autore: DANNY GLICK 
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 :: PORTAMI VIA ::
<Ricordi salgono dal passato, l'ombra del futuro offuscata. Qualcosa mi stringe la testa, sarò condotto nell'oscurità. Un altro tempo, un altro posto. Un altro sorriso su un'altra faccia. Quando mi vedrai fluttuare vicino a te, sentirai che tutto il mio amore è dentro te.
Per favore, portami via, portami via lontano.>

Iron Maiden: "Purgatory"



La bellezza di quel mare è davvero incomparabile. I gabbiani si lasciano trasportare dal vento del crepuscolo in lenti alti e bassi, gridando la loro opposizione. Il Ragazzo guarda il sole che tramonta e poi guarda il mare. La ragazza che gli è a fianco sembra perduta in un universo tutto suo. Quando parla, la sua voce è così flebile che per alcuni istanti sembra che sia stato il vento a sussurrare.
"Credi che l'amore vero possa durare per sempre?"
Il Ragazzo sorride impercettibilmente. Nei suoi occhi si riflettono le decine di colori del tramonto.
"E qual è il vero amore?", chiede di rimando. Poi si butta. Le sue mani si agitano nel vuoto per pochi istanti prima che sparisca a candela nell'acqua, decine di metri più in basso.
La vita è una concatenazione di coincidenze. Gli uomini possono paragonarsi a barchette trasportate dalle correnti impetuose del destino. Quando il treno si ferma sferragliando, in un giorno qualsiasi in una stazione qualsiasi, sembra un messaggero di sfortune e promesse mai mantenute. Gli abbracci si fanno più stretti, i baci schioccano e gli occhi si fanno languidi. Il Ragazzo prende in mano il viso della ragazza, come un Humphrey Bogart un po' troppo inesperto. Nella sua mente balenano centinaia di pensieri e parole. Lei evita il suo sguardo, come se non avesse il coraggio di essere ciò che il mondo vuole che lei sia. Ed è proprio così che, inevitabilmente, molta gente si ritrova a vivere: facendo ciò che ci si aspetta da loro, anche a costo di ritrovarsi a picchiare i pugni contro il muro.
Lui continua a guardarla. Per il mondo loro due non esistono, ma per loro stessi il mondo non è altro che ciò che si cela dentro i loro cuori. Qualcosa scritto con una penna indelebile, intinta nell'arcobaleno. Ad un tratto il Ragazzo alza la testa, come se la sua attenzione sia stata attirata da un richiamo lontano, portato dalla brezza. È il momento di andare, di lasciarsi dietro tutto e cercare di non piangere troppo. Lei lo sa, forse anche meglio di lui, e forse è per questo che scoppia in lacrime, abbracciandolo stretto a sé, fino a quando i loro cuori non battono uno a fianco all'altro, come fratelli siamesi.
Non ci sono più parole da dite, o forse un ladro burlone le ha rubate tutte quante e ha lasciato il deserto. Restano solo le menzogne.
In una camera di un motel, in una città distrutta, aleggia un'aria cattiva. Un odore che non piace a nessuno. Un gatto deve essere rimasto intrappolato nelle prese d'aria inseguendo un topo, e adesso nessuno si prende la briga di cercarlo, mentre sta marcendo in triste solitudine da qualche parte.
"Come ti chiami?", chiede il Soldato, quando, entrato in stanza, trova la ragazza albanese stesa sul letto, pronta per un amplesso non richiesto.
"Zelka", è la risposta.
Il Soldato slaccia il cinturone, poi va in bagno. La ragazza l'attende nell'altra stanza mentre lui si sfila gli anfibi sporchi di quella terra intinta nel sangue degli innocenti.
Lo specchio gli rimanda l'immagine del suo volto un po' scavato: questa mattina non si è fatto la barba e sta già crescendo, dando al volto un'ombra violacea che non gli piace molto. Sul petto gli ciondola un proiettile appeso ad una catenella. Non è esploso. Se lo è attaccato a quella catenella quando l'ha trovato, un giorno, a terra, caduto probabilmente a qualcuno. È incredibile pensare a quanto si può essere sbadati, a volte. Perdere una pallottola, per Dio!
Così il Soldato rimane a fissare quello specchio, il proiettile e quel volto dai capelli corti, rasati. Gli occhi sono colmi di pensieri. "Zelka", sussurra tra sé e sé. La porta del bagno è rimasta aperta e la vede là, stesa sul letto, completamente nuda. I capelli lunghi color biondo cenere sono rovinati per troppe decolorazioni. Evidentemente li aveva troppo scuri per prostituirsi con gli italiani, e il suo protettore l'ha obbligata a scolorirli. Si tiene su con i gomiti, con le ginocchia poggiate l'una contro l'altra, mentre guarda quello che sta facendo lui; il sesso è aperto. Quanti anni avrà? Diciassette? Sedici?
Il Soldato si sciacqua la faccia, poi torna in camera. È stanco. Questa mattina presto i cecchini gli hanno dato da fare. Sono gli ultimi due mesi di campo, e comincia a temere che non tornerà a casa in piedi, bensì sdraiato, con un cartellino legato all'alluce sinistro.
Cosi, il Soldato non sa nemmeno se vuole desiderare davvero quella ragazza, oppure stendersi sul letto per morire per qualche ora, prima di farsi sparare di nuovo addosso. L'unica cosa di cui è certo è che se la ragazza tornerà dal padrone del motel a mani vuote probabilmente la prossima volta che la troverà in stanza ad aspettarlo avrà qualche livido in più.
È strano, però. Partito volontario per una missione di pace, non appena è sceso dalla nave sulla costa albanese, i proiettili miravano direttamente alla sua testa. Pace? E dov'è la pace?, si chiede spesso. Specialmente quando vede quelle navi arrivare dai Mar Egeo, cariche di armi con cui finanziare la pace.
In lontananza un'esplosione di una mina antiuomo gli fa scattare la mano alla cintola, pronto per estrarre la pistola. Quando si rende conto del suo gesto, si ritrova a sorridere, mestamente. Zelka lo sta guardando. I suoi occhi sono privi di alcun sentimento. È abituata più di lui a queste manifestazioni di pace. Probabilmente, per lei lui è solamente uno dei tanti soldati italiani che sono passati al suo capezzale e che è stata costretta a sollazzare per poche lek. E chi non ha soldi albanesi può pagare con lire italiane. Tanto è lo stesso. Oh sì. Non sono questi i problemi.
Il Soldato si passa una mano tra i capelli, ricordando forse quella vecchia chioma fluente che è stato costretto a tagliare, e rimpiangendola un po'. "Senti...", tenta di dire, ma non si ricorda più il suo nome.
"Zelka", lo aiuta lei.
"Zelka. Già. Io sono veramente onorato. ma..."
"Non hai soldi?" Parla molto bene l'Italiano. Chissà da chi ha imparato?
"No... no... è che sono stanchissimo. Sono venuto qui solo per cercare di farmi una dormita seria. Il campo non è il massimo della tranquillità, e mi hanno offerto di dormire in questo motel se avessi pagato in lire italiane, così..."
Lei aggrotta le sopracciglia, poi apre un po' le gambe, mostrandogli ciò che ha da offrire.
Sembra non capire il perché del suo rifiuto davanti a tutto ciò. I muscoli della vagina guizzano per un istante, e il Soldato sente quella fiamma dentro di lui accendersi, ma la stanchezza è davvero troppa.
Ride nervosamente. È l'unico del suo campo che sembra provare un po' d'umanità nei confronti degli indigeni di questo paese. Conosce commilitoni che sarebbero saltati addosso a quella ragazzina e poi se ne sarebbero andati senza pagare.
"Senti... io ti do lo stesso i soldi che dovresti prendere." Il Soldato scava nella tasca e ne tira fuori qualche banconota stropicciata che le tende senza guardare. "Però, ti prego... lasciami dormire. Per te è lo stesso? Puoi stare qui, se vuoi... se puoi. Non mi darai fastidio."
Lei lo guarda ancora, senza capire il suo gesto, poi si alza, afferra i soldi e si riveste.
Pesca l'abito dalla sedia, se lo allaccia, lo sistema, poi infila le scarpe ed esce, senza biancheria e senza una parola.
Il Soldato la guarda andarsene, poi si sveste e si infila a letto, sospirando. Pochi secondi dopo sta già dormendo. L'ultimo pensiero prima che il sonno gli invada i pensieri va alla sua ragazza, al momento in cui era alla stazione per partire per questa missione di pace. Il motivo? Una famiglia un po' più disgraziata delle altre e il salario promesso sono gli unici due fini che, uniti, gli hanno dato la spinta a mettersi uno zaino in spalla, asciugare le lacrime sui visi di chi lo avrebbe aspettato a casa, alzare una mano a salutare gli amici, innalzare una preghierina per la sua vita e partire per un paese che non lo vuole e che glielo dimostra sparandogli addosso non appena sceso sulla terraferma.
Ogni tanto, quando è di guardia, la notte, gli capita di guardare l'orizzonte lontano e vedere quei lampi e quelle esplosioni che rendono la notte un eterno, macabro, capodanno di morte. Poi capitano i momenti in cui le pallottole e la partita a scacchi con la vita regalano un istante di respiro, e allora, con il cuore colmo di speranza e di preoccupazione, il Soldato pensa alla sua casa: così vicina, ma con un mare che la distanzia sempre di più, ogni giorno, come se l'Italia stesse lentamente allontanandosi: uno stivale alla deriva nel Mediterraneo. E forse sono proprio quelli i momenti in cui sente di più la solitudine: quando imbraccia un fall e rimane da solo, immobile, nelle tenebre, aspettando qualcosa che non vorrebbe mai veder arrivare.
A volte si sente come un soldato della prima guerra mondiale, con un proiettile appeso al collo come macabro portafortuna. I suoi commilitoni mandano messaggi a casa tramite GSM, mentre lui, che non si può permettere un telefono cellulare, si deve accontentare di affidare le sue lettere, scritte a pugno, ad un messaggero dalla pelle mulatta che sorride sempre e che non parla neanche una parola di italiano. Tutte le volte che lo vede arrivare al campo, con quel motorino sgangherato che ha più cigolii che viti e bulloni, il Soldato sorride. Gli dà il mazzo di lettere da spedire e lo vede ripartire, dondolando a destra e sinistra, quasi indeciso se cadere o restare in piedi. Quando li ha, gli dà anche qualche lek, così lo vede andar via felice.
E poi il Soldato si mette ad aspettare che arrivino le risposte. Dalla sua donna, dai suoi genitori, dai suoi fratelli. Leggere qualche riga lo fa sentir meno straniero; sentire l'odore di cui la carta e la busta sono impregnati gli permette il lusso di chiudere gli occhi per alcuni istanti e ripensare alla sua casa, a ciò che potrebbe non rivedere mai più, se solo un giorno mettesse il piede nel posto sbagliato.
Il Soldato si risveglia dal suo torpore. La stanza è immota. La notte è stranamente silenziosa. Qualcuno sta bussando alla porta. Lui si alza, si veste e va ad aprire. Le gambe sono indolenzite, ma lui non ci fa caso: ha passato tempi peggiori. Apre l'uscio di uno spiraglio e per alcuni istanti teme che una pistola gli venga puntata alla fronte e che ne venga schiacciato il grilletto. E sarebbe la fine.
La porta si schiude: Zelka è davanti a lui. Il volto è sfigurato da un grosso livido che le ha gonfiato un occhio. La ragazza si sforza di sorridere, mentre il Soldato la guarda lievemente stupito. Ci sono poche cose da dire, ma non crede che lei abbia voglia di parlare. Lui apre la porta e la fa entrare.
Tutto ad un tratto, mentre la vede lì, in piedi in mezzo alla stanza, il Soldato stringe i pugni e i denti, quasi lacrimando dalla rabbia. Un po' per ciò che gli sta davanti, un po' per il fatto che lui sia lì per combattere qualche cosa che non c'è, per salvare un popolo di uomini invisibili dalla loro stessa autodistruzione.
I giorni passano veloci, sono solo croci posizionate una vicina all'altra, un po' come quella canzone dei Litfiba: "Prima Guardia". Una canzone che significa tanto per i soldati di leva: uomo col fucile, il nemico è la tua naia. Ed è proprio così che si sente il soldato. Non riesce a smettere di pensare a quella ragazza: Zelka, a quando se la trova davanti, pestata per non aver assolto il proprio dovere.
Non è più tornato in quel posto. Ma in un giorno qualsiasi, mentre ha un pomeriggio libero e si aggira da solo per le strade di Tirana, si ritrova d'un tratto davanti a quel motel a basso costo e, come un automa, vi entra. I pochi istanti che seguono sembrano soltanto un movente per se stesso, per le sue azioni. Un alibi con cui deve far fronte al suo destino.
Si sente vittima di un ipnotista anonimo che l'ha reso schiavo di situazioni che non riesce a capire e accettare. All'interno si respira aria viziata. Si dirige barcollando verso il padrone, che lo guarda storto da dietro un banco marcio e tarlato. La testa è leggera mentre chiede di Zelka. L'uomo sorride con i suoi denti marci e gli chiede di attendere. Scompare in una porta e lo lascia da solo, in quella stanza. In lontananza si sentono degli spari, ma sono diventati un'abitudine. Qualcuno sta urlando a piena voce in lingua slava. La zona calda di Tirana è solo a qualche chilometro da lì.
Mentre attende, il Soldato continua a ripensare alla sua ragazza, a casa; ripensa al fatto che non risponde più alle sue lettere e si chiede che cosa starà facendo in questo momento e perché non gli scrive. Ripensa al momento della separazione, quando il locomotore si ferma stridendo, come un vecchio pieno di acciacchi. La sua ragazza lo sta abbracciando. È un treno che parte e che non tornerà indietro molto presto. Alcuni di quelli che salgono potrebbero non scendere più, ma rimanere a bordo fino al capolinea. La sua ragazza sta piangendo, disperata, stingendoselo al petto come una madre con il proprio bambino. Non vuole vederlo partire. Non vuole sapere, un giorno, che lui è morto dall'altra parte dell'Adriatico, e che di lui le rimarrà solo una fotografia sorridente, su una tomba gelida, battuta dal vento. Il Soldato ripensa a quei momenti, e proprio in quell'istante vede arrivare Zelka, sorridente. I lividi sono quasi scomparsi dal volto. Nei suoi occhi guizza un riconoscimento. Si avvicina e lo prende per mano. Salgono in camera assieme. La ragazza apre una porta e lo conduce all'interno. Non sa nemmeno lui che cosa sta facendo. Si mettono sul tetto, e lei si spoglia. Sta aspettando solamente che lui faccia ciò che deve fare, se non è troppo stanco questa volta. Così verrà pagata e non subirà violenze gratuite.
Sono sul letto, insieme, e il Soldato si slaccia il cinturone. Lo posa a terra, vicino al comodino. Gli hanno consigliato di non fidarsi degli albanesi e di stare attento alla propria pistola. Perderla vuol dire finire davanti al tribunale militare. La tiene d'occhio mentre guarda Zelka, che si è stesa sul letto, in attesa.
Lui la guarda, e forse è proprio in quel momento che si sente di voler fare qualcosa. Da solo. Davvero. Senza far finta, senza chiudere gli occhi e tentare di salvare un popolo giocando a mosca cieca. Nella vita che ha vissuto fino a quel momento, ciò che vale sono i fatti, non le parole. Forse un tempo gli oratori avevano più credito, ma adesso non più. Il Soldato prende Zelka per mano, e la guarda fino in fondo all'anima. Lei per alcuni istanti non capisce il suo gesto, ma è abituata ad eseguire ogni desiderio senza reagire con domande od opposizioni. Così si siede nuovamente sul bordo del letto, attendendo istruzioni che non arrivano.
"Ti porto via", le dice lui.
"Dove?", chiede lei.
"Lontano. Con me. Ci vieni?"
Lei lo guarda. Per alcuni attimi sembra non voler capire quello che lui le sta dicendo, come quando ricevi un regalo che attendi da tempo immemorabile e, quando te lo trovi tra le mani, non lo accetti perché la speranza non consuma i desideri delle cose che non si possiedono.
Il sorriso le si allarga sul volto. Speranza. "In Italia?", chiede.
Lui le sorride di rimando. Nei suoi occhi comincia a splendere una luce strana. "Ci verresti via con me? In Italia?"
La proposta non ha vie trattative. Lei ci pensa su un po' e poi dice: "Non posso."
"E perché? Non saresti felice?"
"I miei fratelli, i miei genitori, il mio paese." Poche cose ma significative. Bastano come movente per il suo rifiuto? Ormai al Soldato manca poco più di una settimana per il congedo illimitato. Perché non cercare di fare qualcosa per se stessi, per chi gli sta davanti, ora?
"Ma qui tu sei costretta... a questa vita. Qui c'è la guerra... in Italia..."
"In Italia non c'è posto per me", ribatte lei, seria. Non sorride più adesso.
"Non è vero", replica lui, ma sa già di aver mentito anche a se stesso. Non c'è posto per nessuno in Italia. E come lì, in tutti gli altri paesi che vengono definiti liberi. No. Non è il mar Adriatico ciò che divide Zelka dalla libertà. Non è l'embargo che le impedisce di vivere una vita serena, con speranze per il proprio futuro: un marito, dei figli. Non è niente di tutto ciò. Il Soldato ad un tratto capisce e si rende conto di essere uguale a lei, dopo un anno passato a dover camminare a testa bassa per evitare le pallottole dei cecchini appostati sui tetti delle case. Un anno passato a vedere navi che entrano in porto e scaricano armi che finiscono nelle mani di ragazzini sedicenni, i quali non sorridono quando tentano di falciarti con una scarica di fucile mitragliatore mentre sei lì per aiutare il loro paese. La guerra non è la loro, ma la combattono lo stesso. Perché ne sono costretti. Perché dopo un po' la guerra te la porti dentro; nel cuore, nello stomaco, nelle vene. Dopo un po' l'inferno ti ha imbevuto di follia ad tal punto che ovunque andrai, ti ritroverai a passere le notti con un occhio aperto, dormendo vestito con il terrore di doverti alzare di corsa e scappare per salvarti la vita. È questa la verità. La guerra e l'inferno ognuno se li crea a modo proprio, su una propria scala naturale. Ognuno la sua. 
Come le opinioni e come le palle. Sì. Dopo un po' il terrore diventa un'abitudine, e le notti insonni anche. Come una droga, un parassita che ti rimane aggrappato alle viscere e di cui non puoi fare a meno.
"Miei genitori e miei fratelli morti. Mio paese anche. Non c'è posto per me in Italia." Lei scuote la testa, recidiva. Una piccola lacrima le scende sul volto ancora leggermente tumefatto. Così il Soldato capisce ciò che va fatto. La morte correrà sempre con Zelka, ovunque ella andrà. Non c'è posto abbastanza lontano per scappare da noi stessi. Nemmeno l'Italia è così lontana. Forse nemmeno Saturno.
"Scopare, adesso?", chiede Zelka, innocente, sembra che abbia capito che il discorso si è esaurito. Non c'è più niente da dire, da ribattere. Bisogna accettare la verità e la realtà per quello che sono. Anche se spesso e volentieri sono solo badilate in faccia, mentre sorridi, mentre piangi, mentre ti aspetti qualcosa di diverso, di migliore; un po' perché credi che la vita o Dio te lo debbano, e un po' perché credi che sia così che deve andare a finire. Quando poi questo non avviene, o smetti di attendere e ti punti una pistola alla tempia, oppure continui a sperare in un futuro migliore da offrire a te stesso o, se non vi sopravviverai, a chi verrà dopo di te. Troppa gente è morta sperando, però, e il Soldato ne ha vista tanta anche che moriva pregando un Dio sconosciuto, con un nome che nasconde dentro di sé tutti i nomi coniati dall'inizio dei tempi, e con un volto che rispecchia tutti i colori dello spettro. Un Dio che si è dimenticato? Oppure è morto?
Poco dopo si sente uno sparo. Riecheggia in lontananza, come un messaggio che rimbalza a staffetta da una casa all'altra, forse raggiungendo l'altro capo del mondo. Il Soldato esce dalla stanza, camminando piano, chiudendosi la porta alle spalle. Sulle scale gli viene incontro li padrone del motel, che sta urlando qualcosa in albanese. Lui non gli dà retta. Il suo volto è un fiume in cui si alternano decine di sentimenti, ma la paura non c'è più. Presto sarà a casa, e tutto potrà cominciare ad essere un ricordo. Quando è in giro per le strade, la gente gli passa a fianco senza nemmeno vederlo, come fosse un fantasma. Urla stridule si alzano dalla camera del motel. Hanno trovato il corpo di Zelka, probabilmente.
Quella sera un ufficiale fa un controllo delle munizioni in possesso ad ogni soldato, e lui è pulito. La sua pistola è carica. Gira voce che un civile sia morto e che un soldato italiano sia stato visto aggirarsi nel motel dove il cadavere è stato rinvenuto.
Lui ha fortuna. Pochi si rendono conto che non porta più la pallottola appesa al collo, appesa al collo, e chi se ne accorge non gli fa domande. Vige l'omertà in questo mondo.
Così un giorno torna a casa. Lascia quel paese dove la follia corre per le strade urlando e sparando e si ritrova a piangere su un futuro che non conosce, su un passato che sembra non appartenergli più e su un presente con cui, che gli piaccia oppure no, deve fare i conti. A casa riabbraccia sua madre, i suoi fratelli, la sua fidanzata. Hanno ricevuto i soldi che ha guadagnato là, rischiando la vita per qualcuno che non glielo ha chiesto, e sono contenti, soprattutto di rivederlo vivo e tutto intero. Però non è proprio così. No. Il Soldato non è più un soldato. Adesso è il Ragazzo. È tornato ad essere un civile come tutti gli altri, ma con qualcosa che gli manca. Già. Gli manca qualche cosa. Qualcosa che ha lasciato là in Albania, a Tirana, nella camera di un motel.
Il Ragazzo è adesso sulla scogliera, in compagnia della sua ragazza. Tra loro doveva durare per sempre, ma da quando lui è tornato da una missione di pace, lei lo trova diverso. Ha tentato in tutti i modi di capire che cosa c'è che non va, ma lui si è sempre chiuso in un guscio. E adesso che sono lì, a guardare il mare, la ragazza vuole capire che cosa l'ha cambiato così radicalmente da riuscire a distruggere il loro amore e tutto ciò in cui avevano riposto le loro speranze.
Lei lo guarda ancora una volta, quasi che possa riuscire a scrutarlo fino in fondo. Cosa c'è che non riesce a dire? Che cosa c'è che non riesce a capire? Il Ragazzo è a fianco a lei, ma con la mente è in quei motel a Tirana. Zelka è seduta sul bordo del letto sporco di quella camera, ed è nuda. Lui sta estraendo la pistola dalla fondina e gliela sta puntando alla testa. Lei non fa una mossa. Gli pare quasi di sentire ancora il freddo contatto del metallo del calcio nel palmo della mano, il ruvido grilletto che attende solo di essere premuto. Poi il Ragazzo-Soldato vede la sua mano abbassarsi, e la pistola puntare a terra.
Sono pochi istanti, poi Zelka gliela strappa di mano. Gli hanno sempre insegnato a non fidarsi degli albanesi e lui ha fatto male a non ascoltare gli ordini. La vede infilarsi la canna della automatica in bocca e premere il grilletto. C'è la detonazione, l'odore di bruciato, le orecchie che fischiano. Il corpo di lei si accascia sul letto, poi scivola sul pavimento, con un tonfo sordo, privo di vita. Il sangue le zampilla dal naso in lunghi fiotti. Mentre lo sparo che gli ha rintronato le orecchie si perde in eco che rimbalzano tra le mura ancora in piedi.
Il mondo non capirà mai che cosa è l'inferno, finché non l'avrà sentito sfiorargli la pelle con le sue dita gelide, e la ragazza non capirà mai che cosa ha perduto lui nemmeno se glielo dicesse, in preda alla disperazione, scosso dalle lacrime della confessione. Certe cose vanno provate, non basta sentirsele raccontare. Solo quando senti che stai per stringerti la testa fra le mani e desiderare di urlare così forte che anche gli angeli e i demoni ti sentano e smettano di fare ciò che stanno facendo, solo allora puoi capire veramente che cosa si prova: perché la vita e la morte non ti fanno più alcun effetto; diventano solo la testa e la croce di una moneta che fai oscillare nell'aria e che afferri al volo, pronto per un altro giro di ruota. Che succederà oggi? Si vive o si muore?
La ragazza dice poche parole, flebili come ali di farfalla: "credi che l'amore vero possa durare per sempre?"
Il Ragazzo quello non lo sa. Ma l'orrore vero, dentro di lui, certamente non morirà mai. È come un cancro che ti mangia dall'interno, spolpandoti. Presto ti senti come uno scheletro in abiti umani, consumato come una candela. E capisci che non ti è concesso di vivere sempre con il terrore senza arrivare, un giorno, ad un momento in cui cadi a terra, rantolante, con la bava alla bocca. E, inoltre, non puoi rischiare di impazzire sempre, ogni giorno, per poi accorgerti di aver già fatto il passo falso, e di essere diventato folle prima ancora di rendertene conto. Non è umana una cosa del genere. Quando un giorno arrivi ad accorgerti che non hai più lo stimolo di ridere, o di amare qualcuno che ti sta vicino, o di desiderare qualcosa di meglio per te e per chi ti vuole bene, allora quello è il momento in cui, dentro di te, qualcosa ha fatto "crack".
Il Ragazzo sorride impercettibilmente. Ripensa a Zelka, a quello che è successo, e sa che non si libererà mai del suo ricordo. "E qual è il vero amore?", chiede di rimando alla ragazza. Ha la testa leggera, come quando è entrato in quel motel, a Tirana. Anche i sogni parlano di lei, di quel posto maledetto, delle esplosioni, delle bombe, del latrato secco dei fucili, dell'odore di cadaveri arrosto, del ringhio delle mitragliatrici. E si sveglia in un bagno di sudore, sempre, ogni notte. No. Non c'è via d'uscita.
La ragazza non dice niente, e lui, per la seconda volta nella sua vita, sa che cosa deve fare.

Danny Glick: 14/21 maggio 1999
e-mail : danny.glick@libero.it