A te, Jess.
"Ero inzuppato in un sogno di benzina, giocando con un
fiammifero. Ero tutto ciò che sembravo, loro stavano a
guardare. Mangiavo dal tuo tavolo; mangiavo dalla tua mano. Otto
giorni ad aspettare, bruciavo nella sabbia."
Overkill: "Gasoline Dream"
La ragazza apre gli occhi lentamente, come emergendo da uno
stagno melmoso in cui è affondata da pochi minuti. Minuti per
lei, ma ore per il mondo. Il calore che ha caratterizzato il
rapporto sessuale, si è sciolto come neve al sole, e di lui le
rimane solamente il ricordo di un coito così intenso da essere
quasi doloroso.
L'uomo è alla finestra. Le dà le spalle. Sulla sua schiena
la ragazza può vedere dei lunghi tagli rossi e alcune cicatrici
di scottature. Sorride. Forse hanno scherzato un po' troppo con
le unghie. Le mani dell'uomo sono ai pantaloni; le dita sono
indaffarate ad infilare ogni bottone nella propria asola.
"Dove vai?", chiede lei. Avrebbe tante domande da
porgli, ma non ne ha voglia. Il loro rapporto è un gioco ad
incastri, e se non scegli il pezzo giusto rischi di
compromettere tutto quanto.
"Ho da fare", dice lui.
"Ancora quella storia?"
"Sì. Proprio quella", replica con freddezza. C'è
un buco nella sua anima, e lei non riesce a trovare niente che
sia abbastanza grosso da poterglielo riempire. Lei e il suo
amore non bastano.
"Mi vuoi dire di che cosa si tratta?", azzarda a
chiedere lei.
Lui si volta solo adesso. I capelli disegnano un piccolo
ventaglio nell'aria mattutina per solo un centesimo di secondo,
prima che lui le abbia gli occhi addosso. La ragazza si stringe
i seni con le mani, pigramente, come se si stesse stiracchiando.
Giocherella con i capezzoli inturgiditi e lo invita
silenziosamente a consumare nuovamente quell'appetito che li ha
fatti incontrare. Gli occhi dell'uomo sono in ombra, e lei non
si accorge di quanto somiglino a ghiaccioli incastrati nel
cranio.
Solo quando lui apre la bocca e parla, lei capisce che
nemmeno questo invito lo indurrà a rivelarle quale segreto lo
strappa da lei. Non è la prima volta che capita.
"No", dice soltanto, ma quella piccola particella di
negazione aleggia nell'aria per pochi istanti prima di
precipitarle addosso come una lapidazione; una pioggia di
pietre. In un istante la ragazza si copre i seni con il
lenzuolo; d'un tratto pudica di ciò che fino ad un momento
prima era la sua merce più pregiata. Lui la degna solo di un
piccolo sguardo, poi afferra la maglietta ed esce, indossandola
solo dopo che lo sguardo di lei è coniugato al passato remoto.
Poco tempo dopo è là, nel suo santuario segreto, a rimirare
le vestigia di un passato che non potrà tornare. La macchina è
parcheggiata storta come il solito. Un cane lupo con zecche
grosse come gatti gli viene incontro scodinzolando allegramente.
La cascina è sempre al suo posto, anche quando il mondo
sembra sottosopra; situazione che sembra verificarsi molto
spesso. Sul muro ci sono insulti silenziosi e inni alla
leggenda. Un tempo era sicuro che sarebbero diventati quel
qualcuno con un nome e un curriculum da invidia, e invece tutto
si era risolto nel modo più stupido, e loro erano rimasti un
qualcuno solamente nell'ambito di quel piccolo paese con un nome
eccessivamente cristiano: "Ognissanti".
Gozer mugola un invito ad una carezza, ma non appena l'uomo
vede quanto è sporco e quanto fa schifo gli passa la voglia di
lisciargli il pelo. Sorride con mestizia e si avvia verso
l'entrata della cascina. Ad ogni passo gli sembra quasi di
sentire i suoni della loro musica aleggiare come fantasmi privi
di forma nell'aria del mattino, ma è solo un'impressione, anche
se i passi risuonano pesanti sul selciato, molto più rumorosi
da quando tutto è silenzio da quelle parti. Quelle mura sono
diventate sorde per il baccano che hanno dovuto sopportare, ma
hanno trovato la pace dei sensi. Nessuno suona lì dentro da
almeno quindici anni. E come è capitato che lui si ritrovasse
di nuovo in quel luogo dopo tutto quel tempo? Chi lo sa? Gira il
mondo in lungo e in largo, ma infine capita di nuovo ad
Ognissanti, quel paesino perduto tra le colline, e ci capita
dopo quindici anni passati aspettando e sperando di arrivare a
convincersi che, se potesse chiedere una licenza al tempo e
tornare a fare quattro passi nel suo passato, ritrovandosi nella
situazione che ha causato il suo esilio volontario, non
troverebbe altra via di uscita che quella di ripetere
esattamente ogni passo e ogni parola, proprio come se dovesse
recitare una parte e non ci siano controfigure. Così un giorno
prende il toro per le corna e torna ad Ognissanti. Non sa
nemmeno lui il perché, ma lo fa. O forse è il volante che si
è bloccato e l'acceleratore a tavoletta non torna più su, e i
freni non funzionano, e l'unica strada da percorrere è quella
che conduce lì, ed è per questo che si è ritrovato
occasionalmente in quel paese. E adesso che è qui, e che ha
scoperto che tutto è ancora uguale, gli viene voglia di tornare
in quel luogo; quella cascina abbandonata e occupata
abusivamente da quattro adolescenti. La evita per alcuni giorni,
ma alla fine non ci riesce a resistere al magnetismo esercitato
su di lui, e comincia a fare dei sopralluoghi di perlustrazione,
un po' come abituarsi a piccole dosi ad un medicinale o ad una
droga che presa in overdose ti ucciderebbe. Così si ritrova ad
essere di nuovo un ragazzino con sogni di conquista, e non più
un adulto che non ha saputo fare un cazzo della propria vita. È
così che scopre che tutto è uguale anche se tutto è cambiato.
Basta un attimo e ti ritrovi a fare del bungee jumping con una
catena al posto di un elastico; e quando urli nessuno ti sente.
L'uomo si volta, e vede che Gozer sta pisciando sulla ruota
della sua auto. Mentre lo fa sembra strizzargli l'occhio. Quel
cane è vecchio ormai, ma gli scherzi gli sono sempre piaciuti.
Sono passati quindici anni ma non ha perso le sue vecchie
abitudini di merda.
Basta. Bisogna fare il gran passo. È inutile indugiare
ancora davanti ad una porta chiusa con un lucchetto quando sai
benissimo dove trovare la chiave per aprirlo. La macchina è
ancora calda, se vuoi rinunciare sei in tempo. Lasci o raddoppi?
L'uomo apre la porta e si catapulta nel passato.
Yarno aveva una chitarra. Gliel'aveva regalata suo padre
senza un motivo. L'aveva fatto con parole semplici ma concise:
"Un giorno mi sollazzerai con qualche cosa di
divertente." Così, suonarla, per lui, divenne un
passatempo. Imparò abbastanza in fretta e in tre anni divenne
il miglior musicista di tutta Ognissanti (anche perché con
molta probabilità era anche l'unico). Un giorno Seth, (che
frequentava la sua stessa scuola) andò a casa sua e gli chiese
di suonare per lui. Yarno sorrise e si dilettò a fargli sentire
quello che sapeva fare. Seth rimase ad ascoltare rapito i suoni
prodotti da quella scatola nera che Yarno chiamava
amplificatore. Sembrava che ogni nota fosse perfettamente al suo
posto, in quello che Yarno stava eseguendo. Fu così facile che
a volte, pensandoci gli sembra stupido: Seth si mise a
canticchiare un motivetto che gli salì alle labbra così, come
una caramella alla menta che si rigira nella bocca. E che cosa
venne fuori? Una canzone.
Yarno capì che non bisognava smettere, anche se non sapeva
che cosa diavolo stesse cantando il suo amico. Non aveva mai
immaginato che potesse essere così in gamba con la voce.
E chissà com'è, non è vero? Chissà qual è quella magia
che hanno i musicisti e che si chiama "orecchio",
cioè quell'intuito quasi viscerale che ti fa capire nel momento
stesso in cui una canzone cambia come devi cantare o suonare il
pezzo seguente. Nonostante tu non l'abbia mai sentita.
Yarno continuava a suonare, improvvisando giri e riffs e
sentendo che Seth azzeccava alla perfezione l'intonazione e la
melodia, e riuscendo talvolta a capire che cosa stesse cantando.
Quando la canzone arrivò al suo culmine e si concluse, lo
intuirono entrambi; semplicemente, era così che la canzone
doveva andare: fece il suo corso e si esaurì, come una slavina
o un acquazzone. Yarno abbassò il volume della chitarra e
guardò per alcuni secondi Seth con uno sguardo in cui si
leggevano davvero una miriade d'emozioni. Una sola di queste era
però l'affermazione che contava: tiriamo su un gruppo e
facciamo musica. I due erano così esaltati che quasi Yarno non
riusciva a tenere la chitarra tra le mani. Riprovarono
nuovamente la canzone, e Seth la cantò uguale, lasciando che la
musica gli scivolasse in corpo e gli invadesse le vene,
colmandogli ogni spazio vuoto. Era davvero cominciata.
Alcuni giorni dopo, mentre Yarno stava suonando un nuovo
pezzo nella sua stanza, con la chitarra elettrica sulle gambe
come un micino che faceva le fusa, il citofono trillò elettrico
in casa sua. Il ragazzo si affacciò alla finestra e vide che,
due piani sotto di lui, Seth aveva portato un amico con sé.
Alzò gli occhi verso i suoi e Yarno ci vide dentro una luce che
non lo abbandonò mai. "Ho trovato un batterista",
disse Seth. "Si chiama Ryos". Poi sorrise.
L'idea della cascina venne alla madre di Yarno, stufa di
sentire i tre ragazzi suonare, cantare e battere su pentole e
sedie con cucchiai di legno. "Perché non andate su alla
cascina del vecchio Gozer?", chiese. "Così la
smettete di fare confusione. Lì nessuno vi disturberà."
Seth smise di cantare e guardò prima Ryos a fianco a lui,
che stava ancora battendo un tempo tutto suo sulla pentola che
aveva tra le gambe incrociate. Il batterista smise di suonare e
si voltò verso la madre di Yarno, che aveva parlato sulla
soglia della stanza di Yarno.
"Signora", affermò Seth alzandosi in piedi.
"Lei è un genio."
Il vecchio Gozer. Alias il quadrupede più longevo che mai
l'umanità abbia avuto modo di conoscere. Nessuno sapeva di chi
fosse quel cane, ma a chiunque appartenesse, anche se il suo
padrone fosse il destino, avrebbe dovuto chiamarlo Matusalemme
invece di Gozer. Quel cane era vecchio anche quando loro erano
giovani.
L'uomo si fa avanti verso la porta. Alla sua destra un
frigorifero arrugginito è la dimora di una gatta che ha
partorito una cucciolata di nove micini. I piccoli sono
attaccati alle mammelle della madre e succhiano, ingordi, mentre
lei si guarda in giro compiaciuta, con gli occhi socchiusi.
La porta è chiusa, davanti a lui. Il lucchetto è ancora
lì, vecchio come Gozer ma ancora funzionante. Per alcuni
momenti l'uomo infila la mano nella tasca alla ricerca della
chiave, totalmente immerso nella parte che sta recitando, quindi
convinto di essere tornato il ragazzino di quindici anni che si
muove tra i campi con un "Sì" dalla marmitta
traballante, mentre urla la felicità della sua età. Non ha la
chiave, come è certo, ma se ricorda bene...
Si avvicina alla mietitrebbia abbandonata sotto il portico
della cascina; sembra uno scheletro di mammut in un museo. Sale
sulla cabina, poi infila la mano nel buco sotto il volante e
cerca a tentoni per pochi secondi prima che le sue dita entrino
in contatto con il freddo metallo della chiave. L'uomo sorride.
Scende con un piccolo salto e vede che Gozer si è appostato
all'ombra della sua auto a riposare, steso a terra. Furbo, quel
cane; quando respira sembra che stia ghignando.
Con la chiave in mano, l'uomo apre il lucchetto e se lo
infila in tasca. Lo sente freddo e pesante a contatto con
l'inguine. La sensazione è quella di una pistola infilata nei
calzoni. A fianco all'entrata c'è ancora quel badile che cadeva
sempre ogni volta che aprivano l'uscio. Questa volta non manca
di fare il suo lavoro. Il suono è fastidioso. L'uomo spalanca
la porta e un paio di piccioni si alzano in volo per la
scalinata, mentre un gatto dal pelo rosso scende la scale di
corsa e gli viene in contro. L'uomo lo accarezza, poi si
incammina su quel tappeto di polvere che si è trasformato in
moquette grigia. La porta dietro di lui rimane aperta sui campi
silenziosi invasi dal sole. La scala è ripida e sporca di merda
di piccione. Con passi decisi l'uomo sale. Un po' come la vita:
sempre in salita e piena di merda.
Ryos comprò una batteria da un amico. Era praticamente a
pezzi, ma, con l'aiuto di un po' di scotch e di un paio di
saldature del padre (era metalmeccanico), riuscirono a tenerla
insieme abbastanza da portarla nella stanza che avevano
designato come sala prove. La camera era sotto tetto, lunga
circa dieci metri per quattro, con una piccola finestrella dai
vetri colorati che dava sul cortile dove Gozer scorrazzava
inseguendo le macchine ferme. Trasportarla su per le scale fu
un'esperienza senza paragone.
Avantitirasu, forzaanchetu, cosìnsommacazzo,
aiamisonfattomale, vaccadiquellatroia stacazzodicassa. Quando
arrivarono in cima alle scale, il rullante divenne un
"rotolante", dato che sfuggi dalle mani di Seth e si
mise ad inseguire Anubi, il gatto che vagava per la cascina, e
che fuggi terrorizzato da quell'animale a forma di ruota che
produceva quel rumore secco ad ogni gradino. Alla quarta botta
si aprì come un melone maturo, e i filamenti di metallo che
davano il suono al rullante graffiarono il pavimento come
unghie. Ryos cominciò ad inveire contro Seth, il quale si mise
a ridere come un idiota.
Montarono la batteria insieme, e Seth non smise di ridere per
tutto il tempo in cui Ryos dovette tenere il tempo sul timpano e
sui tom invece che sul rullante. Il giorno dopo, Seth arrivò
alla cascina in ritardo, con un rullante nuovo sotto braccio.
Quando Ryos gli chiese dove se l'era procurato, la risposta di
Seth fu semplicemente: "Ho i miei giri".
Il bassista venne da sé. Un giorno, mentre stavano suonando
allegramente in quella stanza che puzzava di spinello e piscio
di gatto, qualcuno bussò alla porta. In un primo momento Yarno
pensò si trattasse di qualcuno che veniva a lamentarsi per il
troppo baccano che stavano facendo, così fece smettere Seth e a
Ryos di suonare e invitò il nuovo arrivato a venire avanti, con
il cuore in gola. Difficile dire quale fu la sorpresa quando si
trovò davanti un ragazzo della loro età, con occhiali scuri e
capelli ricci. Tra le mani aveva un basso rosso, tappezzato
d'adesivi. Nell'altra mano un amplificatore da quindici watt.
Solo questo: "Vi ho sentito da fuori. Vi manca un
basso." Dopodiché mise giù l'ampli, attaccò la spina,
infilò il jack nella presa audio e attese che cominciassero di
nuovo a suonare. I tre non dissero niente, ma il sorriso che
Yarno vide sul volto di Seth bastò a convincerlo che era
contento che fosse venuto. Nessuno chiese mai a Suki, ossia il
bassista, come avesse fatto a trovare quella cascina in mezzo ai
campi e sentire che mancava il bassista, ma ogni volta che
guardava negli occhi di Seth, Yarno capiva che lui centrava
sicuramente. Così ripresero a suonare, e questa volta il suono
del basso riempì quegli spazi vuoti che la chitarra non poteva
colmare.
L'uomo sale le scale con una lentezza esasperante, rivivendo
nell'odore di muffa e piscia di gatto gli anni della sua
gioventù che se ne sono andati. Quando arriva all'ultimo piano
e vede la porta là in fondo, quella di metallo con ancora il
cartello attaccato che dice: "Alta tensione: Accesso
vietato agli estranei", quello rubato da uno scomparto
ascensori, allora il mondo gli cade addosso come una badilata
sulla testa. Flash gli trapassano gli occhi e la mente.
Precipita in ginocchio con la testa tra le mani; ciondolandosi
avanti e indietro come una sedia a dondolo senza nessuna
vecchietta seduta. Fuori Gozer sta abbaiando, ma il suono è
lontano, di sottofondo, come il basso di Suki.
Così si ritrova a ricordare quell'immagine che ha fatto sì
che lui se ne andasse definitivamente da quel gruppo,
abbandonasse tutto e fuggisse da quel posto. Torna a pezzettini,
come quando devi comporre un puzzle e devi cercare i pezzi
giusti in un sacchetto della spesa, pescandoci dentro la mano a
caso e sperando d'avere fortuna.
I latrati di Gozer si fanno più intensi. Il sole entra dalla
finestra illuminando l'uomo completamente, passando attraverso i
vetri colorati e dandogli un vago aspetto esotico. Si guarda le
mani, poi delle fitte lo prendono alla testa, come una morsa
micidiale che gli stringe le tempie. Cade su un fianco e rimane
lì, a rotolare nella polvere e nella merda di gatto, senza
possibilità di liberarsi da questo dolore. Un odore terribile
gli invade le narici: benzina. E quell'odore porta un ricordo
che rimane aggrappato a lui come un nugolo di ami da pesca
infilati nello stomaco...
Il gruppo intanto aveva anche trovato un nome: Tlaloc. Ossia
il nome del Dio della pioggia degli Aztechi. Lo scelsero un
giorno in cui si trovarono alla cascina e pioveva come dio la
mandava. Gozer si era rifugiato all'interno insieme con Anubi;
restavano accoccolati uno a fianco all'altro scambiandosi le
pulci e guardando fuori con aria malinconica la pioggia che
scendeva.
Così, quando i quattro ragazzi arrivarono con i loro
motorini scassati, Seth scese e disse: "Tlaloc oggi ci
vuole benedire... io non temerò alcun male..."
Yarno lo guardò. Seth aveva gli occhi puntati ai nembi grigi
sopra di lui, e la pioggia glieli riempiva di frammenti di
cielo. Ogni tanto lo trovava molto strano. Come le volte in cui
si sentiva il suo sguardo addosso a lungo, specialmente mentre
stava suonando. Yarno rimase a fissarlo; restava lì, con le
braccia spalancate e i capelli indietro, il volto al cielo e le
gocce che gli cadevano sul sorriso. "Tlaloc ci guarda,
Yarno, e afferma che diventeremo famosi."
Lui sorrise. Era la prima volta che Seth parlava di un futuro
per la band. Il più delle volte prendeva la cosa come una
questione di vita quotidiana, un po' come mangiare o andare in
bagno. Ma ci metteva sempre il massimo, quando cantava.
"Dai, vieni dentro, altrimenti ti ammalerai."
Forse fu in quel momento che Yarno capì che qualcosa tra
loro non era come doveva essere. Seth si tolse maglietta e
pantaloni, saltellando prima su una gamba e poi sull'altra
mentre se ne liberava. Quando si fu tolto anche le mutande,
cominciò a danzare nudo sotto la pioggia, ridendo e
capovolgendosi su se stesso in giravolte continue, con le
braccia spalancate, mentre la pioggia lo investiva.
Yarno rimase a fissarlo attonito, cercando di fermarlo e di
indurlo a venire dentro alla cascina per suonare, e magari di
rivestirsi, ma Seth non sentiva ragioni. "Avanti Yarno,
danza con me... Tlaloc ci sta guardando... la pioggia che batte
sulla terra sono i suoi applausi... i tuoni sono le sue
dimostrazioni di benevolenza verso di noi... Tlaloc ci guarda,
Yarno... ci guarda... e ci sente..."
Non seppe mai che cosa lo prese. Semplicemente Yarno sentì
qualcosa dentro le viscere, come un uncino che lo sollevò da
terra e che lo costrinse a togliersi i vestiti come l'amico e
cominciare ad imitarlo nella sua danza sotto la pioggia. E se fu
bello? No. Non fu bello. Fu meraviglioso. La pioggia sulla pelle
nuda, il pene che ballonzolava sui coglioni, i piedi nudi sulla
terra. Sì, fu un'esperienza unica. Poco dopo si unirono anche
Suki e Ryos. Fu così che tutti e quattro cominciarono a danzare
nudi sotto la pioggia, davanti a quella cascina, davanti al
frigorifero arrugginito, alla mietitrebbia e davanti agli occhi
straniti di Anubi e di Gozer, che dovevano pensare che fossero
totalmente impazziti. E chissà che non fosse proprio così.
Non si ricorda più quando smisero di danzare, quella volta.
Forse quando smise di piovere, o magari quando crollarono a
terra, stremati. Quel giorno non suonarono, e il giorno dopo
rimasero tutti a casa da scuola, perché Tlaloc aveva donato
loro anche una bella influenza. Così il nome del gruppo divenne
di comune accordo Tlaloc. Ed erano molto fertili. In circa due
mesi composero e arrangiarono una decina di canzoni. Iniziarono
a suonare ad agosto, con l'arrivo di Suki. Per ottobre
cominciarono ad uscire dalla sala prove a suonare nei locali.
Salire sul palco per la prima volta fu un terno al lotto.
Fecero i supporter di un gruppo di provincia che aveva una certa
rinomanza nella zona, per questo suonarono per primi. Yarno era
molto teso quando salì sul palco e lo rimase per tutto il
concerto. Seth invece era molto disinvolto, e con lui anche
Suki. Tra i due si era creata un'amicizia e un'intesa che aveva
dell'incredibile. Sembravano capaci di pensare
contemporaneamente la stessa cosa.
Il locale era piccolino, e a vederli c'erano per lo più
quelli che si potevano definire: "Gli amici del bar";
ossia i quattro stronzi che girano sempre intorno ad uno dei due
locali (ovviamente posti uno in fronte all'altro), perché il
paese non offriva niente di meglio da fare se non rincoglionirsi
davanti a "Pang!", ossia quel gioco dove bisogna
liberare il mondo dalle bolle colorate, oppure far girare le
palle su un tappeto verde per poi farsi girare quelle appese tra
le gambe quando i tiri non vanno come vorresti. Naturalmente
c'erano anche i fans del gruppo di provincia, che però avrebbe
suonato più tardi.
Nessuno aveva mai sentito come suonavano. E quando Yarno
prese in mano la chitarra e cominciò con il primo riff che
aveva composto in quel dì così lontano a casa sua, quello su
cui Seth aveva canticchiato, la gente drizzò le orecchie.
Bastarono altri tre o quattro accordi e la maggior parte si
alzarono in piedi. Quando Seth cominciò a cantare, i commenti
frusciarono come carte da gioco su un tavolo dl black jack.
Monsieur Tlaloc, les jeux sont fai tes. Rien vas plug. Finita la
canzone cominciarono gli applausi. E furono un balsamo; per la
tensione, per la propria stima. È bellissimo sentire quello
scroscio di clap clap clap e sapere che sono solamente per te.
Quando cominciarono a suonare la seconda canzone, il locale
iniziò a riempirsi. I fans del gruppo più importante si
fermarono a guardarli e applaudirono.
Seth presentò il gruppo: "Siamo i Tlaloc", disse.
" E che cazzo vuol dire?", chiese qualcuno.
Seth sorrise. "È il nome del dio azteco della pioggia,
Il nostro ispiratore e protettore", affermò. Fischi. Urla.
Applausi. Cominciarono di nuovo a suonare e prima che finissero
avevano riportato un buon successo. Quando finirono la serata,
ormai non era più un concerto: sembrava più una riunione di
vecchi amici. Continuarono fino a quando il chitarrista del
gruppo più importante chiamò Ryos da dietro le quinte e gli
ricordò che dovevano smettere di suonare perché avevano
sforato con l'orario e che adesso toccava a loro. Il batterista
annuì ma continuò imperterrito a tenere il tempo della loro
vita.
Così cominciarono a suonare un po' in giro. Troppo spesso
erano costretti a suonare da soli perché nessun gruppo
importante li voleva con sé, dato che facevano troppo successo
con il pubblico. Fecero decine di concerti in tutta la regione,
fino a quando cominciarono a spostarsi anche fuori.
Tutto andò per il verso giusto fino a quella sera maledetta.
Fino a quando Yarno incontrò Atulya e si innamorò di lei a
prima vista. Fu proprio ad un concerto. Poco dopo essere scesi
dal palco, Yarno stava girando per il locale con in mano una
birra, ricevendo pacche sulle spalle e strette di mano ed
elargendo sorrisi a destra e a manca. Il padrone si era
particolarmente affezionato a loro e aveva deciso di farli
suonare spesso tra quelle quattro mura, così Yarno era anche
troppo di casa, ormai. Un tipo lo aveva fermato e si era messo a
dire una miriade di stronzate unite in un discorso senza né
capo né coda. Yarno aveva cominciato ad annuire lentamente,
continuando a ripetersi che non gliene poteva fregare proprio un
cazzo in quel momento di quello che stava dicendo quel coglione.
Ogni tanto il chitarrista dava un sorso alla sua birra e
assentiva ancora. Poco dopo il tipo tirò fuori uno spinello, lo
accese e glielo passò con disinvoltura, Yarno cominciò a
fumare e in meno di un quarto d'ora capì che non avrebbe
sopportato oltre la vista di quell'uomo. O si alzava o usava la
sua faccia come latrina personale. Propenso per la seconda ma
deciso per la prima, Yarno si alzò e si allontanò lasciando il
tipo a metà discorso. Stava vagando da solo per il locale come
uno spettro inquieto.
Suki e Seth erano spariti. Ultimamente dopo i concerti
sparivano sempre per tornare ore dopo ubriachi fradici e in
compagnia di amici e amiche per la pelle che sarebbero durati
solo finché fossero durati i loro soldi. Ryos invece era dalla
sua ragazza: Alice. Quei due sembrava fossero insieme da sempre
e che mai si sarebbero lasciati. E Yarno appariva e spariva tra
la gente, come una banconota falsa. La birra nella mano sembrava
sempre più pesante, come una croce che doveva portarsi addosso
e che lo marchiava a fuoco davanti agli sguardi della gente.
Fu in quel momento che la vide: era là, seduta ad un tavolo
con alcune amiche. Un vestito nero e i capelli biondi. La testa
che annuiva lentamente, come ad acconsentire il suo ingresso
nella vita di Yarno.
Quest'ultimo si mosse verso di lei, ma, ad un tratto, sembrò
proprio che le mani che si tendevano a toccarlo, o a stringergli
la spalla, o a lisciargli i capelli, si fossero moltiplicate e
che ognuna volesse strappargli un pezzettino di anima, di se
stesso, di qualcosa di cui aveva necessariamente bisogno. Le
dita smisero di accarezzarlo, ma cominciarono a graffiarlo; le
voci smisero di formulare complimenti ma solo insulti, o inviti
terribili cui non voleva dare ascolto.
Si trascinò arrancando sempre più verso una meta a lui
sconosciuta, verso un lido che non poteva vedere attraverso la
massa di gente in movimento. Un urlo sulle labbra lo stordiva
prima ancora di emetterlo. Ognuno sembrava volerlo trattenere
dal raggiungere quella ragazza. Seth avrebbe trovato qualcosa di
divinamente profetico in questo, ma Yarno era un po' più
materialista del suo cantante, così si trascinò con tutte le
sue forze, spintonando e scalciando, fino a raggiungere quella
ragazza; le spalle si chiudevano davanti a lui come porte, la
gente si appoggiava l'una all'altra apposta per non farlo
passare. Lentamente sembrava venisse fagocitato dalla gente,
dalle mani, dagli occhi, dalle bocche, dalle decine di paia di
gambe che si muovevano a scatti rozzi, impedendogli di
raggiungere la sua meta.
Strisciò come una serpe su una pietraia e alla fine giunse a
quel tavolo, come sputato fuori dalla folla che si richiuse
dietro di lui, guarendo immediatamente la ferita da cui era
uscito con un'abile mossa delle spalle. Yarno si trovò davanti
a quel tavolo con così poche cose da dire che se avesse dovuto
stilare un telegramma, probabilmente sarebbe stato necessario un
solo "stop". Le tre ragazze sedute al tavolo alzarono
gli occhi quasi contemporaneamente per posarli nei suoi, rossi
come se avesse fatto a pugni. Erano in attesa di qualche sua
rivelazione, di qualche cosa di talmente importante che il mondo
avrebbe potuto anche smettere di girare dopo che lui avesse
parlato. Ma il mondo, presagendo che lui non avrebbe detto
niente, cominciò a deriderlo e a danzare un valzer tutto suo,
vorticando e vorticando. La musica che suonava nel locale si
distorse lentamente e le risate e le parole divennero un unico
suono indistinto e confuso che faceva venire il vomito. Yarno
guardò Atulya, seduta su quella sedia, composta, con gli occhi
nei suoi, e tra loro ci fu uno scambio veloce di pensieri. Poi
una mano si posò sulla sua spalla e lui si voltò con una
lentezza esasperante. Seth lo stava guardando con occhi di
ghiaccio. Disse qualcosa o restò zitto? Boh. Yarno non capì,
ma cadde lontano; in un dirupo che sembrava non finire mai. Una
caduta all'indietro, come calamitato e attirato verso un vortice
da cui non sarebbe uscito presto. Una caduta lenta e senza fine,
durante la quale ebbe il tempo di contare i bottoni sulla
camicia del suo cantante e i sottili filamenti della gonna di
Atulya, intrecciati l'uno a fianco all'altro. Cadde e cadde e
cadde e caddddeeeeeeeee...
Dove era finito l'universo?
Chiuse gli occhi e li riaprì qualche istante dopo. Tutto era
ancora lì, ma non era proprio al suo posto. Era disteso sul
sedile posteriore di un'automobile, e sopra di sé vedeva il
viso di Ryos che rideva come una iena. Un telefono stava
squillando incessantemente da qualche parte e lui si trovò a
maledire quel suono che gli trapanava il cervello. Si tirò a
sedere e si trovò a naso a naso con il suo batterista.
"Heylà, ti sei ripreso?" Ryos non smetteva di
ridere.
"Cosa è successo?"
"Sei svenuto... troppo alcol o qualche spino di
troppo?", chiese.
"Dov'è quella ragazza?", chiese con una voce che
sembrava giungere da Alpha Centauri.
"Quale, quella bionda con il vestito nero?"
"Sì...", rispose Yarno con un filo di voce.
"L'ho vista abbastanza stranita...", replicò Ryos.
"Deve essere ancora dentro. La conosci?"
"No. Dille che l'amo, però."
"Come?", chiese Ryos divertito. Indossava un
berretto dei Raiders. Se lo girò e lo contemplò senza più la
visiera ad oscurargli gli occhi.
"Io l'amo, Ryos..."
"Ma se non la conosci nemmeno!"
"Tu diglielo!"
"Fossi matto, Yarno! Cosa credi che ti dirà?" Ryos
attese una risposta che non venne, poi sorrise e tentò di
dissuaderlo: "Ascolta, tu non stai ancora bene. Se vuoi
vado ad informarmi sul suo nome, ma niente di più. Almeno per
questa sera. Al resto ci penserai tu quando sarà il
momento." Detto questo il batterista sparì prima che Yarno
potesse fermarlo. Il cuore era a pezzi per decine di motivi
nemmeno classificabili.
Yarno si lasciò cadere di nuovo sul sedile e si prese la
testa fra le mani. Dovette addormentarsi perché una voce lo
risvegliò dal suo torpore. Una voce di donna. La più dolce e
melodiosa che mai avesse sentito nella sua insignificante vita.
Ad un tratto si trovò a chiedersi come avesse fatto a vivere
fino a quel momento senza averla sentita, senza averla vista.
"Come ti senti?", chiese la voce.
Yarno aprì gli occhi, ma non si rese immediatamente conto
che la realtà aveva preso possesso nuovamente della sua vita.
Impiegò un paio di manciate di secondi. Alzò lo sguardo al
riquadro della porta e vide che lei era lì, nel suo vestito
nero, con i capelli biondi che le ricadevano sui seni.
"Meglio", riuscì a dire Yarno.
La ragazza sorrise. "Il tuo batterista... credo sia lui...
mi ha detto che mi cercavi."
Yarno scese dall'auto e barcollò un poco, poi si appoggiò
alla portiera e si sostenne con l'aiuto di quel metallo solido e
freddo. Il contatto lo rinsavì un po'.
Okay, caro Romeo, Giulietta e lì davanti a te, che cosa
farai adesso che non ci sono alberi da scalare per raggiungerla,
ma solo parole da pronunciare per poterla fare tua?
"Come ti chiami?", chiese lei.
"Yarno."
"Yarno? È il tuo vero nome?"
"No. Ma il nome non è niente altro che un mezzo per
distinguersi dalla gente, così che cosa importa come suona
questo mezzo, se distingue?" Un fraseggio niente male.
La ragazza pensò un po' poi annuì. "E suoni la..."
"Chitarra," la soccorse lui.
"Ah, già. Come si chiama il vostro gruppo?"
"Tlaloc."
"Il dio azteco?"
"Proprio lui. Tu come ti chiami?"
"Atulya."
"È il tuo vero nome?"
"Sì. Nel mio caso qualcuno ha deciso per il mio
mezzo."
Yarno sorrise. In meno di dieci minuti capì di amarla alla
follia e di essere pronto a morire se solo lei glielo avesse
chiesto per favore.
L'uomo adesso è davanti a quella porta. Una nemesi per lui.
La mano si tende lentamente e tocca quella maniglia. Sensazione
di freddo. Un cocktail di dolorosi ricordi ed inutili emozioni
sepolte che riaffiorano come mani che spuntano dalla terra sotto
lo sguardo di una pazza luna. La mano tira quella maniglia che
è attaccata a quella porta che sembra incollata a quella
parete. Per alcuni attimi l'uomo ha il terrore che strattonare
troppo comporti il completo disfacimento di quel tempio di
ricordi troppo salati. È solo un attimo, poi la porta si
schiude magicamente come una mascella che si spalanca di
stupore. Dentro l'aria è ancora più stantia. L'uomo chiude gli
occhi. Li riapre solo quando sa che non impazzirà a rivedere
quel luogo.
Yarno e Ryos incassarono l'assegno rilasciato
dall'affezionato gestore del locale dove suonavano quasi ogni
week end (molto cospicuo questa volta e ceduto con una strizzata
d'occhio che non era sfuggita al batterista), e andarono a far
compere per rinnovare un po' la loro sala prove. Ormai avevano
incassato abbastanza soldi da potersi comprare una batteria
nuova di zecca. Il negozio dove si recarono era in città. Yarno
si aggirò tra gli amplificatori e le chitarre con aria
sognante. I piatti della batteria erano appesi davanti alla
vetrina come uno stormo di dischi volanti giallo oro.
"E allora, che cosa è successo con Atulya?",
chiese Ryos.
"Niente. Abbiamo solo parlato."
"Non ci credo."
"Neanche io."
Fantastico, eh? Passi per fesso anche quando sai che non
potrà accadere mai, nemmeno a metterci tutto l'impegno
possibile. E per Yarno era proprio così. Yarno viveva su un
castello di leggende e stronzate create appositamente per
poterci stare bene dentro. Stronzate che per lo più
riguardavano storie di donne che mai erano esistite, o che aveva
incontrato per poco tempo sulla sua strada e con cui non era
stato in grado di andare fino in fondo. Atulya sarebbe stata
un'altra delle loro? Sperava in sincerità di no. Sperava di
poter dire la verità una volta ogni tanto, poter dire che stava
assieme ad una persona e poterla presentare ai suoi amici,
portarla in giro su un piatto d'argento, come un cameriere, ed
urlare a tutti che lei era la sua ragazza, lei era sua, si
appartenevano l'un l'altra. Andare in giro con questo vassoio
per darci una sbirciata ogni tanto, così, in sicurezza, per
accertarsi che quello che sventolava non fosse in realtà tutto
diverso da quello che pensava si trattasse. Sì, una sbirciata
ogni tanto. Così, per non ritrovarsi poi, davanti al momento
della rivelazione, in cui abbassare quel vassoio e guardarci
sopra ti mostrava che, posato in bella mostra su quella
superficie liscia, non c'era altro che un pezzo di merda. E
così stai a chiederti: dov'è quella persona che io credevo
fosse così speciale, così diversa da tutte le altre? Dov'è
quella persona che volevo fare mia per sempre, al mio fianco
come una pistola per un cow boy o l'onore per un cavaliere? No.
Non voleva che andasse a finire così. Con Atulya sarebbe stato
diverso. Ne era certo.
Il giovedì, Yarno andò in sala prove da solo. Ormai era
diventato il luogo dove poteva pensare, suonando un po' la sua
chitarra. Atulya era nei suoi pensieri, come sempre ormai, e la
musica sembrava l'unico balsamo che era in grado di lenire un
po' quel dolore così intenso che lo afferrava al cuore. Si
erano scambiati i numeri di telefono, ma non riusciva ancora a
trovare il coraggio per alzare la cornetta e muovere il dito
sulla tastiera. E chissà, magari sentire la sua voce dall'altro
capo del filo rispondere: "Pronto". Sarebbe stato
troppo impegnativo, come vincere all'enalotto.
Salì le scale lentamente, in coscienza di essere totalmente
estraneo a quello che stava succedendo intorno a lui. Quando
aprì la porta della sala prove era ancora soprappensiero. Non
badò inizialmente ai due che erano in centro alla stanza.
Impiegò circa due secondi per accorgersi della loro presenza.
Quando li vide fu un duro colpo. Eh già. Non era poi un gran
spettacolo a vedersi: Suki dietro e Seth davanti, entrambi con i
pantaloni calati. Seth a cagnolino e Suki inginocchiato. Non si
fermarono nel momento stesso in cui Yarno entrò in sala e li
colse. No. Continuarono per alcuni secondi, immemori forse del
fatto che la porta era spalancata e che qualcuno era sulla
soglia. Sul volto di Seth e su quello di Suki erano dipinte le
espressioni dell'estasi più pura. Ad ogni spinta che Suki dava,
tenendo il piccolo sedere di Seth tra le mani, quest'ultimo era
scosso da un brivido che gli attraversava il volto,
contorcendolo in un'espressione di dolore e godimento.
Yarno rimase ad osservare in silenzio i due per tre
lunghissimi secondi, in cui vide Suki, con gli occhiali scuri
affusolati, tirare indietro la testa per togliersi i capelli dal
volto. Vide il suo pomo d'Adamo salire e scendere lentamente,
mentre una solitaria goccia di sudore si suicidava gettandosi
dalla punta del mento mal rasato e cadendo sulla schiena nuda
dell'amante. Tre secondi; ma bastarono per vedere lo schizzo di
sperma fuoriuscire dal pene di Seth, indurito contro il proprio
palmo. E i gemiti che cominciò ad emettere mentre lo zampillo
si ripeteva, una volta, due.
Yarno si chiuse la porta alle spalle e si mise alla finestra,
aspettando che i due finissero ciò che dovevano fare. Da quel
punto poteva vedere i campi che sembravano sconfinati, muoversi
al tocco gentile del vento. Poteva vedere le spighe che si
piegavano mentre Gozer correva rincorrendo qualche uccello,
saltando allegramente e abbaiando senza posa. Poco dopo la porta
si aprì e Seth ne venne fuori con un sorriso, come un clown a
molla che balza fuori da una scatola colorata. Non disse niente,
semplicemente si appoggiò con i gomiti al davanzale come Yarno,
e si mise a guardare fuori anche lui. Dopo alcuni minuti di
silenzio Seth disse solo: "Oggi pioverà, Tlaloc è
contento." Dopodiché si allontanò e sparì insieme a
Suki. Yarno non li vide andare via. Dato che i loro motorini non
erano parcheggiati davanti alla cascina a far da latrina per
Gozer (il quale invece aveva approfittato della presenza del suo
"Si" per svuotarsi la vescica), Yarno non poté
immaginare dove fossero andati. E poi, dopotutto non gli
importava proprio niente. Si limitò a continuare a fissare
l'esterno, come se ci fosse qualche spettacolo davvero
interessante oltre al silenzio cui assistere (escludendo Gozer
che si rotolava ora nella sabbia per liberarsi dei suoi
inquilini che non pagavano l'affitto). Il cielo era limpido e
lui non riusciva a capire come Seth potesse affermare che si
sarebbe messo a piovere. Con questo pensiero, Yarno entrò in
sala prove e gettò un'occhiata distratta a quella chiazza scura
sul pavimento. E lui che pensava che tutte quelle macchie non
erano altro che birra rovesciata! Prese la chitarra, attaccò il
jack all'amplificatore, alzò il volume e cominciò a suonare un
lungo assolo, avvolto dall'odore di spinello, piscia di gatto e
da quel nuovo, particolare aroma che non gli piaceva poi tanto.
Le note erano parole, i suoni urla, e lui stava dicendo ad
Atulya quanto l'amava e quanto volentieri avrebbe passato la sua
vita con lei.
L'assolo prese vie più frenetiche, i pensieri si
accavallavano come le onde del mare. Le note erano come correnti
marine che si incontravano. Si immaginò di nuovo i due che
stavano scopando, e poi lui, in questo stesso posto, su questo
tappeto gettato a terra per rendere un po' più confortevole
questa piccola mansarda.
E poi via di nuovo, in questo torrente di suoni, come
travolto da questo assolo che ti prende e non ti lascia andare,
avvolto in un sudario e gettato in un fiume in piena. I vestiti
si appesantiscono, la testa finisce sott'acqua una volta, due. I
sassi ti graffiano la schiena, la faccia, le mani, le braccia.
Ed ecco che è inutile tentare di nuotare: il fiume ti ha preso,
e l'unico modo per tentare di sopravvivere è far sì che passi
attraverso di te, come un fulmine che si scarica sulla terra
usando come autostrada il tuo corpo e come casello le tue mani.
Così è come se fossi chiuso in una stanza dalle mura
imbottite, e hai addosso solo una camicia di forza. Quello che
dici o pensi non importa. Sono solo deliri di un pazzo. Una
finestrella soltanto ti regala pochi minuti di luce, perché è
stata collocata in un modo talmente crudele e strategico che il
sole può entrare lì dentro per alcuni giri di lancetta lunga
per giorno. E tu ti accontenti di quel regalo come se fosse
l'unica cosa per cui ormai valga la pena vivere.
E i suoni sono sempre più frenetici, sempre meno studiati,
sempre più veloci, fino a quando una goccia cade giù dal cielo
e picchietta contro il vetro, come un sasso scagliato da qualche
innamorato contro la finestra della propria fiamma. Una, due,
poi guardi i piedi e ti accorgi che il pavimento non è più
come prima, ma che adesso è a pois rossi, punti che compaiono
velocemente, come se avesse il morbillo. Così guardi la mano
sinistra e vedi che gocciola sangue e che la musica ti sta
ferendo anche esteriormente oltre che dentro. I polpastrelli
insanguinati corrono su quelle corde di metallo rendendole
simili in tutto e per tutto a nervi tesi sulla tastiera della
chitarra. Urla disperate straziano il silenzio, ma la musica non
si ferma. Ti guardi in giro e cerchi la fonte di quelle urla, ma
quando ti accorgi che ad emetterle sei tu, allora smetti
immediatamente di avere la forza di continuare a stare in piedi.
La pioggia ormai riempie il vetro e lo riga come se stesse
piangendo. E anche tu cominci a piangere, ma non riesci a
smettere di suonare. No. La musica è lì, hai permesso che si
scatenasse e adesso non la fermerai facilmente.
Quattro gocce si trasformano in un diluvio. Le tue dita
colano sangue, ma non dolgono assolutamente. La musica fa più
male dentro. Poi, sempre più veloce, come una giostra folle da
cui non puoi scendere ma in cui rischi di impazzire. Urli. Urli
più forte, e così senti un rumore stonato, come di una campana
infranta che viene scossa, gettata giù da una montagna. Una
frustata t'investe il viso. Un graffio. Il dolore. Poi un'altra
volta, ma senza frustata questa volta. La musica lentamente si
distorce, cambia tonalità. E ancora, e ancora e ancora.
Alla fine il suono è così stridulo, rimbombante. Una sola
corda è sopravvissuta, e fra poco l'Atropo della musica
taglierà anche quella. Resisterà abbastanza per farti
impazzire completamente o si spezzerà adesso, prima che tutto
debba finire un'altra volta? Ormai la chitarra è insanguinata,
come uno strumento sacrificale di cui tu sei sia la vittima che
il boia.
Così, mentre Tlaloc bussa a quella finestrella con il
tamburello della pioggia che disegna animali misteriosi sulle
pareti e sugli oggetti, Yarno alza d'un tratto la chitarra sopra
la testa; sembra un'ascia che sta per calare sul collo di
qualcuno. Nei suoi occhi c'è una costante illuminazione divina
che non comprenderebbe nemmeno un santone. Pochi istanti
passano, poi il suono si fa terribile quando lo strumento entra
in contatto con l'amplificatore. Una volta, due volte. C'è una
sorta di esplosione quando il manico si spezza in due, attaccato
solo da quella corda, quel Mi che resiste, tenendolo come un
impiccato penzolante, con il suo suono stanco, ridondante. Poi
neanche quello, dato che Yarno strappa il jack dalla presa come
un coito interrotto o come una spina estratta che trancia la
vita di un malato terminale: l'eutanasia della musica. Ed ecco
che infine c'è l'incontro finale: la chitarra che ha un
rapporto sessuale con l'amplificatore. Un rapporto pieno di
scintille; così elettrico ed esplosivo che Yarno viene
catapultato indietro dalla piccola detonazione. Piccole lingue
di fiamma si sprigionano da quella bocca spalancata, che sembra
aver ingoiato quella chitarra e che gli sia andata di traverso
mentre la stava masticando. Oppure sembra una faccia straziata
da un soffocamento, con una lingua penzoloni che si allarga come
un mollusco.
Il temporale fuori impazzava sempre più, e dentro Yarno si
mise le mani sul volto, inondando di sangue anche il viso.
Mancò poco e si mise a piangere, scosso però dalle risa.
L'uomo si alza da terra e decide che non è ancora il momento
di entrare lì dentro. Non dopo quello che è successo. Non dopo
quello che ha visto. No. Si affaccia alla finestra, e vede che
Gozer è a terra: sta dormendo coricato su un fianco. Si accende
una sigaretta e rimane a contemplare quei campi che sembrano
sempre così sconfinati. Da un momento all'altro si aspetta che
Seth gli si appoggi a fianco e affermi che Tlaloc è contento e
che oggi pioverà. Ma non succede niente. La cascina rimane
silenziosa, se non fosse per il miagolio insistente di una gatta
in calore. L'uomo si chiede dove possa essere finito Anubi, il
leggendario amatore della cascina. Chissà, magari è morto da
tempo immemorabile. Niente è per sempre. Nemmeno l'amore. No,
nemmeno quello, checché se ne dica di tutti i colori a
riguardo.
In lontananza dei motorini sembrano avvicinarsi. I ricordi
così tornano. L'uomo sorride per dar loro un caloroso
benvenuto. Incomincia ad apprezzarli.
Yarno rivide Atulya abbastanza presto. Lei lo chiamò sabato
pomeriggio, e la sera uscirono insieme. La portò in città, a
girare per i locali come fantasmi nella nebbia. Era abbastanza
incredibile che lei fosse uscita con lui. Incredibile per Yarno,
ma per il mondo non doveva sembrare così incredibile, dato che
secondo quello che raccontava, ragazze come lei facevano a pugni
per uscire con lui. Girarono per la città ridendo, e Yarno si
sentì davvero un folle. La portò a casa che era notte tarda, e
non aveva ricordo di niente di quello che si erano detti. Così,
quando si trovò davanti al cancello di casa sua, immersi
nell'oscurità, Yarno temette di averle fatto delle rivelazioni
che non avrebbe mai voluto fare, e temette di non ricordarsene
affatto. Così si raggelò quando lei lo guardò negli occhi e
si mise in attesa. Yarno cominciò a tremare e iniziò a dire
stronzate a raffica. Atulya colse il suo disagio e con due
parole e un gesto riuscì a riportarlo alla realtà. Una realtà
troppo frammista ad un sogno ad occhi aperti: "Stai
zitto", disse, poi le sue labbra e quelle di Yarno si
toccarono.
Quale brivido! Tlaloc lo perdoni! Non avrebbe mai immaginato
che tutto potesse andare in questo modo nella realtà. Avrebbe
immaginato che fosse solo un sogno. Sì. Un sogno toccare quei
capelli, afferrarli dietro alla nuca e avvicinare ancora di più
le sue labbra ardenti a quelle di lei. Lasciare che l'ape
arrivasse al suo nettare e non indurla in tentazione di capire
che il sapore del fiore non dipende sempre dal suo colore. È
come dire che la follia ha un suo metodo solamente quando si
cerca di spiegarla. Lasciarla banchettare così di sé, e far
sì che anche lei si aprisse per poter assaggiare solo un po' di
quello che lei è. Solo un pizzico. Un antipasto. Leggero e
croccante come una foglia d'insalata. Un bacio che è unione e
che sembra durare per sempre. Un vortice in cui lui è lei sono
attorcigliati insieme, un po' come due strisce di cera che si
avvolgono a formare una sola candela. Un cero che brucia
lentamente, nella notte, su un candelabro solitario in una
chiesa sconsacrata. E la polvere, il vento, la pioggia,
l'oscurità. Niente può spegnere quella candela che brucia i
sensi di colpa e uccide il peccato. Così è come trovarsi
immersi in un lago di benzina, giocando con un fiammifero e
sapendo di non poterlo tenere in mano ancora a lungo perché fra
poco lo zolfo si consumerà e il legno si annerirà presto,
arrivando alle dita. Oppure è come essere su un ponte di corda,
traballante, scosso continuamente da qualcuno che sta dall'altro
capo, sull'altra sponda. E quel qualcuno non vuole che si
raggiunga la salvezza. Lasciarsi cadere o resistere fino a
quando la testa, le mani, le gambe; tutto il corpo non chiede
altro che la fine d'ogni tormento?
Yarno decise di non resistere. Si lasciò andare a quel bacio
e fu investito da un'onda in piena che lo travolse e lo fece
rotolare tra i sassi fino a riva, per poi risucchiarlo di nuovo
nel suo vortice non appena lui piantò le unghie nella sabbia. E
così, avanti e indietro, avanti e indietro. Poi, come un
sipario che si chiude lentamente, come una dama che fa un
inchino e si ritira, come un girasole che abbassa il capo e
avvicina i petali, pronto a dischiuderli la prossima volta, il
bacio finì con la stessa dolcezza con cui era cominciato. Era
incredibile, ma sarebbe rimasto lì a contemplarla mentre teneva
gli occhi chiusi per un tempo infinito. Così, restò con la
bocca arida, senza più niente da dire. E i pensieri talmente
sconnessi da sembrare un Picasso. Meglio morire in silenzio che
con una cazzata sulle labbra. E ci sono momenti in cui ciò che
dici è quasi essenziale. Un po' come quelle avventure sul
computer in cui devi decidere tu che cosa far dire al
personaggio. A volte, per andare avanti con l'avventura della
vita, bisogna dire le cose giuste. Yarno si trovava in uno di
quei momenti: o diceva qualcosa di sensato, qualcosa di
struggente, qualcosa che valesse la pena ascoltare, oppure era
meglio se se ne stava con la bocca serrata. La vasta scelta di
cose da dire comprendeva per lo più cazzate, ma ne scelse una
che, secondo lui, era bella da dire.
Si trovò lì, pronto ad esprimerla in tutta la sua emozione,
ma alla fine gli sfuggì dalle labbra, e dato che ormai il mondo
attendeva una rivelazione, tentò di rimediare: "Quando ci
rivediamo?"
Non bad, sir Yarno. Really non bad.
Lei sorrise e scosse la testa. "Baciami, stupido",
disse afferrandolo e ficcandogli la lingua in bocca. Poco
poetico questa volta, ma eloquente.
Qualche minuto dopo, la vide sparire dentro casa; vide
chiudersi quella porta come fosse una bocca spalancata che
l'avesse ingollata in un sol boccone. Nemmeno il tempo per dire:
"Arrivederci, cara Atulya", ed ecco che lei non c'era
già più. Parte di Yarno morì in quel momento, quando la vide
andarsene per la prima volta. Anche se dentro di sé sorrideva,
sentì che non avrebbe resistito aspettando di rivederla, per
questo gli venne da piangere.
Immaginare che qualcosa fosse cambiato in modo così radicale
nella vita di Yarno era difficile. Atulya lo chiamò il giorno
dopo, e si videro la sera stessa. Quella domenica non andarono
in sala prove. Dovevano aspettare di incassare il nuovo assegno
dello stipendio del pub per comprare una chitarra nuova e un
amplificatore nuovo, e poi gli altri componenti del gruppo non
erano stati molto contenti del suo comportamento. Non gli era
piaciuto lo scherzetto. Proprio per niente. Quello che aveva
fatto sì che tra loro non si spezzasse completamente qualcosa,
era che Yarno sapeva quale fosse il segreto dei due amanti che
si incontravano di nascosto in sala prove per incastrarsi come
pezzi di puzzle, e restare a pomparsi per delle ore. Se solo
avesse parlato, loro avrebbero finito di vivere in un paese come
Ognissanti, e, anche se Yarno non aveva mostrato di avere anche
solo la più vaga intenzione di aprire bocca, il rischio
persisteva, e i due fidanzati non potevano rischiare di essere
additati come freak per la strada. Così si arrivò ad un tacito
accordo: perdonato il discorso: sclero+distruzioneamplificatore
a patto del silenzio sulle perversioni anali di due musicisti
minorenni.
La sera Yarno uscì con Atulya e finirono di nuovo in città,
a scorrazzare in due su un motorino (ed entrambi senza casco)
come api alla ricerca di un fiore su cui asciugarsi le ali e
deliziarsi nell'aroma del nettare. Alla fine lo trovarono: era
un locale aperto fino alle tre e mezza che metteva musica
interessante. Dentro c'erano ogni tipo di persone. Il nettare lo
versavano a quattordicimila lire al litro, e potevi scegliere di
che nazionalità e colore prenderlo. Yarno lo amava
rosso/ambrato e Atulya lo preferiva biondo/chiaro. Ne bevvero
mezzo litro alla volta, finché non finirono i soldi nelle
tasche di Yarno. Quando furono finiti uscirono e andarono in
giro per la città con il motorino, ballonzolando come ubriachi
(e lo erano).
Andarono in giro per tutta la notte, fino a quando, stremati
entrambi, Yarno accompagnò a casa Atulya. Lasciatala davanti al
cancello che ancora rideva come una folle, Yarno si rese conto
che sentiva il bisogno di dirle che l'amava. Il problema
sussisteva nella sua risposta. Troppe volte aveva ricevuto dolci
dinieghi quando invece si aspettava il contrario. Niente
esitazioni o niente confessioni, cosa decide senor Yarno?
"Buona notte, allora", disse Atulya e lo baciò
leggermente sulla bocca.
"Buona notte."
Yarno stava per allontanarsi salendo sul motorino, quando la
sua voce dolce e melodiosa lo chiamò. Lo chiamò per dirgli che
voleva passare tutta la sua vita insieme con lui. Amarlo e
rispettarlo nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel
dolore, finché morte non vi separi. Sì, stava per dire quello.
"Sì?" Un sorriso gli si aprì sul volto come un
fiore che sboccia. Avanti, piccola, sono qui, aspetto. E aspetto
proprio te.
"Sono stata bene questa sera. Grazie."
Nelle tenebre, la leggera tristezza mista a delusione che
passò come un'ombra sul volto di Yarno non venne colta da
Atulya, che si strinse le braccia con le mani, sorrise al suo
sorriso e tornò in casa con un paio di rapidi passi, come fosse
un'ombra di luce lunare; un guizzo di nebbia: un attimo c'è e
dopo un attimo non c'è più.
Yarno salì sul suo destriero di metallo e cavalcò
scoppiettando fino a casa. Mentre sfrecciava sulla provinciale
che portava ad Ognissanti, vide una figura che camminava al lato
della strada illuminata per alcuni istanti dalla scarsa luce del
faro del suo motorino. In un primo momento pensò si trattasse
di qualche ragazzo che era rimasto fuori di casa, e quando si
rese conto di chi era, capi che non aveva tutti i torti. Era
Seth.
Yarno fermò il motorino a fianco a lui e chiese se aveva
bisogno di un passaggio fino a casa. Seth alzò gli occhi fino
ai suoi e sorrise.
"No. Perché?"
Colto alla sprovvista, Yarno non seppe cosa dire:
"Mah... ti ho visto così, da solo..."
"Scendi da quel coso e fatti una passeggiata con me,
Yarno. Facciamo due chiacchiere, ti va?"
Il chitarrista scrollò le spalle e spense il "Si",
cominciando a camminare a fianco a Seth e spingendo il
locomotore per il manubrio. Il primo pezzo di strada lo fecero
in silenzio, ascoltando i grilli che cantavano nei campi
infiniti alla loro destra e alla loro sinistra, e aspettando lo
sfrecciare e lo strombazzare di qualche auto di passaggio. Poi
Seth alzò lo sguardo al cielo, e quello che disse fu la
rivelazione più grande per Yarno. Furono poche parole,
pochissime, e così insignificanti all'apparenza che uno
qualsiasi di voi che state leggendo potrà considerarle una
stupidaggine. Per Yarno furono però qualcosa di terribilmente
vero.
Seth alzò lo sguardo al cielo come un astronomo fallito che
contemplava la volta di stelle con un certo disappunto negli
occhi. "Certo che è proprio finita l'estate", disse
con una nota impercettibile d'amarezza nella voce. Yarno lo
osservò per alcuni momenti. Mai prima d'ora delle parole
pronunciate gli suonarono più vere. Quell'estate per lui,
quando finì, non sembrò la fine di un'estate, ma il
concludersi dell'estate, come se fosse un ciclo della sua vita
che si era chiuso per sempre. Era finita l'estate ed era
cominciato l'autunno? Mai aveva sentito una tal disposizione
alla fine di qualche cosa. Mai.
Poi Seth e Yarno parlarono, ma quest'ultimo non aveva più la
testa per ascoltare quello che l'amico diceva. Si sentiva come
se stesse camminando su una lunga linea nera, disegnata dalle
mani degli déi. Camminavano su quella strada che sembrava non
finire mai. I campi intorno a loro scossi dal vento della notte.
Se ogni tanto qualche macchina non passava a risvegliarli da
quel torpore, probabilmente avrebbero continuato a parlare e
camminare senza sapere che direzione stavano prendendo sia i
loro discorsi sia i loro piedi.
"Dove sei stato questa sera?", chiese Seth ad un
tratto. "Sei stato con Atulya?"
"Sì. Sono stato con lei. Siamo andati in città. Sai
una cosa, Seth?"
"Cosa?"
"Penso di essere innamorato di lei."
Seth rise al rallentatore, in un crescendo poco passionale
d'ilarità forzata. "Sono contento per te, ma stai attento.
Le donne sono pericolose."
Yarno annuì lentamente, e decise di chiudere il discorso.
Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma non credeva di esserne
propriamente capace. Non adesso per lo meno. E poi lui non era
fatto per le parole. No. Per lui erano state inventate le note.
Camminarono con lentezza esasperante e ad un tratto Yarno si
voltò verso Seth e gli fece una domanda fatidica. Era da un po'
che ci pensava.
"Seth. I Tlaloc. Che cosa pensi del nostro futuro?
Secondo te ce la faremo? Io vedo che la gente ci sta dietro...
abbiamo i nostri fans che ci seguono. Credi che ce la faremo a
diventare qualcuno? Uscire da Ognissanti…"
Seth sorrise nel buio. Alla luce della luna quel sorriso
sembrò più un ghigno. "Vuoi la verità, Yarno?"
"Certo."
"Secondo me no. Ne avremo le possibilità."
Allargò le braccia, con stanchezza, come se quel discorso lo
annoiasse. "Le hanno tutti, ma forse noi ne abbiamo di
più. Quello che è diverso è che non siamo tagliati per il
successo. Io amo la musica e so che per te è lo stesso. Io
canterei e suonerei da solo fino a quando la combinazione di
tutte le note si sia esaurita, ma so che non riuscirei mai a
farlo per lavoro." Seth scosse la testa. "Io voglio
continuare a suonare in quella cascina, in quelle condizioni.
Perché è così che mi piace. Perché è così che sono nato.
Contratti discografici, manager, palate di milioni, gente che
striscia, droga, schifezze... no. Queste cose non fanno per
me." Scacciò una zanzara che continuava a gironzolargli
intorno alla testa, ma il gesto stava ad intendere che stava
cacciando anche tutto l'elenco di cose che aveva appena
espresso. "E poi...", riprese dopo pochi istanti.
"...e poi so già come andrà a finire: o ci scioglieremo,
oppure qualcuno morirà. È sempre così che funziona. La musica
è libertà, ma la vita ha i suoi schemi. Se nasci poveraccio e
ti diverti come un poveraccio, non devi tentare di assaggiare il
potere e la ricchezza, perché sono bocconi amari." Seth
sorrise lentamente mentre camminava. Gli occhi sembravano
perduti nel guardare il buio davanti a lui. "Sai cosa
farei? Girerei il mondo. In lungo e in largo, misurandolo con un
decimetro... ma alla fine tornerei ancora qui, Yarno. Qui con
voi ad Ognissanti. A suonare le stesse quattro canzoni che la
gente canta quando sono in compagnia o ascolta sulla radio in
registrazioni piene di fruscii e rumori. Penso che sia questo
quello che voglio davvero." Fece una pausa molto lunga,
poi, come se si fosse reso conto di aver perduto il filo del
discorso, riprese: "Tu mi chiedi se diverremo qualcuno?
Beh, io ti rispondo che lo siamo già, Yarno. Siamo già
qualcuno. Siamo i Tlaloc. Tu sei Yarno, io Seth, poi c'è Suki e
Ryos. Che cos'altro importa? Non guastiamo quest'armonia e
saremo sempre i migliori... anche da qui a cent'anni."
Yarno non disse niente. Restare in silenzio e spingere il
motorino era la cosa che gli riusciva meglio. Continuarono così
per un bel pezzo, poi Seth gli pose una domanda cui Yarno non
poté rispondere: "Sceglieresti l'amore o la musica,
Yarno?"
Il chitarrista rimase in silenzio, e pochi istanti dopo aprì
la bocca, pronto a dare la sua risposta. Poi, quando il suono
stava per uscire, qualcosa dentro di lui s'inceppò e lui non
seppe più se fosse davvero la risposta che voleva dare. Anzi,
dopo pochi secondi non sapeva nemmeno quale fosse la risposta
che aveva scelto in un primo momento. Così restò in silenzio,
e si disse che dall'uomo saggio s'impara molto anche quando sta
zitto. Seth gli pose solo un'altra volta quella domanda, mesi
dopo, ma, se la prima volta Yarno non seppe rispondere perché
gli mancarono le parole e i pensieri nel momento stesso in cui
li formulava, la seconda volta, la sua risposta la diede. Ma
ebbe a pentirsi di ciò che rispose.
Così, lentamente, si avviarono in silenzio verso casa.
L'uomo è ancora sulla finestra, e osserva i quattro scooter
entrare dal cancello aperto e sgommare nella terra, alzando un
gran polverone. Vede i quattro ragazzi che studiano la sua auto
con aria curiosa e critica. Ha ancora poco tempo per ricordare
prima che lo scoprano...
I Tlaloc cominciarono a farsi una fama sempre più grande man
mano che suonavano in locali sempre più famosi e con sempre
più persone che seguivano i loro concerti. Un paio di volte un
uomo in giacca e cravatta si mostrò interessato alla loro
musica e alle loro esibizioni live, e dopo un paio d'incontri
decisero di incidere qualcosa con i soldi che quest'uomo offriva
loro. Il suo nome era Remelli.
In studio di registrazione le cose non andarono per il
meglio. O almeno non subito. Seth, in special modo, mise in
pratica la sua teoria secondo cui non sopportava la fama.
Purtroppo però, la mise in pratica troppo presto. Si presentava
in studio con due ore di ritardo e quando ci arrivava era
ubriaco e non si reggeva in piedi. A volte si sedeva a terra e
voleva cantare a tutti i costi in quella posizione, altrimenti
si sarebbe rifiutato. Una volta prese a calci tutto quello che
gli capitò sotto mano e scaraventò il microfono contro il
vetro della sala regia, che, per fortuna non si infranse. Yarno
non capì mai con quale pazienza i padroni dello studio
accettarono i compensi di Remelli e, per di più, non riuscì a
credere del tempo che impiegarono per registrare le dodici
canzoni che comparirono sull'album. Il loro primo album. Ci
vollero due mesi per finire le registrazioni. Tutti i giorni per
sei ore si trovarono in studio e suonarono fino alla nausea gli
stessi brani. Un tempo madornale per un gruppetto come loro.
Quello che però uscì da quella sala di registrazione era
l'essenza della loro musica. Quell'album era i Tlaloc stessi; e
non è facile per una band esprimere così bene quello che la
musica significa per loro. Ma i Tlaloc ci riuscirono.
Così, nei primi mesi del nuovo anno, il primo album dei
Tlaloc uscì sugli scaffali dei negozi di dischi. E se aveste
chiesto a Seth, il cantante, che cosa ne pensava di quel disco,
lui avrebbe sputato per terra e scosso la testa, poi avrebbe
detto: "Lo comprerà solamente mia madre, mia zia e il mio
migliore amico: cioè il mio cane. Io non sarò così stupido da
buttare i miei soldi in merda."
Nonostante tutto, il primo album dei Tlaloc uscì.
E fece successo.
L'espressione che fece Seth quando il primo assegno con più
di cinque zeri gli fioccò sotto il naso, fu d'amnesia e
adorazione. "Insomma," avrebbe detto lui,
"bisogna saper unire l'utile al dilettevole, no?"
Decisero in ogni modo di continuare a provare nella cascina,
in mezzo ai campi, in quel paesino dove tutti quanti li
consideravano ancora dei ragazzini che sapevano solo
strimpellare qualche accordo e picchiare forte su un tamburo. Le
cose quindi non cambiarono per niente: la domenica erano sempre
là a suonare, la settimana andavano a scuola, e la sera se ne
andavano in giro come folli per i campi ad ululare alla luna. Il
sabato sera, poi, estraniandosi da tutto quanto, Yarno andava a
prendere Atulya a casa e la portava in qualche posto magico dove
poter sognare un po' assieme a lei. E tra loro era meraviglioso;
ma qualcosa si ruppe il giorno in cui lei gli fece la stessa
domanda che Seth gli aveva posto qualche mese prima.
Accadde lassù, alla collina. Accadde appena dopo che ebbero
fatto l'amore. Lì, stesi su una coperta ad accarezzarsi con lo
sguardo. "Cosa c'è tra noi?", chiese Yarno ad un
tratto.
"Non lo so", rispose lei.
"Ho bisogno di saperlo, piccola."
Lei si alzò su un gomito, poi gli prese tra le dita il
piccolo ciondolo che lui teneva attaccato al collo. "Io ho
bisogno di sapere qualcosa d'altro, Yarno. Ho bisogno di sapere
come ti comporteresti se ti dovessi, un giorno, trovare davanti
alla scelta: o me o la musica. Che cosa faresti?"
Yarno raggelò, come se i vestiti che aveva addosso si
fossero congelati e una minima mossa avrebbe provocato un
contatto che voleva evitare, "Non posso risponderti adesso.
Non so cosa sceglierei, piccola."
"È una scelta molto difficile, vero?" Non c'era
rabbia nella sua voce, ma quella piccola vena di malinconica
consapevolezza, come un'ombra che passa sul sole, come
un'eclisse che fa impazzire i girasoli, come pioggia nel
deserto, come una tempesta di sabbia in mezzo al mare. La
ragazza si alzò a sedere e si coprì gli occhi con le mani.
"Se tu diventassi famoso…", disse d'un tratto, ma
lui la volle interrompere. Il discorso non gli piaceva.
"Atulya, non penso che...", tentò di schermirsi
lui.
"Lasciami finire", lo interruppe lei di rimando.
"Se tu diventassi famoso, potresti avere tantissime donne.
Ti cadrebbero ai piedi. Io so che sarebbe così. E so anche che
ce n'è la possibilità; il tuo album sta vendendo benissimo,
Remelli sta organizzando un tour italiano..." La ragazza
prese fiato, poi continuò: "Se tu diventassi famoso, io
vorrei solo una cosa: stare sempre al tuo fianco. Non mi
importerebbe niente se tu ti scopassi le altre donne. Io vorrei
essere sempre lì, con te."
Yarno le prese dolcemente la testa fra le mani e la baciò. I
suoi occhi erano pieni di lacrime, e in pochi secondi anche
quelli di lui ruppero gli argini.
A marzo i Tlaloc cominciarono una tournée che comprendeva
circa venti date nel norditalia. Passarono in molte città e,
ovunque ricevettero una buona accoglienza. Viaggiare in treno
non era male come situazione. Sempre in movimento, con la lieve
tristezza di ogni città che ti lasci alle spalle e delle
lettere che mandi a casa, o alla ragazza. E poi pagarono bene il
loro lungo disturbo. Quando tornarono, il paese sembrava
diverso, dopo aver visto tanta gente e tanti posti differenti.
Atulya accolse Yarno con un abbraccio senza fine, ma qualcosa
nella sua stretta fece capire al chitarrista che la scelta da
parte sua era già stata presa, e lei lo sapeva. La musica o
l'amore?
Il tempo passava e Seth era sempre più strano. Specialmente
nei confronti di Yarno. Ogni tanto si fermava a fissarlo per dei
lunghi minuti, così, senza parlare. E altre volte gli chiedeva
di Atulya, di come aveva preso il fatto che fossero partiti in
tournée e che i Tlaloc stessero diventando qualcosa di un po'
troppo serio. Yarno, dal canto suo, cercava di rispondere nel
tono più sincero che potesse tenere. Poi, ogni tanto,
capitavano quei lunghi momenti di totale astinenza dalla
realtà. Passava minuti interi senza dire niente, così, a
fissare il vuoto. A volte non si presentava in sala prove, o se
lo faceva arrivava in ritardo di un'ora e mezza.
Poi venne il giorno in cui Seth pose di nuovo a Yarno quella
fatidica domanda. E Yarno rispose, questa volta.
Si trovavano alla cascina. Lui e Atulya erano venuti con una
chitarra classica a cantare un paio di canzoni in solitudine.
Lei aveva una voce bellissima, e Yarno voleva provare a far
cantare un paio di canzoni anche a lei, ma, quando lo aveva
proposto al gruppo, Seth aveva reagito gettando a terra l'asta e
fracassando il microfono. Non era d'accordo.
I due innamorati erano lì che suonavano qualche canzone,
quando sentirono arrivare i tre motorini degli altri Tlaloc.
Seth era salito per le scale facendo i gradini a due a due e li
aveva trovati là, sul soppalco che avevano costruito tutti
assieme e dove c'era un letto con le coperte. Yarno suonava e
Atulya cantava. Arrivati gli altri, Atulya volle andare a casa,
così Yarno la accompagnò e tornò indietro. Quando arrivò,
vide che Suki e Ryos se ne erano andati da un pezzo. Sotto il
portico Seth lo aspettava osservando le gocce d'acqua che
rendevano la strada un pantano di fango e pozzanghere. Gozer
scorrazzava sotto la pioggia allegramente.
"Yarno... te l'ho già chiesto una volta e non mi hai
risposto: cosa sceglieresti: l'amore o la musica?", chiese
Seth dopo che si fumarono una sigaretta e parlarono di questioni
inutili.
"Perché lo vuoi sapere?", gli chiese il
chitarrista. Seth era seduto sul frigorifero arrugginito, le
gambe a penzoloni.
"Penso sia necessario affrontare l'argomento, prima o
poi. E ho anche bisogno di un consiglio,"
Yarno alzò le sopracciglia, si accese un'altra sigaretta e
rispose: "Sai... ci ho pensato tanto in questi tempi.
Abbiamo cominciato così per scherzo e adesso abbiamo un album,
un produttore, una casa discografica, fans che ci seguono ad
ogni concerto... mi sembra molto lontano il giorno in cui sei
venuto a casa mia e mi hai chiesto di suonare qualcosa per te.
Non è passato che un anno e mezzo da quel giorno, eppure mi
sembra già di essere un divo stanco di una vita che non mi
cambia in nessun modo. Sì, okay, abbiamo in programma un'altra
tournée, dobbiamo cominciare a lavorare al secondo album... ma
nonostante tutto, la fama non mi sembra così diversa dalla vita
che ho fatto finora. Vado a scuola cinque giorni la settimana e
probabilmente sarò bocciato, ho una ragazza che mi..."
Poi, proprio mentre stava per pronunciare quelle due parole:
"Mi ama", Tlaloc starnuti, e il tuono coprì la sua
voce. Quando Yarno ripeté la frase, qualcosa era diverso:
"Una ragazza che mi vuole bene e che apprezza quello che
faccio. Insomma, fino ad adesso non mi sono trovato davanti
all'obbligo di una scelta che potesse influenzare così
drasticamente la mia vita, ma, dopo molte riflessioni, penso di
essere giunto alla conclusione che, nonostante ci siano pro e
contro in tutte e due le chance..."
"Certo è che i discorsi sintetici non sono il tuo
forte, eh?"
Yarno rise, poi concluse: "Insomma, penso che sceglierei
la musica." Un altro tuono accompagnò quella frase.
Seth lo guardò dritto negli occhi con uno sguardo
inespressivo. "La musica? E perché?"
"Perché le donne (come tutti quanti, penso), vanno e
vengono, Seth. La musica invece resta. Non ti viene a cercare se
non la vuoi, ma c'è sempre quando hai bisogno di lei. Ti
conforta, ti culla, ti prende a schiaffi. Alle volte ti rende
allegro, o ti rattrista. Certo è che lei non ha bisogno di te.
Se tu non la suoni o non la ascolti, lei non ti rimprovera. Non
piange se la abbandoni, ma non è felice se la ami. Perché lei
non ama te. È una cosa a senso unico, ma si ha molto da
guadagnare e quasi niente da perdere. Tu cosa pensi?"
Seth annuì mentre fissava la pioggia che scrosciava sulla
terra, poi disse: "Il fatto è che l'amore ti fa del male.
Sempre e in ogni caso. È solo questione di tempo. E quando lo
fa, il più delle volte lo fa gratuitamente. Dopo tanti errori
non riesci lo stesso a fare a meno di rischiare di sbagliarti di
nuovo, pena il rimanere solo. E se non stai male tu, starà male
l'altra persona. Alla fine, funziona sempre così." Il tono
in cui Seth disse queste cose non era né triste né arrabbiato.
No. Erano semplici constatazioni. Terribili constatazioni; come
affermare che l'Italia è un bel paese organizzato male, ma che
comunque noi, nel nostro piccolo, non possiamo fare niente per
cambiare la situazione. Fu un po' come quando cammini a testa
bassa, dopo essere uscito per l'ultima volta dalla casa di
quella che doveva essere la persona della tua vita. In mano
stringi le poche cose che hai lasciato a casa sua, qualche
lettera, magari qualche compact disc, o peggio, decine di
lettere d'amore indirizzate al nulla che va in pensione. Cammini
a testa bassa e speri così tanto di sentire quello scalpiccio
in corsa che significa che tutto è solo un sogno che quasi ti
volti di scatto, convinto che lei stia correndo da te,
piangendo, a braccia aperte, pronta a dirti che ci ha ripensato
e che tutto è come prima. E allora rallenti, perché vuoi
essere sicuro di dare il tempo a quella persona di raggiungerti.
Ti abbassi ad allacciarti le scarpe, fingi di guardare se piove
anche se c'è un sole che ti spacca la testa. Tutto fino a
quando ti rassegni e continui a camminare, senza guardarti
indietro, perché comunque, nonostante tutto, vivi con la
piccola speranza di sentire i suoi passi che corrono verso di
te, e voltarti potrebbe voler dire rimanere a squadrare una via
deserta in cui nemmeno i fantasmi hanno voglia di camminare.
Sono specialmente in queste occasioni che sul volto ti si
dipinge l'espressione che Yarno vide sul viso di Seth quel
giorno di pioggia.
Dopo un po' Seth si voltò verso Yarno e disse: "La
musica anche sopra Atulya?"
Yarno annuisce dopo alcuni secondi. "Anche sopra di
lei", dichiara senza ripensamenti.
L'uomo sente ormai i passi che salgono le scale. Non ha più
tempo. Si volta e decide di smettere di girare in giro, deve
affrontare il ricordo finale, quello che ha fatto sì che tutto
finisse. Mette mano sulla maniglia con un gesto rabbioso oltre
che nervoso, pronto a liberarsi di quel qualcosa che l'ha spinto
a tornare, quel qualcosa che spinge sempre tutti a tornare nei
luoghi che hanno caratterizzato la giovinezza. La mano sulla
maniglia, fredda come ghiaccio, le dita pesanti come piombo.
Strattona mentre i passi e le risate salgono le scale. Tira
molto forte, quasi con un ringhio, e si catapulta all'interno,
cadendo in avanti, come se stesse origliando e qualcuno avesse
spalancato l'uscio all'improvviso. Chiude gli occhi per evitare
l'urto contro il deja-vu, lo schiaffo del flashback. Quando li
riapre lo fa barcollando su gambe malferme, come se fossero di
burro e la temperatura stia salendo. Apre gli occhi e rivede
quel posto.
E d'un tratto è strano ritrovarsi qui, come se manciate di
occhi fossero puntati su di lui, lo spiassero dalle finestre di
decine di palazzi che ritagliano solo un piccolo francobollo di
cielo, così lontano da sembrare dipinto. E lui non può far
altro che girarsi in giro, cercando di ricostruire con gli occhi
quello spazio così piccolo ma così importante. Come mai sembra
più ristretto adesso? Sembra quasi che col passare degli anni
mani giganti abbiano manipolato e modellato quella piccola
mansarda su formato nanesco. O forse no. È lui che è
cresciuto. Sorride lievemente alle decine di poster di donne
nude che tappezzano le pareti. La batteria in un angolo sembra
in castigo. Non è più la vecchia "Tama" di Ryos.
Questa è una "Pearl" molto più somigliante ad una
giungla di piatti ed aste che ad una semplice batteria. Anche
gli amplificatori sono cambiati, e il mixer, anche se più
piccolo, sembra poter offrire prestazioni migliori. Quindici
anni di progresso hanno reso fantascienza anche questa piccola
stanza. L'uomo si gira come in trance fino a quando alza gli
occhi al soppalco su cui si stendeva sempre con Atulya nei suoi
tempi migliori. Lassù un tempo c'erano un letto e delle
coperte, oltre ad una rozza scala a pioli per raggiungerlo.
Adesso invece c'è qualcosa d'altro abbandonato come bambole in
soffitta. La scala è ancora lì, però. Si chiede come avranno
fatto a mettere tutto lassù. Dopotutto ci vuole un bel po' di
forza. Certo è che il soppalco che hanno costruito loro è ben
resistente. Ma che cos'è quello? Non può essere. Sì. È
sicuro che non può sbagliarsi. Quel dito accusatore sembra
puntare proprio su di lui. Sembra dirgli: Hey, te ne sei andato.
Mi hai lasciata qui a marcire insieme con gli altri. Ti ho
divento, ti ho consolato, ti ho cullato, ma tu mi hai
abbandonato.
L'uomo mette i piedi sui pioli quasi di forza. Scivola e per
poco cade a terra, ma alla fine riesce a salire e ad afferrare
quel dito che spunta. Il resto è sommerso da un groviglio di
cavi ammonticchiati, come un nuovo enigma di Rubik, ma tirando
piano piano riesce a tirarla fuori. È ancora intera ed è
proprio la sua. È sicuro. Le corde sono vecchissime, il mi
cantino e il re sono saltati, ma il resto è ancora lì. Scende
dal soppalco e si trova in mezzo alla stanza proprio quando la
porta si spalanca e quattro ragazzi entrano in sala prove, con
il sole negli occhi e nel sorriso. C'è lo scambio di sguardi, e
in un primo momento loro pensano che si tratti di un ladro o di
un pazzo: un uomo con l'età di Cristo con in mano una vecchia
chitarra elettrica dalle corde spezzate. L'uomo sorride
debolmente alle espressioni stranite dei quattro ragazzi. Ci
sarà da spiegare alcune cose.
Fu in un tardo pomeriggio di sole di quindici anni prima, che
Yarno fermò il "Si" davanti alla cascina e scese.
Cercò la Chiave al solito posto, sotto il cruscotto della
mietitrebbia arrugginita, e vide che mancava: la sala prove era
già aperta. Era appena passato da Atulya, e sua madre gli aveva
annunciato che era uscita con un suo amico. Così Yarno,
perplesso, si era recato alla cascina e, trovandola aperta, era
salito per le scale. Fuori non aveva visto nessun motorino,
c'era solo Gozer che si inseguiva la coda. Salì le scale, in
velocità, pieno di voglia di vedere Atulya. Attraversò il
corridoio, mise la mano sulla porta. La spalancò.
È così che si capisce che la vita è un film e che tutti
siamo attori. Ognuno recita la propria parte, ma è il mestiere
del regista decidere se qualcuno debba cambiare ruolo. Così
tutto si ripeté come la prima volta, quando Yarno aveva colto i
due amanti che si incastravano in mezzo alla sala con moti
frenetici e scoordinati. Tutto si ripeté, ma al centro della
sala adesso c'era Atulya, sdraiata a terra, con i seni nudi che
ballonzolavano lievemente come due piccoli budini alla vaniglia
su cui era stata fatta cadere una goccia di cioccolato al latte.
Il corpo bellissimo sobbalzava sotto i colpi decisi e ripetuti
di Seth, che stantuffava silenziosamente, in ginocchio,
tenendole con le mani le cosce aperte e sollevate verso di lui
in modo che il coito si realizzasse più a fondo. Era una
visione estatica. Una posizione che lui e Atulya non avevano mai
provato. Yarno rimase a fissarli per un secondo prima di
impazzire ed urlare di colpo. La ragazza lo guardò, poi,
continuando a gemere, strabuzzò gli occhi e si mise una mano
davanti alla bocca per coprire l'urlo di sorpresa. Seth invece
rise e continuò a pompare dentro di lei, sempre più forte,
sempre più veloce.
Yarno uscì di corsa liberandosi della giacca mentre
attraversava il salone davanti alla porta della sala. La lasciò
cadere a terra proprio quando fu davanti al primo gradino che
scendeva, e ci inciampò, ruzzolando giù dalle scale.
Testaculotestaculotestaculo e poi era davanti alla porta aperta,
in quel triangolo di sole grigiastro, dolorante e piangente ad
osservare le astronavi di polvere che creavano formazioni sempre
nuove in quella lama di luce. Gozer venne verso di lui e gli
leccò la faccia. Yarno si alzò a fatica e sentì che, sopra di
sé, i due lo stavano raggiungendo. Atulya lo chiamava in
continuazione, così trovò la forza e si alzò in piedi,
trascinandosi verso il motorino. Non voleva vederla. Nella testa
aveva soltanto una confusione senza precedenti. Solo la voglia
di correre senza smettere mai, come su un tapirulan. Correre e
correre, e quando non hai più voglia di correre, lasciarti
cadere a terra e lasciarti trascinare.
Così Yarno saltò sul motorino, deciso a correre finché la
benzina non sarebbe finita. E quando ciò sarebbe avvenuto, fare
rifornimento e continuare, continuare fino al sole che tramonta,
là, a cercare quella pentola d'oro che i nani nascondono alla
fine dell'arcobaleno. Dopo alcuni istanti di esitazione, Yarno
partì sfrecciando, inseguito da Gozer che gli abbaiava di
fermarsi e di spiegargli che cosa gli aveva preso. Uscì dal
cancello nel momento in cui Atulya comparve sulla soglia,
piangendo e urlando. Seth dietro di lei. Yarno sentì il grido
della ragazza, ma se prima la sua voce era poesia per lui,
adesso sembrava il richiamo di un'arpia. E quella visione fu
l'ultima che ebbe di lei: sulla porta, a gridare il suo nome...
ma anche quell'altra gli rimase sempre in mente: schiena a
terra, seni che ballonzolano, e quell'espressione trasognata sul
volto mentre un gay spingeva dentro di lei.
Così continuò, senza seguire nessun itinerario, aspettando
solo che le ruote girassero quando decidevano che era venuto il
momento di cambiare direzione. Il sole tramontò dietro le
colline e in meno di due minuti Yarno sentì la mancanza della
giacca, che era rimasta alla cascina. Le lacrime che versava
venivano spazzate via dalla velocità, ma l'inferno che aveva
dentro... quello no. Volò attraverso i campi, deciso a seguire
solo il proprio olfatto. Si sarebbe fermato solo quando avrebbe
sentito che era il momento. Così si lasciò andare a risate e
pianti mentre l'aria gli sferzava il viso. Gli riusciva di
trovare la cosa abbastanza divertente in alcuni momenti. Ma Seth
non era frocio? Poi le risate si trasformavano in pianto
disperato. Il pianto per qualcosa che ti viene donato e poi
rubato quando stai dormendo, per svegliarti la mattina e
scoprire che non è più al suo posto. Così, mentre correva su
quella strada, diretto chissà dove, Yarno cominciò a credere
che infine tutta la vita è davvero un piatto colmo di merda, e
che c'è sempre qualcuno che te lo riempie non appena accenni a
finire la tua parte. E quando affermi che sei sazio, c'è
qualcuno sempre pronto a spalancarti la bocca e riempirtene di
nuovo la gola.
E così correre, correre, correre a perdifiato, come un
maratoneta senza nessun traguardo, con la sola consapevolezza
che bisogna continuare a correre, senza smettere mai. Correre
senza guardarsi indietro, e senza badare a quel rumore che senti
dietro di te, e che non è il tuo fiato. Badare solo a correre,
concentrarsi solamente su quello, correre e tentare di non
inciampare. Anche se sai che qualcuno ti insegue; anche se sai
che quel qualcuno è più veloce di te.
Yarno correva con il suo motorino, deciso a continuare anche
a costo di giungere alla fine di ogni strada. Sfrecciava sulla
provinciale ridendo e piangendo contemporaneamente, convinto che
si sarebbe presto svegliato da questo incubo e si sarebbe
trovato magari ad una festa in cui si era addormentato. Una di
quelle feste che ogni tanto organizzavano alla cascina, con
dischi dei Led Zeppelin che saltavano, pieni di fruscii, su un
piatto malandato. La voce di Robert Plant che si mischia alle
risate, all'odore di spinelli che ha imbrattato le pareti
perennemente, e a quello della piscia di gatto. Una di quelle
feste in cui la sangria scorre a fiumi, versata in
un'insalatiera con un mestolo grande come una pentola con cui
riempire bicchieroni da frappè. E gente che balla allegramente
sotto la luce tremolante delle poche candele sparse in giro per
il salone, come lumini in un cimitero, che baluginano e danno
quell'aspetto spettrale alla stanza. Quella luce che dà il vago
sentore di invecchiamento, come l'ingiallirsi delle
fotografie... e chissà che i ricordi non ingialliscano proprio
come le foto e che puzzino di canna rollata male. Sì, una festa
come quella, dove c'è sempre qualcuno che mentre sta rollando
uno spino lascia cadere l'impasto, e così ci si getta tutti a
quattro zampe, come cani da tartufo, a cercare quel grammo di
marijuana che ci rende felici. E chissà che magari la vita non
sia altro che una festa come quelle, in cui c'è sempre qualcuno
talmente fatto o talmente etilico, che gli si potrebbe
distillare il sangue senza problemi e rivenderlo come vino
nostrano; uno di quelli che bisogna portare a casa perché se no
si sbocca anche sulle scarpe mentre cammina, e ad ogni passo
afferma che sta bene e che non è ubriaco.
Sì, Yarno era convinto di essersi addormentato su una
poltrona di quel salone, e la festa era continuata intorno a lui
senza che nessuno se ne accorgesse. Beh, allora era venuta anche
l'ora di svegliarsi da quel sogno, stiracchiarsi un po' le
braccia indolenzite e dire: "Okay, è venuta l'ora di
ubriacarsi e di collassare di nuovo, per andare a letto così
tardi che è quasi presto, addormentarsi e svegliarsi alle sei,
per prepararsi ad un'altra festa allucinogena che ti farà a
fettine talmente sottili che ti ci potrai vedere attraverso... e
così via, fino a quando non avrai più nemmeno la forza per
tenertelo tra le mani."
Ma poi aprì gli occhi, e vide che la strada era ancora lì;
che lui stava ancora cavalcando quel motorino scassato; che un
camion gli era praticamente addosso e che Atulya si era davvero
portata a letto Seth. Così urlò e schivò il camion appena in
tempo per mantenersi a mala pena in equilibrio su due ruote
traballanti come viti allentate, ma non riuscì a non pensare
che tutto era finito un'altra volta, che Seth aveva ragione, e
che infine mostrare i propri sentimenti a volte è più
sbagliato di quanto possa sembrare. No. A riprova di ciò, è
meglio tenersi tutto dentro, far finta di niente, mascherare
ciò che si prova e sperare di non impazzire. Tutto questo solo
per non stare male, per non sentirsi come quel piatto di merda
che ogni giorno mangiamo..
Yarno si fermò dal benzinaio. Era chiuso ma era aperto il
servizio self service. La benzina non era ancora finita, ma la
giornata volgeva al termine. Lasciò cadere il motorino a terra;
pochi metri più avanti, cadde anche lui. Stramazzò al suolo
come un burattino con i fili molli. E così pianse, lentamente,
senza far rumore. L'odore di benzina nelle narici.
Passò un tempo indefinibile. Lentissimo. Quando credette di
essere ormai così vecchio che se solo avesse mosso un muscolo
sarebbe caduto come cenere al vento, un motorino si fermò
dietro di lui e dei passi si avvicinarono. Yarno si aspettò la
solita domanda del cazzo: "Stai male?" Ma la voce che
parlò lo fece rabbrividire.
"L'amore o la musica, Yarno." Questa era
un'affermazione; non più una domanda.
L'interpellato alzò la testa, e si voltò verso Seth, che lo
stava guardando dall'alto, come una visione ciclopica,
terrificante. Yarno si alzò in piedi, guardandosi le mani e
sorprendendosi di non vederle sbriciolarsi sotto i suoi occhi
atterriti.
"Perché?", riuscì solo a chiedere.
Seth alzò un sopracciglio, poi sorrise lievemente.
"Gelosia, Yarno. Quello e…"
"Gelosia?" Yarno si alzò completamente in piedi,
ma faceva fatica a reggersi in equilibrio. Era pieno di lividi.
"Io ti amo, Yarno. Ti amo dal primo momento che ti ho
visto. È successo così... all'improvviso." Seth schioccò
le dita e sorrise. "Sai come succedono queste cose, no?
Beh, io sapevo che sarebbe stato inutile, ma volevo averti.
Averti ad ogni costo." Allargò le braccia, poi continuò
con tono dì scusa: "Sono fatto così... che ci posso fare?
Poi ho scoperto che tu non saresti mai stato mio. Non mi saresti
mai appartenuto. Così seppi che non avrei mai potuto dividerti
con nessuno ma che non avrei mai nemmeno potuto averti solo per
me." Seth sorrise senza allegria. Alla luce del
distributore il suo viso sembrava un teschio.
"Perché lo hai fatto? Se è stato solo per
ferirmi..."
"No", intervenne Seth. "O no... no. Io ti ho
prima chiesto che cosa sarebbe stato più importante per te:
l'amore o la musica. Tu mi hai risposto che era più importante
la musica, non è così?"
"E allora? Questo non ti dava il diritto di scoparti
Atulya!" Dire quelle cose lo fece sentire più triste
ancora. Ricacciò indietro le lacrime.
"Così tu la vedi solo sotto quell'aspetto, vero? Tu
credi che uno come me vada a letto con una ragazza solo per puro
piacere? No. Lei era solo la metà di ciò che mi impediva di
averti. Finché non c'era lei io ti possedevo in ogni modo. Eri
mio. Suonavi per me, scrivevi le canzoni che io avrei cantato.
Eravamo una cosa sola, Yarno!" Seth alzò un po' di più la
voce: "Sapevo che se fosse sopraggiunta una donna, avrei
dovuto rinunciare anche a quella parte di te che era mia di
diritto!" Seth si fermò, gli tremava il labbro inferiore.
L'odore di benzina sembrava più intenso. "Però non potei
impedirti di conoscerla. E non potei impedirti di farlo davanti
a me." Alzò lentamente la voce. "Non potei impedirti
di uscire con lei, di innamorarti di lei, di fare l'amore con
lei!" Seth si fermò per un paio di secondi, poi sussurrò
in maniera appena percettibile: "Poi, giorno per giorno,
vedevo che ti stava portando via tutto quanto, anche quella
piccola parte che speravo riservassi a me. " Seth si
accucciò a terra, con la testa tra le mani. Sembrava un
bambino. "Io ti amo", mugugnò il cantante, piangendo.
"Ti ho sempre amato e ti amerò sempre, Yarno. Ma non per
questo ti ho mai chiesto niente di più che suonare per me. Mi
bastava quello. Mi bastava la comunione che facevano la tua
chitarra e la mia voce. Ma lei mi stava portando via anche
quello. Mi è crollato il mondo addosso quando ti ho visto
suonare per lei... e lei cantare per te. Stava facendo quello
che solo io ho sempre fatto! Mi stava portando l'unica cosa che
ero riuscito ad ottenere! L'unica cosa... l'unica." Seth
continuò a ripetere quella parola per lunghi secondi, come una
bambola parlante con il disco rotto. Si dondolava sulle gambe
accucciate e scuoteva la testa.
Yarno lo fissò con aria incredula. Era indeciso se aveva
voglia di ucciderlo o di abbracciarlo e consolarlo.
"E Suki?", chiese il chitarrista.
"Suki..." Seth scosse la testa, sorridendo,
"Suki è solo un amante."
"Se non ne hai goduto, allora perché lo hai
fatto?", chiese Yarno. "Perché hai fatto sì che io
vi scoprissi e che ci stessi male?"
"Perché avevi fatto la tua scelta, Yarno." Seth
alzò la testa e lo guardò negli occhi. Le lacrime splendevano
come brillanti negli occhi. "Hai scelto la musica e hai
messo a parte l'amore. Nella tua vita Atulya rappresenta
l'amore, no? Quindi, per forza di cose, io per te rappresento la
musica", spiegò Seth. "Quindi, adesso che lei non ci
sarà più, nel tuo cuore ci sarà spazio solo per me."
Seth si alzò, scavò nella giacca e si accese una sigaretta.
Gli attimi che seguirono furono solo un incubo che perdura
tuttora nella mente dell'uomo. Il ricordo del sorriso sul volto
del ragazzo lo fa ancora rabbrividire. Gli fa venire in mente
stalattiti e stalagmiti di ghiaccio infilate nelle gengive.
"Non ti perdonerò mai, Seth." La voce di Yarno era
arida come sabbia sotto il sole. "Avrei scelto la musica se
avessi dovuto scegliere, ma in questo caso hai scelto tu per me.
Mi hai tolto qualcosa in cui credevo... e io, per questo ti
odierò per sempre." Dopo che Yarno ebbe finito di parlare
si senti molto meglio. Tirò su il suo motorino e se ne andò a
piedi, lentamente, senza guardarsi indietro.
"Yarno...", chiamò Seth dietro di lui, ma il
chitarrista non si girò, e a distanza di anni si pentì di non
essersi voltato. Avrebbe potuto salvarlo.
"Yarno... o l'amore o la musica!", gli ricordò Seth.
Il ragazzo continuò a camminare, lentamente, e non si voltò
fino a quando non sentì l'urlo allucinante che si alzò dalle
sue spalle. Ormai era lontano e in un primo momento non capì
che cosa fosse accaduto. Quello che vide era che al posto del
suo cantante c'era ora una torcia umana che ardeva chiamandolo
per nome. In mano aveva l'erogatore, che assomigliava più ad un
lanciafiamme, ormai. Yarno lasciò cadere a terra il motorino e
corse verso il benzinaio, ma fatti quattro passi Seth cadde a
terra, e al quinto la pompa di benzina super saltò in aria in
un boato assordante. Lo spostamento d'aria lo catapultò
all'indietro e gli bruciò i peli del naso, la peluria del viso,
le ciglia e le sopracciglia. Sentì l'odore della benzina e
della cheratina bruciata. Così, a terra, con una chiazza di
orina che si allargava nei pantaloni, Yarno sbatteva gli occhi
ripetutamente mentre un fungo giallo/nero si alzava verso il
cielo, illuminando la campagna a giorno. Pochi secondi dopo
saltò in aria anche il gasolio. Due esplosioni ripetute. Yarno
si schiacciò a terra, assordato. Le orecchie gli fischiavano, e
intorno a lui volavano pezzi di metallo incandescenti come
meteore. Uno gli cadde sulla camicia, che prese fuoco, ma lui
non sentì dolore. Rimase a terra, con le mani sulla testa,
piangendo annichilito fino a quando sentì arrivare in
lontananza la sirena dei vigili del fuoco. Poi due mani sicure
lo issarono in piedi, e lui poté finalmente cominciare ad
urlare. Era rimasto intrappolato, imbevuto, in un sogno di
benzina mentre giocava con un fiammifero. Il dolore alla schiena
era lontano ormai... il mondo stesso era lontano ormai...
L'uomo è in mezzo a quella sala prove, e ha in mano la
chitarra elettrica. Sorride lievemente a quei ragazzi, che lo
squadrano perplessi. Poi uno si fa avanti e gli sorride.
"Tu sei Yarno, il chitarrista dei Tlaloc", dichiara
guardandolo negli occhi.
L'uomo sorride. "Si, suonavo qui, come voi, una volta.
Sono tornato qui e ho trovato questa..." Alzò la chitarra.
"È ancora la mia. È stata abbandonata lassù e ha perso
un paio di corde, ma scommetto che se aveste un set di corde
nuove... potrebbe suonare ancora." Yarno alza appena un
angolo della bocca, timido come sempre.
"Io dovrei avere qualche corda di ricambio... se vuoi,
posso andare a prenderle a casa. Abito qui vicino e mio padre me
ne tiene sempre una scorta", afferma un altro. Ha i capelli
chiari. Un'aria familiare.
"Tuo padre è un musicista?" chiede Yarno.
"Mio padre era il tuo batterista."
"Ryos?", chiede per conferma. "Il mio Ryos?"
Il ragazzo sorride e annuisce. "Proprio lui. Non si fa
più chiamare con quel soprannome, però."
"Per me rimarrà sempre Ryos. Si è sposato?"
"Sì."
"Con Alice."
"Già."
Yarno sorride. "E così tu saresti il figlio di Ryos...",
Yarno si avvicina al ragazzo e lo guarda ben bene. "Quanti
anni hai?"
"Tredici."
"E che strumento suoni?"
"La chitarra."
"Oh. Mi faresti vedere la tua chitarra... come ti
chiami?"
"Seth."
Yarno spalanca gli occhi. Una lama gelida conficcata tra le
costole. "Come hai detto, scusa?"
"Mi chiamo Seth. È stata un'idea di mio padre darmi il
nome del vostro cantante." Il ragazzo fa una smorfia, poi
poggia a terra la custodia della chitarra. La apre con mano
ferma e la spalanca come fosse una ventiquattro ore piena di
biglietti da cento. "Non mi è mai piaciuto come nome, ma
per mio padre ha un significato molto particolare."
"Lo ha davvero", conferma Yarno, poi fa il giro e
guarda la chitarra, stesa come un cadavere nella bara. Un
cadavere bellissimo, però. Una Gibson modello stratocaster.
Rossa. Tempestata d'adesivi d'ogni tipo. Tra i quali ce n'era
uno con la scritta "Tlaloc", il logo del gruppo.
Yarno s'inginocchia e la osserva più da vicino mentre Seth
gli tiene il coperchio della custodia alzato. "Posso
provarla?", chiede Yarno.
Seth sorride e dice: "Okay. Io vado a prendere le corde
nuove della chitarra."
Yarno rimane in contemplazione dello strumento per lunghi
secondi, poi lo prende in mano, allunga la tracolla e lo indossa
come fosse un vestito. Gli altri ragazzi lo stanno fissando.
Sembrano in adorazione. Deve essere un po' il loro mito. Yarno
guarda nella custodia e afferra il jack, arrotolato sul fondo
come un serpente. Lo srotola e infila uno dei due spinotti nella
presa della chitarra e l'altro nell'amplificatore. Il tasto è
lì, rosso, pronto ad essere acceso. Allunga un dito e lo
schiaccia. La spia s'illumina. Yarno alza il volume della
testata dell'amplificatore, e poi quello della chitarra...
E poi rimane lì, a contemplare quelle corde, troppo
emozionato per pizzicarle, troppo estasiato per rimettersi a
creare melodie. Così prova soltanto a vedere se è accordata.
Posa le dita sulle corde e le fa scivolare lentamente sulla
tastiera. Fa una scala, lentamente, e i brividi gli corrono per
la pelle. La chitarra è già accordata. Ha un suono
meraviglioso. Tocca un paio di manopole dell'amplificatore e poi
si lascia andare.
In pochi istanti sente il rumore del fiume, lo sente
rimbombare dentro di sé. Si sente travolgere dal fiume e si
sente affogare nel fiume. Il fiume diventa lui. Yarno suona e
suona e suona, finché le dita non gli fanno male. Yarno suona
come quella volta, da solo, in quello stesso punto, mentre fuori
diluviava l'inferno, e le emozioni erano così intense da essere
soverchianti. Yarno suona sempre più velocemente, producendo
suoni sempre più vicini l'uno all'altro, travolto dalla
passione e dall'estasi di quel fiume che lo ha investito. Si
ferma solo quando si rende conto che la porta è di nuovo aperta
e che un uomo sui trentacinque è sulla soglia, e lo sta
fissando. Negli occhi ha due piccoli diamanti che brillano, e
che poi scivolano sulle guance, rotolando e rotolando.
"Ryos...", dice Yarno.
"Yarno...", dice Ryos.
E poi c'è l'abbraccio. Yarno si toglie la chitarra e la posa
accanto al muro e corre verso quell'uomo con le braccia tese. E
così si stringono, così forte da sentire le ossa
scricchiolare. Ci sono gli scambi d'opinioni su decine di
questioni inutili: il matrimonio, la vita, il lavoro e tutto il
resto. Poi Seth dà le corde nuove a Yarno e lui le monta sulla
chitarra. È una delizia sentire di nuovo quello strumento tra
le mani dopo quindici anni. E quando comincia a suonare il riff
della loro prima canzone, vede che Ryos distende la schiena,
percorso da una scossa elettrica. In silenzio si avvicina alla
batteria, si fa passare le bacchette dal batterista di suo
figlio e gli sta dietro. Suonare di nuovo quella canzone dopo
anni è un delirio da manicomio criminale. Eppure loro lo fanno.
Yarno e Ryos suonano quello stesso pezzo, il primo del loro
unico album. E poco dopo che cosa succede? Entra anche il basso
a far compagnia. E Yarno si volta verso la porta, convinto di
vedere Suki fermo sulla soglia, con in mano lo strumento, ed è
convinto di sentire la sua voce che dice: "Vi ho sentito da
fuori. Vi manca un basso." Ma la porta è chiusa e il suono
del basso arriva dallo strumento del ragazzo con i capelli
biondo cenere, quello che lo ha riconosciuto.
Così continuano a suonare, e per alcuni istanti sembra quasi
di doversi aspettare che la voce di Seth riempia gli spazi
vuoti, con la sua carica, la sua interpretazione, il suo
desiderio di ottenere a tutti i costi anche quello che non è
suo e che mai lo sarà. Anche a costo di fare del male. Anche a
costo di uccidersi mettendo diecimila lire in un distributore
automatico, sganciando l'erogatore, riempiendosi di benzina da
capo a piedi e poi mettendosi a fumare una sigaretta. Inzuppato
come un frollino in un sogno di benzina, mentre gioca con un
fiammifero, Seth urla, e a Yarno sembra ancora di sentirlo
mentre chiama il suo nome e gli ricorda che deve scegliere tra
la musica e l'amore. L'amore o la musica. Gli sembra di vederlo
ancora là, avvolto dalle fiamme, mentre urla il suo nome...
Ore dopo l'uomo scende le scale, chiudendosi il passato alle
spalle e mettendone la Chiave al suo posto, sotto il cruscotto
della mietitrebbia. La cascina è muta ora. Tutto quanto se ne
è andato. Gozer è steso a terra, davanti alla sua auto. Il
sole è tramontato e la luna illumina il suo pelo ingrigito.
L'uomo si avvicina e lo accarezza, ma proprio prima che la sua
mano scenda sulla sua pelliccia, vede tutte quelle piccole
figurine saltellanti che agonizzano nella polvere e che cercano
un nuovo ospite, e così capisce che quando il passato muore,
muore completamente. E Gozer è morto con lui. Chissà, magari
è spirato proprio perché ha sentito di nuovo la musica dei
Tlaloc suonare in quelle quattro mura. Sì, gli piace pensare
che sia così: Gozer ha atteso finché quello che cominciò lì,
finisse lì. Anche a distanza di quindici anni. Solo adesso è
potuto morire in pace. L'uomo lo accarezza lentamente. Il corpo
è duro come legno, così lo prende in braccio e lo porta in
mezzo ai campi. Lo poggia a terra, poi prende quel badile
abbandonato e arrugginito che cadeva sempre quando aprivano la
porta della cascina e scava una fossa dove seppellire per sempre
il suo passato. Ne servirebbe una molto profonda, giacché
solitamente i ricordi hanno la cattiva abitudine di camminare
anche dopo che sono morti. In ogni modo, quando si trova davanti
alla buca rettangolare, si sente abbastanza soddisfatto. Lascia
cadere dentro il cadavere e poi la ricopre. L'erba alta
nasconderà il suo operato, e che Gozer, insieme al suo passato,
ritorni alla terra, alla polvere e alla cenere.
L'uomo si pulisce le mani, poi sale in macchina e torna da
quella ragazza, che lo sta aspettando. Adesso che tutto è
sistemato si sente davvero meglio. In quindici anni ha
rispettato i patti con se stesso e non ha mai più confessato il
proprio amore a nessun'altra, ma adesso tutto sembra diverso; i
fantasmi riposano in pace.
Parte e guarda per un attimo nello specchietto. È solo
un'allucinazione, probabilmente, ma proprio là, davanti alla
cascina, vede due figure; una ha una mano alzata e la sta
scuotendo nell'aria. L'altra è a quattro zampe e scodinzola
allegramente. L'uomo si ferma, mette in folle e scende, ma
quando guarda là dove è convinto di aver visto quelle due
figure, adesso non c'è altro che luce lunare e silenzio. Così
sorride, accenna un ciao a quell'allucinazione e poi riparte.
Chissà, magari c'è ancora modo di rivalutare la scelta che ha
fatto quindici anni fa. Magari è venuto il momento di scegliere
l'amore.
Dietro di lui, un'allucinazione sorride e accarezza la testa
di un'altra allucinazione, poi, con voce eterea dice:
"Avanti, Gozer, andiamo a fare un giretto. Ho voglia di
cantare questa sera." E, dopo aver aspettato il latrato di
risposta, i due fantasmi del passato si allontanano.
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