autore: DANNY GLICK 
 email
: danny.glick@libero.it
 :: IO SONO IL TUO NIENTE ::
La cenere della sigaretta sembra attaccata con un filo. Il ragazzo mastica la cicca che ha in bocca con una lentezza esasperante, come se gustarla così lentamente e a fondo possa dargli più soddisfazione in questa vita. Il soffitto sopra di lui perde via via d'interesse. 
L'unico pensiero che gli volteggia in testa, è se gli sarebbe possibile soffocarsi con la sua stessa lingua. La musica aleggia nell'aria, e nei pochi momenti in cui smette di suonare, sembra già che manchi qualche cosa.
Il letto su cui è disteso è freddo e duro come una lapide di marmo, con le lenzuola scomposte come sudario personale. Fa un altro tiro da quella dannata sigaretta, e, quando il fumo si dirada, rimane a fissare, intontito, la cenere che cade lentamente, come sabbia che scivola via dalle mani. Sul muro, davanti al letto su cui il ragazzo è disteso, c'è una singola scritta. Le lettere in stampatello sono tracciate con mano disinvolta. Dicono: IO SONO IL TUO NIENTE.
Il ragazzo si alza, come un vampiro che si sveglia al mattino. Barcolla fino allo stereo e lo spegne. La musica smiagola, mentre si perde nel nulla dei pensieri. Si avvicina alla finestra: passi cauti e misurati, come se stesse danzando. Nell'appartamento a fianco qualcuno sta dando un'allegra festa di canti e risa. La musica che stanno ascoltando dall'altra parte della parete, riempie la stanza di qua, dando la vaga e fuggevole sensazione che lo stereo non sia stato spento bene.
Una voce di ragazza lo chiama dalla stanza a fianco, ma lui non risponde. Dalla vista del mondo che ha da quello spiraglio su cui si affaccia, il ragazzo si sente disgustato. Il cielo è carico di cenere.
Questa mattina è morta una ragazza; accade tutti i giorni in questo mondo crudele. Quando se n'è parlato tra amici, come un fatto d'attualità per cui risentirsi per cinque minuti in cui non si ha altro da fare, è venuta fuori una domanda che è scivolata sui visi di tutti e che si è fermata sul suo: "Sai dove abita la ragazza che è morta?"
Il silenzio come risposta. Un silenzio granitico. La birreria in cui si trovano sembra zittirsi per stare ad ascoltare il rumore che fanno i fiori quando sbocciano. Poco dopo il ragazzo si alza, ha un sorriso forzato sul volto e non pensa nemmeno di nasconderlo. È abituato a queste cose. Gli occhi degli altri partecipanti a quel ritrovo si posano su di lui, non più distratti dal resto del mondo, ora che hanno trovato qualcosa di meglio su cui focalizzare l'attenzione.
"Dove abitava", rettifica il ragazzo, deciso a puntualizzare qualcosa di cui è certo. Rimane in silenzio per un attimo, poi aggiunge: "Adesso abita al cimitero. Non ha più né citofono né campanello, ma non è necessario telefonare se vuoi andare a trovarla."
La piccola compagnia di gente si azzittisce più ancora di quanto è già. Anche quel piccolo individuo che solitamente spara battute a raffica, si ritrova con poche cose da dire. Il ragazzo sorride e se ne va. Ha un bel pezzo di strada da farsi a piedi. All'uscita del locale, mentre la porta si chiude da sé alle sue spalle, il freddo gli graffia il volto. Ha paura di piangere perché teme che il gelo possa indurirgli le lacrime come brillanti che un tempo avrebbe regalato a qualcuno che amava. Rimane così, a contemplare il mondo che gli sta davanti e che sta andando a dormire. Magari per non risvegliarsi mai più.
Alle sue spalle la porta del locale si apre. Lo avverte dal rumore. Si gira ad affrontare la sua nemesi. Una ragazza dai capelli rossi, che è assorta nell'atto di indossare un cappotto nero, gli punta gli occhi addosso con tante cose da dire, ma poche che le rimangano in testa quel tanto che basti per poterle esprimere.
"Che ti è successo?", chiede infine, magari dopo un lungo conflitto di botte e risposte interiore. La sua voce è flebile. Il ragazzo ha un po' d'amnesia: non si ricorda il suo nome né quello della ragazza. Per un attimo d'estasi si dimentica anche dove si trova, in quale vita sta barcollando, in quale mondo vaga come uno spirito perduto... è solo un attimo, passa subito.
"Niente", sente rispondere dalla sua bocca. Ormai è come se fosse su un altro piano d'esistenza. Non è più qui, dove il mondo non esiste e dove la vita non è altro che una gran partita a scacchi. Una partita in cui parti già svantaggiato. Una partita in cui i pezzi sacrificabili ti sono già stati mangiati, ma che è inevitabile continuare a giocare; forse perché sai che non esistono giochi, e che tutto è una scommessa. Scommetti sempre qualcosa cui tieni: e quando mostri i palmi verso l'alto, cioè quando arriva il momento in cui rigiri le tasche e ti accorgi di non aver più niente da perdere, allora, solo allora, realizzi che hai sempre qualcosa da scommettere, anche quando credi di essere al verde.
"Tutti sono rimasti... allibiti. Mi hanno chiesto che cosa ti ha preso", chiede la ragazza dai capelli rossi. Ha l'aria di una cantante, nei modi di vestire, nei modi di parlare, di agire. E magari, chissà che non sia proprio così.
Il ragazzo si volta; le dà le spalle. È così facile voltarsi, a volte: basta un semplice gesto e tutto ti è estraneo. "Tornerò a casa a piedi", afferma il ragazzo, e un attimo dopo è già in movimento, le spalle ingobbite e un incantesimo sul cuore. Sente gli occhi della ragazza seguirlo nella luce dei lampioni. La provinciale che passa di lì è illuminata solo per pochi tratti. La strada per arrivare a casa è lunga; saranno quattro chilometri buoni. 
Ma non ha grande importanza: se ne percorrono centinaia di milioni in una vita.
Adesso il ragazzo è alla finestra. Il party continua imperterrito e sempre più carico di grida festose, nell'appartamento adiacente. La sigaretta perde sapore sulla lingua. Un sospiro e un vaffanculo: tutto quello che gli viene da dire. La voce di ragazza lo chiama ancora per nome dalla stanza a fianco, ma lui non ha voglia di rispondere. Si vuole crogiolare ancora un po', ha voglia di pensare ancora per qualche attimo, se pensare è quello che sta facendo. Dentro di sé si sente come se fosse in casa d'estranei; ogni cosa che usa deve rimetterla sempre nel posto in cui l'ha trovata originariamente, in modo che, quando il proprietario ritornerà, non si accorgerà che qualcosa è stato toccato. 
Si mette le mani in tasca. È un gesto strafottente. Una volta una professoressa si è arrabbiata parecchio per quella sua abitudine di farle sprofondare fino a quando non siano visibili solamente gli avambracci. Sorride debolmente a quel ricordo lontano e apre la finestra che dà sulla strada sottostante. Ha una voglia improvvisa di correre come un pazzo, di correre ed urlare come mai ha osato fare. Ha un buttato via tante di quelle cose, tanti di quei pensieri, di quei momenti, sentimenti... solo e in ogni caso attimi che sfuggono come lo scorrere delle lancette di un orologio che tiene il tempo universale. Secondi, pensieri: comunque niente che possa mai tornare. Amore. Ha sprecato anche l'amore. Amore e tempo. Ha buttato via anche molto tempo. Anni interi a rincorrere la propria ombra, come un cane che s'insegue la coda. Li ha sprecati con una facilità sconcertante, con la stessa semplicità con cui si sarebbe versato un bicchiere di brandy allungato con un po' di coca cola. Li ha gettati con la stessa sicurezza e abilità, dovuta all'esperienza, con cui si sarebbe pulito il culo. Non guardi mai quando lo fai, ma conosci perfettamente il punto 
esatto. Ha buttato via tante di quelle cose, e adesso queste sono ancora lì, nel cesso, perché non ha voglia di tirare lo sciacquone, o forse perché si è dimenticato come si fa.
Una volta era in macchina, in un parcheggio: era sera e le auto passavano sfrecciando, spiando la targa di quello davanti con i fari accesi. Era una notte limpida e l'unica cosa che la offuscava era l'odore leggermente aromatico dello spinello che stava fumando. Una ragazza di cui non conosceva nemmeno il nome, era seduta sul sedile del passeggero. Non si ricorda nemmeno adesso com'era finito in quella situazione. Le uniche tre cose che gli sono rimaste in mente sono: la sensazione di aver guidato senza sapere che cosa stava veramente facendo; quella della ragazza che rideva come un'oca a fianco a lui, e la voce calda e accogliente di Ligabue sullo stereo.
In macchina. Tira il freno a mano e spegne l'auto, che sospira nel silenzio e comincia subito a ticchettare, come se ci fosse una bomba a tempo con la sveglia mal funzionante incastrata sotto il cofano. Mentre il motore si raffredda, il ragazzo tira fuori le cartine e la marijuana, e in poco più di un minuto lo spino è già acceso e il fumo disegna spirali biancastre nell'aria immobile dell'abitacolo. La ragazza abbassa il sedile e si stende mentre ciancia con le parole, parlando della scuola, di sua madre, del sesso, di politica, del diavolo, del sesso, dell'amore, del tempo, del sesso e di quanto ha - voglia - di - fuggire - da - questa - realtà - di - cacca - anche - se - non - ha - il - coraggio - di - farlo - perché - non - si - sente - ancora - pronta - per - il - gran - passo - e - poi - da - sola - non - lo - farebbe - mai. Il ragazzo l'ascolta senza ascoltare. La testa è leggera e se spiccica qualche parola lo fa solo quando è l'istinto che lo consiglia. La ragazza sembra soddisfatta; non molto, anzi, almeno fino a quando non gli ha preso la faccia tra le mani e l'ha baciato. La vita è frivola. La vita è un cazzo di guaio.
Prima ancora che si renda conto che è davvero successo, la ragazza gli è a cavalcioni. Il ragazzo ha la sensazione fugace del suo pene che entra ed esce dalla vagina di lei, ma la mente non riesce a tenere dietro alla carne, questa volta. I gemiti della ragazza sono ripetuti, ipnotici, quasi nostalgici. La cassetta di Ligabue finisce e si gira automaticamente nell'autoradio.
Ho perso le parole, eppure ce le avevo qua un attimo fa. Volevo dire cose, cose che sai, che ti dovevo, che ti dovrei. Ho perso le parole. Può darsi che abbia perso solo le mie bugie. 
Si son nascoste bene, o forse, semplicemente, non eran mie.
Il mondo gli sfugge da sotto le dita insaponate, la ragazza geme un po' di più sopra di lui, poi gli cade addosso, sospirando. I capelli gli sfiorano il petto. Se è venuto non è sicuro di essersene accorto. La ragazza rimane lì per alcuni minuti; gli occhi sono chiusi. Il ragazzo resta a guardarla. È steso sul sedile abbassato: non si ricorda nemmeno di averlo portato in posizione orizzontale. D'un tratto la nausea lo afferra allo stomaco. Scansa malamente la ragazza di lato e apre la portiera appena in tempo per non sboccare in macchina. Il suono liquido che fa il suo vomito in comunione con la terra non riesce a coprire i versi di disgusto misti a divertimento che la ragazza alle sue spalle non riesce a trattenere. Lacrime così calde gli incrinano il bel volto; gli inondano gli occhi. Non c'è più nessun cazzo di motivo per rimanere al mondo. La sua vita assomiglia ogni attimo di più ad una novella del Decameron di Boccaccio: un piccolo affresco inutile e confuso in cui spiccano scene di sesso, tragedia, lacrime, risa. Un miscuglio bastardo di tutte queste cose. Gli viene voglia di prendere a schiaffi quella ragazza, schiaffeggiarla finché non smette di ridere e comincia a piangere anche lei. Prima ancora che se ne renda conto le è già addosso: ringhia, piange e la prede a sberle. Poca soddisfazione, però: la ragazza non smette di ridere nemmeno quando ha la faccia gonfia. Vorrebbe vederla piangere: piangere come fa lui. Lui che non ama farlo, ma che gli riesce così facile, così spesso. E il mondo invece continua a ridergli in faccia, senza però sorridere mai.
Una serata senza allegria. Rimane sdraiato sul sedile. Ligabue continua a parlare e cantare di parole che se ne vanno. La vita è un'allucinazione dovuta all'alcol e agli stupefacenti: prega solo di non morire di cirrosi o d'overdose. Non si rende nemmeno conto che la ragazza che gli è a fianco gliel'ha data vinta, e che sta piangendo. Le accarezza una guancia, come un cucciolo malato, e lei lo scaccia, tentando di gettarsi contro la portiera, perda di una crisi isterica. Non è pentito, ma vuole ristabilire un contatto. Si sente profanato, toccato troppo in fondo. L'abbraccia stretta, e lei sembra volerlo perdonare, sembra voler tentare di capire il suo gesto. Forse ci riesce davvero, se s'impegna, e magari Ligabue le è d'aiuto. Alcuni minuti dopo, lei è ancora lì, con la mano tesa alla ricerca di un'elemosina di cui non è in possesso tutto il mondo. Lui le dà un po' di calore, e qualche tenero bacio in qualche luogo segreto altrettanto morbido; lei si accontenta.
Scende dall'auto. Si allaccia i pantaloni e guarda il cielo. La macchina, vista da fuori, assomiglia ad un piccolo mausoleo; una bara formato Cadillac. Il ragazzo alza il volto al cielo e urla. Urla forte, senza parole. O forse urla davvero quello che ha sempre desiderato urlare. Vaffanculo. Semplice e conciso. Senza bisogno di rigiri di parole e di locuzioni schifose. Se vaffanculo fosse un sentimento, sarebbe il modo migliore per esprimere come si sente e quello che prova.
Gli hanno sempre insegnato a non scrivere sui muri. Acuto, come insegnamento, vero? Eppure, in questo momento, scriverebbe qualcosa su un muro; magari un semplice sfogo, o come vero e 
proprio avvertimento per generazioni a venire: Se scopare è come vivere, me lo taglio seduta stante. Esattamente così. Nella vita ci vuole tatto, e ci vuole anche coraggio. Di questo in 
abbondanza. Tatto quando ci si chiede come e cosa ci stiamo a fare qui, e coraggio per cercare una risposta. E magari anche trovarla, senza mai stancarsi di tentare di spiegare. 
Spiegare l'inutilità dei pensieri, delle parole, dello scavare in se stessi; ogni giorno più in profondità, sapendo che il terreno del nostro cuore è duro come la roccia e che le unghie prima o poi sanguinano, ma continuando a scavare, forsennatamente. Scavare come un cane rabbioso che cerca una via d'uscita sotterranea dal recinto in cui è rinchiuso. Scavare senza accorgersi che il nostro cuore è profondo, ma che più scavi e più ti si richiude sopra il capo, come se ti gettassi a candela nell'acqua. Scavare e sprofondare; poi accucciarsi nell'incavo della mano della terra e lasciare che anche l'eternità si dimentichi di te.
Gli hanno anche insegnato che la vita è azione e reazione: scoreggi e qualcuno s'intossica; vivi e qualcuno cerca sempre di dirti come lo devi fare. Azione e reazione. È tutto così facile e logico! Come quando sei seduto sul cesso e ti accorgi che ti manca la carta igienica; come farsi una doccia con l'acqua così fredda che quasi non rendi le palle al creatore.
Il ragazzo urla e si avvicina al muro di cemento armato che gli sta davanti, grigio come il cielo invernale. Graffia e morde, deciso a scavarsi una galleria fino al centro del mondo, solo per vedere com'è fatto, solo per sapere se è caldo e inospitale o se c'è posto per lui. 
O magari lo farebbe solo per vedere se l'inferno è un posto davvero così brutto per viverci. 
Arrivare là, stringere la mano a Satana e metterci una buona parola.
Il ragazzo si ricorda solo adesso che in macchina ha una bomboletta spray di colore nero. Si catapulta all'interno e dell'abitacolo e strappa la chiavi dal quadro, poi apre il bagagliaio, la vede e l'afferra, come un'arma. La ragazza lo guarda spaventata. Il ragazzo si getta sul muro, colto dalla folgorazione improvvisa dell'artista. Caratteri cubitali compaiono dalle sue mani, dalla sua mente. Sono parole che conosce, parole che lo sovrastano, spesse come la solitudine, taglienti come l'ago di una siringa: IO SONO IL TUO NIENTE. Si gira con gli occhi carichi di lacrime. Adesso si sente meglio. Chissà come, sapeva, e sa, che tutto è lì, in quelle cinque parole. La ragazza è scesa dall'auto. Non ride più. Si tortura le mani con le mani. Guarda quel muro. Osserva quella scritta e fissa nello stesso tempo chi l'ha fatta. Il ragazzo gli sta davanti, come aspettando un giudizio che non arriva.
"Mi porti a casa, per favore?", chiede lei con un filo di voce. Sembra temere un suo scatto d'ira. Il ragazzo sorride. Si sente intenerito. Sarebbe così difficile amarla?
E il ragazzo è ancora lì, sulla finestra. La voce di ragazza lo chiama dall'altra stanza. 
Tutto torna nitido nella sua mente. Quella che la chiama è la donna sposata che si è innamorata di lui. Ma sa che non è più capace di amare: né quelle più giovani né quelle meno. La donna lo chiama di nuovo. La sua voce è più vicina, adesso. Il ragazzo si gira e la vede nel riquadro della porta, la luce alle sue spalle lampeggia un po': il neon è da cambiare. È solo un'ombra, surreale con quella luce intermittente e così imprevedibile. 
Sente che sul suo volto scuro c'è un interrogativo che pretende risposta.
Il ragazzo ride un poco. Questo dolore, proprio qui, alla bocca dello stomaco, che non lo lascia andare. È da un pezzo che non lo sentiva più, ma sapeva che era lì, che non se n'era mai andato. Credeva di essersi liberato di lui? Stolto! Stava solo dormendo, come un virus che rimane in incubazione prima di aprirsi e sbaragliare ogni difesa. E forse si è risvegliato, o forse sonnecchia ancora; questo mostro chiamato depressione... amico per la pelle di quell'altro mostro chiamato solitudine. Non ci si può liberare di loro. 
Sonnecchiano e aspettano, ma non muoiono mai.
"Vieni?", chiede la donna. Sembra Monnalisa in negativo. Il ragazzo rimane a guardarla per alcuni secondi, poi si volta verso la finestra. Per alcuni lunghi momenti resta ad assaporare l'aria della notte che gli si riversa contro il viso. Lunghi momenti di pace interiore. Lunghi momenti in cui i demoni smettono di dare battaglia agli angeli. Sorride. 
Poi mette un piede sul davanzale. Basta battaglie, basta arrabbiature, basta amori fasulli e senza nome e senza significato. Quando anche l'altro piede è sul davanzale, la donna dietro 
di lui gli chiede con un urlo che cosa sta facendo, come se non l'avesse capito da sola. Il ragazzo gira sui tacchi e dà le spalle al vuoto, ai cinque o sei piani che lo dividono dalla strada laggiù, così lontana ma così vicina. È venuto il momento di urlare vaffanculo? È venuto il momento di lasciare che si fotta il mondo e che si fotta fino in fondo? Il ragazzo barcolla. Ci sarà un volo d'angelo che non sarà un cazzo male prima del nulla. Potrebbe trovare anche il tempo per una barzelletta, mentre cade. Se vuole provare è meglio che ci pensi adesso, perché non ci sarà anche il tempo per ridere.
"Non lo fare... no... no...", sente dire dalla donna. Sta urlando.
Per alcuni attimi il ragazzo considera l'idea di rinunciare, anche se non sa se ci sarà un altro giro di ruota, se ci sarà un'altra occasione per piegare il braccio ad angolo, tenuto con la mano. Rimane lì, con i piedi sul davanzale, le mani aperte a sostenersi sugli stipiti della finestra aperta. Il vento gli scompiglia i capelli. Fa freddo a quest'altitudine. Se solo lasciasse le mani, probabilmente cadrebbe indietro, senza vedere e provare nessuna emozione particolare. Solo l'ebbrezza del volo, dell'aria che contrasta il corpo e la pregustazione del momento dell'impatto.
La festa nell'appartamento a fianco è arrivata al suo culmine. Il ragazzo non si sorprenderebbe se le urla cominciassero a sostituirsi alle risa. Davanti agli occhi gli passano i visi di tanta gente che è venuta e che se n'è andata, così, senza lasciare il segno... dare un messaggio grazie al quale tutti si ricorderanno di te, e che non siano solamente falsi sorrisi e false memorie. Un po' come quella volta che è andato in giro per chilometri con il culo fuori dal finestrino della sua auto, mentre un amico ubriaco marcio guidava contro mano a tutta velocità. Qualcuno si ricorderà di lui e dei suoi forsennati baciatemi il culo? Sì. Forse sì. Anzi, ne è certo.
La Monnalisa al negativo è vicina alla finestra. Tende una mano, come una psicologa che tenta di convincere il matto a non gettarsi nel vuoto. Ma lui non è matto. Nossignore. Il desiderio di morte è una forma di follia esattamente come sputare è una libertà d'espressione. Il ragazzo sta piangendo lacrime di sangue: gli rendono il volto a strisce. La mano della donna sta per afferrarlo, per trattenerlo, per stringerlo a sé, a quella vita di cui lui vuole fare a meno. Il viso di lei entra nella pozza di luce della luna e lui vede la maturità sul suo volto scarno tramutarsi in vecchiaia in poco più di un istante. Il tempo non si può trattenere, per quanto tu stringa, ti scivola via.
Scivola via. Vola via. Il viso della donna è solo un ovale che si allontana, che rimane lassù. Infine non c'era tempo per una barzelletta, pensa con un sorriso. Nemmeno per una risata. Non c'è mai tempo per quello che ti può divertire. Proprio no.

Danny Glick: 31 dicembre 1998
e-mail : danny.glick@libero.it