autore: DANNY GLICK 
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:: BANSHEE ::
Quindi raccontami dell’alba che precede e segue i tramonti; dimmi della mia vita e di ciò che sarà di me. Raccontami della mia miseria se non posso sognare di lei, il vuoto dei miei pensieri se non posso pensare a lei. Lei danza nel fuoco, ma non si brucia mai. Io striscio su questo suolo, spazzato via dal vento. Cantore Notturno, le ho dato tutto ciò che avevo. Cantore Notturno, mi sono spogliato anche dell’anima. Cantore Notturno, ho venduto la mia vita per lei. Cantore Notturno, non la riavrò più indietro.

Silence: "Night Singer"


1.

La vita è uno stato mentale. Si può essere vivi, ma vivi davvero, senza necessariamente respirare. Basta nascere nell’immaginario di qualcuno e sopravvivere in quello, e si avrebbe vita di sicuro migliore di quella che in realtà si deve sopportare stando a camminare in giro per il mondo, soppesando domande e risposte, e avendone più delle prime che delle seconde. Oppure si può essere morti, e morti per davvero, camminando e respirando proprio come fanno i vivi, e ponendosi sempre un sacco di perché la mattina e la sera, in un ciclo continuo. E così si vive, vero? Così mettiamo i piedi in terra ogni giorno e li infiliamo sotto le coperte ogni sera, esaltandoci quando li teniamo a terra o li infiliamo sotto le coperte insieme con un altro paio di piedi. Però ci sono momenti strani nella vita... ed Egon lo capisce il giorno in cui sta camminando per la strada in un’invernale notte di pioggia; una macchina sbanda sul bagnato e va a schiantarsi con un’esplosione di vetri e lamiere contorte contro un palo della luce, il quale s’inchina con un secco cozzo come a salutare con un benvenuto quel terribile abbraccio. Gli istanti che corrono dal momento che la macchina sbanda a quello in cui Egon corre verso di essa sono veramente pieni di angoscia e stupore. Essenzialmente non sa cosa fare... non sa se è pronto a vedere del sangue o doversi trovare davanti ad un morto. Ad in ogni modo non sa nemmeno quale sia il numero per chiamare l’ambulanza. Così si avvicina a quella carcassa fumante; un odore intenso d’olio da motore e di benzina lo investe quasi subito; come uno spintone lo fa arretrare di un paio di passi. Quando trova il coraggio abbassa la testa e spia dal finestrino infranto. All’interno una figura è piegata in due, come un sandwich che racchiude se stesso. Si lamenta. Egon rimane senza parole... Fa per aprire la portiera, ma la serratura non cede. Nemmeno infilando la mano all’interno e tentando 
di far scattarla scattare l’operazione ha successo. Ed ecco che la voce della figura all’interno è querula quando gli si rivolge. "Lasciala chiusa. Lasciami qui."
"Ma che sta dicendo?" si ritrova a dire Egon in preda allo sbalordimento. "Adesso chiamo un’ambulanza."
"No... voglio stare qui..."
"Aspetti qui... vado a chiamare qualcuno. La tiriamo fuori subito."
"Non capisci? Io l’ho fatto per lei."
"Come?" Egon si ferma, indeciso se pensare che l’uomo sia in delirio oppure che si stia realmente rivolgendo a lui.
"Per lei. Io l’ho fatto per lei. Solo per lei..."
"Senta... aspetti qui, io torno subito con qualche aiuto", afferma Egon come se l’uomo potesse muoversi di lì.
"Non c’è aiuto per me, lo capisci? Non da quando l’ho conosciuta..."
Egon rimane paralizzato da quelle parole... però deve trovare aiuto, così corre verso il più vicino telefono pubblico e chiama il 113. Una voce assonnata risponde. Egon spiega a parole rotte l’accaduto e dà l’indirizzo. In giro non si vede nessuno. I semafori lampeggiano tristemente. Mentre aspetta che l’ambulanza si faccia vedere, Egon si annoda le mani e i pensieri. Decine di "cosa fare" gli fanno circonvoluzioni per il cervello. Si riavvicina alla vettura. L’uomo all’interno sembra aver perso conoscenza. Per alcuni istanti teme il peggio, poi vede che alza di nuovo la testa e per la prima volta posa lo sguardo su di lui. I suoi occhi sono colmi di tristezza. Immensi mari di tristezza. Illuminati di un’oscurità che li rende come pozzi in cui gli sembra di annegare.
"Perché sei ancora qui? Lasciami morire. Credi che sia stato un incidente?"
"Senta... tenga duro e vedrà che arriverà l’ambulanza. Come si sente?"
"Come mi sento?" L’uomo ride sinceramente divertito da quella domanda. "Mi sento come uno stronzo in un panino. E qualcuno si sta apprestando a mangiarmi. Vuoi favorire?" Poi ride di nuovo, una risata come unghie su una lavagna.
Egon si guarda in giro, attendendo di sentire l’eco delle sirene che non giunge. Riprova ad aprire la portiera. L’uomo all’interno lo osserva con un sorriso sul volto. "Quanto accanimento. Ne avevo anche io, sai? Poi ho perso tutto. Me l’ha rubato lei."
"Chi?"
"Come chi? Magritte, no?", replica l’uomo come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Perde sangue da un taglio sulla tempia sinistra, ma per il resto sembra stare abbastanza bene. A scuola guida gli hanno insegnato a non estrarre mai le persone dalle auto perché potrebbe essere peggio che lasciarle dentro. Sempre che la macchina non stia prendendo fuoco. Il motore fuma, mentre si raffredda sotto la pioggia che tamburella sul cofano e sui vetri infranti che rilucono sotto la luce del lampione come tanti diamanti. Non sembra ci sia il pericolo di un incendio.
Egon tenta di nuovo di aprire la portiera, che non cede alle sue suppliche. Non può fare nient’altro che aspettare l’ingiungere dell’ambulanza. Da vicino si rende conto che il danno alla macchina è grave, ma non come ha creduto in un primo momento. Egon osserva stranito quell’uomo all’interno dell’abitacolo e si chiede che cosa ci fa lì, in quella strada, davanti a quell’auto.
In lontananza l’ambulanza arriva urlando e l’uomo, sentendola, abbandona la testa al sedile. "Cazzo. Perché li hai chiamati?", gli chiede.
"Forse lei non si rende conto di quello che è successo..."
"Non sono un demente, amico."
"Non ho detto questo..."
"So quello che è successo. Ne sono il fautore. Ma tu mi hai rovinato tutto."
"Ma cosa sta dicendo? Voleva che la lasciassi qui così?"
L’uomo lo guarda con occhi spiritati. Una lacrima gli scende maestosa sulla guancia, come una sposa che si trascina in una marcia nuziale. Quando parla la sua voce è profonda, terribilmente affranta, come se dovesse descrivere a parole un incubo che lo perseguita da anni e di cui non può liberarsi. "L’ho fatto per lei...", ripete, "io l’ho fatto per lei." A guardarlo sembra proprio che sia così... sembra che se possa sollevare solo un poco di quel velo che tiene steso sul volto come un sudario, rivelerebbe un mare di dolore che tuttora sta sopportando. 
Poi l’ambulanza arriva con gran furore di sirene, e proprio in quel momento, come se tutta la scena emergesse da uno stagno melmoso, decine di persone si affacciano ai balconi e si avvicinano per osservare ciò che è successo. Un uomo in tuta blu si fa avanti e gli pone alcune domande. Nel frattempo sono giunti anche i pompieri. Egon risponde come in trance mentre si tende per spiare, da dietro la spalla dell’infermiere, la macchina e l’uomo all’interno. Per lunghissimi istanti il mondo gira più lentamente ed Egon osserva gli occhi dell’uomo fissi nei suoi, uno sguardo che trapassa il parabrezza segnato da una ragnatela di crape e travolge l’aria che li divide, come a spintoni, per giungere fino a lui, pesante come piombo nello stomaco. Così osserva i vigili del fuoco estrarre l’uomo dalla macchina e metterlo su una barella. E per tutti i lunghi secondi che passano fino al momento in cui le porte dell’ambulanza si chiudono, gli occhi dell’uomo sono sempre fissi nei suoi. Solo quando il veicolo è lontano, Egon può distogliere lo sguardo, non prima di aver annotato mentalmente l’ospedale al quale appartiene l’ambulanza. Davanti a lui c’è ora un poliziotto che gli sta chiedendo i dati per il verbale. Gli risponde lentamente, scandendo bene le sillabe.
Poi, quando tutto è finito, quando anche la macchina è stata portata via, Egon rimane lì, in quel luogo... come fosse solo al mondo, i capelli infradiciati di pioggia. Il sole sta sorgendo dietro le case ad est e l’aria si colora di rosa. Qualche macchina azzarda a passare e il guidatore lo osserva. Nel suo cuore c’è solo un nome: Magritte.

2.

I giorni che passano sono lenti, terribili, scanditi da pochi respiri profondi. Egon si sente come vuoto. L’esperienza l’ha segnato così a fondo da non dargli modo nemmeno di continuare ad esistere se non può sapere che cosa ha portato quell’uomo a quel gesto estremo. E ha ancora in mente le parole che ha udito quando ha calato la testa e ha spiato all’interno: "Per lei... io l’ho fatto per lei."
Così non si sorprende, quando si ritrova davanti al portone dell’ospedale. L’ambulanza è parcheggiata al suo posto. Riconosce la targa. Sale le scale e spiega brevemente la situazione. Gli viene permesso di vederlo per poco. L’infermiera all’ingresso del reparto è carina, ha un bel sorriso; lo accompagna fino alla stanza dove è tenuto l’uomo e poi lo lascia da solo per tornare al suo posto. Egon bussa, poi apre la porta, lentamente. La stanza è pulita, singola, ben illuminata. L’uomo è sdraiato sul letto e sta sorridendo.
"Ti aspettavo", dice.
"Come?" Egon non ha previsto quell’accoglienza.
"Sapevo che mi avresti trovato, che saresti venuto da me", afferma.
"Come faceva a saperlo?"
"Tu vuoi sentire la storia, vero?"
Egon prende una sedia e l’avvicina al letto. "Sì. Ma prima mi dica come sta e come si chiama."
L’uomo ride di gusto. "Come sto? Beh, sto benissimo, dannazione!"
"I dottori sostengono che sono stato fortunato", annuncia poi con una nota di tristezza nella voce. "Non capiscono che questa non è fortuna..."
"E che cos’è?"
"È Magritte", afferma.
"Mi parli di lei... per favore."
L’uomo ha lo sguardo puntato alla finestra, come se stesse assistendo ad uno spettacolo che ha inizio nella sua mente.
"La conobbi al cimitero.
"Era una giornata bigia, di fresca primavera. Io studiavo architettura ed ero in visita al Monumentale per scattare fotografie e tracciare schizzi, quando l’ho vista lì, in piedi davanti ad un mausoleo, ad osservare l’interno. E cazzo... non era bellissima. Ma aveva quel fascino così travolgente che mi tolse il fiato. Rimasi come impietrito, senza parole... Strano eh? Be’, fu strano anche per me. Avevo ventidue anni, e ormai avevo sperimentato molte cose nella mia vita: spinelli, rapporti a tre, sbronze... Avevo provato tante cose, ma lei mi mancava. E lei era là, in piedi, davanti ad una tomba di famiglia, immobile. Alcune gocce di pioggia primaverile ammorbidivano quel paesaggio, mescolando i colori e allungando gli odori; sembravano più intensi. Là vidi lì, immobile come una statua scolpita nel gesso, e sentii che qualcosa dentro di me mi spingeva verso di lei.
"Così mi avvicinai, cauto, come se temessi di infrangere un incantesimo con il rumore dei miei passi. Quando le fui abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro, lei alzò lo sguardo al cielo e disse: 'Hai mai creduto che le stelle potessero cadere?'
'Come?', chiesi.
'Le stelle. Secondo te possono cadere?'
"Rimasi ad osservarla, in bilico tra la decisione che era completamente folle oppure che stava dicendo qualcosa di cui non afferravo il nesso. 'Beh', risposi, tergiversando, 'secondo me sì.'
"Lei si voltò e mi sorrise. I suoi occhi erano bellissimi, e in quel momento sentii un qualcosa dentro, come una sorta di  tiramolla... perdonami, non saprei spiegarmi in modo diverso: era come se qualcuno stesse prendendomi il cuore e lo stesse tirando agli opposti, allargandolo, espandendolo. C’era un racconto di uno scrittore inglese, si chiamava Gautier, hai mai letto Gautier?"
Egon scuote il capo. "Beh, una frase di quel racconto mi tornò in mente proprio in quel momento: Così capii, che se mai mi fosse capitato d’amare, non avrei potuto amare altri che lei.
"Quella frase era per me la verità. Avevo sentore dentro di me di voler davvero amare solo lei, di provare a vedere che cosa volesse dire dedicare tutta la mia vita a quella persona, con il preciso intento di renderla felice. E secondo me questo è il metodo più bello per cominciare un rapporto con una persona: pensare solo a come rendere felice la persona che ami; mettere tutto il resto in secondo piano. Far sì che non se ne possa vedere la fine, cercare di non vedere un sole che tramonta quando si guarda all’orizzonte, ma solo un’eterna alba.
"E io mi convinsi di queste cose in un solo istante; nella follia di quel giorno, in quel luogo d’eterno riposo, dove chi aveva smesso di respirare si ingelosiva della nostra vita, là, dove gli alberi ci guardavano con cipiglio.
"Così cominciò..."
L’uomo si zittisce per un minuto buono, rimanendo con gli occhi chiusi, quasi senza respirare. Egon ha quasi il terrore di crederlo morto. "Che cosa cominciò?", chiede d’un tratto, ormai immerso nella narrazione. L’uomo usa dei toni così dolci e poetici che ha idea che possa scrivere storie molto belle.
"La mia maledizione." Quelle parole come un urlo in un cimitero.
"Maledizione?"
"Sì... Amare Magritte è una maledizione, credimi."
"Ne parla come se fosse qualcosa del tutto simile ad una malattia" afferma Egon, e a quelle parole l’uomo spalanca gli occhi e li posa nei suoi. Sono duri, come pugni allo sterno. Il suo sguardo è pesante. "Hai visto giusto, ragazzo. È la prima cosa sensata che ti sento dire. Magritte è una malattia. È una malattia che ti consuma, che ti uccide lentamente, corrode ciò che sei, ciò che vorresti essere... ma allo stesso tempo ti fa vivere. Uccidendoti ti dà la vita..."
Egon avvicina la sedia al letto. "In che modo?"
La risata dell’uomo lo coglie alla sprovvista, come uno schiaffo. Il ragazzo si tira indietro. "Magritte è Magritte... non puoi capire senza conoscerla. Ma conoscerla vuol dire morire."
"Ma come può parlare così di una persona?" obbietta Egon.
"Sai ragazzo, ho avuto tempo per pensarci e credo di essere giunto alla conclusione che Magritte non sia umana. È un demone della mente, qualcosa cui non puoi contrapporti, che non puoi combattere, ma che non puoi nemmeno sperare di non amare."
"E lei la odia?", domanda Egon
"Odiarla? Oh, no, no...", replica l’uomo.
"Ma cosa le ha fatto per portarla a questo? Insomma... ha tentato il suicidio."
"Hai mai letto "I Dolori del Giovane Werther"?"
"Sì, una volta."
"Beh, allora puoi capire la mia posizione. Lei è Carlotta e io sono Werther. Un amore impossibile che conduce ad un tragico finale."
Egon non ha capito bene il rapporto, ma si rende conto che alla fine certe cose sono come le equazioni di secondo grado: non ci arriverà mai nemmeno con l’impegno. Così guarda quell’uomo e si chiede che cosa ci fa lì, in quell’ospedale, a chiedere ad uno sconosciuto di raccontargli la storia del suo amore. Si chiede quale sia il giusto rapporto tra causa ed effetto di quello che sta venendo a sapere da quelle labbra screpolate, da quella testa affondata nel guanciale, e si chiede il perché di quella bramosia che si sente dentro, quella fame che non ha mai avuto riscontro, prima d’ora.
E così si ritrova a chiedersi cosa può voler dire amare una persona al punto da togliersi la vita, o almeno tentare di farlo... sono cose che non ha mai conosciuto, il cui significato gli sfugge. Un po’ come quando è morto suo padre. 
Il giorno di Natale. Si ricorda ancora la scena... anche se sono passati più di quindici anni; l’albero che lampeggia di mille colori come una console di un aereo di linea, e quella punta in cima, come la guglia di un cattedrale gotica. Si ricorda suo padre, seduto sulla poltrona, con quei baffi pepe sale che gli nascondevano sempre il sorriso. Egon era entrato in camera a chiamarlo dopo il pisolino pomeridiano e il padre aveva aperto gli occhi, sorridendogli. Poi si era alzato dalla poltrona e si era afflosciato a terra, come un burattino cui avessero tagliato i fili; la mano che stringeva il petto e il respiro che gli mancava anche per urlare, anche solo per dire il nome del figlio che era rimasto pietrificato ad osservarlo mentre se ne andava. Allora Egon aveva urlato e sua madre era corsa, giusto per vedere suo marito steso a terra, sul freddo pavimento, mentre una lacrima di dolore o di tristezza si asciugava sul suo viso. Negli occhi aveva ancora quello sguardo di 
lieve incomprensione di tutto ciò che era capitato in così pochi secondi. La madre di Egon si era messa a piangere ed era corsa a chiamare un’ambulanza, ma Egon era rimasto lì, ad osservare suo padre, immobile, mentre la vita lo abbandonava. Si chiedeva, osservandolo, quando sarebbe suonata la sveglia, perché quel sogno proprio non gli piaceva. Dopo pochi secondi sua madre era tornata in camera e aveva tirato suo marito seduto. Lo sosteneva a fatica, le braccia dell’uomo penzolavano dietro la schiena come rami morti. Sembrava proprio un manichino. E forse fu in quel momento, fissando quegli arti penzolare, che Egon si rese infine conto che suo padre l’aveva lasciato per non tornare più.
Poi c’era stato un incredibile via vai di gente ed Egon si era tenuto da parte, fissando la scena come distante decine di miglia; aveva osservato sua madre che piangeva, aveva visto quegli uomini vestiti di arancione portare via suo padre su un’ambulanza per un viaggio senza ritorno. Solamente quando fu solo permise a se stesso di essere consumato dal dolore. Il dolore del ricordo, il dolore dell’impotenza verso ciò che aveva strappato suo padre dalla sua famiglia il giorno di Natale.
Il funerale fu tetro. Nevicava. Il terreno era ghiacciato e la scavatrice aveva fatto molta fatica a scavare la fossa. I fiocchi cadevano lenti, descrivendo disegni nell’aria, e Egon stava a fissarli, stava ad assaporare la sensazione del freddo che gli pungeva il viso, le mani, il cuore, senza badare alla voce del prete, al pianto di sua madre, allo sguardo penoso di chi stava con le mani affondate nel cappotto, con l’ombrello aperto; si staccò da tutte queste cose terrene, cercando di pensare solamente ai fiocchi di neve che volteggiavano, che gli si depositavano sui vestiti, sulla bara dove suo padre riposava. Egon pensava a quei fiocchi e rimaneva quasi ipnotizzato alla loro vista, spaziando il campo fino agli alberi al di là della serie di tombe, e poi ancora più in là, fino al centro del cimitero... E poi più in là ancora, fino ai tetti delle case, ai camini che fumavano, alle antenne televisive... Poi più in là ancora... alle nuvole che si muovevano lentamente nel cielo color ghiaccio. Un aereo stava solcando il cielo, così Egon posò lo sguardo sulla scia biancastra che si lasciava dietro e si chiese dove stavano andando i suoi passeggeri, dove sarebbero stati portati... e desiderava tanto essere su con loro, in un clima accogliente di dolci hostess che ti portano deliziosi cocktail alla frutta, in viaggio verso un paese sconosciuto, con nuove usanze, con nuovi costumi... dove la gente sorride sempre e non muore mai... e non lì, in quel camposanto, in mezzo a persone che piangono e si disperano. Non lì, a vivere la vita che l’aspettava senza suo padre.
Così, in quel momento sentì due mani che lo accarezzarono sulle spalle, provocandogli un brivido e interrompendo l’incanto. 
Alzò lo sguardo di scatto sopra la testa e vide una donna mora che non aveva mai visto prima. Sorrideva con dolcezza. Non c’era compassione nei suoi occhi e questo lo rilassò.
"Credi che siamo per sempre, Egon?", disse lei con dolcezza, con una voce come una carezza sul cuore. Così si lasciò cullare da quel tiepido abbraccio mentre la bara veniva calata nella fossa. La singola lacrima che gli scese sulla guancia, incandescente come olio bollente, si fermò all’angolo della bocca. Tornò a fissare la fossa e sentì un’ondata di dolore, terribile, crudo, che gli salì alla gola, bloccandogli il respiro; si voltò, abbracciando quella figura chiusa in un cappotto nero che odorava di incenso. La donna si abbassò, lo abbracciò e gli prestò la spalla dove lui vi appoggiò la fronte. Pianse. Pianse senza preoccuparsi di chi appartenesse quella spalla, singhiozzando sempre più forte, squassato da spasimi di cordoglio. Poi, quando credette di morire, quando sentì che la marea delle lacrime lo stava affogando, il dolore si placò e scese, e lui si sciolse da quell’abbraccio così dolce. Si voltò e vide che il prete aveva chiuso la bibbia mettendo il segnalibro alla pagina che aveva letto. Sua madre stava singhiozzando abbracciata a suo fratello, che continuava a batterle sulla spalla ripetendole di essere forte. Così Egon era corso da lei e l’aveva stretta così forte da sentire quasi dolore alle braccia, come se potessero staccarsi. Lei l’aveva guardato e l’aveva abbracciato a sua volta. La cerimonia era finita e gli invitati si stavano allontanando mentre la neve scendeva lentamente, disegnando figure nell’aria... Egon si voltò alla ricerca di quella donna, ma non la vide. Con probabilità si era allontanata insieme con gli altri invitati.
Non chiese mai a sua madre chi fosse. La vita per loro era anche già troppo difficile così. Ed è sempre stato difficile... 
Ogni tanto, infatti, la vede piangere ancora, o gli capita di sentirla singhiozzare da sola, la notte, in quel letto così grande che ormai non può più dividere con nessuno. Sì, sa che cosa vuole dire quell’uomo. Sa che cosa significa amare una persona ed essere costretto a perderla.
"Non so come me ne innamorai..." afferma ad un tratto l’uomo. "Ricordo che eravamo davanti al caminetto di casa sua... sì, hai capito bene, ha un caminetto... e mi ritrovai a desiderarla in modo quasi barbaro. Le fiamme le disegnavano una strana luce addosso, sui vestiti, negli occhi... una luce che sembrava baciarla, avvolgerla. Così la baciai... e in men che non si dica stavamo facendo l’amore davanti al camino. Il calore delle fiamme, credimi, non era niente in confronto a quello che mi dava lei... avrei potuto scaldarmici in una sera invernale senza bisogno di coperte. E quello, credo... fu il momento che designò la mia fine." Gli occhi dell’uomo sono perduti nel ricordo di quei momenti.
"Perché? Perché pensa che innamorarsi di una persona sia sempre la fine di qualcosa e non l’inizio? Che cosa le fece di così crudele da indurle a parlarne così?", chiede Egon.
"Non mi fece niente... Niente che tu possa giudicare normalmente."
"E allora perché si trova qui? Perché nel momento dell’incidente lei ha affermato di averlo fatto per lei?"
"Perché è stato amandola che sono arrivato a questo."
"A cosa?", quasi urla Egon.
"Alla non vita. Hai solo lei. Ami solo lei e niente più ti importa. Ti ruba tutto ciò che hai. Annulla il resto del mondo. 
Tutto ciò che non sia Magritte arriva a non esistere più", afferma l’uomo con mera tristezza.
"E lei vuol farmi credere che questa Magritte avrebbe a che fare con tutto questo? No..." Egon scuote la testa. "No... tutto ciò è dovuto solo a lei. Amare non è questo. Amare è compensarsi. Cedersi è distruggere."
"Quanti anni hai?", chiede l’uomo, guardandolo da sotto le coperte, sembra molto fragile, gli occhi sono lucidi.
"Ventitré."
"Quanti anni credi che abbia, io?", chiede con dolcezza.
"So dove vuole arrivare...", si previene Egon.
"Rispondi."
"Non so... quaranta..."
L’uomo scuote la testa. "Ne ho venticinque."
Egon lo fissa sbalordito. Fissa quegli occhi, le rughe sul volto che sembra potersi accartocciare da un momento all’altro. Lo fissa e gli sembra di vedere l’esperienza delle sue azioni impressa in ogni piega del suo viso. "Non è possibile. Mi sta prendendo in giro."
L’uomo sorride debolmente, poi scuote la testa ancora. "Credimi. Ho venticinque anni."
"Come può anche solo affermare di avere solo due anni più di me?", chiede Egon.
"Posso perché è così. Sono nato il 13 aprile 1975."
"Non ci credo. Mi sta prendendo in giro." Egon si alza, si allontana dal letto, come se ad un tratto fosse venuto a sapere che la malattia di quell’uomo è contagiosa. Si avvia verso la porta, quasi indignato, e proprio mentre mette la mano sulla maniglia sente l’uomo sussurrare: "Io l’amo ancora. L’amerò sempre..." Poi esce e si lascia tutto alle spalle.
Quando esce dall’ospedale vede le macchine leggermente imbiancate. La neve sta scendendo lentamente su questa landa desolata e i pensieri che Egon si porta dentro sembrano urli nel silenzio della sua anima. Come corsa di cavalli impazziti, il galoppo di decine di stalloni, sassi che rotolano, una frana che lo investe. Un tale silenzio interiore che il rumore dei suoi stessi passi sulla neve gli porta alla mente quello di ghiaccio che si spezza, come se fosse su un lago ghiacciato, proprio come quella canzone dei Pink Floyd, come si chiama? "The Thin Ice" Già... proprio quella parte che dice: "Se andassi a pattinare, sul ghiaccio sottile della vita moderna, trascinandoti dietro il silenzioso rimprovero di un milione di occhi macchiati di lacrime. Non sorprenderti se una spaccatura nel ghiaccio ti appare sotto i piedi. Scivoli fuori dal tuo abisso e fuori dalla tua mente, con la paura che ti fluisce dietro mentre artigli il ghiaccio sottile."
Così Egon cammina per le strade, lentamente, calibrando ogni passo come una decisione che è necessario prendere per giungere ad un punto lontano. Ogni passo una tappa alla quale non può soggiornare. Per mesi dopo che suo padre era morto, sua madre aveva lo stesso apparecchiato per tre la tavola. Aveva in ogni caso preparato la colazione anche per quella persona che non l’avrebbe più mangiata. Aveva portato il caffè a letto di domenica, lasciandolo sul comodino a raffreddare. Ogni tanto si sedeva sul divano e rimaneva in apatia a fissare le immagini che 
scorrevano sullo schermo, anche per delle ore, senza però guardarle. Andava al lavoro ogni giorno e tornava alla sera. Egon tornava a casa da solo, autonomo, e restava in quella casa vuota, in solitudine, attendendo che la madre tornasse con il suo bagaglio di malinconia perenne. Una sera Egon apparecchiò per due, e lei, tornando a casa e vedendo che il piatto per il padre non era stato messo al suo posto si arrabbiò. "Papà arriva fra poco!" Aveva urlato preda di una crisi di lacrime. Poi si era abbandonata sulla sedia e aveva continuato a piangere. Quella sera non avevano cenato. Egon si era alzato e si era allontanato. Chissà perché era riuscito ad accettare la morte del padre con più semplicità di quanto ci fosse riuscita sua madre? A volte gli sarebbe piaciuto abbracciarla, poi sussurrarle all’orecchio la verità, perché chissà come, non se ne era resa conto. Suo padre non sarebbe tornato, suo padre era partito per un viaggio dal quale non c’era ritorno. Ma non lo fece mai.
In tre anni la situazione peggiorò e sua madre passò un esaurimento nervoso. Una sera, tornando a casa, Egon la trovò che stirava ogni capo di vestiario del guardaroba del padre. Sul tavolo era aperta una valigia da viaggio per metà piena di camicie e calzini. In un primo momento Egon credette che si fosse decisa a sbarazzarsi di quei vestiti. Entrò in casa e le chiese che cosa stava facendo. "Tuo padre deve partire", fu la risposta. Egon rimase ad osservarla mentre piegava accuratamente gli abiti appena stirati e li posizionava in ordine nella valigia, con la meticolosità che l’aveva sempre caratterizzata. 
"Mamma...", cercò di dire Egon.
"Sei sicuro di non dimenticare niente?", chiese la madre.
"Cosa?", replicò lui.
"Che cravatte hai intenzione di portarti? Non quella blu perché sai che c’è quella bruciatura di sigaretta..."
"Mamma..." ripeté il ragazzo mentre la madre dialogava come se niente fosse con il marito defunto, proprio come se fosse in piedi, a fianco a lei e rispondesse alle domande che lei gli poneva.
"Credi? Beh, se l’avessi saputo te l’avrei lavata... non pensavo volessi portarla via."
In quel momento Egon sentì un nodo alla gola che si faceva sempre più stretto. Sua madre era a due metri da lui, ma era lontana anni luce. Era in una dimensione diversa da quella dove era lui. Viveva in un mondo dove suo marito si stava preparando per un viaggio di affari, senza sapere che il suo viaggio l’aveva già intrapreso da tre anni.
Eppure a guardarla, poteva notare una serenità sul suo volto che quasi lo rilassò, per alcuni secondi. Egon aveva solo undici anni, ma si chiese se infine non era meglio così: che cosa importava se lei credeva ancora che suo padre fosse lì con lei, che conducesse la sua vita, che andasse al lavoro, che prendesse il caffè la mattina mentre leggeva il giornale, che tornasse la sera a casa e che si sedesse a tavola chiedendo cosa c’era per cena? Rovinarle quella magia sarebbe stato sleale. E in ogni modo, la verità non era che un punto di vista, e a lui non costava niente far sì che potesse vivere nel modo che la rendeva felice.
"Pensi che la cosa si prolungherà a lungo?", chiese la madre e per un secondo Egon credette che stesse parlando con lui. 
"Come?", chiese.
"Sì. Lo so che ne abbiamo già parlato... ma mi manchi quando non ci sei, caro... lo sai." Un risolino seguì questa affermazione.
Così, vedendola parlare al vuoto in quel modo, Egon capì che non avrebbe sopportato oltre quella situazione. Poteva pensarla come voleva, ma vedere sua madre parlare con il marito defunto proprio come se fosse lì in piedi con loro lo faceva stare malissimo. Così Egon andò nella sua camera e si sedette sul letto, poi si prese in mano la testa e cominciò a piangere. 
Nell’altra stanza sua madre continuava a discutere con suo marito, intercalando pause di silenzio per ascoltare quello che Egon non poteva sentire. 
Venne ricoverata in una clinica e lui andò a vivere con gli zii, fino a quando lei non ne uscì. Restò chiusa tra quelle mura asettiche per due settimane. Furono molto lunghe. A Egon non era permesso vederla, ma accompagnava lo stesso gli zii. Così, restare davanti a quella porta bianca con i vetri smerigliati, che veniva chiusa a chiave appena i parenti erano entrati, era per lui una tortura. Rimaneva su quella panca di metallo, fredda come il marmo per lunghi minuti, attendendo che tornassero. Ogni tanto, nell’attesa, sentiva delle urla provenire da quelle porte, poste una di fronte all’altra, chiuse a chiave... da una parte gli uomini e dall’altra le donne... ma entrambe portavano dritto ad un inferno senza ritorno. Quando la porta si apriva, apparivano fantasmi bianchi, con i visi scavati, che accarezzavano i vestiti dei suoi zii fino a quando gli infermieri non le riportavano all’ordine. Pazienti chiuse lì dentro che non vedevano mai altro che il colore bianco... ogni 
cosa era bianca, ogni cosa puzzava di piscio e disinfettante, il metallo era lucido, splendente, i pavimenti di linoleum chiaro. E sua madre era chiusa lì con loro, magari su un letto, senza muoversi, con il solo desiderio di poter vedere suo marito tornare a casa.
Quando ne uscì sembrava pulita. Però... quando Egon la guardava negli occhi, vedeva quel qualcosa in fondo... quella piccola luce strana che non faceva altro che ricordargli che non si guarisce mai. Sorrideva con tristezza, quasi consapevole di ciò che era successo, e parlava meno di prima. E non più da sola. Preparava la cena per due e no più il caffè la mattina. Ma alcune volte Egon la sentiva ancora piangere fino a notte tarda, nel suo letto. Così era giunto alla conclusione che certe abitudini, infine, sono dure a morire. Il dolore si può lenire, ma mai sopprimere, e il peso di alcune esperienze ti segna per sempre e continuare ad amare una persona che viene a mancare ti logora più di qualsiasi cancro e non ti salva, comunque, dallo sprofondare in quel lago, mentre il ghiaccio si spezza sotto i tuoi piedi, inesorabilmente.
Egon cammina sotto la neve che fiocca allegramente nel parco dove si trova in questo momento; i rami degli alberi sembrano spruzzati di zucchero a velo. Alcuni bambini cominciano a tirarsi palle di neve raccogliendone dalle macchine in sosta. Entro un’ora le strade saranno un pantano di ghiaccio sciolto. Non ha una meta precisa: cammina e basta. Dentro si sente spezzato in due parti differenti, ognuna delle quali desidererebbe sovrastare quell’altra. Si siede su una panchina spazzando via lo strato di neve e rimane ad osservare un cane che gironzola tra gli alberi, annusando una pista che solo lui può conoscere.
Passano dei minuti lunghissimi in cui i pensieri di Egon sono come onde contro uno scoglio, come sorrisi che si aprono nelle tenebre. Viaggiano come palloncini gonfi lasciati in balia delle correnti ascensionali: pian piano non li vedi più. Rimane lì fino a quando è buio, fino a quando la neve lo ha reso un mezzo pupazzo, immobile, scolpito insieme alla sua panchina, avvolto da un sudario di gelo che gli penetra nella pelle. 
Poi si alza dalla sua postazione facendo cadere pezzi di neve dai vestiti, e sembra sempre più una statua che cade in rovina, una statua che si anima e la cui pelle si stacca in blocchi che si infrangono a terra. Egon si alza e va verso casa.

3.

Il giorno dopo Egon è ancora all’ospedale. L’uomo lo attende con un sorriso sornione. "Sapevo che saresti tornato" gli dice quel sorriso.
"Mi dica dove la posso trovare", è la prima cosa che annuncia Egon sedendosi vicino al letto.
L’uomo ride, forte. Egon lo trova un po’ più in carne del giorno prima. Sembra rimettersi. "Perché vuoi trovare Magritte?"
Egon cerca qualcosa con lo sguardo su cui possa intensificare lo sguardo, ma non trova niente che sia di suo gradimento. 
"Perché sono curioso, tutto qui."
L’uomo rimane ad osservarlo a lungo, poi scuote la testa. "No... non è questo il motivo per cui la vuoi trovare. Nessuno cerca Magritte solo per curiosità. Tu la cerchi per un altro motivo."
Egon vaga con lo sguardo per la stanza, alla continua, incessante ricerca di qualcosa che attiri la sua attenzione, ma ad un tratto sembra che i colori siano svaniti, tramutati in tonalità di grigio.
"Perché la cerchi? Avanti. Dimmi."
Egon lo fissa negli occhi, cercando quel qualcosa che in giro non riesce a trovare. "Io la desidero."
L’uomo sorride. "Ecco qual è il motivo per cui cerchi Magritte. Questo è il motivo per cui la cercano tutti."
"Tutti?"
"Credi forse di essere l’unico?" L’uomo comincia a ridere rischiando di soffocarsi. Quando è in grado, riprende a parlare. 
"Amico mio, Magritte non ha bisogno di essere trovata..."
"In che senso?"
"Nel senso che Magritte trova te. E se tu la cerchi, allora significa che Magritte ti ha già trovato. Lei ti appartiene e tu appartieni a lei."
"Non la capisco..."
"Non c’è niente da capire. Hai fatto la tua scelta; hai voluto Magritte. Aspettala e lei verrà da te."
"Quando?"
"Quando che cosa?"
"Quando la vedrò?"
L’uomo volta il viso dalla parte opposta. "Sai... un po’ ti invidio. Una volta ero anche io al tuo posto. Un paio d’anni di gloria e poi tutto svanisce... un paio d’anni in cui vai in giro come se fossi il presidente degli Stati Uniti e poi tutto finisce... ti invidio..." ripete l’uomo, a voce bassa, "cazzo, se ti invidio."
Egon osserva l’uomo e si accorge che sta singhiozzando.
"Perché mi invidia?"
L’uomo non risponde per quasi un minuto, poi Egon sente un filo di voce che gli dice: "Perché anche se solo per un’ora, tu potrai averla senza dover barattare niente."
"In che senso?"
"Capirai che cosa intendo... lo capirai dannatamente presto. Adesso vattene, e non tornare più. Hai ottenuto quello che volevi, adesso vattene, per favore." I metodi così poco gentili con i quali lo sta congedando lo lasciano perplesso. In ogni caso Egon esce dalla stanza e si chiude la porta alle spalle. Quando è fuori si ferma di nuovo al parco. Non nevica più, così gli accumuli di neve ghiacciata sono divenuti montagne di ghiaccio nere di smog. Sulla panchina dove si è seduto ieri c’è una ragazza vestita di nero. Ha i capelli neri ricci e sta strappando pezzi di pane da una michetta che tiene in mano gettandole a terra. Vedendola, Egon si dirige verso un’altra panchina. Quando le passa a fianco, però, la ragazza lo chiama per nome.
Lui si volta e la osserva un po’ meglio, solo in quel momento si rende conto della possibilità che si tratti di Magritte. Ma non è come l’uomo gliel’ha descritta: è snella, con i capelli neri ricci, le mani dalle dita sottili e la pelle simile a marzapane. "Come fai a sapere il mio nome?"
"Tu conosci il mio, perché non dovrei conoscere il tuo?"
"Io non conosco il tuo nome."
La ragazza sorride. "Non si raccontano le bugie."
"Tu sei..."
"Magritte" conclude lei. "In persona. Perché non ti siedi con me e getti le briciole a questi uccellini?"
Egon la squadra. Non ci sono uccellini che vengano a mangiare le sue briciole, a chi le sta gettando? "Quali uccellini?" si azzarda a dire.
"Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere", commenta Magritte. "Comincia a sederti, se ti va, agli uccellini ci penserò io", disse gettando a terra un altro pezzo di pane.
Egon si avvicina e si siede. Il legno della panchina è freddo. La ragazza ha un buon odore addosso, gli piace. È quell’odore di pulito che ti rilassa. L’odore che hanno addosso sempre le belle ragazze. Però, ad osservarla, gli porta alla mente la madre che parla con il marito morto e che gli prepara la colazione e gli consiglia che cosa mettere in valigia per un viaggio che ormai ha intrapreso da tempo, così ne rimane spaventato oltre che affascinato.
"Come sta?", chiede ad un tratto Magritte.
"Chi?"
"Come chi? Chi sei andato a trovare in ospedale?"
"Ah... bene, meglio. Sembra che si riprenda in fretta."
Magritte sorride senza allegria. "È una cosa normale."
"Come si chiama?", chiede ad un tratto Egon.
"Non lo so."
"Come non lo sai? Come fai a non saperlo?"
"Si dimentica presto..."
Egon la osserva per lunghi secondi. In qualche punto della sua narrazione l’uomo ha davvero ragione: Magritte non è bella, però ha quel fascino che ti costringe a guardarla. Così rimangono su quella panchina ad osservare il vento che muove i rami spogli a parlare di cose insignificanti, e forse sono proprio questi i momenti che fanno sì che si sviluppi un amore, che qualcosa nasca, cresca. È strano, ma è come sentire un sapore in bocca, un desiderio di qualcosa di indefinibile, qualcosa che non riesci a decifrare: una sigaretta, un involtino primavera, un chewing gum da masticare fino a farti venire le gengive viola. Sono questi i momenti: quando ti accorgi di desiderare qualcosa ma non sai che cosa, e ti sembra di desiderarla con la bocca... ma non è così... oh no. La desideri con tutto te stesso, anche se non sai che cazzo sia. Anche se non hai idea di cosa ti stia accendendo questo desiderio, tu la brami con tutta la forza del tuo essere. Sì, sono questi i momenti. In questi momenti la vita è uno stato mentale. È come rimanere isolati in mezzo ad un deserto, e sei una barchetta in un oceano. Niente che ti circondi all’infuori della sabbia in ogni direzione. Anche in quei momenti la vita è uno stato mentale. Piovono angeli, si aprono porte ai confini dei sogni, vieni imbevuto di sensazioni più o meno spiacevoli, ma tutto ad un tratto ti 
sfugge di mano... ti sfugge il significato del tuo respiro e del battito del tuo cuore, proprio come se ti fossi dimenticato tutto quanto... metti in disparte la tua vita e lasci che il sangue ti scivoli via dalle vene come sabbia, granello dopo granello; e rimani ad osservare uno specchio dove ti vedi impazzire pian piano, passo dopo passo, e pensi agli insegnamenti, alle volte che hai detto: non farò mai di me stesso uno schiavo del desiderio. E poi sei lì, con le mani a coppa, pronto ad abbeverarti da quella fonte senza fine di acqua argentea che ti riempie di malinconia ma che ti sazia di bisogni.
È così che Egon comincia a viverla: un istante prima è lì, su quella panchina, e un istante dopo è sul letto con lei, in una casa che non conosce; lei sorride sempre, dolce, lodevole. Tutto ciò che si può desiderare. La osserva mentre con malizia si sfila le mutandine inarcando la schiena, piegando la gamba come se le dita fossero rimaste impigliate all’elastico. Osserva il suo corpo, assaporato dalla luce del pomeriggio che la invade completamente e si accorge di quanto infine sia lontano il momento in cui era all’ospedale a parlare di questa persona come di un’estranea. Adesso è lì, nuda, davanti a lui, e lo sta chiamando. Egon la fissa mentre è in ginocchio sul letto, nei suoi occhi il desiderio di possederla una volta per tutte, fino alla fine di ogni senso, fino alla totale insensibilità di ogni parte del corpo, fino allo sfinimento più totale, come immergersi nel sole, annegare in una vaschetta di pesci rossi.
Allora la abbraccia e gli sembra davvero di tenere tra le mani una stella. No, non una stella qualunque, ma la sua stella. 
Sta stringendo la sua stella, la sua strega, quella che ha gettato l’incantesimo sul suo cuore. Sì, ognuno ha la sua strega, ognuno la sua banshee, ognuno ha la sua levatrice e ognuno ha la sua nemesi, ma ci sono persone che riescono ad essere tutto insieme, tutto in una volta, come una supernova che brucia da sola nello spazio, bellissima ma letale. Egon la stringe, stringe la sua stella come se lui fosse il cielo. Un cielo che ha la possibilità di avere tutte le stelle che vuole ma che si innamora proprio di quella che mai e poi mai lo potrà rendere felice, si innamora di quella stella che sa solo guardare di lassù, che non sa che cosa sia l’amore, che non sa che cosa voglia dire abbracciare una persona e sapere di desiderare quello per tutta la vita; solo quello. Anche nella morte, abbracciati eternamente nella corruzione della tomba, nella polvere dell’eternità, nel roteante capovolgersi dei sensi, nel rotolare continuo dei momenti deliziosi, come lacrime sul viso di un pierrot. Vorticoso e bruciante Egon si getta su di lei, e Magritte lo accoglie, la bacia con labbra ardenti mentre cadono insieme sul letto... e sono lunghissimi i secondi in cui rimangono sospesi, fino a quando Egon si rende conto che non hanno toccato affatto la superficie delle coperte e sono ancora sospesi nel loro amplesso lungo, passionale, quasi mirato. Gli sembra quasi di potersi sollevare sopra il mondo come un’aquila, le ali distese a planare su prati e distese di erba primaverile. Oppure essere egli stesso il cielo che osserva un paesaggio che si stende all’infinito e poterlo osservare con mille occhi, come se il suo stesso corpo fosse un occhio e lo vede lì, tutto insieme, eppure vastissimo, senza confini misurabili.
Così si capovolge nelle sensazioni, nell’abbraccio con quella creatura maledetta, e a tratti gli sembra quasi che davvero lei gli risucchi un qualcosa da ogni fibra ad ogni movimento che fa dentro di lei. E poi è come un intero universo che si espande dentro la vagina di Magritte quando arriva l’orgasmo, devastante, come un’onda in piena che lo sommerge di piacere, che lo spinge a picchi che non immaginava nemmeno, che lo soffoca di sensazioni graffianti. Solo pochi secondi, quella manciata di attimi e poi è solo la malinconia del post coito, quando Egon si accorge che tutto è finito e il sonno lo stringe nella sua morsa. Può solo soccombere. 

4.

Sì sveglia tempo dopo, nel tempo che passa dal momento in cui chiudi gli occhi con la costanza che li riaprirai dieci secondi più tardi e invece al risveglio sono passate ore. Magritte non è in camera con lui. Il letto sfatto, l’odore del sesso e del sudore e lo sfiancamento del suo pene sono gli unici sintomi che gli fanno capire che non è stato un sogno. Si rotola fuori dalle coperte e cerca i suoi abiti. È dannatamente tardi e deve tornare a casa per la cena. Fuori il tramonto è ormai superato da un pezzo, i lampioni accesi gettano la loro sciatta luce sulle macchine in divieto di sosta.
Egon si riveste mentre tende l’orecchio alla stanza a fianco. Si guarda in giro quel tanto che gli basti per capire che non riconosce quella casa. C’è un comò in stile ottocento in legno massiccio con uno specchio incrinato e decine di bottigliette di vetro contenenti liquidi che non riesce ad identificare. Un armadio della stessa epoca appoggiato al muro lo osserva con cipiglio, tendoni scuri appesantiscono il clima. Non aveva fatto caso all’aria decadente che quella casa gli comunica. La pesantezza dell’antico è quasi respirabile qui. Lo stesso letto su cui hanno consumato il loro amplesso posa su zampe di leone in noce. Deve valere un sacco di soldi, come il resto dell’arredamento. Il camino è spento, e ad osservarlo dà l’idea di un pianoforte che non può suonare.
Esce dalla stanza e si trova su un corridoio. In fondo c’è una luce accesa che balugina un poco dalla porta semi aperta. 
Alcune ombre lo attraggono verso quella stanza. Si avvicina. La sente canticchiare qualcosa, una cantilena, una filastrocca, una nenia, il tutto molto dolce... non capisce le parole, però. I suoi passi sono cauti mentre si avvicina. Man mano che l’uscio è a portata di orecchio ad Egon sembra che le pareti si incurvino su di lui. Quel corridoio sembra non finire mai, le ombre sembrano sempre più fitte, tanto che ad un tratto si ritrova a sentire il bisogno di correre per sfuggire a quella paura che lo induce a sentire sospiri, aliti freddi, risatine alle sue spalle. Arriva alla porta e si accorge che non c’è più molta dolcezza in quello che Magritte sta cantilenando; i toni sembrano sempre più evocativi, anche se fievoli. Una luce sembra danzare lievemente, come se la fiamma di una candela sia stata smossa da un alito di vento e ha fatto danzare le ombre sui muri. Egon si avvicina, rapito da quelle parole, dal mistero che cela quella porta, ad un tratto sprezzante di tutte le paure che provava solo un istante prima. Un tocco freddo sulla fronte lo fa sobbalzare, ma si accorge che è solo una goccia di sudore che gli scende lentamente sfiorandogli il sopracciglio.
Mette una mano sulla maniglia e spalanca la porta. Così la vede lì, vestita solo di una camicia da notte, inginocchiata su un tappeto, una candela di gelatina profumata esala nell’aria aromi di fiori di ninfee, e la fiamma balugina un poco. Le persiane dell’unica finestra sono socchiuse, attraverso la fessura può vedere un lampione che si muove leggermente smosso da un venticello serale.
La stanza è spoglia di ogni mobile tranne che del tappeto, di Magritte, della candela, di una coppa di liquido scuro che sembra caffè e di una farfalla che sta spirando sbattendo lentamente le ali bianche.
Egon rimane per alcuni secondi sulla soglia, ad osservare la scena che gli sta davanti, come un bambino mesmerizzato dalla luce delle candele in una chiesa, poi si avvicina e si inginocchia. Magritte è silenziosa adesso, e l’eco delle sue parole senza senso sembra rimbalzare ancora tra le pareti, nelle orecchie di Egon, che non riesce a capire cosa stia succedendo. Sta per pronunciare il suo nome, quasi per farle capire che è lì anche lui, poi vede che sta piangendo, mentre osserva la farfalla che muore. Egon posa lo sguardo su quelle due piccole ali che ancora si muovono sempre più lentamente, come due mani che applaudono.
"Cosa sta succedendo, Magritte?", chiede con un filo di voce non appena trova il coraggio di parlare.
"Ogni cosa ha il suo ciclo, Egon", risponde la donna. "Anche la farfalla ha fatto il suo ciclo. Adesso sta morendo."
"Era tua?", chiede tenendo gli occhi fissi sul viso della ragazza.
Magritte continua a fissare l’insetto, poi scuote la testa. "Io non posso avere niente che viva, Egon. Non posso possedere gli esseri viventi. È il ciclo delle cose."
"Non capisco", risponde il ragazzo.
È come se Magritte non l’abbia nemmeno sentito. "Posso solo illudermi, sperare, di possedere, e a mio modo appartenere a qualcuno, ma non posso. Tutti temiamo di appartenere a qualcuno... ma io non ho paura... lo desidero, capisci?" Solo in questo momento Magritte alza lo sguardo su di lui con gli occhi colmi di lacrime. "Capisci?"
Egon, costernato, scuote la testa.
Magritte si alza in piedi, va alla finestra. "Nessuno capisce... nessuno... nessuno può capire."
Egon rimane su quel tappeto, davanti alla farfalla che ancora si muove, sempre più lentamente. "Che cosa vuoi dirmi,  Magritte?", le chiede, ma la sua risposta sono solo dei singhiozzi. "Magritte?" Egon si alza a sua volta e si dirige verso di lei, deciso a cullarla, ad abbracciarla un po’, a farle sentire che lui è lì con lei. Lei gli dà un’impressione terribile di desolazione, di tristezza, di solitudine. Vorrebbe tanto poter condividere con lei quel qualcosa che la tormenta, che la fa star male, ma è come se fosse su un altro pianeta, lontana...
"Posso fare qualcosa?", chiede Egon. "Non posso vederti così."
Lei si volta, la fiammella della candela si spegne proprio mentre lei si gira e l’unica luce rimane quella che filtra dalla strada, che la incornicia come un’aura. "Rendi la vita a quella farfalla, Egon."
"Come?", domanda il ragazzo, convinto di non aver capito bene cosa gli è stato appena chiesto.
Magritte tira su col naso poi ripete la sua richiesta: "Rendi la vita a quella farfalla. Rendile il calore della vita."
Egon la squadra lentamente, socchiudendo gli occhi. Non riesce a vederla bene... poi si guarda in giro. L’ombra proiettata dalla figura di Magritte davanti alla finestra si allunga fino al muro antistante, Egon ne è illuminato a sua volta. Cerca la farfalla con gli occhi, più per individuare l’argomento del suo discorso che per reale convinzione di poterla salvare.
"Come faccio? Sta morendo... anzi... è morta ormai. Lo hai detto anche tu... è il ciclo delle cose."
"Sì. È vero. È il ciclo delle cose. Ma questa volta può essere diverso. Lo hai detto tu stesso. Vuoi fare qualcosa per me... per aiutarmi devi cambiare il ciclo delle cose, devi darmi la possibilità di dare senza dover prendere, di vivere senza togliere, di appartenere a qualcuno senza doverlo maledire. Rendi vita a quella farfalla e ci sarai riuscito." Il tono di Magritte si fa implorante... "Dimostrami che sei qualcuno in cui posso sperare."
Egon si inginocchia sul tappeto e cerca a tentoni il cadavere della farfalla. Non ha la minima idea di ciò che Magritte voglia da lui, ma ci deve provare lo stesso. Sente il suo sguardo su di sé, pesante come i tendoni della stanza da letto. 
Appena trova il cadavere dell’insetto lo tiene sulle dita, leggerissimo. Il contatto è strano... le zampette sono chiuse su loro stesse, come se fosse tornata in posizione fetale, le ali distese. È davvero leggera... sembra che da un momento all’altro si possa staccare dalla sua mano e spiccare il volo di nuovo, per tornare a posarsi sui fiori, per succhiare il nettare e per tornare ad essere la musa ispiratrice degli artisti e dei cantastorie. È così leggera, così leggera che è difficile sentirla sulle dita se non come il contatto con l’aria, basta un soffio e vola via; una piuma bianca che si stacca dalle ali di un cigno e viaggia per il mondo come un sorriso che si dona a chiunque lo veda.
Egon la porta davanti alla fetta di luce che taglia come una spada le tenebre. Magritte si è spostata dalla finestra per donargli quella piccola feritoia che gli permette di vedere esattamente cosa tiene in mano. La farfalla è immobile ed Egon non sa cosa deve fare. Magritte si avvicina, comparendo dalle tenebre e posandosi davanti a lui dall’altra parte dello spiraglio di luce. Rimane nell’oscurità, come se il solo tocco con quella lingua luminosa la possa ferire. Lo osserva, così Egon le porge le mani dove tiene la farfalla, ma Magritte non la coglie, rimane solo ad osservarlo, senza badare ad altro che ai suoi occhi.
"Non so come devo fare..." si lamenta Egon.
"Allora non mi puoi aiutare", replica Magritte, poi, con un rapido gesto, afferra la farfalla dalle sue mani e la stringe in un pugno. Non si sentono rumori. Un’ala tranciata volteggia come un soffione mentre precipita a terra, roteando su se stessa, oscillando come una piccola barchetta e poi posandosi sul pavimento. Egon osserva quella scena con occhi colmi di sgomento. 
Un dolore terribile al cuore lo trafigge per alcuni, brevi istanti, poi scompare. Magritte apre il pugno e lascia cadere il corpo della farfalla a terra, a fianco all’ala. Non ne è rimasto molto ormai. Ciò che prima sembrava bellissimo, adesso è solo un batuffolo di materia organica che potrebbe essere scambiato per una matassa di polvere. Egon fissa il corpo schiacciato della farfalla con l’ala tranciata a pochi centimetri proprio come si osserva una natura morta, con quel po’ di tormento interiore che non lascia spazio e niente altro.
Poi Magritte si inginocchia davanti a lui e scoppia a piangere, coprendosi il viso con le mani.
Egon allunga una mano e coglie la farfalla e l’ala, poi prende la mano di Magritte, togliendogliela dal viso e bagnata com’è delle sue lacrime, le posa nel suo incavo l’insetto con la sua ala spezzata, poi le chiude lentamente il pugno, con dolcezza. 
Magritte smette di piangere e osserva la scena senza proferire parola. Egon copre con la sua mano quella di lei e la tiene così. Quando lascia la presa, Magritte apre il pugno e la farfalla, libera dalla sua prigione, si alza in volo. Volteggia un po’ tra i due, poi si posa sulla mano della ragazza a rimane lì, a sbattere le ali, quasi in attesa, o riconoscente.
Magritte osserva la farfalla e sorride. "L’hai fatto, Egon."
"Io non ho fatto niente, Magritte", risponde.
La donna si muove e la farfalla si alza in volo, rimanendo comunque nei suoi pressi. "Adesso ci appartiene, lo sai, vero?"
"Che cosa ci appartiene?"
"La farfalla. Finché vivrà noi saremo. Se morirà, tutto finirà."
"Non morirà", risponde Egon, poi la bacia alla luce del lampione che filtra dallo spiraglio.

5.

Il giorno dopo è all’ospedale, al letto di quell’uomo. È ancora lì, sembra stare sempre meglio, eppure è triste. Lo saluta, si siede sulla sedia a fianco del letto, lui ha il volto girato alla finestra, dove un passero zampetta sul davanzale.
"Cosa ci fai ancora qui?", gli chiede.
"Sono venuto per vedere come stava..."
L’uomo si volta di scatto, gli occhi iniettati di sangue: "Sto bene, non lo vedi? Non sono mai stato meglio di così!"
Egon rimane colpito da quell’aggressione e rimane in silenzio fino a quando l’uomo non parla nuovamente. "Allora, hai trovato  Magritte... e scommetto che ti sei innamorato di lei..."
"Anche lei è innamorata di me", afferma Egon con certezza.
L’uomo ride di gusto. Fuori della porta chiamano un medico da un altro reparto.
"Anche io mi illudevo di una cosa del genere... ce ne illudiamo tutti quanti. Poi, quando ti accorgi che non puoi fare a meno di lei... allora vedi che non tutto è sempre come credi che sia. Magritte non sa amare."
Egon sente, a quelle parole, una rabbia salirgli dallo stomaco. Stringe i pugni: "Non è vero!" esclama. "Lei mi ama, ne sono certo! Noi condividiamo delle cose, noi ci apparteniamo!"
L’uomo rimane a fissare il soffitto mentre Egon si sfoga. "Lo abbiamo creduto tutti... Quello prima di me lo ha creduto esattamente come me e come te adesso. E quello dopo di te crederà la stessa cosa. Solo che nessuno se ne accorge mai in tempo... quando te ne rendi conto è troppo tardi e non ti è rimasto più niente per cui valga la pena continuare... se non lei. Poi anche lei se ne va... e allora perdi tutto definitivamente, e non c’è rimedio a niente...." La voce dell’uomo s’incrina di pianto.
"Non con me. Sarà diverso. Ne sono sicuro. Lei non se ne andrà." Egon è sicuro delle sue affermazioni.
"Lo credi davvero? Ma non capisci che non esiste modo per tenerla stretta? Non capisci che il suo destino è sempre quello di distruggere?"
Egon osserva l’uomo con occhio critico, come un medico con un paziente: "Tu semplicemente non vuoi accettare che sia arrivato il mio turno di amarla."
L’uomo stringe il cuscino tra i denti, poi urla, come preda di una crisi. "NO NO NO NO! Non è questo! Io l’amo ancora, sì, l’amerò sempre! Ma non è per questo che ti dico queste cose! Io voglio solo che la mia esperienza possa servire a qualcuno, che quello che ho perso io non sia stato gettato invano!"
"Tu non hai saputo amarla... non hai saputo condividere qualcosa con lei, non hai saputo costruire quel qualcosa con lei... adesso tocca a me tentare. Tocca a me provare a renderla felice."
L’uomo si abbandona a quelle parole. Sospira. Un sorriso gli increspa il volto per alcuni secondi, come se stia ricordando un luogo a lui familiare che gli porta serenità. "Lei cercava sempre la felicità...", dice ad un tratto.
Egon non capisce al momento cosa sta dicendo. "Cosa?"
"La felicità... lei la cercava sempre. Era sempre alla ricerca di quella felicità che non trovava nella gente che la circondava... non la trovava dentro di me, non l’ha trovata dentro quelli che mi hanno preceduto. Però non ha mai smesso di cercarla, anche se sapeva benissimo che ogni passo che faceva in questo mondo voleva dire portare via qualcosa a qualcuno."
Egon è geloso di sentire l’uomo che parla di Magritte. È una cosa strana, non si è mai sentito così... eppure ecco una vampata di gelosia salirgli dallo stomaco. Non deve parlare di lei... Magritte appartiene solo a lui. Nessuno gliela porterà via. No.
Per tutta la vita è scappato via, si è nascosto... si è lasciato dietro decine di letti sfatti, decine di notti passate con ragazze conosciute quella sera stessa, e poi scappare, silenzioso come un’ombra, quando lei dorme ancora, senza lasciare un biglietto, senza svegliarla, stando bene attento a sparire per sempre. E da cosa è scappato? Da lei? No... da se stesso. È sempre scappato perché ricercava un rifugio abbastanza piccolo, una dimora abbastanza lontana e nascosta da poterlo ospitare fino a quando il sapore delle sue labbra fosse sparito dalla sua bocca, fino a quando l’odore della sua pelle fosse svanito dalle sue narici, fino a quando l’eco dei suoi sospiri fosse sparita dai suoi pensieri. Fino a quel momento nascosto... Poi ecco che tutto cambia, si accorge che se lui fosse un prato, ci sarebbe qualche fiore che può crescere, che può mettere radici, che può resistere alla forza del vento, magari piegandosi, ma senza che lo stelo si spezzi. Così si rende conto che c’è un qualcuno che valga la pena sognare di notte, che valga la pena non dover abbandonare in un letto sotto le lenzuola che si raffreddano là dove lui era sdraiato fino a cinque minuti prima. Si accorge che c’è qualcuno che vuole abbracciare fino a quando non si è addormentato, qualcuno con cui condividere la vita che sta vivendo, l’aria che sta respirando, la metà dei suoi battiti, il sangue che ha nelle vene, magari bevendolo come vino rosso. Qualcuno con cui vivere diventa come guardare in un microscopio e scoprire decine di cose diverse ogni giorno. O magari ritrovare le stesse cose del giorno prima ma chissà come, vederle diverse. Ma più di tutto, non dover più sentire il bisogno di scappare, non doversi sentire sempre profanato ogni volta che esce dal letto di una ragazza; non dover temere l’ingiungere dell’aurora, non dover rimanere sveglio fino a quando lei è addormentata per essere coperto nella fuga... Non dover mai più nuotare per rimanere a galla... ma poter finalmente abbandonarsi al dolce rollio delle onde che ti cullano... 
"Smettila di parlare di lei... non sai niente di quello che è lei", lo invita d’un tratto Egon con una voce che sembra venire da lontano.
L’uomo non si volta verso di lui, ma smette di sorridere. "Hai già cominciato a cederle qualcosa" afferma dopo un po’ di silenzio l’uomo. 
"Io non le ho ceduto niente" replica Egon.
"Guarda dentro di te... e vedrai che è così... magari non oggi, magari nemmeno domani... né fra una settimana... ma poi comincerai a renderti conto che ti manca qualcosa."
"E cosa dovrebbe mancarmi?"
"Ricordi, desideri, pensieri, sogni... parti di te. Credi sempre che se non li hai non puoi farne a meno... ma guarda me! Guarda me, Egon! Io non ho più di due o tre anni più di te eppure guarda come sono ridotto!"
Il ragazzo lo osserva con negli occhi la certezza che l’uomo non sa più quello che sta dicendo.
"Fermati adesso finché sei in tempo. Vattene. Scappa da lei, o magari uccidila e rendi un favore anche a lei oltre che a te stesso e a tutti noi." L’uomo si mette a sedere ed Egon vede che alcune rughe sul suo volto sembrano sparite.
"Presto diventerà come il gioco d’azzardo... ma lo farai senza rendertene conto. Più l’amerai e più perderai qualcosa di te, cosa ti giocherai la prossima volta che farai l’amore con lei, Egon?"
"Secondo me hai bisogno di uno psichiatra. Magritte è..."
"Magritte è una maledizione, Egon. È la maledizione di chi si innamora di lei, quindi press’a poco di tutto il genere maschile. Amarla vuol dire morire, deperire lentamente, perdere gli anni, il passato... arrivare a non ricordarsi nemmeno quale sia il tuo nome, chi siano stati i tuoi genitori. Trovarti ricolmo solo di quello che è e riguarda lei." L’uomo allarga le braccia: "Guardami. Guarda come sono ridotto: io non ho più vita, non ho più nome, non ho più passato. Ho perso tutto, anche me stesso, anche quel qualcosa che credevo non potessi perdere mai. L’unica cosa che ho è la consapevolezza che la causa di tutto è lei."
Egon appoggia la schiena al muro mentre osserva l’uomo seduto sul letto. Fuori ha ripreso a nevicare, così ad un tratto, senza alcun preavviso. I fiocchi cadono lentamente, in piccoli turbini. I due rimangono per alcuni istanti a squadrarsi vicendevolmente, poi il ragazzo si allontana, lentamente e si dirige verso la porta. Guarda per un istante l’uomo, prima di uscire. I suoi occhi sono puntati in quelli di lui. Si soppesano, come due piatti di una bilancia, poi Egon esce senza dire niente.
Cammina un po’ sotto la neve; dentro è tutto un turbine anche lui, quindi lascia che i piedi guidino e che la mente segua. Quando si trova a casa di Magritte non è sorpreso. Sale le scale, il corrimano gli scivola sotto il palmo cedendo lo strato di polvere... La porta dell’appartamento è aperta, socchiusa. Egon entra, fa pochi passi. In cucina la luce è spenta. In fondo al corridoio, la porta della stanza dove lui e Magritte hanno reso la vita alla farfalla è socchiusa. La luce filtra sotto l’uscio e rimbalza sul pavimento, baluginando. Sotto questa nuova visione, la casa ha un aspetto diverso. La porta della camera da letto, alla sua destra, ha perso molto di quella dolcezza sublime che aveva solo qualche giorno prima. Il camino spento adesso sembra la bocca spalancata di un uomo morto. Lo stesso odore che aleggia in casa non ha più quel dolce calore che lo aveva colpito in un primo momento. Egon chiama Magritte per nome. Lei non risponde. Prende coraggio e si spinge fino alla stanza dalla porta socchiusa. Appena entra la candela si estingue con un soffio, il fumo si alza come un fantasma dallo stoppino. 
E l’oscurità è come un abbraccio, caldo e freddo insieme, agrodolce, un po’ soffocante, ma comunque ben accetto. Per alcuni istanti Egon si gira su se stesso, completamente perduto nell’oscurità opprimente della stanza. A tastoni trova la finestra, la apre, e la luce del lampione irrompe, dilaniando il buio come una lama che squarcia. Il contrasto con il freddo lo fa sobbalzare. La neve che scende lo riporta un po’ a quella realtà che sembra sfuggirgli. Sembra di un colore strano, come se luccichi di tanti piccoli frammenti di diamante che gli svolazzano intorno, entrando a spirare in casa, senza che siano stati invitati. Ed ognuno di quei diamanti ha dentro sé una sua quadricromia, che girando, volteggiando, da moto ad un’espandersi, ad un mescolarsi di sfumature di colore che non ha mai visto prima. Sotto, la strada è deserta, il silenzio della neve che scende è così pesante da arrivare ad impastare anche i pensieri. Così Egon lascia che la neve faccia come se fosse a casa sua, e che entri, che il gelo stenda il suo manto sul pavimento, sui muri, sulla candela, su quel luogo infausto, lascia che il freddo stenda il suo sudario, che si allarghi come un ghiacciaio che crepitando si espande.
Nell’oscurità Egon vede un movimento. È strano, ma è come se il buio cominci a combattere con la luce, lotti per sconfiggere quest’invasione, gettando indietro la neve che spinge per entrare, invadente e maleducata. E al culmine di questa lotta, quando sembra proprio chiaro che la fetta di luce che entra dalla finestra si sta ritirando nel suo riquadro, ormai vinta, Egon sente distintamente lo sfarfallio vicino al suo orecchio. Istintivamente si ritira in un angolo della stanza, impaurito. Poi la vede: è la farfalla che ancora svolazza davanti alla finestra, incurante del freddo che dovrebbe ucciderla e quasi incuriosita dalla sua presenza. Egon si avvicina e la farfalla gli svolazza davanti agli occhi, poi esce dalla finestra, sotto la neve. Preso da un istinto che non capisce, Egon segue la farfalla, si precipita fuori della porta, e giù dalle scale, col rischio di spezzarsi l’osso del collo. Pochi secondi ed è all’aperto, dove la farfalla lo attende. Rimane a fissarla ipnotizzato nel suo stupendo sbattere di ali, su e giù, evitando i fiocchi di neve che scendono vorticando, poi l’insetto si avvia e lui la segue per le strade vuote, senza pensieri, senza coscienza, senza sentire niente: il freddo, il vento, la neve... niente. C’è solo la farfalla che svolazza, che gli fa strada. E lui la segue, senza sapere dove lo sta portando, senza sapere se in realtà tutto questo sta accadendo davvero o se è solo frutto della sua immaginazione. Passano vicino ad un barbone che sta rovistando in un bidone, poi ad un gruppo di bambini che stanno montando un pupazzo di neve. 
Egon segue la farfalla, lentamente, fino a quando si trovano davanti al cancello del Cimitero Monumentale. La pesantezza della costruzione sembra gravare su di lui. Il sole è sceso ma il cancello è ancora aperto. La farfalla svolazza all’interno ed Egon le sgattaiola dietro. I rami degli alberi spogli sembrano adorare gli dei del cielo scuro che vomita neve. Il candore avvolge i mausolei, riflettendo quel poco di luce che rimane ancorata a questa giornata. La farfalla svolazza nell’oscurità crescente, ed Egon rischia di perderla di vista, così si affretta. Si ritrova dietro ad una stele proprio mentre uno dei guardiani passa in bicicletta per il viale alla sua destra, guardandosi intorno alla ricerca di possibili ritardatari. Egon rimane nascosto per alcuni secondi, poi si rimette in cammino. La farfalla lo sta aspettando sotto una magnolia circondata dai fiocchi che vorticano cadendo. Anche lei stessa sembra un fiocco di neve, immobile nel suo svolazzare. Appena si avvicina si rimette in moto. Attraversano insieme il cimitero per tre quarti buoni, fino a quando la farfalla si immerge tra i mausolei e si ferma davanti ad una piccola tomba di famiglia dove una scala scende di pochi gradini. E proprio là, in fondo alla scalinata, seduta su un tappeto di escrementi di topo, di neve e di foglie morte, con la testa appoggiata al muro, c’è  Magritte, che sembra anche un po’ Ofelia. Sta lì ed intesse una corona di rametti, di foglie morte e di fiori finti, canticchiando sottovoce una breve e monotona filastrocca. La visione che ha di lei è terribilmente inquietante: il viso sporco, i capelli unti, e quella luce strana negli occhi. Egon scende le scale, lentamente, e l’abbraccia. Non chiede che cosa è successo, non glielo chiederà mai. Ci sono cose che non possono trovare risposta. Magritte è fredda, la neve l’ha resa gelida.
Egon la stringe, senza dire una parola, sentendo dentro solo un grande silenzio, un silenzio ancora più profondo di quello che può essere espresso dalla mancanza di parole, ancora più lungo di quello della morte, ancora più freddo di quello della neve che scende; un silenzio terribile... come se il mondo fosse divenuto muto tutto ad un tratto, come se la sua anima fosse divenuta sorda. La stringe; la scalda; lo fa con una semplicità che lo sorprende, come se tutto fosse ad un tratto senza senso. E solo quel silenzio, come se fosse ad una festa, e la musica finisce, portandosi via un po’ di quelle emozioni che ha svegliato, e tutti gli invitati, per un solo istante smettono di parlare, e si sente così vuoto, come se urlasse nello spazio infinito, senza aria, senza possibilità di farti sentire da nessuno. Si sente precipitare, immerso in quel silenzio così avvolgente mentre stringe Magritte, e il rumore delle sue lacrime che scendono sul volto è così forte che ha quasi paura che qualcuno possa sentirlo. E così, mentre la stringe si addormenta.
Come dire che il sogno è un viaggio senza biglietto? Nello stesso modo in cui spieghi la crudezza e la spigolosità della realtà confrontata con la rotonda dolcezza color pastello dei sogni. E così Egon si addormenta; ed è come se lasciasse il suo corpo ai piedi di quella scalinata che scende nell’oscurità. Per alcuni istanti gli sembra di poter vedere il suo corpo addormentato che stringe Magritte, e osservarlo gli comunica una strana sensazione: come saper di aver amato qualcuno in un modo così profondo, così viscerale; aver amato quel qualcuno e aver conosciuto quel qualcuno al punto da poter condividere i pensieri, gli sguardi, le emozioni come se si avesse una mente in comune. I ricordi: gli stessi. I piaceri: gli stessi. Le sensazioni: le stesse. Sì, aver amato una persona così in un passato, e trovarsi di fronte a quel se stesso, guardare negli occhi quella persona....
...e non sentire niente. 
Il vuoto assoluto. L’assenza di respiro porta la morte. L’assenza di parole uccide le sensazioni. E la risposta a quel qualcosa che gli è sempre sfuggito ad un tratto è lì. Il perché sua madre vive ancora nella convinzione che suo padre sia vivo e vegeto, il perché un uomo può rendersi capace di scagliarsi con la propria auto contro ad un palo per trovare la morte a causa dell’amore che prova per una donna. Sì. La risposta è quella... la risposta è che se non ci sono parole con cui descrivere le proprie emozioni, loro non hanno nutrimento... e così tutto muore. Così puoi cominciare a scavare una fossa dentro di te, dove seppellire la tua vita, dimenticare l’ubicazione della tomba e continuare a vivere lo stesso... senza però avere quel qualcosa. Per sua madre il qualcosa era suo marito. Per quell’uomo il qualcosa era l’amore che provava per  Magritte. Così Egon è convinto di questa cosa, mentre osserva il suo corpo... e memore di quella convinzione si sente 
sfrecciare via... lontano. Passa sopra il cimitero, via dalla città... alla velocità del suono vede sfrecciare sotto di sé per alcuni istanti un prato fiorito, poi delle montagne, così vicine che può quasi toccarne i picchi innevati. Poi passa attraverso una nuvola, senza sentire freddo, senza sentire l’aria che contrasta il corpo. Velocissimo... fino a quando scende di nuovo, rasente al filo dell’acqua di un grande mare. Qui splende il sole di un giorno che deve ancora venire. I raggi disegnano tante scaglie di riflessi di luce sulle onde. Un gruppo di pesci salta fuori dall’acqua e si immerge nuovamente al suo passaggio, quasi a salutarlo, ma è anche troppo veloce per riuscire a coglierli veramente, è solo una piccola sensazione, un deja-vu. Poi in lontananza vede delle torri di fattura bizantina, cadute in un tempo così lontano ma ancora in piedi. E così si ferma, rallenta e si ritrova a vagare tra i bastioni di questa costruzione in rovina. Con alcune travi marce qualcuno ha acceso un fuoco in quello che dovrebbe essere uno dei cortili interni. Egon si ferma ed osserva le fiamme che danzano... poi vede una figura che esce dall’oscurità di un angolo. Anche se i capelli sono corti, la riconosce subito: è Magritte, vestita di stracci. Si siede a terra ed osserva il fuoco, tenendosi le ginocchia con le braccia candide. Il vestito che indossa è di altri tempi. La donna si volta verso di lui e sorride prima di scoppiare a piangere. In quella il cielo si fa plumbeo e una pioggia torrenziale soffoca le fiamme e infradicia Magritte. La ragazza non si mette al riparo, ma lascia che le lacrime le vengano lavate via dall’acqua che le piomba addosso. Egon fa per avvicinarsi a lei, ma si sente risucchiare nuovamente in un altro luogo. Il viaggio questa volta è più violento, più rapido, con la coda dell’occhio scorge scariche elettriche bluastre, ma appena si gira sono sparite e non può che coglierle con la mente.
Quando tutto si ferma vede il sole che tramonta, immenso, caldo. Un deserto di sabbia si stende fino ad un lontano orizzonte, ma la sfera di fuoco non tocca la linea così lontana perché tre immense piramidi ne nascondo la vista. E poco lontano, la sfinge. Ma qualcosa è diversa da come se la ricorda dalle foto e i filmati: il volto sfigurato dai colpi di cannone è intatto, e i colori del volto sono quelli di una donna bellissima, truccata da regina. E le stesse piramidi... non sono di roccia, ma ricoperte di lastre di basalto. Egon rimane ad osservare quelle costruzioni fino a quando non vede una figura che corre nel deserto, alzando nubi di polvere. Indossa solo una gonna, il petto è nudo. I capelli sono acconciati e tenuti insieme da una spilla d’oro a forma di scarabeo. Gli occhi truccati si fissano su di lui per alcuni istanti. Magritte sorride, poi le lacrime le scendono e si portano dietro il trucco. In quel momento il sole raggiunge un punto di incrocio tra le piramidi, un raggio sfiora la punta della più grossa e allunga la sua ombra fino alla donna, che cade in ginocchio e affonda le mani nella polvere. Poi ecco che ancora le nubi coprono il cielo in un attimo e la pioggia scroscia anche nel deserto.
Egon viene risucchiato via nuovamente, lontano, con sempre più violenza. Lontano dal miracolo di quella pioggia, lontano da  Magritte, lontano da quell’epoca. Il viaggio è ancora più breve e questa volta scorge davvero delle scariche elettriche, come se passasse all’interno di una turbolenza tra due strati di nubi di livide. La bellezza e lo stupore di quel viaggio sono completamente sparite, sostituite adesso da sola angoscia... quando il viaggio finisce questa volta è come un frenare di colpo. È notte. Una città oscura, dove ombre si muovono allungate dalle fiamme dei lampioni. Là... in alto, svetta una torre con un orologio. Corvi neri volteggiano come avvoltoi sopra una costruzione al centro della città dove alcuni corpi impiccati sono ancora appesi ai suoi spalti. Una figura sgattaiola nella notte, come un topo in trappola, e dietro di lei, una massa oscura che si muove tra i vicoli, armata di intenzioni di morte. Egon osserva la scena da terza persona, lontano, ma per un solo istante, mentre la figura passa sotto la luce pallida di un lampione ad olio, vede il risplendere degli occhi di Magritte su quel volto scavato. Di nuovo una Magritte fuggitiva, che si deve sempre guardare alle spalle. Poi, proprio appena dopo che la sua ombra è sparita in un vicolo, ecco la massa di gente con fiaccole e rastrelli che le danno la caccia. Nei loro occhi risplende una luce, un fuoco di malvagità che lo raggela. Magritte si dilegua nella notte, scivolando tra le tenebre che la ingoiano proprio mentre il cielo comincia a vomitare nuovamente pioggia. Ed Egon si sente di nuovo risucchiare... ma questa volta il suo viaggio si svolge all’indietro, senza poter vedere altro che paesaggi e macchie di colore che sfrecciano ai lati. Entro un battito di ciglia apre gli occhi ed è al cimitero, abbracciato a Magritte. Lei lo sta osservando, sveglia. I suoi occhi cercano qualcosa in quelli di lui.
"Attraverso i secoli", dice lei dopo alcuni secondi.
Egon la osserva e non dice niente. Può solo stringerla un po’ di più perché teme che debba scappare di nuovo.

6.

"L’eternità non ha alcun vuoto... è solo un ciclo. Un ciclo delle cose", afferma Magritte.
"Non capisco", replica Egon.
La donna alza il volto al cielo. Sono saliti dalle scale e adesso lei è seduta ai piedi di un contorto acero. Lui la osserva immobile, in piedi: fa fatica a rimanere ancorato alla realtà, dopo il viaggio che ha passato. La notte è silenziosa e buia nel cimitero. "Vedi... è come se il tempo fosse un longplay che gira e noi non siamo altro che i solchi. A volte capita che qualche solco faccia saltare l’intero disco. Io sono uno di quei solchi."
"Che cosa sei, Magritte?"
"Sono una Banshee, Egon. Sono una leggenda che per uno scherzo terribile... vive e che non può far altro che fuggire maledicendo chiunque si innamora di me." Magritte afferra una foglia morta e la rigira tra le mani, tenendola per lo stelo. 
La osserva senza vederla, quasi colma di una tristezza senza fine.
Il ragazzo si alza in piedi, la fissa. "Come puoi dire una cosa del genere?"
Magritte ride, lentamente. "Egon, sono sopravvissuta ai secoli, alle generazioni, alle civiltà, seducendo chiunque mi veda, scappando sempre da ogni luogo, rifugiandomi ovunque mi fosse possibile andare. Sono costretta all’eterna solitudine."
"Quindi sono maledetto anche io?"
Magritte posa gli occhi in quelli di lui. "Sì." Solo per alcuni istanti lei rimane ancora con quella foglia in mano, poi si prende in mano il viso e scoppia a piangere. Egon la osserva colmo di costernazione. "Mi dispiace, Egon... vorrei poter amare, vorrei poter dare invece di prendere... ma non posso. Se solo potessi stare lontana da tutto ciò che è vita, se solo potessi smettere di dover girovagare come un fantasma, se non fossi costretta sempre a scappare..."
"Ma tu non mi stai rubando niente, Magritte...", cerca di affermare con decisione. Due fiocchi di neve gli entrano negli occhi e li fanno lacrimare dal freddo.
"Lo credi tu, Egon. Ti ho già rubato tante cose invece... solo che non te ne accorgi... non puoi accorgertene. Nel momento stesso in cui le perdi è come se non le avessi mai avute", singhiozza Magritte.
"Allora... tutto ciò che quell’uomo mi ha detto..." Fa una pausa poi riprende. Deve ingoiare un grumo di saliva: "...è vero... tu... tu...", balbetta Egon, ma non finisce la frase.
"Io porto sventura, Egon", gli viene incontro lei. "Mi nutro delle vite, dei ricordi, dei sentimenti delle altre persone. 
Questa è la mia maledizione: maledire chi mi sta vicino e vivere per sempre da sola."
"Ma ci deve essere un modo... per... per spezzare questa maledizione", cerca di convincersi lui.
Magritte scuote la testa: "Egon, questo non è un film... o una bella favola. Io non so perché è così... non so quando sono nata... non me lo ricordo... non so perché tutti quelli che amo debbano perdere tutto pur di stare con me... non so chi sono,  Egon. Magritte è un nome che mi sono scelta io qualche anno fa... ma ho avuto tanti nomi, tante forme, tanti visi..."
"Ma io sento che questa volta sarà diverso... la farfalla... abbiamo reso vita a quella farfalla. Mi hai detto che finché essa vivrà allora ci sarà un futuro tra noi... Noi non la faremo morire. Noi la salveremo ogni volta che starà per morire..."
"Egon..." sospira lei tentando di interrompere il fiume di convinzioni.
Lui non vuole ascoltarla... ma continua: "... noi la resusciteremo, se dovrà essere coltiverò i fiori per il suo mantenimento o viaggeremo per inseguire il caldo, così che non dovrà mai soffrire... Ucciderò ogni suo nemico, spazzerò via i ragni da questa terra, renderò ogni luogo il suo habitat... non avrà bisogno nemmeno di..."
"Egon, una farfalla vive un giorno solo", lo interrompe lei. "Vive per deporre le uova... vive nel sacrificio della sua stessa vita." La voce di Magritte si fa dolce, un po’ querula. "Te l’ho detto... è il ciclo delle cose, è così che deve essere, è così che sarà sempre. Pensavo anche io di potermi svegliare da questo sogno, aprire gli occhi e dire: è finito tutto... ma purtroppo è sempre un nuovo inizio, ogni giorno, ogni alba..."
Egon indietreggia scotendo la testa... sentendo il dolore dietro agli occhi che preme. "No... Magritte... no... non è possibile... noi la resusciteremo di nuovo. Quella farfalla è nostra, ci appartiene, lo hai detto tu stessa..."
"Egon, hai già perso abbastanza. Non ricordi nemmeno dove abiti, come si chiama tua madre, non ricordi nemmeno di avere una vita... quando abbiamo resuscitato la farfalla era per farti capire che saresti riuscito a vivere senza di me... hai reso vita a quell’essere vivente e potevi rendere vita a te stesso quando io te l’avrei portata via. Saresti riuscito a scappare." 
Fa una pausa, poi riprende: "Noi saremo sempre, Egon... nell’oasi dei momenti bellissimi che abbiamo passato insieme..."
Il ragazzo ci pensa... pensa a sua madre... ma ad un tratto si accorge che ha ragione lei. Là dove c’era il ricordo di sua madre, della consapevolezza stessa di cosa vuol dire avere una madre, adesso non c’è più niente. E suo padre, la sua casa, l’albero di Natale, e l’ospedale psichiatrico, e la scuola, e il cimitero... l’unico ricordo è quell’abbraccio davanti alla salma di suo padre. L’abbraccio di quella donna quando era bambino. Il resto è un nulla, un qualcosa che non c’è mai stato, un immagine mentale che si può creare quando qualcuno ti racconta qualcosa. Le decine di sorrisi, di pensieri, di sentimenti, di emozioni che ha provato fino a quel momento ad un tratto sono sparite, come se la farfalla se le sia portate tutte via... o come se realmente non ci siano mai state, ma lui si è sempre convinto che siano là, ma non si è mai preso la briga di dare una sbirciatina per accertarsi che in realtà quei ricordi, quelle emozioni, quei sentimenti, tutte le fondamenta della sua vita... in realtà non esistono affatto... e che nessuno li ha portati via... Semplicemente viviamo nel ricordo, nel ricordo dell’istante passato, e nell’attesa di quello che ci aspetta in quello successivo, e che crollo di montagne è, se ad un tratto avviene qualcosa che ti toglie il pavimento della tua sicurezza sotto i piedi. Questo vuol dire essere solo, isolato: quando ti portano via tutto quanto, i motivi stessi della tua meraviglia guardando il mondo. E poi fa anche troppo male se a portarteli via è la persona che ami, o peggio ancora, se a portarti via tutto è il tuo stesso tutto. Un macabro gioco di parole: il tuo tutto ti porta via quello che credevi fosse il tutto. Ma non puoi nemmeno morire, perché lei è il tuo battito cardiaco, perché lei è il tuo respiro, perché lei è l’incarnazione di tutto ciò che anche tu sei: la tua carne, il tuo sangue, i tuoi occhi. 
Quindi raccontami Cantore Notturno, dell’alba che precede e segue i tramonti, della mia vita senza lei, di quello che sarà di me. Della miseria del sognare se non posso sognare di lei, del vuoto dei miei pensieri, ora che non posso più pensare di lei; della brevità dei secondi ora che non dovrò più contare gli istanti che mi dividono da lei; raccontami della ricerca dei miei occhi verso i suoi, che mai più li troveranno; raccontami come farò ad assaporare un’altra bocca, un’altra pelle, un’altra vita, ora che lei me l’ha portata via.
Cantami questa canzone Cantore Notturno, e io ti seguirò.
E non puoi chiudere gli occhi e sperare che tutto sparisca, perché non è una visione. Magritte è l’eternità; Magritte è il rincorrersi delle lancette; Magritte è il tempus fugit; Magritte è la fuggitiva per antonomasia, cacciata da ogni luogo perché porta la verità della vita, porta la verità dell’amore: se vuoi qualcosa di eterno devi barattarlo con qualcosa che valga lo stesso. Come quella volta che stava guidando per una strada di montagna e un cane gli aveva attraversato la strada di colpo. Sbandò ma lo evitò. Si fermò e scese. Il cane lo stava osservando, con un po’ di senso di colpa negli occhi. Egon vomitò a terra, al lato della strada, colmo di spavento. Poi ripartì. Arrivò a destinazione, e poco importa adesso quale fosse.
Ma quando tornò indietro per quella strada, vide che il cane era là, steso al lato della strada, il petto si alzava e si abbassava lentamente. Egon si fermò, e vide che era stato investito. Da qualcun altro.
Ed è proprio così: non puoi tirare sempre a sorte per la tua vita... per il tuo esistere, prima o poi, o magari anche subito, qualcosa va storto e ti giochi qualcosa. Lui si è giocato tutto in un istante, incontrando una donna, innamorandosi di lei... 
Ma cosa importa alla fine? Non c’è differenza... è la stessa identica cosa.
"Credi che siamo per sempre, Egon?", domanda Magritte con un filo di voce mentre giocherella con quella dannata foglia, seduta sotto quell’acero, in quel cimitero, poi lei lo fissa e i suoi occhi gli dicono tante cose, ma soprattutto gli dicono di quell’abbraccio in quel cimitero al funerale di suo padre... 
Così, a quelle parole, a quello sguardo, Egon si rende conto che non può restare... scappa. Fugge tra le tombe, scartando i mausolei, lasciandosi dietro Magritte, la maledizione, lasciandosi dietro il puzzo di foglie morte, i sogni, le preghiere... lasciandosi dietro il passato, il sacrificio della sua vita per ottenere qualcosa che, comunque, non potrà avere mai. Arriva al cancello principale del cimitero, si arrampica strappandosi i vestiti e scavalca davanti agli sguardi attoniti di due ragazzi che si stanno baciando, seduti in macchina, nel parcheggio antistante. Corre, sentendo il freddo nelle ossa, sotto la pelle, nelle vene, come schegge di ghiaccio che l’accoltellano. Corre senza una meta, cercando di ricordarsi dove abita, o dove abitava, ma le vie sono tutte uguali, come se si trovasse in una città che non ha mai visto prima. I volti delle persone che incrocia sono straniti. Davanti ad un locale si scontra con un uomo che tiene abbracciate due ragazze ridendo come un 
idiota. Gli precipita addosso come un treno. Cadono insieme, Egon accenna una scusa mentre si rialza, ma questo, ripresosi dallo scontro, lo afferra per la camicia e lo sbatte al muro, riempiendolo di pugni ed insulti. I colpi lo stordiscono, ed Egon cade a terra, sanguinante, coprendosi il viso con le braccia. L’uomo continua a pestarlo per un tempo indefinito, fino a quando intervengono altre persone che lo fermano, qualcuno urla, molte facce si fermano ad osservarlo. Alza il viso e vede tanti occhi, tante mani, e sopra il cielo di notte, con le stelle quasi invisibili. Qualcuno gli chiede come sta, lo aiuta ad alzarsi, grida di chiamare un’ambulanza. Ma Egon sfugge alla presa e riprende a correre, con gli occhi gonfi, il sangue che gli inzacchera i vestiti, barcollando. Nessuno lo ferma, nessuno lo insegue. Tutti rimangono attoniti ad osservare dalla loro piccola isola questa persona che si allontana. Non sa dove si trova, non sa dove è diretto. Sa solo che scappa via... alla ricerca di un posto dove affogare. La gente che cammina per la strada lo evita, si scansa di lato, osservandolo con occhi disgustati, fino a quando non diventa praticamente invisibile... come se fosse un pezzo di cornicione, un mattone in un muro, una molecola di un tombino. Corre per le strade, e a volte si sente un salmone che lotta contro la corrente di gente che cammina e che gli viene addosso, cercando di fermarlo, opponendosi alla sua fuga. Ma Egon arranca, un paio di volte cade, si rialza e continua a correre. Nessuno lo vede più ormai. È senza una vita, è senza un passato, quindi non ha più neanche un ruolo nella società. È come se non esistesse più. Ad ogni istante che passa la sua vita sparisce, come le ossa di qualcuno 
morto tanto tempo fa che si sgretolano dimenticate...
Quando il fiato gli viene a mancare si ritrova all’ospedale. Gira intorno alla costruzione finché non trova un’entrata posteriore. L’uscita di emergenza è aperta, due infermieri si stanno fumando una sigaretta e non rischiano di rimanere chiusi fuori, quindi hanno lasciato la porta socchiusa. Egon sgattaiola all’interno, loro non badano assolutamente a lui. L’interno è buio, c’è un odore strano. Una rampa di scale alla sua sinistra non ha indicazioni. Sale. Si ritrova al primo piano. Sale di nuovo. Passa a fianco alla guardia notturna, che non lo vede assolutamente, dato che ha gli occhi posati su una rivista di moda. I suoi passi per il corridoio sono pesanti, ha gli occhi offuscati, il naso tumefatto, un dolore sordo dappertutto. 
Arriva alla porta che ormai conosce anche troppo bene; la spalanca ed entra. La camera è immersa nel silenzio dell’oscurità. Un bagliore bluastro filtra dalla finestra illuminando un rettangolo di pavimento.
Egon si ferma un secondo sulla soglia per prendere fiato, poi fa due passi avanti. L’uomo è nel letto, immobile. Sta dormendo. Egon si avvicina lentamente, come se stesse per assistere a qualcosa di meraviglioso e affascinante. Quando è a poco più di un metro sente la sua voce che risuona nella stanza. Non sta dormendo.
"Sei tornato per darmi ragione, Egon?"
Il ragazzo sobbalza a quel suono improvviso. "Perché..."
"Perché che cosa? Perché non mi hai dato retta?"
Egon non dice niente e l’uomo lo interpreta come un sì.
"Perché è nella natura umana essere miscredenti. È nella natura umana cercare ciò che ti rende felice, e Magritte è quella felicità. Anche la droga dà felicità, ma ti uccide, e tutti lo sanno... ma decine di ragazzi si infilano l’ago in vena ogni giorno." L’uomo fa una pausa, poi riprende. "Non puoi scappare, credimi. Te lo dico perché so che cosa provi... devi fare una scelta Egon: o la tua vita o Magritte. E se scegli Magritte ti ridurrai come me: ad un certo punto tornerai sulla tua decisione."
"Non... posso... scegliere...", balbetta Egon con il labbro gonfio.
"Oh sì che puoi. Puoi ricominciare da capo; puoi ricostruirti una vita, amando Magritte come ami un bel ricordo. Oppure puoi tentare di toglierti la vita. 
"Nel corso delle epoche, Egon... tutti quelli che l’hanno conosciuta hanno dovuto prendere una decisione come la tua e come la mia", afferma l’uomo in un fruscio di coperte.
"Guardami... GUARDAMIIIIIIIIII!", urla ad un tratto Egon allargando le braccia. Appoggia la schiena al muro e si lascia scivolare a terra. Ha le mani sporche di sangue. Del suo sangue. Gli sembra di essere Ponzio Pilato. 
L’uomo rimane in silenzio per un po’. Fuori della porta gli zoccoli di un’infermiera scivolano sul pavimento di linoleum producendo un rumore leggermente sferzante. 
"Egon... Magritte è qualcosa che non possiamo capire. Magari è un demone e non lo sa, quindi non si rende conto di avere l’aspetto che ha... o magari è una donna che è stata maledetta... o magari è un angelo caduto... non lo so. Quello che so è che porta via tutto, ti ruba la vita... il passato... e quindi ruba ciò che sei tu."
"Io non posso scegliere", asserisce Egon con un filo di voce.
"Dicendo così hai già scelto", è la risposta dell’uomo sdraiato a letto. 
Egon scatta, preso da un raptus. Si alza e si getta su di lui. Afferra l’uomo per il bavero del pigiama lasciandogli segni di sangue, e lo scuote violentemente, poi comincia a prenderlo a pugni. L’uomo non risponde a quell’attacco, ma rimane inerte, come uno straccio, mentre Egon lo scuote e gli urla in faccia che sta dicendo un sacco di balle, che lui non ha bisogno di scegliere, perché Magritte è la sua vita... Continua a malmenarlo fino a quando non si rende conto che il viso dell’uomo non è più quello che conosceva... non è più un uomo sulla quarantina... ma un ragazzo della sua età. Rimane ad osservarlo pieno di stupore, come se si fosse sbagliato, come se avesse sbagliato stanza; vittima di un equivoco... un po’ come aprire la porta di casa e scoprire che non è casa tua... Così, di colpo, lo lascia andare, come fosse affetto da una malattia contagiosa. 
L’uomo non dice niente. Egon si allontana dal letto guardandosi le mani sporche di sangue, poi lo osserva: sembra caduto in un’apatia profonda che sfiora la catatonia. Non ha parole con cui descrivere anche a se stesso quello che gli sta succedendo. 
L’unica cosa che può fare è scappare.
L’uomo ha il viso rivolto alla finestra. Tossisce una volta, poi dice: "Tu... glielo hai mai detto che l’ami?"
Egon non risponde... si allontana, dapprima a ritroso, poi uscendo dalla stanza e lasciando la porta spalancata. A metà del corridoio si mette a correre.

7.

Non c’è niente di più terribile del non sapere dove andare. Le porte chiuse da ogni lato e la sola via è quella dritta. Egon si ritrova in quella che deve essere la sua casa; evidentemente non ha perso completamente la sua vita... almeno non ancora. 
Sale le scale, apre la porta con il mazzo di chiavi che ha in tasca e lo scontro con il suo passato è così forte che il contrasto lo fa barcollare. È via da due giorni eppure gli sembra che siano passati anni. Si sente un po’ come ubriaco, cerca di essere silenzioso per non far sì che qualcuno lo senta... Così si aggira per l’appartamento, cauto, come attendendo qualcosa che non arriva, ma nello stesso tempo osservando le fotografie incorniciate e appese ai muri, la carta da parati; annusando l’odore che ha sempre caratterizzato casa sua, udendo i rumori tipici: il frigorifero, l’orologio in camera che ticchetta rumorosamente. Quando entra in stanza da letto, vede che sua madre sta dormendo nel matrimoniale, girata su un lato. I vestiti ben ordinati sulla sedia e il pacchetto di Philip Morris sul comodino, insieme allo zippo: niente è diverso. 
Non riesce a stare senza; sua madre non si addormenta se non ha le sigarette sul comodino per il mattino seguente. La sua camera è come l’ha lasciata: i poster alle pareti, il calendario di Max, pochi cd ma che ascolta spesso, la piccola libreria dove ha quei titoli che non ha mai nemmeno finito di leggere. Si ferma sempre quando mancano una ventina di pagine... i finali gli fanno paura.
In cucina è apparecchiato per due: sua madre evidentemente non ha perso le abitudini. C’è un biglietto sul tavolo che di sicuro è rivolto a lui, che non ha lasciato detto niente, e ad un tratto la convinzione che tutto in realtà sia solo un errore, che la sua vita è ancora lì come lui l’ha lasciata lo assale come una coperta fredda. Sorride lentamente, apre il frigorifero e vede i cibi gettati dentro alla rinfusa, come è sempre stato. Prende una bottiglia d’acqua, e beve anche se non ha sete. Lo fa solo perché deve convincersi che sia vera questa illusione del ritorno a casa. Ad un tratto è così convinto che si mette a ridere... è stato tutto un sogno, una serie di pensieri... una piccola deviazione dolorosa dal suo sentiero quotidiano. Va in bagno e si fa una pisciatina; osserva la sua immagine allo specchio e trova che deve disinfettarsi, ma nel complesso è sempre lui... tornerà al lavoro entro poco e si dimenticherà tutto questo sogno strano... un po’ bizzarro...
Così Egon esce dal bagno e va in camera sua, passando attraverso la cucina. Vede di nuovo quel biglietto sul tavolo e lo prende in mano, sorridente, curioso di sapere che cosa dice. Apre il foglietto piegato in due e legge quelle poche parole scritte a penna con la calligrafia barcollante di sua madre. 
Smette di sorridere.
Posa il biglietto e prende l’alcol che c’è in bagno. Sua madre ne fa sempre la scorta perché lo usa per pulire. È una piccola tanica di plastica da tre litri. Svita il tappo e subito l’odore lo assale, intenso, portandogli alla mente tante cose... che sfuggono via subito.
Con la tanica in mano gira per la casa, inzaccherando con cura le tende, il suo letto, il letto dove sua madre sta dormendo pacifica... sua madre stessa. Poi afferra lo zippo di sua madre dal comodino e appicca il fuoco. Le fiamme ardono subito, correndo sull’alcol e arrampicandosi sulle tende. In poco più di un minuto la casa è un inferno. Sua madre non si sveglia nemmeno. Non urlerà. 
Egon esce di casa. Il calore e il fumo lo fanno star male, ma prima di andarsene prende il biglietto di sua madre. Scende le scale di fretta e in pochi secondi è fuori. Le finestre di casa sua sono chiuse, ma il fumo nero esce lo stesso dagli stipiti, e si confonde con l’oscurità, sembra una mano scura che si tende verso il cielo, come un aiuto. 
Si volta e si allontana proprio mentre qualcuno comincia a gridare. Non è sua madre.

8.

La vita è uno stato mentale. Si può essere vivi, ma vivi davvero, senza necessariamente respirare. Basta nascere nell’immaginario di qualcuno e sopravvivere in quello, e si avrebbe vita di sicuro migliore di quella che in realtà si deve sopportare stando a camminare in giro per il mondo, soppesando domande e risposte e avendone più delle prime che delle seconde. Oppure si può essere morti, e morti per davvero, camminando e respirando proprio come fanno i vivi e ponendosi sempre un sacco di perché la mattina e la sera, in un ciclo continuo. O magari si può rimanere nell’ombra, mano nella mano con qualcuno, e beffarsi della vita che hai scelto di non vivere, che hai barattato in cambio di qualcosa che credevi bello, stupendo e che poi si è rivelato niente di più che un bisogno... una necessità... quindi la tua vita stessa. 
Una persona? Può darsi.
"Ho bruciato la mia casa. Ho bruciato il mio letto. Ho bruciato mia madre", confessa Egon davanti a Magritte, che, seduta sotto quell’acero, con i piedi affondati nella neve che ha ripreso a scendere, pare una statua che abbia preso a muoversi. 
Gli sembra quasi di elencare una lista di crimini, ma senza pentirsene, solo affermarli. Una massa di cose che non hanno molto significato per lui, se non parole.
Lei alza lo sguardo su di lui. "Credi in quello che hai fatto?"
"Ha differenza ormai?", chiede lui di rimando.
"No... non credo che l’abbia" replica lei, poi torna ad osservare la foglia.
C’è del silenzio tra i due... più pesante che mai, come la muraglia cinese... tutta sulle spalle. Poi Egon segue lo sguardo di Magritte e così capisce che non sta osservando la foglia, bensì qualcosa a terra, a un paio di metri da lei. Fa un passo avanti per metterla a fuoco e vede che è la farfalla, che sta sbattendo le ali, in agonia nella neve. La studia per alcuni secondi: un fiocco di neve le si è posato sulla schiena. E per lei deve avere lo stesso peso che per lui ha quel silenzio.
"Aveva lasciato un biglietto, sai?", esclama mentre la osserva morire.
"Ah sì?"
"Sì... e aveva apparecchiato per due, ma ha mangiato da sola."
Magritte torna a guardarlo, giocherellando con la foglia, mentre la neve fiocca come una cascata di corn flakes. "E che cosa ti voleva lasciar detto?", chiede lei.
Egon si alza e sempre guardando la farfalla risponde: "Non era per me. Era per mio padre."
Poi schiaccia la farfalla sotto il piede.


Danny Glick: 24 ottobre 2000 - 21 marzo 2001
e-mail : danny.glick@libero.it