locali sempre più famosi e con sempre più persone che seguivano i loro concerti. Un paio di volte un uomo in giacca e cravatta si mostrò interessato alla loro musica e alle loro esibizioni live, e dopo un paio d'incontri decisero di incidere qualcosa con i soldi che quest'uomo offriva loro. Il suo nome era Remelli.
In studio di registrazione le cose non andarono per il meglio. O almeno non subito. Seth, in special modo, mise in pratica la sua teoria secondo cui non sopportava la fama. Purtroppo però, la mise in pratica troppo presto. Si presentava in studio con due ore di ritardo e quando ci arrivava era ubriaco e non si reggeva in piedi. A volte si sedeva a terra e voleva cantare a tutti i costi in quella posizione, altrimenti si sarebbe rifiutato. Una volta prese a calci tutto quello che gli capitò sotto mano e scaraventò il microfono contro il vetro della sala regia, che, per fortuna non si infranse. Yarno non capì mai con quale pazienza i padroni dello studio accettarono i compensi di Remelli e, per di più, non riuscì a credere del tempo che impiegarono per registrare le dodici canzoni che comparirono sull'album. Il loro primo album. Ci vollero due mesi per finire le registrazioni. Tutti i giorni per sei ore si trovarono in studio e suonarono fino alla nausea gli stessi brani. Un tempo madornale per un gruppetto come loro. Quello che però uscì da quella sala di registrazione era l'essenza della loro musica. Quell'album era i Tlaloc stessi; e non è facile per una band esprimere così bene quello che la musica significa per loro. Ma i Tlaloc ci riuscirono.
Così, nei primi mesi del nuovo anno, il primo album dei Tlaloc uscì sugli scaffali dei negozi di dischi. E se aveste chiesto a Seth, il cantante, che cosa ne pensava di quel disco, lui avrebbe sputato per terra e scosso la testa, poi avrebbe detto: "Lo comprerà solamente mia madre, mia zia e il mio migliore amico: cioè il mio cane. Io non sarò così stupido da buttare i miei soldi in merda."
Nonostante tutto, il primo album dei Tlaloc uscì.
E fece successo.
L'espressione che fece Seth quando il primo assegno con più di cinque zeri gli fioccò sotto il naso, fu d'amnesia e adorazione. "Insomma," avrebbe detto lui, "bisogna saper unire l'utile al dilettevole, no?"
Decisero in ogni modo di continuare a provare nella cascina, in mezzo ai campi, in quel paesino dove tutti quanti li consideravano ancora dei ragazzini che sapevano solo strimpellare qualche accordo e picchiare forte su un tamburo. Le cose quindi non cambiarono per niente: la domenica erano sempre là a suonare, la settimana andavano a scuola, e la sera se ne andavano in giro come folli per i campi ad ululare alla luna. Il sabato sera, poi, estraniandosi da tutto quanto, Yarno andava a prendere Atulya a casa e la portava in qualche posto magico dove poter sognare un po' assieme a lei. E tra loro era meraviglioso; ma qualcosa si ruppe il giorno in cui lei gli fece la stessa domanda che Seth gli aveva posto qualche mese prima.
Accadde lassù, alla collina. Accadde appena dopo che ebbero fatto l'amore. Lì, stesi su una coperta ad accarezzarsi con lo sguardo. "Cosa c'è tra noi?", chiese Yarno ad un tratto.
"Non lo so", rispose lei.
"Ho bisogno di saperlo, piccola."
Lei si alzò su un gomito, poi gli prese tra le dita il piccolo ciondolo che lui teneva attaccato al collo. "Io ho bisogno di sapere qualcosa d'altro, Yarno. Ho bisogno di sapere come ti comporteresti se ti dovessi, un giorno, trovare davanti alla scelta: o me o la musica. Che cosa faresti?"
Yarno raggelò, come se i vestiti che aveva addosso si fossero congelati e una minima mossa avrebbe provocato un contatto che voleva evitare, "Non posso risponderti adesso. Non so cosa sceglierei, piccola."
"È una scelta molto difficile, vero?" Non c'era rabbia nella sua voce, ma quella piccola vena di malinconica consapevolezza, come un'ombra che passa sul sole, come un'eclisse che fa impazzire i girasoli, come pioggia nel deserto, come una tempesta di sabbia in mezzo al mare. La ragazza si alzò a sedere e si coprì gli occhi con le mani. "Se tu diventassi famoso…", disse d'un tratto, ma lui la volle interrompere. Il discorso non gli piaceva.
"Atulya, non penso che...", tentò di schermirsi lui.
"Lasciami finire", lo interruppe lei di rimando. "Se tu diventassi famoso, potresti avere tantissime donne. Ti cadrebbero ai piedi. Io so che sarebbe così. E so anche che ce n'è la possibilità; il tuo album sta vendendo benissimo, Remelli sta organizzando un tour italiano..." La ragazza prese fiato, poi continuò: "Se tu diventassi famoso, io vorrei solo una cosa: stare sempre al tuo fianco. Non mi importerebbe niente se tu ti scopassi le altre donne. Io vorrei essere sempre lì, con te."
Yarno le prese dolcemente la testa fra le mani e la baciò. I suoi occhi erano pieni di lacrime, e in pochi secondi anche quelli di lui ruppero gli argini.
A marzo i Tlaloc cominciarono una tournée che comprendeva circa venti date nel norditalia. Passarono in molte città e, ovunque ricevettero una buona accoglienza. Viaggiare in treno non era male come situazione. Sempre in movimento, con la lieve tristezza di ogni città che ti lasci alle spalle e delle lettere che mandi a casa, o alla ragazza. E poi pagarono bene il loro lungo disturbo. Quando tornarono, il paese sembrava diverso, dopo aver visto tanta gente e tanti posti differenti. Atulya accolse Yarno con un abbraccio senza fine, ma qualcosa nella sua stretta fece capire al chitarrista che la scelta da parte sua era già stata presa, e lei lo sapeva. La musica o l'amore?
Il tempo passava e Seth era sempre più strano. Specialmente nei confronti di Yarno. Ogni tanto si fermava a fissarlo per dei lunghi minuti, così, senza parlare. E altre volte gli chiedeva di Atulya, di come aveva preso il fatto che fossero partiti in tournée e che i Tlaloc stessero diventando qualcosa di un po' troppo serio. Yarno, dal canto suo, cercava di rispondere nel tono più sincero che potesse tenere. Poi, ogni tanto, capitavano quei lunghi momenti di totale astinenza dalla realtà. Passava minuti interi senza dire niente, così, a fissare il vuoto. A volte non si presentava in sala prove, o se lo faceva arrivava in ritardo di un'ora e mezza.
Poi venne il giorno in cui Seth pose di nuovo a Yarno quella fatidica domanda. E Yarno rispose, questa volta.
Si trovavano alla cascina. Lui e Atulya erano venuti con una chitarra classica a cantare un paio di canzoni in solitudine. Lei aveva una voce bellissima, e Yarno voleva provare a far cantare un paio di canzoni anche a lei, ma, quando lo aveva proposto al gruppo, Seth aveva reagito gettando a terra l'asta e fracassando il microfono. Non era d'accordo.
I due innamorati erano lì che suonavano qualche canzone, quando sentirono arrivare i tre motorini degli altri Tlaloc. Seth era salito per le scale facendo i gradini a due a due e li aveva trovati là, sul soppalco che avevano costruito tutti assieme e dove c'era un letto con le coperte. Yarno suonava e Atulya cantava. Arrivati gli altri, Atulya volle andare a casa, così Yarno la accompagnò e tornò indietro. Quando arrivò, vide che Suki e Ryos se ne erano andati da un pezzo. Sotto il portico Seth lo aspettava osservando le gocce d'acqua che rendevano la strada un pantano di fango e pozzanghere. Gozer scorrazzava sotto la pioggia allegramente.
"Yarno... te l'ho già chiesto una volta e non mi hai risposto: cosa sceglieresti: l'amore o la musica?", chiese Seth dopo che si fumarono una sigaretta e parlarono di questioni inutili.
"Perché lo vuoi sapere?", gli chiese il chitarrista. Seth era seduto sul frigorifero arrugginito, le gambe a penzoloni.
"Penso sia necessario affrontare l'argomento, prima o poi. E ho anche bisogno di un consiglio,"
Yarno alzò le sopracciglia, si accese un'altra sigaretta e rispose: "Sai... ci ho pensato tanto in questi tempi. Abbiamo cominciato così per scherzo e adesso abbiamo un album, un produttore, una casa discografica, fans che ci seguono ad ogni concerto... mi sembra molto lontano il giorno in cui sei venuto a casa mia e mi hai chiesto di suonare qualcosa per te. Non è passato che un anno e mezzo da quel giorno, eppure mi sembra già di essere un divo stanco di una vita che non mi cambia in nessun modo. Sì, okay, abbiamo in programma un'altra tournée, dobbiamo cominciare a lavorare al secondo album... ma nonostante tutto, la fama non mi sembra così diversa dalla vita che ho fatto finora. Vado a scuola cinque giorni la settimana e probabilmente sarò bocciato, ho una ragazza che mi..." Poi, proprio mentre stava per pronunciare quelle due parole: "Mi ama", Tlaloc starnuti, e il tuono coprì la sua voce. Quando Yarno ripeté la frase, qualcosa era diverso: "Una ragazza che mi vuole bene e che apprezza quello che faccio. Insomma, fino ad adesso non mi sono trovato davanti all'obbligo di una scelta che potesse influenzare così drasticamente la mia vita, ma, dopo molte riflessioni, penso di essere giunto alla conclusione che, nonostante ci siano pro e contro in tutte e due le chance..."
"Certo è che i discorsi sintetici non sono il tuo forte, eh?"
Yarno rise, poi concluse: "Insomma, penso che sceglierei la musica." Un altro tuono accompagnò quella frase.
Seth lo guardò dritto negli occhi con uno sguardo inespressivo. "La musica? E perché?"
"Perché le donne (come tutti quanti, penso), vanno e vengono, Seth. La musica invece resta. Non ti viene a cercare se non la vuoi, ma c'è sempre quando hai bisogno di lei. Ti conforta, ti culla, ti prende a schiaffi. Alle volte ti rende allegro, o ti rattrista. Certo è che lei non ha bisogno di te. Se tu non la suoni o non la ascolti, lei non ti rimprovera. Non piange se la abbandoni, ma non è felice se la ami. Perché lei non ama te. È una cosa a senso unico, ma si ha molto da guadagnare e quasi niente da perdere. Tu cosa pensi?"
Seth annuì mentre fissava la pioggia che scrosciava sulla terra, poi disse: "Il fatto è che l'amore ti fa del male. Sempre e in ogni caso. È solo questione di tempo. E quando lo fa, il più delle volte lo fa gratuitamente. Dopo tanti errori non riesci lo stesso a fare a meno di rischiare di sbagliarti di nuovo, pena il rimanere solo. E se non stai male tu, starà male l'altra persona. Alla fine, funziona sempre così." Il tono in cui Seth disse queste cose non era né triste né arrabbiato. No. Erano semplici constatazioni. Terribili constatazioni; come affermare che l'Italia è un bel paese organizzato male, ma che comunque noi, nel nostro piccolo, non possiamo fare niente per cambiare la situazione. Fu un po' come quando cammini a testa bassa, dopo essere uscito per l'ultima volta dalla casa di quella che doveva essere la persona della tua vita. In mano stringi le poche cose che hai lasciato a casa sua, qualche lettera, magari qualche compact disc, o peggio, decine di lettere d'amore indirizzate al nulla che va in pensione. Cammini a testa bassa e speri così tanto di sentire quello scalpiccio in corsa che significa che tutto è solo un sogno che quasi ti volti di scatto, convinto che lei stia correndo da te, piangendo, a braccia aperte, pronta a dirti che ci ha ripensato e che tutto è come prima. E allora rallenti, perché vuoi essere sicuro di dare il tempo a quella persona di raggiungerti. Ti abbassi ad allacciarti le scarpe, fingi di guardare se piove anche se c'è un sole che ti spacca la testa. Tutto fino a quando ti rassegni e continui a camminare, senza guardarti indietro, perché comunque, nonostante tutto, vivi con la piccola speranza di sentire i suoi passi che corrono verso di te, e voltarti potrebbe voler dire rimanere a squadrare una via deserta in cui nemmeno i fantasmi hanno voglia di camminare. Sono specialmente in queste occasioni che sul volto ti si dipinge l'espressione che Yarno vide sul viso di Seth quel giorno di pioggia.
Dopo un po' Seth si voltò verso Yarno e disse: "La musica anche sopra Atulya?"
Yarno annuisce dopo alcuni secondi. "Anche sopra di lei", dichiara senza ripensamenti.
L'uomo sente ormai i passi che salgono le scale. Non ha più tempo. Si volta e decide di smettere di girare in giro, deve affrontare il ricordo finale, quello che ha fatto sì che tutto finisse. Mette mano sulla maniglia con un gesto rabbioso oltre che nervoso, pronto a liberarsi di quel qualcosa che l'ha spinto a tornare, quel qualcosa che spinge sempre tutti a tornare nei luoghi che hanno caratterizzato la giovinezza. La mano sulla maniglia, fredda come ghiaccio, le dita pesanti come piombo. Strattona mentre i passi e le risate salgono le scale. Tira molto forte, quasi con un ringhio, e si catapulta all'interno, cadendo in avanti, come se stesse origliando e qualcuno avesse spalancato l'uscio all'improvviso. Chiude gli occhi per evitare l'urto contro il deja-vu, lo schiaffo del flashback. Quando li riapre lo fa barcollando su gambe malferme, come se fossero di burro e la temperatura stia salendo. Apre gli occhi e rivede quel posto.
E d'un tratto è strano ritrovarsi qui, come se manciate di occhi fossero puntati su di lui, lo spiassero dalle finestre di decine di palazzi che ritagliano solo un piccolo francobollo di cielo, così lontano da sembrare dipinto. E lui non può far altro che girarsi in giro, cercando di ricostruire con gli occhi quello spazio così piccolo ma così importante. Come mai sembra più ristretto adesso? Sembra quasi che col passare degli anni mani giganti abbiano manipolato e modellato quella piccola mansarda su formato nanesco. O forse no. È lui che è cresciuto. Sorride lievemente alle decine di poster di donne nude che tappezzano le pareti. La batteria in un angolo sembra in castigo. Non è più la vecchia "Tama" di Ryos. Questa è una "Pearl" molto più somigliante ad una giungla di piatti ed aste che ad una semplice batteria. Anche gli amplificatori sono cambiati, e il mixer, anche se più piccolo, sembra poter offrire prestazioni migliori. Quindici anni di progresso hanno reso fantascienza anche questa piccola stanza. L'uomo si gira come in trance fino a quando alza gli occhi al soppalco su cui si stendeva sempre con Atulya nei suoi tempi migliori. Lassù un tempo c'erano un letto e delle coperte, oltre ad una rozza scala a pioli per raggiungerlo. Adesso invece c'è qualcosa d'altro abbandonato come bambole in soffitta. La scala è ancora lì, però. Si chiede come avranno fatto a mettere tutto lassù. Dopotutto ci vuole un bel po' di forza. Certo è che il soppalco che hanno costruito loro è ben resistente. Ma che cos'è quello? Non può essere. Sì. È sicuro che non può sbagliarsi. Quel dito accusatore sembra puntare proprio su di lui. Sembra dirgli: Hey, te ne sei andato. Mi hai lasciata qui a marcire insieme con gli altri. Ti ho divento, ti ho consolato, ti ho cullato, ma tu mi hai abbandonato.
L'uomo mette i piedi sui pioli quasi di forza. Scivola e per poco cade a terra, ma alla fine riesce a salire e ad afferrare quel dito che spunta. Il resto è sommerso da un groviglio di cavi ammonticchiati, come un nuovo enigma di Rubik, ma tirando piano piano riesce a tirarla fuori. È ancora intera ed è proprio la sua. È sicuro. Le corde sono vecchissime, il mi cantino e il re sono saltati, ma il resto è ancora lì. Scende dal soppalco e si trova in mezzo alla stanza proprio quando la porta si spalanca e quattro ragazzi entrano in sala prove, con il sole negli occhi e nel sorriso. C'è lo scambio di sguardi, e in un primo momento loro pensano che si tratti di un ladro o di un pazzo: un uomo con l'età di Cristo con in mano una vecchia chitarra elettrica dalle corde spezzate. L'uomo sorride debolmente alle espressioni stranite dei quattro ragazzi. Ci sarà da spiegare alcune cose.
Fu in un tardo pomeriggio di sole di quindici anni prima, che Yarno fermò il "Si" davanti alla cascina e scese. Cercò la Chiave al solito posto, sotto il cruscotto della mietitrebbia arrugginita, e vide che mancava: la sala prove era già aperta. Era appena passato da Atulya, e sua madre gli aveva annunciato che era uscita con un suo amico. Così Yarno, perplesso, si era recato alla cascina e, trovandola aperta, era salito per le scale. Fuori non aveva visto nessun motorino, c'era solo Gozer che si inseguiva la coda. Salì le scale, in velocità, pieno di voglia di vedere Atulya. Attraversò il corridoio, mise la mano sulla porta. La spalancò.
È così che si capisce che la vita è un film e che tutti siamo attori. Ognuno recita la propria parte, ma è il mestiere del regista decidere se qualcuno debba cambiare ruolo. Così tutto si ripeté come la prima volta, quando Yarno aveva colto i due amanti che si incastravano in mezzo alla sala con moti frenetici e scoordinati. Tutto si ripeté, ma al centro della sala adesso c'era Atulya, sdraiata a terra, con i seni nudi che ballonzolavano lievemente come due piccoli budini alla vaniglia su cui era stata fatta cadere una goccia di cioccolato al latte. Il corpo bellissimo sobbalzava sotto i colpi decisi e ripetuti di Seth, che stantuffava silenziosamente, in ginocchio, tenendole con le mani le cosce aperte e sollevate verso di lui in modo che il coito si realizzasse più a fondo. Era una visione estatica. Una posizione che lui e Atulya non avevano mai provato. Yarno rimase a fissarli per un secondo prima di impazzire ed urlare di colpo. La ragazza lo guardò, poi, continuando a gemere, strabuzzò gli occhi e si mise una mano davanti alla bocca per coprire l'urlo di sorpresa. Seth invece rise e continuò a pompare dentro di lei, sempre più forte, sempre più veloce.
Yarno uscì di corsa liberandosi della giacca mentre attraversava il salone davanti alla porta della sala. La lasciò cadere a terra proprio quando fu davanti al primo gradino che scendeva, e ci inciampò, ruzzolando giù dalle scale. Testaculotestaculotestaculo e poi era davanti alla porta aperta, in quel triangolo di sole grigiastro, dolorante e piangente ad osservare le astronavi di polvere che creavano formazioni sempre nuove in quella lama di luce. Gozer venne verso di lui e gli leccò la faccia. Yarno si alzò a fatica e sentì che, sopra di sé, i due lo stavano raggiungendo. Atulya lo chiamava in continuazione, così trovò la forza e si alzò in piedi, trascinandosi verso il motorino. Non voleva vederla. Nella testa aveva soltanto una confusione senza precedenti. Solo la voglia di correre senza smettere mai, come su un tapirulan. Correre e correre, e quando non hai più voglia di correre, lasciarti cadere a terra e lasciarti trascinare.
Così Yarno saltò sul motorino, deciso a correre finché la benzina non sarebbe finita. E quando ciò sarebbe avvenuto, fare rifornimento e continuare, continuare fino al sole che tramonta, là, a cercare quella pentola d'oro che i nani nascondono alla fine dell'arcobaleno. Dopo alcuni istanti di esitazione, Yarno partì sfrecciando, inseguito da Gozer che gli abbaiava di fermarsi e di spiegargli che cosa gli aveva preso. Uscì dal cancello nel momento in cui Atulya comparve sulla soglia, piangendo e urlando. Seth dietro di lei. Yarno sentì il grido della ragazza, ma se prima la sua voce era poesia per lui, adesso sembrava il richiamo di un'arpia. E quella visione fu l'ultima che ebbe di lei: sulla porta, a gridare il suo nome... ma anche quell'altra gli rimase sempre in mente: schiena a terra, seni che ballonzolano, e quell'espressione trasognata sul volto mentre un gay spingeva dentro di lei.
Così continuò, senza seguire nessun itinerario, aspettando solo che le ruote girassero quando decidevano che era venuto il momento di cambiare direzione. Il sole tramontò dietro le colline e in meno di due minuti Yarno sentì la mancanza della giacca, che era rimasta alla cascina. Le lacrime che versava venivano spazzate via dalla velocità, ma l'inferno che aveva dentro... quello no. Volò attraverso i campi, deciso a seguire solo il proprio olfatto. Si sarebbe fermato solo quando avrebbe sentito che era il momento. Così si lasciò andare a risate e pianti mentre l'aria gli sferzava il viso. Gli riusciva di trovare la cosa abbastanza divertente in alcuni momenti. Ma Seth non era frocio? Poi le risate si trasformavano in pianto disperato. Il pianto per qualcosa che ti viene donato e poi rubato quando stai dormendo, per svegliarti la mattina e scoprire che non è più al suo posto. Così, mentre correva su quella strada, diretto chissà dove, Yarno cominciò a credere che infine tutta la vita è davvero un piatto colmo di merda, e che c'è sempre qualcuno che te lo riempie non appena accenni a finire la tua parte. E quando affermi che sei sazio, c'è qualcuno sempre pronto a spalancarti la bocca e riempirtene di nuovo la gola.
E così correre, correre, correre a perdifiato, come un maratoneta senza nessun traguardo, con la sola consapevolezza che bisogna continuare a correre, senza smettere mai. Correre senza guardarsi indietro, e senza badare a quel rumore che senti dietro di te, e che non è il tuo fiato. Badare solo a correre, concentrarsi solamente su quello, correre e tentare di non inciampare. Anche se sai che qualcuno ti insegue; anche se sai che quel qualcuno è più veloce di te.
Yarno correva con il suo motorino, deciso a continuare anche a costo di giungere alla fine di ogni strada. Sfrecciava sulla provinciale ridendo e piangendo contemporaneamente, convinto che si sarebbe presto svegliato da questo incubo e si sarebbe trovato magari ad una festa in cui si era addormentato. Una di quelle feste che ogni tanto organizzavano alla cascina, con dischi dei Led Zeppelin che saltavano, pieni di fruscii, su un piatto malandato. La voce di Robert Plant che si mischia alle risate, all'odore di spinelli che ha imbrattato le pareti perennemente, e a quello della piscia di gatto. Una di quelle feste in cui la sangria scorre a fiumi, versata in un'insalatiera con un mestolo grande come una pentola con cui riempire bicchieroni da frappè. E gente che balla allegramente sotto la luce tremolante delle poche candele sparse in giro per il salone, come lumini in un cimitero, che baluginano e danno quell'aspetto spettrale alla stanza. Quella luce che dà il vago sentore di invecchiamento, come l'ingiallirsi delle fotografie... e chissà che i ricordi non ingialliscano proprio come le foto e che puzzino di canna rollata male. Sì, una festa come quella, dove c'è sempre qualcuno che mentre sta rollando uno spino lascia cadere l'impasto, e così ci si getta tutti a quattro zampe, come cani da tartufo, a cercare quel grammo di marijuana che ci rende felici. E chissà che magari la vita non sia altro che una festa come quelle, in cui c'è sempre qualcuno talmente fatto o talmente etilico, che gli si potrebbe distillare il sangue senza problemi e rivenderlo come vino nostrano; uno di quelli che bisogna portare a casa perché se no si sbocca anche sulle scarpe mentre cammina, e ad ogni passo afferma che sta bene e che non è ubriaco.
Sì, Yarno era convinto di essersi addormentato su una poltrona di quel salone, e la festa era continuata intorno a lui senza che nessuno se ne accorgesse. Beh, allora era venuta anche l'ora di svegliarsi da quel sogno, stiracchiarsi un po' le braccia indolenzite e dire: "Okay, è venuta l'ora di ubriacarsi e di collassare di nuovo, per andare a letto così tardi che è quasi presto, addormentarsi e svegliarsi alle sei, per prepararsi ad un'altra festa allucinogena che ti farà a fettine talmente sottili che ti ci potrai vedere attraverso... e così via, fino a quando non avrai più nemmeno la forza per tenertelo tra le mani."
Ma poi aprì gli occhi, e vide che la strada era ancora lì; che lui stava ancora cavalcando quel motorino scassato; che un camion gli era praticamente addosso e che Atulya si era davvero portata a letto Seth. Così urlò e schivò il camion appena in tempo per mantenersi a mala pena in equilibrio su due ruote traballanti come viti allentate, ma non riuscì a non pensare che tutto era finito un'altra volta, che Seth aveva ragione, e che infine mostrare i propri sentimenti a volte è più sbagliato di quanto possa sembrare. No. A riprova di ciò, è meglio tenersi tutto dentro, far finta di niente, mascherare ciò che si prova e sperare di non impazzire. Tutto questo solo per non stare male, per non sentirsi come quel piatto di merda che ogni giorno mangiamo..
Yarno si fermò dal benzinaio. Era chiuso ma era aperto il servizio self service. La benzina non era ancora finita, ma la giornata volgeva al termine. Lasciò cadere il motorino a terra; pochi metri più avanti, cadde anche lui. Stramazzò al suolo come un burattino con i fili molli. E così pianse, lentamente, senza far rumore. L'odore di benzina nelle narici.
Passò un tempo indefinibile. Lentissimo. Quando credette di essere ormai così vecchio che se solo avesse mosso un muscolo sarebbe caduto come cenere al vento, un motorino si fermò dietro di lui e dei passi si avvicinarono. Yarno si aspettò la solita domanda del cazzo: "Stai male?" Ma la voce che parlò lo fece rabbrividire.
"L'amore o la musica, Yarno." Questa era un'affermazione; non più una domanda.
L'interpellato alzò la testa, e si voltò verso Seth, che lo stava guardando dall'alto, come una visione ciclopica, terrificante. Yarno si alzò in piedi, guardandosi le mani e sorprendendosi di non vederle sbriciolarsi sotto i suoi occhi atterriti.
"Perché?", riuscì solo a chiedere.
Seth alzò un sopracciglio, poi sorrise lievemente. "Gelosia, Yarno. Quello e…"
"Gelosia?" Yarno si alzò completamente in piedi, ma faceva fatica a reggersi in equilibrio. Era pieno di lividi.
"Io ti amo, Yarno. Ti amo dal primo momento che ti ho visto. È successo così... all'improvviso." Seth schioccò le dita e sorrise. "Sai come succedono queste cose, no? Beh, io sapevo che sarebbe stato inutile, ma volevo averti. Averti ad ogni costo." Allargò le braccia, poi continuò con tono dì scusa: "Sono fatto così... che ci posso fare? Poi ho scoperto che tu non saresti mai stato mio. Non mi saresti mai appartenuto. Così seppi che non avrei mai potuto dividerti con nessuno ma che non avrei mai nemmeno potuto averti solo per me." Seth sorrise senza allegria. Alla luce del distributore il suo viso sembrava un teschio.
"Perché lo hai fatto? Se è stato solo per ferirmi..."
"No", intervenne Seth. "O no... no. Io ti ho prima chiesto che cosa sarebbe stato più importante per te: l'amore o la musica. Tu mi hai risposto che era più importante la musica, non è così?"
"E allora? Questo non ti dava il diritto di scoparti Atulya!" Dire quelle cose lo fece sentire più triste ancora. Ricacciò indietro le lacrime.
"Così tu la vedi solo sotto quell'aspetto, vero? Tu credi che uno come me vada a letto con una ragazza solo per puro piacere? No. Lei era solo la metà di ciò che mi impediva di averti. Finché non c'era lei io ti possedevo in ogni modo. Eri mio. Suonavi per me, scrivevi le canzoni che io avrei cantato. Eravamo una cosa sola, Yarno!" Seth alzò un po' di più la voce: "Sapevo che se fosse sopraggiunta una donna, avrei dovuto rinunciare anche a quella parte di te che era mia di diritto!" Seth si fermò, gli tremava il labbro inferiore. L'odore di benzina sembrava più intenso. "Però non potei impedirti di conoscerla. E non potei impedirti di farlo davanti a me." Alzò lentamente la voce. "Non potei impedirti di uscire con lei, di innamorarti di lei, di fare l'amore con lei!" Seth si fermò per un paio di secondi, poi sussurrò in maniera appena percettibile: "Poi, giorno per giorno, vedevo che ti stava portando via tutto quanto, anche quella piccola parte che speravo riservassi a me. " Seth si accucciò a terra, con la testa tra le mani. Sembrava un bambino. "Io ti amo", mugugnò il cantante, piangendo. "Ti ho sempre amato e ti amerò sempre, Yarno. Ma non per questo ti ho mai chiesto niente di più che suonare per me. Mi bastava quello. Mi bastava la comunione che facevano la tua chitarra e la mia voce. Ma lei mi stava portando via anche quello. Mi è crollato il mondo addosso quando ti ho visto suonare per lei... e lei cantare per te. Stava facendo quello che solo io ho sempre fatto! Mi stava portando l'unica cosa che ero riuscito ad ottenere! L'unica cosa... l'unica." Seth continuò a ripetere quella parola per lunghi secondi, come una bambola parlante con il disco rotto. Si dondolava sulle gambe accucciate e scuoteva la testa.
Yarno lo fissò con aria incredula. Era indeciso se aveva voglia di ucciderlo o di abbracciarlo e consolarlo.
"E Suki?", chiese il chitarrista.
"Suki..." Seth scosse la testa, sorridendo, "Suki è solo un amante."
"Se non ne hai goduto, allora perché lo hai fatto?", chiese Yarno. "Perché hai fatto sì che io vi scoprissi e che ci stessi male?"
"Perché avevi fatto la tua scelta, Yarno." Seth alzò la testa e lo guardò negli occhi. Le lacrime splendevano come brillanti negli occhi. "Hai scelto la musica e hai messo a parte l'amore. Nella tua vita Atulya rappresenta l'amore, no? Quindi, per forza di cose, io per te rappresento la musica", spiegò Seth. "Quindi, adesso che lei non ci sarà più, nel tuo cuore ci sarà spazio solo per me."
Seth si alzò, scavò nella giacca e si accese una sigaretta. Gli attimi che seguirono furono solo un incubo che perdura tuttora nella mente dell'uomo. Il ricordo del sorriso sul volto del ragazzo lo fa ancora rabbrividire. Gli fa venire in mente stalattiti e stalagmiti di ghiaccio infilate nelle gengive.
"Non ti perdonerò mai, Seth." La voce di Yarno era arida come sabbia sotto il sole. "Avrei scelto la musica se avessi dovuto scegliere, ma in questo caso hai scelto tu per me. Mi hai tolto qualcosa in cui credevo... e io, per questo ti odierò per sempre." Dopo che Yarno ebbe finito di parlare si senti molto meglio. Tirò su il suo motorino e se ne andò a piedi, lentamente, senza guardarsi indietro.
"Yarno...", chiamò Seth dietro di lui, ma il chitarrista non si girò, e a distanza di anni si pentì di non essersi voltato. Avrebbe potuto salvarlo.
"Yarno... o l'amore o la musica!", gli ricordò Seth.
Il ragazzo continuò a camminare, lentamente, e non si voltò fino a quando non sentì l'urlo allucinante che si alzò dalle sue spalle. Ormai era lontano e in un primo momento non capì che cosa fosse accaduto. Quello che vide era che al posto del suo cantante c'era ora una torcia umana che ardeva chiamandolo per nome. In mano aveva l'erogatore, che assomigliava più ad un lanciafiamme, ormai. Yarno lasciò cadere a terra il motorino e corse verso il benzinaio, ma fatti quattro passi Seth cadde a terra, e al quinto la pompa di benzina super saltò in aria in un boato assordante. Lo spostamento d'aria lo catapultò all'indietro e gli bruciò i peli del naso, la peluria del viso, le ciglia e le sopracciglia. Sentì l'odore della benzina e della cheratina bruciata. Così, a terra, con una chiazza di orina che si allargava nei pantaloni, Yarno sbatteva gli occhi ripetutamente mentre un fungo giallo/nero si alzava verso il cielo, illuminando la campagna a giorno. Pochi secondi dopo saltò in aria anche il gasolio. Due esplosioni ripetute. Yarno si schiacciò a terra, assordato. Le orecchie gli fischiavano, e intorno a lui volavano pezzi di metallo incandescenti come meteore. Uno gli cadde sulla camicia, che prese fuoco, ma lui non sentì dolore. Rimase a terra, con le mani sulla testa, piangendo annichilito fino a quando sentì arrivare in lontananza la sirena dei vigili del fuoco. Poi due mani sicure lo issarono in piedi, e lui poté finalmente cominciare ad urlare. Era rimasto intrappolato, imbevuto, in un sogno di benzina mentre giocava con un fiammifero. Il dolore alla schiena era lontano ormai... il mondo stesso era lontano ormai...
L'uomo è in mezzo a quella sala prove, e ha in mano la chitarra elettrica. Sorride lievemente a quei ragazzi, che lo squadrano perplessi. Poi uno si fa avanti e gli sorride.
"Tu sei Yarno, il chitarrista dei Tlaloc", dichiara guardandolo negli occhi.
L'uomo sorride. "Si, suonavo qui, come voi, una volta. Sono tornato qui e ho trovato questa..." Alzò la chitarra. "È ancora la mia. È stata abbandonata lassù e ha perso un paio di corde, ma scommetto che se aveste un set di corde nuove... potrebbe suonare ancora." Yarno alza appena un angolo della bocca, timido come sempre.
"Io dovrei avere qualche corda di ricambio... se vuoi, posso andare a prenderle a casa. Abito qui vicino e mio padre me ne tiene sempre una scorta", afferma un altro. Ha i capelli chiari. Un'aria familiare.
"Tuo padre è un musicista?" chiede Yarno.
"Mio padre era il tuo batterista."
"Ryos?", chiede per conferma. "Il mio Ryos?"
Il ragazzo sorride e annuisce. "Proprio lui. Non si fa più chiamare con quel soprannome, però."
"Per me rimarrà sempre Ryos. Si è sposato?"
"Sì."
"Con Alice."
"Già."
Yarno sorride. "E così tu saresti il figlio di Ryos...", Yarno si avvicina al ragazzo e lo guarda ben bene. "Quanti anni hai?"
"Tredici."
"E che strumento suoni?"
"La chitarra."
"Oh. Mi faresti vedere la tua chitarra... come ti chiami?"
"Seth."
Yarno spalanca gli occhi. Una lama gelida conficcata tra le costole. "Come hai detto, scusa?"
"Mi chiamo Seth. È stata un'idea di mio padre darmi il nome del vostro cantante." Il ragazzo fa una smorfia, poi poggia a terra la custodia della chitarra. La apre con mano ferma e la spalanca come fosse una ventiquattro ore piena di biglietti da cento. "Non mi è mai piaciuto come nome, ma per mio padre ha un significato molto particolare."
"Lo ha davvero", conferma Yarno, poi fa il giro e guarda la chitarra, stesa come un cadavere nella bara. Un cadavere bellissimo, però. Una Gibson modello stratocaster. Rossa. Tempestata d'adesivi d'ogni tipo. Tra i quali ce n'era uno con la scritta "Tlaloc", il logo del gruppo.
Yarno s'inginocchia e la osserva più da vicino mentre Seth gli tiene il coperchio della custodia alzato. "Posso provarla?", chiede Yarno.
Seth sorride e dice: "Okay. Io vado a prendere le corde nuove della chitarra."
Yarno rimane in contemplazione dello strumento per lunghi secondi, poi lo prende in mano, allunga la tracolla e lo indossa come fosse un vestito. Gli altri ragazzi lo stanno fissando. Sembrano in adorazione. Deve essere un po' il loro mito. Yarno guarda nella custodia e afferra il jack, arrotolato sul fondo come un serpente. Lo srotola e infila uno dei due spinotti nella presa della chitarra e l'altro nell'amplificatore. Il tasto è lì, rosso, pronto ad essere acceso. Allunga un dito e lo schiaccia. La spia s'illumina. Yarno alza il volume della testata dell'amplificatore, e poi quello della chitarra...
E poi rimane lì, a contemplare quelle corde, troppo emozionato per pizzicarle, troppo estasiato per rimettersi a creare melodie. Così prova soltanto a vedere se è accordata. Posa le dita sulle corde e le fa scivolare lentamente sulla tastiera. Fa una scala, lentamente, e i brividi gli corrono per la pelle. La chitarra è già accordata. Ha un suono meraviglioso. Tocca un paio di manopole dell'amplificatore e poi si lascia andare.
In pochi istanti sente il rumore del fiume, lo sente rimbombare dentro di sé. Si sente travolgere dal fiume e si sente affogare nel fiume. Il fiume diventa lui. Yarno suona e suona e suona, finché le dita non gli fanno male. Yarno suona come quella volta, da solo, in quello stesso punto, mentre fuori diluviava l'inferno, e le emozioni erano così intense da essere soverchianti. Yarno suona sempre più velocemente, producendo suoni sempre più vicini l'uno all'altro, travolto dalla passione e dall'estasi di quel fiume che lo ha investito. Si ferma solo quando si rende conto che la porta è di nuovo aperta e che un uomo sui trentacinque è sulla soglia, e lo sta fissando. Negli occhi ha due piccoli diamanti che brillano, e che poi scivolano sulle guance, rotolando e rotolando.
"Ryos...", dice Yarno.
"Yarno...", dice Ryos.
E poi c'è l'abbraccio. Yarno si toglie la chitarra e la posa accanto al muro e corre verso quell'uomo con le braccia tese. E così si stringono, così forte da sentire le ossa scricchiolare. Ci sono gli scambi d'opinioni su decine di questioni inutili: il matrimonio, la vita, il lavoro e tutto il resto. Poi Seth dà le corde nuove a Yarno e lui le monta sulla chitarra. È una delizia sentire di nuovo quello strumento tra le mani dopo quindici anni. E quando comincia a suonare il riff della loro prima canzone, vede che Ryos distende la schiena, percorso da una scossa elettrica. In silenzio si avvicina alla batteria, si fa passare le bacchette dal batterista di suo figlio e gli sta dietro. Suonare di nuovo quella canzone dopo anni è un delirio da manicomio criminale. Eppure loro lo fanno. Yarno e Ryos suonano quello stesso pezzo, il primo del loro unico album. E poco dopo che cosa succede? Entra anche il basso a far compagnia. E Yarno si volta verso la porta, convinto di vedere Suki fermo sulla soglia, con in mano lo strumento, ed è convinto di sentire la sua voce che dice: "Vi ho sentito da fuori. Vi manca un basso." Ma la porta è chiusa e il suono del basso arriva dallo strumento del ragazzo con i capelli biondo cenere, quello che lo ha riconosciuto.
Così continuano a suonare, e per alcuni istanti sembra quasi di doversi aspettare che la voce di Seth riempia gli spazi vuoti, con la sua carica, la sua interpretazione, il suo desiderio di ottenere a tutti i costi anche quello che non è suo e che mai lo sarà. Anche a costo di fare del male. Anche a costo di uccidersi mettendo diecimila lire in un distributore automatico, sganciando l'erogatore, riempiendosi di benzina da capo a piedi e poi mettendosi a fumare una sigaretta. Inzuppato come un frollino in un sogno di benzina, mentre gioca con un fiammifero, Seth urla, e a Yarno sembra ancora di sentirlo mentre chiama il suo nome e gli ricorda che deve scegliere tra la musica e l'amore. L'amore o la musica. Gli sembra di vederlo ancora là, avvolto dalle fiamme, mentre urla il suo nome...
Ore dopo l'uomo scende le scale, chiudendosi il passato alle spalle e mettendone la Chiave al suo posto, sotto il cruscotto della mietitrebbia. La cascina è muta ora. Tutto quanto se ne è andato. Gozer è steso a terra, davanti alla sua auto. Il sole è tramontato e la luna illumina il suo pelo ingrigito. L'uomo si avvicina e lo accarezza, ma proprio prima che la sua mano scenda sulla sua pelliccia, vede tutte quelle piccole figurine saltellanti che agonizzano nella polvere e che cercano un nuovo ospite, e così capisce che quando il passato muore, muore completamente. E Gozer è morto con lui. Chissà, magari è spirato proprio perché ha sentito di nuovo la musica dei Tlaloc suonare in quelle quattro mura. Sì, gli piace pensare che sia così: Gozer ha atteso finché quello che cominciò lì, finisse lì. Anche a distanza di quindici anni. Solo adesso è potuto morire in pace. L'uomo lo accarezza lentamente. Il corpo è duro come legno, così lo prende in braccio e lo porta in mezzo ai campi. Lo poggia a terra, poi prende quel badile abbandonato e arrugginito che cadeva sempre quando aprivano la porta della cascina e scava una fossa dove seppellire per sempre il suo passato. Ne servirebbe una molto profonda, giacché solitamente i ricordi hanno la cattiva abitudine di camminare anche dopo che sono morti. In ogni modo, quando si trova davanti alla buca rettangolare, si sente abbastanza soddisfatto. Lascia cadere dentro il cadavere e poi la ricopre. L'erba alta nasconderà il suo operato, e che Gozer, insieme al suo passato, ritorni alla terra, alla polvere e alla cenere.
L'uomo si pulisce le mani, poi sale in macchina e torna da quella ragazza, che lo sta aspettando. Adesso che tutto è sistemato si sente davvero meglio. In quindici anni ha rispettato i patti con se stesso e non ha mai più confessato il proprio amore a nessun'altra, ma adesso tutto sembra diverso; i fantasmi riposano in pace.
Parte e guarda per un attimo nello specchietto. È solo un'allucinazione, probabilmente, ma proprio là, davanti alla cascina, vede due figure; una ha una mano alzata e la sta scuotendo nell'aria. L'altra è a quattro zampe e scodinzola allegramente. L'uomo si ferma, mette in folle e scende, ma quando guarda là dove è convinto di aver visto quelle due figure, adesso non c'è altro che luce lunare e silenzio. Così sorride, accenna un ciao a quell'allucinazione e poi riparte. Chissà, magari c'è ancora modo di rivalutare la scelta che ha fatto quindici anni fa. Magari è venuto il momento di scegliere l'amore.
Dietro di lui, un'allucinazione sorride e accarezza la testa di un'altra allucinazione, poi, con voce eterea dice: "Avanti, Gozer, andiamo a fare un giretto. Ho voglia di cantare questa sera." E, dopo aver aspettato il latrato di risposta, i due fantasmi del passato si allontanano.

Danny Glick: 28 agosto 1999 - 8 settembre 1999
e-mail : danny.glick@libero.it