autore: DANNY GLICK 
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 :: IL RESPIRO DEL SILENZIO ::
Questo è per te, Cloe. Un giorno ti ci porterò, là.

<"Lo sai, una volta questo era proprio un gran paese, e non riesco a capire quello che gli è successo."
"Beh, è che tutti hanno paura, ecco quello che gli è successo, noi non possiamo neanche andare in uno di quegli alberghetti da due soldi. Voglio dire, proprio di quelli da due soldi, capisci? Credono che si vada a scannarli o che cosa. Hanno paura."
"Ma non hanno paura di voi. Hanno paura di quello che voi rappresentate."
"Ma quanto? Per loro noi siamo solo gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli."
"Ah no, quello che voi rappresentate per loro è la libertà."
"Che c'è di male nella libertà? la libertà è tutto!"
"Oh sì è vero, la libertà è tutto, d'accordo, ma parlare di libertà ed essere liberi sono cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti vendono e ti comprano al mercato. E bada, non dire a nessuno che non è libero perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere e massacrare per dimostrare che lo è. Oh certo ti parlano e ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà individuale, ma quando vedono un individuo veramente libero allora hanno paura."
"La paura però non li fa scappare."
"No... ma li rende pericolosi.">

Jack Nicholson e Dennis Hopper: "Easy Rider"



Fa un po’ caldo in quella taverna. Anche perché è estate, e fuori, anche se è sera, ci saranno almeno ventidue gradi. Ma ci sono tante piccole cose che fanno pensare che lì dentro faccia così caldo perché ci si trova su un piccolo ascensore che sta scendendo a fare una sorpresa a Lucifero.
Aaron è seduto su un divano bucato, un mezzo sorriso sulle labbra e un bicchiere con del vino in una mano. Davanti a lui dei ragazzi stanno rollando uno spinello, continuano a ridere sfiorandosi con le fronti. È il tipo di festa che gli piace, che gli va a genio. È il tipo di festa che non è una festa, ma un ritrovo di gente talmente unica al mondo che, non potendo condividere i propri interessi con nessun altro, preferisce condividerli con altri come lui, trovando nell’alcool, nel sesso, nei Led Zeppelin, nella marijuana, nella colonna sonora del Jesus Christ Superstar e nella luce dei lumini, quel po’ d’omosessualità che concede loro il permesso di sbilanciarsi e cadere nella convinzione di poter credere che in realtà tutti loro apprezzano queste cose e che condividano qualcosa di grandioso.
Inutile dire che Aaron, come tutti quanti loro, sa che non è così.
Il divano è dannatamente scomodo. La pelle di cui è ricoperto lo fa un po’ sudare, ma la cosa lo preoccupa in modo abbastanza superficiale. Per lui essere in quel luogo, in quel momento, affondando nella pelle di quel divano equivale ad essere lontano miglia, ma poter osservare lo stesso la scena che gli sta davanti. Per alcuni istanti si crede quasi invisibile, come se fosse divenuto parte del divano. Può osservare senza essere osservato. Una posizione che ha del divino ma che è fine a se stessa. Ad un tratto un ragazzo con la barba e un cappello da cowboy in testa gli si siede a fianco e, sorseggiando un bicchiere di rosso gli sussurra con tono confidenziale: "Bisogna dormire fino alle sei di sera..."
"Come?" si ritrova a chiedere Aaron, perplesso sul fatto che lui l’abbia visto.
"Proprio così", afferma ancora il ragazzo bevendo un sorso di vino dal suo bicchiere di plastica. L’odore amarognolo del suo alito gli fa venire voglia di prenderlo a pugni. "Bisogna imparare a dormire fino alle sei di sera, per prepararsi a passare tutta la notte a far casino e andare a dormire alle sei di mattina. È un ciclo continuo." Con un dito imita il movimento rotatorio del cestello di una lavatrice, o almeno è quello che viene in mente ad Aaron vedendolo. Si alza in piedi, schifato. Nella stanza a fianco, due persone stanno curandosi febbrili bisogni distesi su un materasso nudo. Sono ancora semi vestiti, ma non sembrano troppo preoccupati. Ad un tratto il ragazzo comincia ad inveire contro la ragazza con termini veramente poco fini e la ragazza squadra Aaron con occhi imploranti. Sembra chiedergli di portarla via da tutto quello. Lui, disgustato si allontana. Sale le scale che rampano alla fine di un corridoio simile ad un’anticamera di un sottomarino, ed emerge all’aria aperta, come un archeologo nella valle dei Re.
Fuori l’aria sembra frizzante anche se si appiccica alla pelle come un parassita. Aaron decide di farsi una passeggiata sulla statale buia che passa di lì, scura e silenziosa come un fiumiciattolo fangoso. Ogni tanto qualche coppia di fari appare dall’oscurità e fende il buio come braccia tese ad accoglierlo. Proprio mentre si avvia, vede il ragazzo che stava scopando alla festa apparire dalla stessa porta da cui giunge lui. È vestito di bianco e nell’oscurità risalta in un modo strano. Sembra Lucy Westenra che esce dalla tomba in cui è sepolta e va ad aggirarsi tra i vivi. Lo degna di un solo sguardo, poi si allontana sulla statale. Lui lo rincorre e, dopo averlo raggiunto, gli si affianca senza una parola. Lui non dice niente e insieme camminano al lato della strada per un paio di minuti.
"Sei nuovo di questi ritrovi?", gli chiede il ragazzo spezzando il silenzio. Ha i capelli all’aria, la maglietta appiccicata al petto.
"Sì, ma mi sento già vecchio. Preferisco camminare. Ormai sono abituato al moto", afferma, poi si passa una mano sul viso come per togliersi una maschera. Il ragazzo che gli sta a fianco è più basso di Aaron di almeno dieci centimetri. Ogni tanto si ferma e si sistema meglio la maglietta che indossa. Gli vorrebbe chiedere come mai ha lasciato la ragazza in fretta e furia per raggiungerlo, ma non è sicuro di volerlo sapere davvero. Chissà perché ci sono delle piccole verità che già conosci ma di cui non vuoi avere nessuna conferma. È un po’ come cercare ad ogni costo di credere che non hai crepe dentro, che tutto sia a posto, che quando squilla il telefono, di notte, in casa tua, non sei convinto che qualcuno sia morto e che ti chiamino per avvertirti. Aaron cammina sul dorso del mondo, mentre il ragazzo che ha a fianco comincia a odorare di sesso incompiuto. Una macchina sfreccia alle sue spalle e li illumina di abbaglianti come se fossero animaletti che attraversano una strada la notte. Percorrono un chilometro a piedi, in silenzio. Alla loro sinistra c’è un benzinaio abbandonato, le pompe sono state chiuse da tempo e i serbatoi vuoti sono ormai case per topi sfrattati. Qualche ragazzo smanioso d’arte incompresa ha preso a sassate le vetrine e colorato intere pareti con affreschi di gioventù. Al buio però quei colori sbiadiscono e assomigliano sempre più a nature morte. 
Aaron rallenta il passo; si ferma ed osserva quella costruzione abbandonata. Il ragazzo si siede sul guard-rail davanti all’entrata e comincia a cantare una canzone, mentre l’accompagna con un’armonica a bocca. Lui non conosce la canzone che quel ragazzo sta cantando e suonando, ma la prima frase lo colpisce al cuore, come se la notte si chiudesse su di lui; un gioco di scatole cinesi, una dentro l’altra. 
"Conosco persone che affermerebbero scotendo il capo, impavide nella certezza delle loro esperienze, che amare e poi soffrire è meglio che non aver amato affatto."
Una frase pesante come un macigno sulla spalla. Aaron si volta a guardarlo e ad un tratto è come se quelle parole siano dentro di lui, come un tumore che cresce con te, una lama nello stomaco: il dolore del ricordo. Aspetta di sentirne il seguito. Il ragazzo ogni tanto stona, ma quando cavalca le note giuste sembra che anche la notte si fermi ad ascoltarlo. 
"È come sprofondare sempre e sempre, ma senza cadere mai. E non arrivi da nessuna parte. E non vai da nessuna parte."
Aaron si avvicina al ragazzo seduto, il quale è preso dalla canzone e ormai non sbaglia più alcuna nota, travolto dal sentimento, il viso alzato al cielo. 
"Avrei voluto andarmene per sempre, però lasciandomi dietro i ricordi come fossero sassolini, così che se avessi sbagliato strada sarei potuto tornare sui miei passi. Ma così non è stato. Mi sono convinto di poter cambiare me stesso prima ancora di potermi accertare di cosa sia il me stesso."
Aaron ad un tratto si avvicina, come un assassino che di soppiatto sta per colpire la sua preda alle spalle. Travolto ad un tratto dal rimorso, dal perdono dei momenti che ha abbandonato, si siede con il ragazzo sul guard-rail e ascolta le parole di quella canzone.
"Mutare nella forma e nel sentimento. O se solo tu potessi essere qui, e capire che non sarei mai scappato se avessi saputo che anche tu mi avresti seguito ovunque. Ma te ne sei andata. E solo guardandoti andare via, con le spalle curve, ho capito che niente, e dico niente, avrebbe mai spezzato questo silenzio dentro di me. Nemmeno le urla che mi perseguitano la notte, nei miei sogni; nemmeno il respiro fetido del demonio qui sulla mia spalla. 
Un silenzio come mille cannoni.
Un silenzio che mi pesa ancora qui sul cuore."

Aaron lascia che il ragazzo finisca di cantare, poi gli chiede: "Dove l’hai sentita?"
Il ragazzo si contempla le scarpe. Poi lo spia di sott’occhio. "È tua Aaron. È sempre stata tua questa canzone."
"Mia?", replica sbalordito. "Non ricordo di aver mai scritto canzoni."
"A volte non è necessario scriverle perché ti appartengano. A volte le canzoni nascono perché sono tue e basta... e non esiste nessuno al mondo che te le può portare via. Questa è tua. Portatela nel cuore, Aaron."
Detto questo, il ragazzo si allontana nella notte, i pantaloni appiccicati alle gambe. Aaron lo osserva sparire e tenta di tenersi quelle parole a mente prima che scompaiano per sempre. Quando crede finalmente che siano sue, che le abbia catturate e messe qui, dove si devono mettere le parole belle, si mette in piedi e riprende a camminare. È una lunga strada, anche se hai un angelo che ti guarda le spalle.
Ben presto i piedi cominciano a fargli male e la notte si fa un po’ più fredda, ma Aaron decide che preferisce continuare a camminare. I pensieri gli fanno compagnia, e sono così intensi da poterli paragonare ad amici con cui si possono condividere esperienze, emozioni. Quando il sole si sveglia lo vede camminare ancora, con quelle parole incise sul cuore, deciso a non farle sparire per niente al mondo. Attraversa un paese anonimo, di quelli con i cartelli sbiaditi e arrugginiti e con i vecchietti che discutono, in piazza, del tempo atmosferico. Qualcuno si gira a guardarlo, e un po’ lo invidia, perché ha lo sguardo degli innamorati. Ma Aaron non è innamorato.
No. Semplicemente Aaron se ne è andato da casa, salendo sulla sua Mountain Bike con uno zaino in spalla e lasciando che le ruote lo portassero via. Si è voltato solo una volta verso quella casa che sembrava ammiccargli. Un rimprovero? Un saluto? Aveva ripensato varie volte a quell’ultima visione; sembrava proprio una roccaforte che gli intimava di tornare indietro, come una madre che volta la testa dall’altra parte per dirti: "Non voglio guardare quello che fai, non farmi star male."
Aaron non si lasciò intimidire. Se ne andò e non tornò più. Ossessionato dalle albe e dai tramonti, cavalcò quella bicicletta fino alla fine della strada, stando bene attento a quello stop che nessuno rispettava mai. E dopo lo stop, il semaforo davanti alla chiesa, e poi quell’ultima precedenza prima dei campi sterminati, come una collezione di francobolli stesi al cielo. Non si fermò nemmeno quando le spighe si tesero a cogliere il suo passaggio, mosse dal leggero vento del tardo pomeriggio, come se volessero accaparrarsi piccole gocce di sudore, capelli, da tenere con loro, in ricordo di quel ragazzo che così spesso aveva ansimato immerso tra loro, annegando nell’amore di qualche paesana. Continuò pedalando con più foga, l’aria che profumava di libertà nei capelli, l’immensità del mondo negli occhi; pedalò lasciandosi dietro le divinità che danzavano in quei posti, nei boschi sacri dove i cacciatori facevano la posta ai fagiani nella stagione della caccia. Un piccolo stormo di uccelli si allontanava verso sud, in formazione, come fossero caccia F16 che tagliavano il cielo.
Non se ne andò per un motivo preciso, ma solo perché sentiva che la sua strada era quella. Troppi sensi unici forse. Non gli andava di passare la vita a girare in tondo per raggiungere le proprie mete, come una trottola che danza in un cortile.
Pedalò via. Scivolò nel pomeriggio come un’ombra crepuscolare, e quando la notte lo colse, forse un po’ più fredda di quanto si aspettava, lui era giù lontano e la luna gli stava illuminando la via da prendere.
Vagò per il mondo su due ruote per un bel pezzo. Per un paio di settimane un altro ragazzo si unì a lui, come se la sua fosse una sfida al mondo; pedalarono insieme scambiandosi opinioni senza sapere nemmeno come si chiamavano. Poi ad un bivio Aaron girò a destra, mentre il ragazzo andò dritto. Per alcuni minuti si salutarono mentre si allontanavano l’uno dall’altro, con la mano alzata, continuando a pedalare, poi alcuni alberi si frapposero tra loro e Aaron poté vedere la sua giacca rossa fare capolino ancora per pochi istanti prima che sparisse per sempre.
Rimase solo per un lunghissimo periodo, contando le albe e i tramonti e mangiando quando e come poteva. Quando incontrava un fiume lo seguiva fino alla sua foce o fino a che gli era possibile. Tentava di stare lontano dalle strade principali se appena poteva, e quando passava per i luoghi abitati cercava di non fermarsi a dormire, ma preferiva proseguire e raggiungere un posto dove nessuno lo avrebbe disturbato.
E così visitò i posti più strani, vivendosi le giornate così come gli erano offerte, ma sentendo che la libertà che provava era infine tutto ciò su cui poteva veramente contare. Amico solo della sua bicicletta, del cuore che gli batteva dentro al petto e del sole che gli batteva sulla testa e negli occhi.
Girò il mondo in lungo in largo. Vide il sole sorgere tra i due vulcani di Città del Messico, lo vide scendere ed illuminare il ligneo volto della Sfinge. Vide la luna spaccarsi nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, mentre attraversava le sue gelide onde, da clandestino.
Ad ogni alba, Aaron si svegliava come fosse una persona differente, come se la notte fosse solo febbre e il mattino gli portasse il presagio di ciò che sarebbe stato di lui il giorno dopo. Così viaggiava, come un nomade, un ambasciatore. Parlava con persone diverse, dilettandosi ad imparare nuove lingue, nuove usanze. Capitò che amò donne che vollero tenerlo a loro, nel letto, come una corda tesa a fermargli i polsi, ma niente poté mai trattenerlo. Né le promesse, né l’amore. Anche dopo qualche settimana di pausa, il moto lo chiamava, e lui doveva andare.
Così spariva di notte, come un bacio di fiamma che langue. Saltava sulla sua bicicletta, come fosse il suo destriero e si dileguava, lasciandosi dietro solo un’ombra del suo passaggio.
E un giorno si ritrovò tra quelle montagne, in una lunga vallata alpina. Aveva pedalato tutta la notte ed era stanchissimo. Man mano che saliva l’aria si faceva più frizzante. Brillava la luna d’agosto, ma la notte era fredda e la coperta sgualcita con cui Aaron si copriva non riusciva a scaldarlo abbastanza. Attraversò con poche pedalate il paese in cui era capitato. In giro non c’era nessuno, e i pochi lampioni accesi erano punteggiati d’insetti. Aaron tagliò il paese di netto in due e poi si diresse verso sud, a cercare riparo tra gli alberi, come era solito fare. Là, era convinto, avrebbe trovato un piccolo rifugio dove passare il resto della notte. Inoltratosi nel bosco, che era così scuro da costringerlo a procedere tentoni, se non fosse stato per la luce lunare, Aaron si lasciò guidare dal suo intuito, che mai lo aveva tradito.
Quando si fermò era in uno spiazzo erboso. Gettò a terra la bicicletta, che come un animale stanco si accasciò su un lato a prendere fiato, poi si lasciò cadere a suolo egli stesso, stremato. La coperta era l’unico schermo tra lui e l’erba. Così, steso a terra, con il naso infreddolito e le gambe stanche, Aaron cavò un po’ di marijuana che una ragazza olandese gli aveva regalato insieme alla coperta sul quale era steso, e in quattro e quattr’otto si rollò uno spinello. 
Il manto del cielo scuro era come velluto bucherellato, osservò. Alcune lucciole si rincorrevano nella notte, e non lontano da lì, nel fitto della boscaglia, qualche animale stava raschiando tra le foglie. Così fumò il suo spinello con la compagnia della notte e delle creature che l’abitavano, con le mani dietro la testa; il volto segnato dagli eventi della sua vita travagliata era rivolto alla luna che lo baciava da lassù. Non pensava a niente, come tutte le volte in cui si trovava in quelle situazioni. Semplicemente, Aaron si godeva il momento. Così aveva vissuto fino ad allora e così era deciso a continuare a fare fino a quando avesse deciso che così doveva essere.
Un giorno una ragazza israeliana, con cui aveva passato una dolcissima notte d’intrigo, gli spiegò che lui aveva un fascino particolare sulla gente.
"Che tipo di fascino?" le aveva chiesto con il suo zoppicante arabo.
"Sei capace di far innamorare dei tuoi occhi anche una statua."
Aaron aveva riso di quella affermazione, e poi per sempre se l’era portata nel cuore. Perché un po’ era davvero così. Era alla continua ricerca di emozioni sempre nuove, ma nonostante ciò non era disposto a rinunciare alla bellezza di quelle che aveva provato in passato. Una passione senza confini visibili, ecco quello che provava. Una passione per ciò che era bello, ma senza nessuna differenza. Era come se volasse a volo libero sopra il mondo, a volte solo un uccello che si libra nell’immensità del cielo, a volte una nuvola che domina il tutto da lassù. Le ali spalancate, il sorriso pronto. Dominava tutto perché sapeva che tutto era suo. Sapeva che tutto ciò che c’era al di sotto, anche se non gli apparteneva direttamente, era suo. I fiumi, i mari, le montagne, le donne, il cibo, l’aria. Niente non poteva essere suo. Bastava guardarlo per possederlo. Bastava toccarlo per averlo dentro di sé per sempre. E il resto poi cosa importava? Lui aveva fame. Fame degli occhi, di vedere, di sapere che niente c’era al mondo che lui non avrebbe visto. Avrebbe camminato per ogni centimetro quadrato di mondo, avrebbe bevuto l’acqua di ogni lago e fiume, avrebbe accarezzato i seni di ogni donna e le gote di ogni bimbo. Così avrebbe potuto riempirsi gli occhi, colmarli fino a farli esplodere. Credeva fosse questo il modo giusto: non averne mai abbastanza, non accontentarsi mai di ciò che il mondo ti dà, ma pretendere sempre di più, e come una spugna, assorbire e mettere via, assorbire e mettere via, come un grande schedario. Così portarsi dietro un pezzettino di ogni cosa, e non importa se qualcosa poi la dimentichi; importa solo che sai che l’hai fatta, che quando il sole è sorto su quel posto, quel giorno, tu eri lì a salutarlo. E quando poi è sceso, da un’altra parte, tu eri lì a dargli un arrivederci.
Così, mentre Aaron si fumava quello spino, da solo, una stella cadente solcò il cielo come una biglia lanciata sul velluto che scivolò via veloce, luminosa. Nella mente gli balenò in un momento il "Turandot" di Puccini e in particolare il "Nessun Dorma". Quelle parole gli tornarono in mente in un istante: "Dilegua notte, tramontate stelle. All’alba vincerò." Furono quelle parole, quella stella cadente, che unite, gli fecero capire perché avesse lasciato tutto. Lo scopo di quello che aveva fatto. Non se l’era mai chiesto prima, realizzò ad un tratto. Ma quella visione, così fulminea, lo indusse a prendere la bicicletta, e scortandola a mano, cominciare a camminare, come se un richiamo lo traesse verso un luogo che non conosceva. Abbandonò quella fresca radura e prese un sentiero che costeggiava la vallata. La stella cadente sembrava ancora là nel cielo, come la cometa che aveva guidato i Re Magi alla stalla del neonato Gesù Cristo; lo guidava verso la sua meta. Così la seguì, con la paura che scomparisse nel cielo notturno, che svanisse per non apparire più. In attesa di presagi, non sai mai quali possano essere prima che appaiano e ti dicano: "Non disperare, ma guarda avanti." E Aaron proseguì. Giù per la vallata, nell’abbraccio della notte. Le stelle lassù, ancora spiavano i suoi passi. 
Camminò per tutta la notte nel bosco, seguendo quella stella e il suo sentiero. La luce della luna gli illuminava la via. "All’alba vincerò" continuava a ripetersi. Man mano che procedeva nella foresta sentì che un fiume scorreva a poca distanza da lui, scrosciando, e come aveva sempre fatto, decise di seguirlo. Questa volta però non sarebbe arrivato alla sua foce, lasciandosi guidare dal corso dell’acqua che mai si fermava. No. Questa volta sarebbe andato contro corrente. Questa volta avrebbe risalito il corso del fiume e avrebbe trovato la sua sorgente. Non gli importava quanto sarebbe occorso, o quanta fatica gli sarebbe costata quest’impresa. L’avrebbe fatto lo stesso, perché ad un tratto aveva capito che aveva trovato il suo scopo, quello che tanto aveva agognato pedalando in giro per il mondo, soffiando sulla pelle di donne straniere, annegando sui letti, nei giardini segreti di ladies da due soldi. Camminò nella notte, come l’ultima rosa dell’estate, il bucaneve che spezza l’inverno con la sola forza della sua esistenza. Una piccola discesa, qualche sasso, ma lo scopo era ancora lì: seguire il corso di quel fiume, al contrario; raggiungere le sorgenti e non le foci, e in un lento retrocedere, ritrovare infine la strada di casa. Ripercorrere indietro la propria vita, ripassando ancora negli stessi squallidi motel che altro non erano che un riparo dalla ferocia del mondo là fuori. E poi dentro a covare quei sogni di libertà che sempre lo tenevano vivo, anche se non aveva un tetto sulla testa, anche se spesso era costretto a non mangiare per giorni o a non potersi lavare. 
Aveva cercato per anni e adesso finalmente aveva cominciato a trovare. Era rotolato sulla pelle del mondo, inseguendo uno scopo che adesso sembrava così vicino, come una borsa di diamanti spalancata davanti a te; lo splendore e la bellezza talmente intensa che sembra che il cielo sia al negativo e le stelle siano nere, mentre l’etere splende; un sole d’antimateria che brucia come una fiamma che mai si spegnerà, basta tenerla viva, sempre e comunque; imparare a non distruggere per distruggere, ma solo per ricostruire. Dopo tutte le esperienze vissute, palpate, era di fronte all’esecuzione ultima del suo Turandot. E chissà che alla fine della strada non dovesse veramente trovare la sua dama, che non conosce il suo nome e che questa ignoranza gli permetta di vincere durante la lunga alba. Un lungo pellegrinaggio verso la sua Mecca, il suo luogo sacro, una fuga senza bussola, senza sapere dove il sole sorgerà domani. Abbandonato dove soffia il vento, e talvolta così lontano di casa da non sapere nemmeno se sarà possibile ritornare. E l’unica cosa che sempre si portava dietro era la coscienza che niente, cazzo, niente dura per sempre, neanche il suo moto continuo, senza meta. Un giorno si sarebbe dovuto fermare anche lui, trovare un luogo, renderlo suo, e poi appoggiare il capo e chiudere gli occhi; lasciare che tutto scorresse per sempre senza influenzare più il correre degli eventi... stringere la mano a chi rimane e ammiccare un arrivederci. 
Era passato tanto tempo, e a volte, anche quando condivideva i piaceri della notte con qualche anima amica, sentiva che il suo cuore era lontano, che il suo posto non era lì, ma alla ricerca di un messaggio. E finalmente aveva trovato la sua cometa da seguire, il suo segno divino che gli diceva: "Aaron, vieni, ti riporto a casa."
Aaron osservava le stelle mentre camminava. Potevano sembrare uguali a tutte le altre che aveva visto in giro per il mondo, ma dentro di sé sentiva che non era così. Il cielo era sempre diverso. Il cielo era un viaggiatore come lui, e le stelle erano i suoi sassolini per ritrovare la strada. Erano passati dieci anni da quando era salito su quella bicicletta ed era sceso per la via. Dieci lunghissimi anni. Aveva cambiato ventitré volte le ruote perché erano consumate, e quarantacinque volte i freni. Ma era ancora lì, a vagare. E mentre camminava, sotto quel cielo di presagi che sembrava volergli elargire segreti, per la prima volta in dieci anni di vagabondaggio, Aaron ripensò a sua madre. Gli venne in mente così, senza motivo. Dapprima solo un profumo, lontano, come se il vento potesse beffarsi dei chilometri e portarglielo con le mani a coppa; poi ripensò al suo sorriso. Quando sorrideva le apparivano delle piccole pieghe agli angoli degli occhi: minuscole rughe. Era strano, ma di lei si ricordava quasi solo il suo sorriso. Si forzò ma non riuscì a farsi venire in mente altro. 
Si rese conto, quasi con orrore, mentre seguiva il rumore di quel fiume anonimo, rimanendo comunque al buio della foresta che sembrava rispettarlo, che adorava quelle rughe. Gli mancavano quelle pieghe. Gli mancavano anche se per tutti quegli anni se le era portate dentro e sua madre aveva sorriso solo per lui, sorriso nel ricordo della sua voce, dell’odore che c’era a casa sua, del suo soffritto di cipolle, del suo modo di potare le rose in giardino, di chiamarlo quando era pronto da mangiare o anche quello di guardarlo quando discutevano. Aaron capì che aveva nostalgia di casa. Gli mancava il tono della voce di sua madre quando gli diceva che avrebbe dovuto passare l’aspirapolvere sul tappeto se aveva sbriciolato, o che doveva rifare il suo letto o non tornare tardi. Gli mancava il modo in cui suonava il pianoforte che avevano in soggiorno, o come piangeva sui tasti quando guardava la foto del marito sulla mensola e suonava per lui. Gli mancava la sua abitudine di cambiare le lenzuola una volta la settimana, anche se Aaron non vi aveva dormito che una volta, e ripensò al fatto che con tutta probabilità aveva continuato a cambiarle da dieci anni a questa parte anche se lui non le sporcava più.
Aaron si fermò nella foresta. Lo scroscio del fiume era più vicino, quasi profano nel suo continuo correre. Non rispettava quel po’ di silenzio di cui lui aveva bisogno.
Così, ligneo, come scolpito nel bosco, pregò perché il respiro del silenzio si mozzasse per alcuni secondi; solo per dargli modo di sentire con precisione la voce di sua madre, il calore delle sue gambe quando da bambino vi si sedeva sopra e lei gli raccontava una favola; la dolcezza con cui gli asciugava le lacrime quando era triste o lo pettinava la domenica; il modo in cui gli chiedeva di non lasciare i vestiti sporchi in giro e il tono che aveva quando prendeva un brutto voto a scuola.
"All’alba vincerò", si disse di nuovo mentre si sedeva sull’erba, al lato della strada, abbandonando la bicicletta a terra. "Vincerò", ripeté ancora, poi si prese il viso tra le mani e pianse, silenziosamente, lasciandosi andare in balia di quei pensieri così amari nella loro dolcezza.
Da solo, in quella foresta, Aaron si sentiva lontano anni luce da casa, come un console esiliato per un altro pianeta. Tanto piccolo da sentirsi il cielo sulle spalle. Tanto ricolmo di pensieri da essere quasi un vaso di coccio che rotola per una scarpata, fragile come lo stelo di un fiore.
Uno scoiattolo dalla lunga coda nera si fermò sul sentiero a studiarlo, cogliendolo in quel momento di solitudine, come se non riuscisse a comprenderlo. Rimase fermo per alcuni secondi a fissarlo, quasi in attesa di una sua mossa, e pronto a fuggire. Sembrava stesse cercando di spiegarsi, tra i pensieri di sopravvivenza e di ghiande, cosa potesse rendere quell’essere umano così fragile alla vista. Forse li aveva sempre visti come dei rumorosi inquinatori dell’equilibrio, e adesso si stava facendo delle idee nuove. Aaron ricambiò per un po’ quello sguardo, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, cercando di regalare un sorriso a quella piccola creatura. In quella, lo scoiattolo, in meno di un istante, forse soddisfatto di ciò che aveva osservato, si lanciò di corsa su per un albero e sparì tra le fronde, pronto a riferirlo ai suoi simili.
Aaron non aveva più niente. Si era perso tutto in quell’istante, come se lo scoiattolo se lo fosse portato con sé. Così, come un recipiente di nuovo vuoto, si alzò in piedi e prese la sua bicicletta. Avrebbe risalito il corso del fiume e sarebbe ritornato a casa.
Uscì dalla foresta quando il sole sbucava illuminando il cielo. La parete est della vallata nascose l’alba alla vista per un po’, mantenendo Aaron al freddo ancora per un’ora buona. Il fiume lo guidò fino ad un piccolo paese alle pendici del Gran Paradiso. Si fermò un paio di secondi a rimirare la possanza di quelle montagne, il loro similare d’indistruttibilità, d’eternità, del sopravvivere attraverso il tempo e non con il tempo, poi cominciò nuovamente a scendere, scortando la bicicletta. Quando arrivò al paese, Aaron poté notare escursionisti che si apprestavano ad andare a fare passeggiate in montagna. Li osservò allontanarsi con curiosità, zaini in spalla e bastoni tra le mani. Qualcuno lo squadrò con sguardo strano, ma lui era abituato alla curiosità della gente e non vi badò. Nel cielo la sua guida era ancora visibile, lassù, solo una nuvola che si muoveva nella direzione che lui doveva prendere, magari, ma per lui era abbastanza. Lasciò la bicicletta appoggiata ad un palo e continuò a piedi, covando dentro di sé una piccola fiamma che era la speranza di ritrovare la strada di casa il più presto possibile. In alto, in una gola tra il verde, si scorgeva un piccolo segno bianco: una cascata che scrosciava a 1.800 metri di quota con spruzzi di spuma. Così salì per quel sentiero, scoprendo che alcuni degli escursionisti salivano con lui, sorridenti, carichi di voglia di farcela. Ogni volta che incontrava qualcuno, c’era uno scambio di sorrisi e di saluti cortesi, nonostante non si fossero mai visti. Forse il rispetto per quei luoghi e la loro bellezza rendeva gli uomini più sensibili alla gentilezza.
Presto però perse di vista chiunque. Le gambe allenate degli abituali abitanti di quei luoghi non lo risparmiavano, e lui fu costretto a fermarsi spesso a riprendere fiato. La strada non era niente di più che una mulattiera che si trascinava a tornanti su per il bosco, in lunghe doppie S; in sottofondo c’era il continuo scrosciare della cascata sempre più vicina che aumentava di volume man mano che saliva. 
Continuò a salire per un’ora buona, prima di ritrovarsi su uno spiazzo dove la curva a gomito del tornante sbucava sulla gola scavata dall’acqua. Un masso semi circolare sull’orlo sembrava un sedile naturale per gli stanchi. Aaron si affacciò, libero per alcuni momenti della prigionia della foresta, deciso a gustarsi il panorama, deciso a tenerlo a mente fino a quando non fosse tornato a casa per raccontarlo a sua madre. Davanti a lui il Gran Paradiso era ancora più bello, e vederlo là, che spuntava tra due montagne, dava l’idea di tanti ragazzi abbracciati insieme.
Incastrato tra gli alberi che scivolavano giù come una pennellata di verde, scorreva quel fiume innominato, che spariva a fondovalle, fino alle pendici della catena montuosa. Aaron si sedette su quel grosso masso e rimase ad osservare per un quarto d’ora quel paesaggio così selvaggio, poi si alzò e riprese a camminare. In mezzo alle fronde gli capitava di sentire rumori strani, mentre costeggiava la montagna, ma non vide nessun abitante di quelle foreste. Così continuò a camminare, e dopo mezz’ora di cammino dalla sua sosta al masso, arrivò alla cascata. Il tornante era più largo qui, e si distaccava in un sentiero che attraversava un ponticello steso sullo scrosciare della cascata. Affascinato, Aaron si avvicinò e rimase ad apprezzare le gocce sul viso per qualche minuto. Qualcuno aveva pasticciato su un sasso umido di muschio un inno ad una squadra di calcio; sembrava quasi macchiare quel luogo, ma lui non vi badò. Niente poteva rovinargli quei momenti. Era come se fosse tornato bambino. Diede le spalle alla cascata e rimirò il paesaggio di lassù. Il paese era così lontano da sembrare un plastico in scala, con il fiume dipinto di colori tenui. O magari un quadro così bello da sembrare animato. Osservò l’acqua che precipitava e pensò a cosa sarebbe significato cadere giù, in un continuo rotolare; cozzare contro pietre, sommerso dalla schiuma per pochi istanti per poi riemergere... solo il tempo di prendere un breve fiato e poi giù ancora, tra le botte e le escoriazioni, in una caduta senza fine, dove solo i sassi e l’acqua possono convivere. Un eterno scrosciare. Anche d’inverno, quando la temperatura scende, quella cascata doveva continuare a scorrere, senza fermarsi mai, proiettando verso valle tonnellate d’acqua al giorno, producendo un’energia incomparabile, che niente può fermare o deviare. Milioni di gocce d’acqua che passano di lì da millenni. Chissà che un vecchio abitante delle caverne non si fosse trovato a chiedersi le stesse cose, una manciata di millenni prima, quando la terra ancora non aveva i capelli bianchi, il sangue avvelenato e il cancro alla pelle. Chissà che non fosse rimasto anch’egli ipnotizzato dinnanzi alla maestosa potenza di quel fenomeno naturale, e non si fosse chiesto che ne sarebbe stato di lui se fosse scivolato e precipitato fino a valle, in balia delle sue acque turbinanti.
Con quei pensieri Aaron si incamminò nuovamente, salendo con lentezza e fatica. Dopo un’altra ora di cammino, quando i tornanti avevano lasciato spazio ad un sentiero che costeggiava la montagna verso sudest, gli alberi cominciarono a divenire radi. Gli spiazzi e le sassaie sembravano sempre più frequenti, e le lunghe distese erbose dove gli sarebbe piaciuto fare l’amore, così ripide da impedire a chiunque di salire, sembravano grosse lenzuola verdi stese a forza tra le rocce.
Presto anche le ultime conifere, che come arrampicatori riuscivano ad attecchire là dove niente sarebbe riuscito a crescere, gettarono la spugna a causa dell’aria troppo rarefatta. E proprio quando anche l’ultimo albero era sparito alla vista e le rocce e l’erba erano l’unico paesaggio possibile oltre al cielo, le orecchie di Aaron si stapparono, come un avvertimento alla lunga salita che ancora stava intraprendendo. La sensazione fu strana, mai provata prima d’ora. Gli piacque.
Salì ancora per un’altra ora, fermandosi non appena si sentiva stanco, e quando arrivò a sorpassare l’ultimo crinale, si ritrovò davanti ad una lunga sella nella montagna, e là, in mezzo all’erba, una costruzione a forma di T. Un rifugio. Un cartello di legno piantato nel terreno lo informava che si trovava a 2.096 metri di quota e quello era il Rifugio Sella. Aaron sorrise. Nella distesa erbosa riuscì a scorgere piccoli movimenti; figure scure che correvano da un dosso all’altro fischiandosi allarmi: marmotte. Dietro: il Gran Paradiso nella sua interezza. Una catena immensa, imbiancata; un ghiacciaio perenne spaccato dalle cime frastagliate come dita nere tese a toccare l’immensità di quel cielo così intenso. Il via vai era parecchio per essere un rifugio di alta montagna, ma la cosa non lo disturbava; troppo tempo lo aveva passato in solitudine. Scese per la sella a lunghi passi, un sorriso sul volto gli esprimeva la felicità della conquista della vetta. Lo stesso sorriso che dovevano avere Armstrong e Audrin, dentro i loro caschi, quando erano scesi sulla luna a piazzare la bandiera a stelle e strisce. Si sentiva il cuore un po’ aperto, rideva dentro di sé. 
In lontananza, a circa duecento o trecento metri, un piccolo gruppo di cinque o sei stambecchi brucava allegramente; le grosse corna nodose si muovevano con loro, il loro color nocciola spezzava il verde del prato. Aaron rimase ad osservarli, rapito dalla loro vista, dalla loro bellezza, dalla maestosa grazia della loro presenza. Li studiò nei movimenti per lunghi minuti, come se non ne potesse mai avere abbastanza di loro, delle loro zampe possenti, del loro vello ruvido, del modo in cui si grattavano la schiena con le corna, unendo la pratica alla possibilità della loro specie. Si sedette a terra, ignorando lo stomaco che gli chiedeva qualcosa di solido da un paio di giorni a questa parte, e rimase a fotografare con gli occhi quegli animali che si nutrivano, che vivevano in piena libertà nel loro habitat, senza che nessuno andasse da loro a ricordargli che dovevano raggiungere uno scopo nella vita e che prima di raggiungerlo dovevano scoprire quale fosse il loro ruolo nello schema generale. No. Loro ignoravano tutto ciò, esattamente come l’aquila che volteggiava alta sopra i picchi: solo una piccola figura in movimento che scrutava dall’alto; o le marmotte che correvano ai ripari, forse grate alla presenza dell’uomo su quelle alte montagne che salvava loro la vita dai predatori ancora per qualche ora. O i bruchi che si formavano una lunga autostrada verdastra misurando il mondo con le loro zampe. Li osservò tutti, nella completezza di quel momento - nel quadro generale - e li invidiò. Li invidiò per la loro ignoranza, per il loro vivere senza il bisogno di cercare qualcosa e di non fermarsi finché non lo avevano trovato. Li invidiò perché non dovevano associare la distanza alla sofferenza, o la morte alla separazione; non si attaccavano alle cose o ai sentimenti; nessun intervento umano o divino che può sradicarti quella quercia che sta alla base delle tue sicurezze: che sia una persona, o un luogo, o semplicemente un ricordo, comunque qualcosa che ti aiuta ad andare avanti, sperando. Sperando e desiderando, svegliandosi durante la notte con la paura che qualcosa sia cambiato. Niente di tutto ciò. Ed ecco che alla fine era quello che cercava, ma che mai avrebbe potuto sfuggire. Non era scappato da sua madre, o dalla sua casa, o da quel paese con i cartelli dei confini dei paesi scritti anche in dialetto; non era scappato dai campi immersi nella luna dove aveva sentito gemere spesso e dove si era nascosto quando non voleva farsi trovare. Non era fuggito dalla sua vita, o da qualcosa che ogni giorno doveva affrontare; non era fuggito dal bar dove tutti i suoi amici si prendevano a pugni e si ubriacavano, e nemmeno dai necrologi appesi alle mura delle case come manifesti elettorali. No. Era solo fuggito da se stesso.
Era fuggito da quel se stesso che non accettava un padre defunto, una madre che non riusciva a vivere fianco a fianco con la sua morte e il benestare che aveva portato loro. No. Era stato là, al capezzale di suo padre a guardare la madre disperarsi. Aveva osservato il prete che, con l’aspersorio, cospargeva suo padre d’acqua santa; il chierichetto vestito di bianco che faceva roteare l’incensiere nell’aria, con lo sgomento negli occhi. Aveva sentito quell’odore un po’ esotico, screziato, e aveva osservato con gli occhi vuoti il padre legato nel letto che inveiva con violenza contro i religiosi, insultandoli fino alle generazioni più lontane. La stanza piena di bestemmie e lo sguardo del prete che si era posato sulla madre, rimproverandola con gli occhi per la sua presenza. Poi le mani di sua zia che lo scortarono per le spalle, fuori da quel luogo. Ma le voci continuarono ad inseguirlo, prima solo alle orecchie, poi anche alla testa. E non si zittirono per anni. Il latino del prete e le risposte blasfeme di suo padre, il cui volere era piegato da quel demone dentro il suo cervello, che lo aveva consumato come una candela. Quel demone grosso come un uovo, che alle radiografie era apparso come una macchia scura. E come era cominciato? Con un mal di testa continuo, che non lo faceva dormire, che lo costringeva ad urlare la notte, che lo teneva sveglio.
E poi il funerale, il vento che spazzava via i fiori della corona sulla bara di cromo. Le maniglie di metallo che splendevano nel sole del mattino. E Aaron con le mani sulle orecchie, per non sentire più quelle voci che urlavano dentro di lui. Ironia della sorte: suo padre, quel chirurgo di successo che aveva salvato così tante vite, alla fine era stato ucciso dallo stesso male che aveva sempre combattuto. Si era attaccato alla vita con i denti e con le unghie, ma ciò non aveva impietosito nessuno lassù.
La casa era divenuta una prigione; sua madre era tutto ciò che gli rimaneva, e Aaron era cresciuto nell’affetto. Nessun altro uomo aveva mai sostituito suo padre nel cuore di quella donna il cui sorriso si porta dentro. Nonostante per un paio di mesi un collega di suo padre fece loro visita spesso, e tutte le volte portava dei fiori, la donna rifiutò ogni approccio. Lo sentiva parlare a sua madre, cercare di riaccendere il lei il desiderio di vivere. Il tutto fino a che una volta, andandosene con i suoi fiori, non tornò più. Sua madre quel giorno pianse, e Aaron se ne accorse, dalla sua stanza. La sentì suonare sul pianoforte, quella notturna di Chopin che caratterizzava così tanto i suoi momenti di disperazione. E adesso, così lontano da casa, sapendo che quei tempi erano così lontani, si rese conto di quanto avrebbe voluto che quei giorni non fossero fuggiti via, ormai quasi invisibili alla vista. Con dolore si accorse che non si preoccupava da anni di cosa gli avrebbe portato il futuro, e l’immagine mentale di sua madre, il profumo del suo abbraccio, il sapore dei suoi baci, era un conforto che lo faceva riflettere. Si chiese se si fosse innamorata di quell’uomo, e se l’avesse mandato via proprio perché sapeva che avrebbe potuto amarlo e ritornare felice, nel tempo, sacrificando comunque qualcosa. Si chiese se sua madre avesse pensato a lui mentre rinunciava alla sua felicità. E si chiese, con orrore, se fu proprio questo ad aver reso la vita un inferno. Lei non riuscì mai a farsene una ragione, e la notte ancora la sentiva piangere.
Così lui era scappato, perché non riusciva ad essere libero da quel fantasma che ancora si aggirava per la casa, quel pesante fardello che aveva avvelenato tutto quanto. Con la morte di suo padre non era stato capace di trovare uno scopo. La sua quercia era stata sradicata, ed al suo posto c’era solo la terra viva, aperta agli attacchi del tempo. Allora era saltato sulla bicicletta ed era andato in giro per il mondo, alla ricerca di quello scopo, senza sapere che avrebbe girato per anni intorno alla nostalgia di casa.
E adesso era lì, ad invidiare la libertà di quelle creature. Una libertà che non avrebbe mai trovato. Non poteva trovarla, perché non era la sua libertà. Non ci si può liberare di ciò che ti rende umano, e l’umanità è il muro che lo divideva da ciò che cercava. In questi casi non importava vivere su massime o intenzioni di prendere tutto ciò che si trova, e non importa che cosa sia, ma se è l’ultima mi appartiene. In questi casi non importa nemmeno quanto riesci a correre veloce; se non ti privi dell’umanità, non sarai mai libero da quell’ancora che ti trascina in fondo. L’ancora del ricordo che ti appesantisce e che ti fa annegare insieme al pensiero nel calice del sentimento. Negare la propria natura significa negare se stessi. Non puoi vivere senza pensiero e senza ricordo, perché sono le pareti che ti permettono di conservare le tue emozioni in luogo sicuro e far sì che nessuno le possa mai profanare. 
Ad Aaron piaceva pensare che sarebbe stato capace di trovare un posto dove i ricordi che lo ossessionavano, il pensiero di suo padre, potessero infine giacere in pace. Seppellirli sotto due metri di terra e metterci una bella lapide sopra. Solo qualche stronzata latina, due sputi di acqua santa, una manciata di terra e una vita per imparare a smettere di pensarci. Sapere dove sono per potervi andare e mettere qualche fiore sopra ogni tanto, perché quello è il modo in cui si preserva il ricordo senza esserne uccisi. E tutte quelle creature, che volteggiano intorno all’altare della vita che sboccia sempre, sapevano che cosa significava dover vivere sotto lo stesso tetto con lo spirito di un genitore che non ti permette di crescere? Nessuno che ti insegni come si usa un rasoio, o come comportarsi quando qualcuno ti minaccia, o nessuno che ti spieghi che anche se ti sta tenendo in equilibrio, quando mollerà la bicicletta continuerai a stare su due ruote senza cadere, basta non smettere di pedalare. Mai smettere e mai guardarsi indietro. Questo era quello che gli era capitato: era salito sulla bicicletta, suo padre l’aveva spinta, ma si era dimenticato di assicurargli che non sarebbe caduto quando lui avesse tolto le mani dal sellino. Aaron aveva continuato a pedalare per dieci anni, convinto che suo padre fosse ancora dietro di lui, a tenerlo in equilibrio; era morto senza avere tempo di avvertirlo che avrebbe dovuto continuare a pedalare da solo. Non sarebbe caduto. Aaron avrebbe continuato ad andare avanti per la sua strada, anche se suo padre non era più lì dietro a spingerlo, ma era rimasto indietro ad osservarlo mentre lui si allontanava per sempre. Aveva dovuto pedalare in giro per il mondo per dieci anni prima di capire che non aveva più bisogno di suo padre che lo teneva in equilibrio, e che tutta quella strada l’aveva fatta da solo, senza saperlo. E il silenzio del suo cuore si era spezzato, perché aveva capito lo scopo della morte di suo padre, dello sguardo del prete, del suo bisogno di fuggire, del perché sua madre piangeva sul pianoforte quando suonava la notturna di Chopin. Aveva capito finalmente che avrebbe potuto viaggiare per i quattro punti cardinali, cavalcando o correndo, strisciando o camminando, nuotando o volando per interi anni, ma che prima o poi, inevitabilmente avrebbe imboccato nuovamente la strada di casa.
"Starei ore ad osservarli. Sono meravigliosi, vero?"
E quella voce, dolcissima. Lo distrasse da quei pensieri, lo distrasse dal suo pianto, dalle sue osservazioni. Il segnale lassù nel cielo scomparve, ormai inutile. Per alcuni istanti gli parve la voce di sua madre, e anzi, ne era così convinto che quando si voltò e vide che non si trattava di lei un lampo di delusione gli trafisse gli occhi.
Era una ragazza. Una piccola Heidi cresciuta che sorrideva seduta sul pendio a un metro e mezzo da lui, mentre mangiava una ciambella. Lo zucchero le aveva impolverato un po’ il vestito blu cielo che indossava. Ai piedi aveva due zoccoli di legno e i capelli neri erano raccolti in una cuffietta bianca. La pelle candida sembrava tessuto di nuvola sul cielo del suo vestito.
"Ti ho disturbato?" gli chiese con quell’accento un po’ francese. Aveva colto quello scintillio nei suoi occhi, evidentemente.
"Sì... cioè no... no. Siamo noi che disturbiamo questo luogo. Non credi anche tu?" le chiese di rimando. Lei sorrise, un po’ sognante. Aveva al massimo vent’anni.
"Sì. Un po’ lo credo anche io. Anche se abito qui da tutta la vita."
"In quel rifugio?"
"Oh no, no... mon dieu! Sono qui da queste parti per il pascolo delle greggi, e dato che devo scendere sono venuta qua a passare un paio di giorni al rifugio. Amo questo posto. Amo la gente che ci viene."
Aaron la osservò e il cuore gli si aprì un poco al candore della sua semplicità. "E non ti senti un po’ sola quando sei su con le greggi?" chiese Aaron.
Lo sguardo della ragazza spaziò un po’ lontano, oltre le montagne, oltre il cielo, forse. Annuì. "A volte mi sento molto sola. Mi piace tanto stare qui proprio perché vedo un po’ di gente. Tu cosa ci fai qui su? Non sembri di queste parti e non sembri neanche uno dei soliti turisti che vengono e se ne vanno."
"Oh... la mia è una storia lunga... ma anche io sono qui solo di passaggio." Aaron tentò di far cadere il discorso, ma la sua capacità acquisita in anni di esperienza questa volta non sortì l’effetto desiderato. La ragazza si incuriosì.
"Come tutti. Mi sembra di essere la sola a rimanere... da dove vieni?" Addentò ancora la ciambella, che si sbriciolò sull’erba.
Aaron considerò l’idea di mentirle come aveva fatto decine di volte nella sua vita. Ormai aveva a sua disposizione decine di trame inventate. E ce n’erano di così simili alla realtà che avrebbe potuto anche romanzarle. C’erano stati anche dei momenti in cui non aveva raccontato bugie, ma la gente aveva paura della libertà, e ogni volta che aveva spiegato che passava la vita andando in giro per il mondo, il rapporto si ghiacciava e presto l’interlocutore si dileguava. Così, proprio mentre stava per lasciar correre la fantasia e tirare fuori la trama più adatta alla situazione, si ritrovò con la verità sulle labbra.
"Sono un vagabondo. Sono andato via di casa dieci anni fa con la mia bicicletta e ho girato il mondo. Adesso sono arrivato qua."
A quelle parole Aaron si aspettava che la ragazza si mettesse sulle sue, come tutti gli altri, e che se ne andasse. Temette quel momento, ma non arrivò.
"Accidenti, che bello! Chissà quanti posti avrai visto. Dove sei stato? Da quanto tempo sei via?"
Il suo entusiasmo lo disorientò. Suonava strano alle sue esperienze. Ma rimase stregato da quegli occhi avidi di parole, e così, colto alla sprovvista, narrò brevemente le sue avventure, tralasciando naturalmente le storie di sesso o le volte che era stato costretto a rubare, o a mendicare, a quelle in cui era scappato. Dipinse un quadro di verità parziale di ciò che gli era accaduto cercando di soddisfare la curiosità della ragazza che lo stava a sentire con interesse.
Dopo alcuni minuti lei gli chiese: "Ma dove dormi stanotte? Hai un posto per fermarti a dormire? Hai mangiato qualcosa?"
Aaron non voleva approfittare di quel sorriso, così mentì, dicendole che aveva recuperato un panino dal ristorante e un pezzo di formaggio da un contadino. Purtroppo però non poteva mentire sulla questione del tetto sopra la testa per la notte. La ragazza non sembrò convintissima delle sue parole, ma non le discusse.
"Perché non ti fermi qui al rifugio per qualche giorno? Io conosco bene il gestore, e se gli dico che sei un mio amico di sicuro ti darà da mangiare e dormire finché sarò qui anche io. Dovrò scendere alla fine della settimana, ma fino a quel momento puoi stare qui con noi."
Aaron sentì il cuore saltare un battito a quella proposta. Cibo caldo. Lenzuola. Doccia. Come poteva rifiutare? Ma dall’altra parte gli bussò quel desiderio, quel bisogno di ritornare a casa che lo spinse a rifiutare.
"No... guarda, proprio non posso..."
La ragazza però era testarda e non voleva sentir ragioni. "Senti, qui la notte fa freddo, e io non me la sento di averti sulla coscienza dopo averti conosciuto. Starai benissimo e non darai nessun disturbo, te lo assicuro." A quelle parole le ultime voci che gli imploravano di ritornare sulla strada si affievolirono e smisero di farsi sentire. Il bisogno di una doccia, di un letto e di mangiare qualcosa era troppo impellente.
"Sei sicura?", le chiese Aaron.
"Ma certo, vieni!" Si alzò in piedi e si spazzò il vestito dalle briciole della ciambella, poi si incamminò verso la costruzione di legno e mattoni. Aaron le stava dietro. E mentre la osservava di spalle si accorse che la desiderava; ma questa volta non desiderava il suo corpo, bensì qualcosa di più. Desiderava possedere la sua dolcezza, il suo sorriso, la semplicità del suo sguardo. E così la immaginò in una stanza, sul letto, come la principessa Turandot, e si immaginò di poter personificare Calaf, e vincere il suo amore non rivelandole il nome. E così, colto da quell’immagine mentale le chiese:
"Hey, non so neanche come ti chiami!"
"Mi chiamo Natalie. E tu?"
"Io sono Aaron."
"Aaron? Che bel nome che porti! Sei italiano?" chiese lei sorridendo ancora.
"Mia madre er... è italiana e mio padre era svedese." La informò lui, cercando di mascherare la sua esitazione.
"Accidenti, e ci sei mai stato in Svezia?"
"Oh no. Troppo freddo per la mia coperta", rise lui.
Anche lei rise un po’. Il suo riso era simile al rumore della cascata: cristallino.
Natalie lo presentò a Gustav, il gestore del rifugio, che si dimostrò disponibile a farlo dormire e mangiare lì in cambio di qualche favore in cucina. Aaron accettò. Gli offrirono anche di farsi una doccia e lui si gettò sotto l’acqua ghiacciata lavandosi il più velocemente possibile. Gustav gli regalò anche una camicia e un paio di pantaloni puliti. Di mutande Aaron non ne portava da anni. Indossati i vestiti nuovi, i suoi anfibi consumati regalatigli da un ragazzo a Praga gli sembrarono ancora più vecchi.
Quando fu pronto, Natalie gli offrì un piatto di ottime tagliatelle ai funghi e pomodoro. Era quasi un anno che non ne mangiava un piatto e circa un mese e mezzo che non mangiava in un piatto. Si rese conto che la pratica con la forchetta non si era affievolita nel corso del tempo. Mangiò di gusto, ringraziando dell’ospitalità offerta. Non si sentiva poi così lontano da casa quando era tra quelle mura. Ma sapeva che se appena lasciava fuggire i suoi pensieri, il sorriso di sua madre riaffiorava, con quelle dolci rughe intorno agli occhi, e il peso sul cuore aumentava.
Nel pomeriggio Natalie lo invitò ad andare con lei. Uscirono nel sole della giornata. Gli stambecchi si erano rintanati più in alto, e alcune nuvole, passando sopra il sole, macchiavano l’erba con le loro ombre scomposte.
"Dove mi porti?", chiese Aaron alla ragazza.
"Non ti preoccupare. Quando ci arriverai capirai che ne sarà valsa la pena." Così Aaron la seguì.
Camminarono per due ore. Natalie sembrava conoscere perfettamente la strada, come se potesse disegnarne una mappa di sassi compresi. Costeggiarono la montagna salendo verso est. Durante il viaggio, la ragazza gli chiese di descriverle i posti che aveva visitato e che aveva trovato interessanti. Aaron la accontentò raccontandole anche alcuni piccoli aneddoti in cui si era ritrovato, naturalmente selezionandoli dal mucchio. Alcuni di questi la fecero sorridere, altri invece le fecero tirare il fiato. Anche Natalie parlò di sé. Era figlia di un padre francese e di madre italiana. Vivevano con il pascolo delle greggi e con la vendita dei latticini prodotti dalle mucche. Si trovava bene lì, non avrebbe mai potuto vivere da altre parti, ma invidiava Aaron per i luoghi che aveva visitato nei suoi vagabondaggi. 
Parlarono del più e del meno per tutto il viaggio fino a quando, dopo una discesa ed una lunga salita per un pendio erboso dove il sentiero era un tratto di matita in mezzo al prato, il fiato di Aaron venne a mancare e le parole persero d’un tratto d’importanza.
Aveva visitato tanti luoghi nella sua vita, ma così tanti che non poteva che ricordarsi solo i più significativi. In dieci anni di pedalate aveva veramente visto tantissime cose. Il fascino che lo caratterizzava, e che aveva quasi del soprannaturale, lo rendeva capace di andare praticamente dappertutto; era difficile che qualcuno riuscisse a resistergli, uomo o donna che fosse. Aveva dormito sotto molti cieli e in molti letti, e spesso anche in compagnia. Le esperienze sulla sua pelle nel correre degli anni, si erano alternate a decine, e adesso era come se le tenesse in una scatola per scarpe: cartoline datate, foto ingiallite dagli angoli arricciati. Immagini che riguardava con il sorriso amaro. Era partito da ragazzo e adesso era un uomo, e se lo era diventato lo doveva solo a se stesso e al mondo che l’aveva preso a spintoni più delle volte in cui l’aveva accarezzato. Aveva visto veramente tanti posti nel suo vagabondare. E ovunque poggiava la testa era casa sua... una foresta piena di voci, una città colma di luci... tanti e tanti posti da non riuscire a tenerli a mente. Ma niente poteva paragonarsi a quello. 
La vista che aveva davanti era di una bellezza incomparabile. Davanti a quel luogo tutto cadeva: mura millenarie, spiagge, deserti, città... tutto. Poteva forse dubitare che, nel suo stato di nomade, avesse da sempre cercato un luogo da render suo, oltre che uno scopo per la propria vita? Tanto e tanto l’aveva cercato e adesso l’aveva trovato. Nel suo girare e girare aveva cercato davvero un luogo che gli appartenesse, che fosse il suo altare, il suo giardino segreto, il suo luogo sacro, come Cristo aveva cercato infine la sua croce. Aveva cercato un rifugio dove potersi nascondere anche solo con il pensiero, con il ricordo. Una casa che non fosse quella dove aveva abitato, ancora infestata dallo spirito di suo padre.
L’aveva cercata tanto e alla fine la stella l’aveva guidato lì, fino a quella ragazza: Natalie, la custode di quel luogo sacro. E lei l’aveva portato alla scoperta di quel rifugio. Gliene sarebbe stato grato in eterno. Nessuna casa, nessun piatto di spaghetti, nessuna doccia poteva anche solo compararsi ad un istante passato lì.
Erano su un piccolo pianoro incastrato tra le rocce. In un luogo così inaccessibile che trovarlo senza una guida sarebbe praticamente impossibile. Le alte montagne si innalzavano come guardiani di quel piccolo angolo di magia. La stessa catena montuosa del Gran Paradiso sembrava guardarli con cipiglio. A difesa di quel luogo sacro le rocce sembravano essersi disposte come merli, frastagliandone i contorni, un po’ come se fosse una mano con le dita leggermente piegate, e nel palmo, come una tavola d’argento c’era uno specchio d’acqua limpidissima nel quale i monti si sporgevano a specchiarsi. Al centro del laghetto: una roccia che spuntava come uno scoglio per metà sommerso sul quale le sirene si posavano a cantare ai marinai, e sull’altra sponda, proprio sull’orlo dello strapiombo, alcuni stambecchi si abbeveravano con il capo chino, lappandone la fredda superficie immobile. Alcuni altri, sull’altro crinale, si stagliavano tra le rocce come statue viventi. Erano solo ombre, con il sole dietro le spalle; ombre che si delineavano sui ghiacciaio là dietro, e che si rispecchiavano al contrario sull’acqua, catturati in quei momenti. E se guardava oltre, vedeva la parte alta della valle, con gli alberi che si inerpicavano fin dove potevano attecchire, e poi solo i picchi delle montagne, aguzzi come pugnali piantati con il manico nella roccia; le lame rivolte a tagliare il cielo.
Aaron rimase senza fiato, non riusciva a parlare. Era come il realizzarsi di tutti i suoi sogni contemporaneamente. "Dove mi hai portato, Natalie?" chiese.
"Si chiama Lauson. È incontaminato. Poca gente conosce la sua esistenza. Evitiamo di far circolare la voce in modo che non venga toccato."
Aaron si inginocchiò e sfiorò con le dita la superficie dell’acqua. Era freddissima. Nessun pesce vi nuotava dentro; evidentemente l’altitudine impediva alla vita di formarsi. Anni e anni di moto; la bicicletta il proprio ufficio, la sua biblioteca. Poteva mettere in ordine ciò che era fuori posto, ne aveva il tempo. Deserti, foreste, fiumi... e adesso quel laghetto. 
Allora capì, insieme a tutto il resto, che amava la vita. L’amava perché gli aveva dato modo di poter arrivare fin lì. Amava la vita e capì che amava anche Natalie, e che lei era davvero la sua Turandot, la principessa che gli poneva i tre enigmi da risolvere.
La osservò in quel luogo. Sembrava quasi che tutti la conoscessero. Era uno scenario apocalittico. Il sole infiammato sulle creste delle alpi, gli stambecchi dalle corna ricurve, e lui in lotta per tornare a casa, saturo dei suoi appetiti. Si sporse di nuovo e si affacciò alla superficie del laghetto del Lauson. L’acqua gli rimandò la sua immagine. Rimase ad osservarla per lunghi minuti, scavando in attesa di presagi, di rivelazioni. Scavando con le mani, con gli occhi, con le unghie, con i denti. Scavò dentro di sé e dentro al lago, alla ricerca di qualcosa in cui credere. Aveva il suo scopo, aveva il suo luogo sacro... adesso doveva trovare qualcosa in cui credere.
Era da tanto che non si osservava allo specchio. La barba si era infoltita e i capelli erano cresciuti un bel po’. Il viso era segnato dalle intemperie, dalla vita di privazioni, ma negli occhi chiari ancora splendeva quella luce, quel lucore che era passato sopra il tempo e i chilometri, che si era beffato di tutto quanto e che ancora rimaneva incastrato lì, nella pupilla, come un piccolo diamante. Quella luce non aveva mai smesso di splendere. Mai. Era la luce della libertà. E adesso quella luce gli ricordava che nonostante se ne fosse stato tanto in giro, era venuto il momento di raccontare dei posti che aveva visto alla persona che lo aspettava al pianoforte, alla persona il cui sorriso si portava dentro da tanto tempo. Così le sue dita toccarono le dita del suo io riflesso nel lago; i suoi occhi annegarono in quelli del lago; la sua anima era nel lago.
Ed ecco che si vide sott’acqua. La superficie argentea increspata, mossa appena. Il suo volto che lo scrutava al di là, il cielo immenso che scorreva sopra di lui, le sue dita che toccavano quelle del suo io sulla sponda, e i suoi occhi che sorridevano. Era tutt’uno con il lago adesso. Parte integrante di ogni singola molecola d’acqua che scorreva attraverso di sé, di ogni alga, di ogni riflesso, di ogni sasso, e anche di ogni sogno imprigionato lì dentro. Quasi li sentiva tutti, nella sua forma, nel suo distendersi sul proprio letto di rocce; le montagne che lo osservavano.
Vide il suo viso al di là della superficie. Vide i suoi occhi. Vide i suoi desideri. Così si disciolse, come un riflesso di un sogno che era, e si amalgamò con il lago, rompendo l’incanto.
Aaron si alzò in piedi; le ginocchia crocchiarono. Si avvicinò a Natalie. Lei non smise un attimo di tenere gli occhi nei suoi. Si abbassò e la baciò. Lei rispose al suo gesto e rimasero abbracciati a danzare senza musica in quel luogo sacro per un tempo quasi infinito. Gli stambecchi li osservavano sui picchi e l’aquila lassù volteggiava lentamente descrivendo ampi cerchi. Nel lago il suo desiderio nuotava sotto i riflessi dorati del sole.
Non smisero di danzare.
Passarono due anni. Aaron aveva ormai trovato il suo ruolo nella società valdostana, aiutando il padre di Natalie nella realizzazione di un allevamento di trote. La bicicletta riposava nel fienile, stanca, mentre lui lavorava bene e si era ormai inserito nella famiglia. Nel paese giravano voci che presto si sarebbe sposato con la ragazza, anche se lei era almeno di dieci anni più giovane di lui. Il suo fascino aveva agito anche sui genitori di Natalie, oltre che sugli abitanti del paese dove abitava, e lui non aveva impiegato molto a trovare il suo posto. Quando potevano, lui e la ragazza facevano lunghe escursioni nella vallata. Con lei visitò casolari, dormì in bivacchi e rifugi e si abbeverò alle cascate e ai laghi, ma mai più vi si specchiò.
Fecero l’amore sull’erba, in posti isolati, dove l’aria era così pulita da sembrare quasi ghiacciata. I camosci li spiavano nel loro piacere da lontano, curiosi. Le stelle alpine si piegavano al loro passaggio, salutandoli dai loro piccoli francobolli di verde. Erano innamorati, e si godevano quei momenti. Scavalcarono montagne e picchi, ma non tornarono mai più al Lauson insieme. Forse Natalie non si sarebbe potuta spiegare il perché, ma Aaron lo sapeva bene. Là aveva lasciato qualcosa, e quando vi sarebbe tornato, avrebbe dovuto riprendersela. Aveva sacrificato qualcosa per qualcosa d’altro, aveva operato ad una scelta, ma tutte le mattine, quando il gallo gli cantava la sveglia, e la sera, quando i grilli frinivano la buonanotte, Aaron ripensava a quello che aveva fatto, e poi, chiusi gli occhi, sognava di casa sua. 
In questo modo doveva funzionare e così funzionava sempre, inutile mascherare la verità. Aveva solo rimandato, ma adesso doveva seguire il corso del suo destino. Così una notte, quando la casa era silenziosa e anche il cane pastore Lothar era a dormire nella sua cuccia, Aaron abbandonò il suo letto e come un’ombra scappò lassù, al Lauson. Allenato com’era ormai non impiegò molto tempo. In un’ora era al Rifugio Sella e in un’altra ora era al laghetto.
Non se lo ricordava così bello. Immobile come una lastra di basalto. La luna si spaccava al suo centro, sfiorando lo scoglio con i suoi raggi d’argento. Aaron rimase lì, con le mani in tasca, ad osservare quel posto, deciso a portarselo con sé per sempre, poi si specchiò di nuovo nelle sue profondità come Dio nella poesia di Tjutcev. E vide ancora se stesso, ancora il principe di Persia Calaf, innamorato di Turandot, che non conosce il suo nome. Ma vide anche il ragazzo che era partito ormai da dodici anni da luogo che un tempo chiamava casa. Vide ancora quella luce splendere, in fondo, e si convinse ancora una volta che non poteva restare. Allungò le dita, e il suo riflesso, dall’altra parte, fece lo stesso. I loro polpastrelli si toccarono, e in un attimo furono di nuovo insieme.
"Dilegua notte... tramontate stelle. All’alba vincerò", ripeté ancora una volta, Aaron, saturo di quel contatto, come dopo un orgasmo lungo ore. Ai suoi piedi cresceva una stella alpina. La colse e se la poggiò in un fazzoletto che teneva in tasca. Lì dentro si sarebbe preservata. L’avrebbe portata con sé come ricordo.
Un rumore lo distrasse. Qualcuno aveva tirato un sasso nell’acqua. I cerchi concentrici si allargavano sulla superficie del lago.
Si voltò nell’oscurità e vide Natalie, in piedi, qualche metro dietro di lui.
"Sapevo che prima o poi sarebbe capitato", ammise lei con rammarico.
Aaron non rispose. Le parole erano asciutte dentro di lui.
"Sai... ho sempre creduto che questo lago avesse qualcosa di magico", lo informò lei camminando lungo la riva, gli occhi puntati al suo centro, a rimirare lo scoglio. "Da bambina, quando ci venivo, ero convinta che fosse capace di far avverare i desideri." Natalie sorrise, senza allegria. "Che stupidaggine, vero?" Cercò una conferma nei suoi occhi, ma lui non la guardava; il suo sguardo era alla superficie scura e immobile del lago, illuminata solo dalla luce lunare.
"Venivo qui spesso, e chiedevo al lago di essere una principessa..." Natalie si fermò, poi rise. Nell’immobilità della notte quel riso era come ghiaccio in un bicchiere. "...una principessa che avrebbe trovato il suo principe." La ragazza lo trapassò con gli occhi.
"...E sono stata così stupida, in questi due anni, da credere che quel desiderio si fosse avverato." Con quelle parole, la luna la consolò nel suo pianto, in ginocchio, in riva a quel lago.
Aaron la osservò immobile, senza poter dire o fare niente.
Quando i singhiozzi della ragazza si furono un po’ calmati, continuò: "Sapevo che anche tu gli avevi chiesto qualcosa quel giorno... ho sempre saputo che avevi espresso anche tu un desiderio. Ma se era di tornartene a casa, perché non te ne sei andato subito?", ringhiò lei, disperata. "Perché hai aspettato due anni? Perché hai voluto farmi credere che tutto fosse meraviglioso per poi distruggerlo?" Si alzò e gli si avvicinò, piangendo rabbiosa di dolore, poi lo prese per la camicia e lo scosse violentemente, più volte, chiedendogli una spiegazione.
Lui rimase in silenzio, anche se dentro di sé stava urlando. Quando la ragazza, privata delle forze dalla disperazione, crollò al suolo piangendo, Aaron si abbassò e le accarezzò il viso, con dolcezza, poi disse: "È vero. Quel giorno espressi un desiderio. Lo chiesi al lago, lo chiesi agli dei della terra, lo chiesi a tutto il creato... chiesi ciò che desideravo di più al mondo. In cambio ho lasciato una parte di me qui, in tutto questo tempo."
La ragazza rimase a fissarlo, aspettando che finisse. "Chiesi di poter dimenticare tutto quanto per restare qui con te, per sempre, mia Principessa Turandot. Al tuo fianco a vedere il sole sorgere sulla nostra felicità, al tuo fianco a vederlo tramontare sul mio passato."
Una lacrima scese sul viso di Aaron. "Ma il Lauson non ha voluto avverare il mio desiderio. Non sono riuscito a dimenticare... e oggi sono venuto a riprendermi ciò che avevo lasciato qui. Ha aspettato qui due anni, imprigionato in questo lago, ma perché sia io che lui potessimo vivere, era necessario riunirci."
Il ragazzo scoppiò in lacrime, abbracciandola, e lei fece lo stesso con lui. "Perdonami, Natalie..." continuò a ripetere Aaron per tutta la notte. "Perdonami. Se avessi avuto un’anima l’avrei venduta al miglior offerente in cambio della mia vita con te; ma la mia anima ormai è da un’altra parte, e io devo riaverla per poter amare..."
Piansero insieme a lungo. Poi la notte, che non aspettava, lo spinse a partire, con il dolore così lacerante dentro, con i singhiozzi di Natalie che ancora piangeva in riva a quel lago, maledicendone le acque. Se li portò dietro per tutta la discesa, ma non si fermò mai...
...e Aaron riprese la strada di casa. Senza bicicletta questa volta. Era stanca, e non se la sentiva di accompagnarlo in quest’ultima avventura. Preferiva starsene lì, appoggiata al muro, a sopportare le galline che le chiocciavano sul sellino. E chissà che non pensò a lui, che l’aveva cavalcata per dieci anni, mentre adesso scendeva da quella montagna lasciando là la donna che amava, e risaliva il fiume, poi la strada che li aveva portati entrambi lì, quella notte di agosto di due anni prima, e poi ancora su, fino a ritrovare quella che lo riportava al suo paese. Chissà che non ripensò a lui con rammarico. 
Fu un viaggio lunghissimo. Avrebbe potuto farlo in treno, dato che i soldi non gli mancavano, ma sentì che doveva espiare a tutto ciò che era stato, e così camminò e camminò e camminò... fino a casa.
Ci vollero due settimane. Camminò per trecento chilometri di statali, stando attento ai fari delle auto, dormendo in motel di basso costo e non badando alla pioggia o al caldo. Evitò i bar, i passaggi offertigli, le prostitute che gli ammiccavano, le sirene della polizia. Camminava a testa bassa, con la sola speranza nel cuore. Gli importava solo di arrivare a casa e stringere sua madre in un abbraccio senza fine. Passò sopra la Dora Baltea, passando attraverso la valle, fino a che un giorno le alpi furono lontane e un cartello lo avvisò che era entrato in Piemonte. Così la pianura sostituì i monti, ed era una visione sempre meno deliziosa. Poi uscì anche dal Piemonte, in un giorno di pioggia. In lontananza una cupa nube scura gli annunciava la sua vicinanza alle grandi città lombarde. Durante il viaggio di ritorno ripercorse ogni sua tappa con la mente, cercando di riordinare le idee per raccontare alla madre con maggior chiarezza possibile le avventure passate, una volta giunto a destinazione. Le piante dei piedi erano ormai talmente callose che non sentiva altro che la stanchezza. Niente vesciche. Se solo ci fossero state, magari il dolore che aveva dentro si sarebbe lenito un poco... ma il destino non era magnanimo.
La notte prima di arrivare, quando ormai non gli mancavano che due chilometri, si fermò sotto la luna, sdraiato in un prato, come un tempo, e si rollò uno spinello. In lontananza il traffico dell’autostrada era un rumore continuo nella notte. Ripensò a quel giorno, in quella foresta, quando ancora cavalcava la bicicletta, sua stanca compagna di avventure che adesso riposava nel fienile della casa di Natalie. Ripensò alla rivelazione di quella notte. A quanto quel luogo avesse cambiato la sua vita. La bellezza incomparabile della natura che lo abbracciava, il respiro del silenzio intorno a lui, dentro di lui; talmente intenso da permettergli di sentire il rumore delle foglie che cadevano, dell’accendersi e dello spegnersi delle lucciole. Sospirò mentre fumava. Non riusciva a pensare a casa sua, quella notte. Era capace solo di pensare a Natalie e alle sue montagne, alla sua principessa Turandot, che adesso stava di sicuro dormendo nel suo letto, immersa nel candore delle sue lenzuola, a morire ad ogni respiro. 
Ripensò a quei momenti e si addormentò così, sotto la luna; le braccia spalancate. Lo spinello ancora nella mano.
Il giorno lo accolse con il suono intenso delle campane. Era domenica e niente sembrava cambiato. Anche in sua assenza la messa si teneva lo stesso. Chissà che non fosse ancora il vecchio Don Piero a svolgerla. Per i primi istanti non si rese conto di essere veramente a casa, così si guardò in giro a lungo, cercando di orientarsi. Poi finalmente realizzò che la notte che precedeva il suo arrivo era passata e adesso la strada era corta per arrivare a casa. Si alzò di fretta e si spolverò i vestiti, poi si buttò lo zaino in spalla e riprese il cammino. L’entusiasmo era così grande che a stento riusciva a non correre. Si fece forza e si diresse verso casa. 
E guarda là... dove prima c’erano campi adesso erano sorte alcune case, e quell’aria di campagna che tanto caratterizzava quel posto era quasi sparita. E poi cosa avevano fatto agli incroci dove passare di fretta col motorino ti faceva correre brividi per la schiena? Tutti sostituiti da anonime rotatorie che costringevano le macchine a rallentare... Aaron scosse la testa. Si aspettava dei cambiamenti, certo, ma non che la sua infanzia fosse defraudata!
In ogni caso continuò a camminare al lato della provinciale e poi allo stop dove nessuno si fermava. Uscì dall’angolo ed eccola lì, in cima alla salita. Il respiro gli mancò e tutto intorno a lui si zittì. Potevano abbattere tutti gli incroci che volevano e costruire abitazioni a iosa, ma lei sarebbe rimasta sempre la stessa, anche nel passare degli anni. Quell’espressione triste non sarebbe cambiata mai. Da dove era adesso riusciva a vederne il tetto e il piano superiore. Nel sole del mattino era ancora più bella di quanto se la ricordava. Ondate di ricordi lo assalirono, accelerandogli i battiti. Cominciò a salire, piano, con il sorriso sulle labbra. Aveva una voglia pazza di correre, ma si trattenne. Voleva gustarsi ogni centimetro di quella salita.
"Oh cazzo", si disse, "come ho fatto a stare lontano per tutto questo tempo?"
Man mano che procedeva si sentì di aver voglia di ridere e piangere insieme.
Poi, man mano che si avvicinava notò che c’erano tante macchine parcheggiate di fronte a casa sua. La cosa lo incuriosì, e quando vide che molta gente era raggruppata davanti all’ingresso, una strana sensazione di gelo lo invase. Cominciò ad aumentare il passo. In lontananza riusciva a distinguere alcuni suoi amici, alcuni amici dei suoi genitori, alcuni parenti.
Quando infine fu in mezzo a loro, molti visi familiari si volsero verso di lui. I volti tirati lo fissarono con gli occhi spalancati.
(Nessun dorma... nessun dorma...)
Si fece strada tra la gente con una lentezza esasperante. Ad un tratto sembrava che si fossero moltiplicati e che tutti gli impedissero di procedere. 
(tu pure o principessa... nella tua fredda stanza)
Respirando affannosamente passò in mezzo a tutta quella gente, sentendo le loro voci sussurrate che lo indicavano. 
(guardi le stelle che tremano d’amore e di speranza)
Gli sembrava di avere due pezzi di legno al posto delle gambe, e non gli riusciva di coordinare i passi. Con forza spostò gli ostacoli davanti a sé e si ritrovò la porta di casa spalancata.
(Ma il mio mistero è chiuso in me)
Superò la soglia. Il respiro del silenzio era pesante, come l’alito di un drago. Camminò sul parquet con passo lento. Dietro di lui i sussurri della gente si ghiacciarono.
(il nome mio nessun saprà)
Dentro c’era sua zia. I capelli ormai bianchi. Era vestita di nero. 
(No, no, sulla tua bocca lo dirò)
Al suo fianco c’era suo marito. Si era tagliato i baffi e aveva perso i capelli. Era meglio se se li fosse tenuti; tutti e due. 
(quando la luce splenderà)
Avanzò a passi pesanti. Sua zia si voltò a guardarlo e per un attimo gli mancò il respiro, poi stramazzò al suolo, svenuta.
(ed il mio bacio scioglierà)
Il marito la sostenne con il suo fare fragile. Aaron fece altri due passi ed entrò nel soggiorno. Il battito del cuore era pesante nelle orecchie. Andava quasi in saturazione.
(il silenzio che ti fa mia)
Rimase fermo sulla soglia. Il soggiorno era come lo ricordava. Il tavolo tondo vicino alla finestra. Il caminetto spento. Il pianoforte appoggiato al muro. La foto di suo padre che lo fissava.
(Dilegua, o notte, tramontate stelle)
La bara era al centro, aperta. Si avvicinò senza riuscire a capire cosa stava succedendo. Dalle sue spalle non giungeva alcun rumore. Il tempo era immobile. 
(Tramontate, stelle) 
Eccola lì. Il suo sorriso era proprio come se lo ricordava. Le rughe agli angoli degli occhi erano ancora lì. La morte, bastarda, quelle non poteva portagliele via. La sua espressione serena lo colse quasi alla sprovvista. Dentro di lui caddero in frantumi tante cose... tutte insieme, come torri che si accasciavano su loro stesse. Le mura di Troia stavano bruciando.
(All'alba vincerò!)
Era ancora bella. Di sicuro. Era invecchiata nel tempo, certo. I capelli erano ormai canuti, ma lei era ancora lì, bellissima. Indossava il cammeo che le aveva regalato suo padre venticinque anni prima, e il vestito della festa. E se per lui quei dodici anni erano venuti e andati con due pedalate, per lei erano lì, tutti insieme, sul volto. Aveva gli occhi chiusi, quel piccolo, dolce sorriso che le increspava le labbra. Avrebbe voluto potersi chinare, baciare quelle labbra e svegliare la principessa sua madre, come se fosse la bella addormentata nel bosco. Ma nessun fuso avvelenato l’aveva punta. Il segno del dolore la vergava. Il dolore della perdita del marito, morto prematuramente, e del figlio, che era sparito tanti anni prima. Le accarezzò gentilmente i capelli. Dentro aveva un turbine che si scatenava. 
Il destino lo aveva beffato ancora. Aveva camminato fino a casa per trovare sua madre morta, ad appena sessantasette anni. Aveva camminato con la speranza di poterla abbracciare, di poterla guardare negli occhi e chiederle scusa per la distanza, farsi cullare tra le sue braccia fino a tarda notte. Prendersi cura di lei... e invece non poteva, perché era chiusa lì dentro, come una bambola di pezza, la testa sul tessuto della bara, i capelli ben pettinati.
Dietro Aaron, sua zia, stesa a terra, si stava riprendendo mentre qualcuno voleva chiamare un’ambulanza. Si sentiva meglio, la sentì dire, era solo l’emozione. Il ragazzo si appoggiò alla bara, vi posò sopra la fronte. Il contatto con il legno non gli era di conforto. Come era potuto arrivare tardi? Solo qualche giorno e l’avrebbe vista in vita... ed era sicuro che la sua presenza avrebbe ritardato l’avvento dell’angelo della morte. E se l’avesse visto arrivare si sarebbe battuto anche con lui pur di saperla in vita... se solo non avesse dormito in quei motel... sarebbero bastate due o tre notti di cammino e sarebbe arrivato in tempo.
Alzò lo sguardo alla finestra. Di fuori alcune persone discutevano indicandolo. Si accorse che non gli importava niente di quello che stavano dicendo. Tornò a guardare sua madre e si accorse che, appena sopra alle mani posate sotto l’arco del seno c’era un foglietto. Era stato appoggiato sopra così, con gentilezza. Aaron lo prese in mano. Dentro di lui tutto era il silenzio.
Era una fotografia.
Rappresentava una giornata molto allegra. Un pic-nic sulle colline del lago di Como. Un platano e una tovaglia a quadri stesa sull’erba. I colori sembravano intensissimi. Sua madre rideva, spensierata, seduta con le gambe unite su un lato, e a fianco a lei, anche suo padre aveva un gran sorriso. E in mezzo, un bambino in pantaloncini corti beige aveva lo sguardo un po’ lontano, pensieroso. Sembrava contemplasse un punto distante. Anche lui sorrideva, ma era il sorriso del momento. Era stata scattata sei mesi prima che cominciassero quei maledetti mal di testa. Aaron se lo ricordava quel momento...
"Non ha fatto che ripetere che stavi tornando... ma nessuno ci aveva creduto. Negli ultimi tempi non era sempre lucida", annunciò una voce maschile. Aaron si voltò. Suo zio lo osservava con occhi come pomi.
"Come... Come è successo?", chiese lui.
L’uomo si teneva in mano il cappello e lo stava tormentando con le mani.
"Era da due settimane che pronosticava il tuo ritorno. Continuava a dire che saresti arrivato presto. Poi, l’altro giorno si è addormentata così, sul divano, con la tua foto in mano... e non si è più svegliata." Si avvicinò alla bara, con due lacrime che gli scendevano sul volto, maestose.
"Mi... mi dispiace Aaron", balbettò l’uomo.
Il ragazzo rimise la foto al suo posto. Sulla soglia del soggiorno, tutti gli invitati alle esequie si erano fatti avanti ad osservarlo. Sua zia era seduta su una sedia all’ingresso. Si asciugava le lacrime con un fazzoletto di carta.
"Io... non avrei mai dovuto lasciarla... non sarebbe accaduto...", affermò con voce rotta Aaron.
"Lei sosteneva il contrario."
Aaron lo guardò con perplessità. "Come?", chiese soffocando le lacrime.
"Ha sempre sofferto della tua assenza, ma diceva a tutti che eri in giro a cercare la tua strada e che prima o poi saresti tornato. E allora sarebbe stata qui ad aspettarti. Negli ultimi due anni non è mai uscita di casa, per paura che tu arrivassi mentre era fuori. Io e sua sorella le facevamo visita spessissimo. Si sedeva alla finestra... lì... e guardava fuori, aspettando di vederti arrivare. Ogni sera... ogni sera era convinta di vederti arrivare dal fondo della strada, così ti teneva il letto pronto e la cena in caldo..."
Aaron rimase in silenzio. La guardò ancora. La fragilità di quella figura lo commosse. L’amava. Oh, se l’amava. Si piegò e baciò quelle pieghe, quelle labbra fredde... piangendo. "Sono tornato mamma, vedi? Sono qui..."
Suo zio si allontanò, rispettando il suo dolore. Con sé portò via anche gli altri invitati.
Rimase al suo capezzale per un tempo infinito. Le raccontò di tutte le cose che aveva visto. Gliele descrisse mentre piangeva, magari sorridendo, immerso nel ricordo. Le raccontò di Natalie, di come l’avesse lasciata per tornare da lei. Le raccontò di quel paese, della sua famiglia... le descrisse il Lauson, e tutti i luoghi meravigliosi che aveva visitato nella sua lunga assenza.
Poi, quando le parole si furono esaurite, Aaron prese la stella alpina che aveva colto al laghetto e che aveva ripiegato in un fazzoletto. Si era seccata nel viaggio. Stando attento a maneggiarla, la tolse dal suo letto e gliela mise tra i capelli. Donava ancora più luce al suo viso. "Questa viene da là, mamma... l’ho colta a 2600 metri di quota solo per te."
Poi il dolore traboccò, e si piegò sulla bara a singhiozzare. "Perdonami mamma... ti prego... perdonami", sussurrò con voce rotta dal pianto. Quando sentì che non poteva più resistere, Aaron si mise in piedi, e con l’immagine mentale di sua madre con un fiore tra i capelli, uscì da quella casa, passando in mezzo alla gente stranita che lo osservò andare via senza una parola. Davanti a lui, sul muro, proprio come un manifesto elettorale, c’era il necrologio che avvertiva del funerale che si stava svolgendo in quel momento. Proprio non se lo potevano risparmiare. Attraversò la strada, infilò le dita nella colla dei due lembi superiori e lo strappò via, accartocciandolo e gettandolo a terra, poi discese fino allo stop. Non tornò mai più.
Vagò il mondo per tre mesi, dormendo dove gli capitava, e perdendo tutto ciò che aveva. Un giorno bruciò il suo zaino e tutto ciò che conteneva. Rimase ad osservare la fiamme lambire i suo vestiti con lo sguardo vuoto. A pochi metri da lui due prostitute nigeriane ballavano intorno ad uno stereo che sputava pacchiana musica da discoteca. La luce delle fiamme si agitava sulla loro pelle scura, accarezzandone la lucidità. Abbandonò gli ideali e si unì ad una compagnia di motociclisti attaccabrighe. Viaggiò sul retro di una Harley per altri quattro mesi, rubando per vivere e divertirsi, fino a quando, in un locale dalle parti di Pavia, qualcuno scatenò una rissa. Non sapeva come era cominciata. Solo si era ritrovato a menar le mani. Qualcuno gli tirò un dritto al mento e finì disteso. La cosa durò pochissimo. Finì nel momento in cu uno degli imbecilli di periferia con cui si era avuto da ridire, tirò fuori un coltello e lo piantò nel polmone sinistro di uno della sua banda. Aaron lo aveva davanti. Lo vide accasciarsi al suolo in una pozza di sangue, con le mani sulle ferita, incredulo. Piangeva. Tutti si dileguarono, e lui si ritrovò a scappare insieme agli altri. Qualcuno chiamò la polizia prima di chiamare un’ambulanza, e nascosto tra gli alberi, Aaron osservò gli sbirri arrestare tutti i presenti, colpevoli e non. Qualcuno spifferò della sua fuga, e quando li vide avvicinarsi con le torce si ritrovò a correre lungo la riva del Ticino, costretto dalla paura.
Era un fuggitivo. Lo era diventato senza volerlo, e mentre correva sotto la luna, con la convinzione di essere inseguito, si rese conto che stava di nuovo scendendo lungo un fiume, come tanto tempo prima. Rimase nascosto per tutta la notte; il nuovo giorno lo vide camminare sulla statale. Ancora senza una meta, ancora senza uno scopo.
Così, senza saperlo, una notte, si era ritrovato a quella festa, in quello scantinato. Non conosceva nessuno dei presenti, ma supponeva, guardandosi in giro, che nemmeno tra loro si conoscessero. Su quel divano si assaporava la musica, l’intimità di quel luogo, la duplice faccia della vita. Scendi due metri sotto terra e vedrai che il mondo sarà diverso.
Tutto questo prima di sentire le parole di quella canzone, prima di rendersi conto che quelle parole sono davvero sue, e che la sua Turandot è ancora là, incatenata su quei monti, a far traboccare il Lauson di lacrime. Lui l’aveva lasciata là per tornare da sua madre, alla ricerca di quel perdono che temeva di non ritrovare, e quando era infine giunto a casa, dopo chilometri e chilometri, e aveva visto la serenità che gli incurvava il sorriso mentre dormiva il suo sonno eterno, allora aveva capito che sua madre lo aveva perdonato da tanto, tanto tempo. E chissà che lei non lo stesse rimproverando adesso, da lassù, perché ancora non si era fermato e non era tornato da Natalie... Conoscendola di sicuro era così.
Con le parole di quella canzone incise nel cuore, Aaron cammina sulla statale.
Impiega tre settimane e mezza ad arrivare a quel paese. Ogni posto in cui passa gli è noto. Non è più un ragazzino, e questo lo costringe a diminuire il ritmo, ma niente lo può fermare. Giorno e notte, notte e giorno sulla strada. Lunghi giorni di marcia ed ecco che le prime alpi gli danno il benvenuto. Non averle viste per questi lunghi mesi le ha rese ancora più belle. L’estate riscalda le notti. Gli alberi in fiore danno un colore tutto diverso al paesaggio, ne aprono gli orizzonti, saziano gli occhi. Aaron si ferma a dormire in un piccolo hotel sulla statale. Il prezzo è abbordabile per il suo portafoglio e le lenzuola sono pulite. Gli servirà un altro paio di giorni di cammino per arrivare da lei. Passa la notte in bianco, ad ascoltare il silenzio dentro di sé. Le voci hanno smesso di urlare.
Così il giorno dopo riparte, ringraziando calorosamente la proprietaria che lo saluta con un gran sorriso. Si avvia sulla statale quando ancora il fiato si condensa davanti al volto. Il sole non è ancora caldo, e lui ha tanta strada da fare, tante parole che dovrà dire e cui deve pensare. Natalie potrebbe aver ritrovato l’amore in questi mesi, e il suo viaggio sarebbe inutile. Lo sapeva. Lo temeva. Nei due anni che aveva passato al suo fianco, quando facevano l’amore e quando semplicemente rimanevano seduti su di un picco ad osservare la valle sottostante, quando camminavano o quando dormivano abbracciati, non aveva mai smesso di pensare alla loro separazione. E quando poi era avvenuta, in quello stesso luogo che aveva suggellato il loro amore, lui l’aveva amata più di quanto avrebbe potuto immaginare. Non gli riusciva di guardarla in viso senza dirle che l’amava. Non riusciva a pensare a lei senza pensare che l’amava. Se Natalie avesse trovato l’amore in un’altra persona, se avesse incontrato la felicità con un altro uomo, lui l’avrebbe amata lo stesso e sarebbe sparito, senza disturbare, perché amare significa desiderare la più grande felicità alla persona che si ha nel cuore. E se quella felicità significa lontano dal cuore che vorrebbe ospitarla per sé, allora amare significa rispettare. Sì. Aaron la rispetterà. Non la porrà nemmeno davanti ad una scelta; si chiuderà la porta alle spalle e lascerà che il mondo lo ingoi di nuovo, tanto grande quando si è lontani ma così piccolo quando la distanza si desidera.
E ad ogni strada che imbocca sente che lei è più vicina, sempre più vicina, come se le loro anime siano parte di una cosa sola, due spaccati che si attirano l’uno all’altro. Continua a camminare, ignorando la stanchezza, sentendo solo che la sua Turandot è là, dopo quel crinale, solo alla prossima vallata. Ancora poche ore e sarò da te.
Il sole lo osserva camminare, lentamente, quasi acquistando forza ad ogni passo, fino a quando arriva al paese dove abita Natalie. Non è cambiato molto dall’ultima volta che è stato lì. Ma quei paesi non cambiano mai tanto. Il sole alto lo osserva nel caldo pomeriggio mentre imbocca la strada per la casa di Natalie. La osserva da lontano, e vederla gli fa mancare il fiato. Gli ricorda un po’ casa sua, in quel giorno così lontano, quando è partito da casa in bicicletta. Gli riporta alla mente lo stesso sguardo un po’ accusatorio, quasi fosse accigliata nell’osservare il suo ritorno. Le persiane sono chiuse, in giro non c’è nessuno. Aaron tenta di fare meno rumore possibile mentre cammina perché ha quasi paura di interrompere qualcosa. Il cuore gli salta i battiti mentre entra nel vialetto. Ha una paura folle che quella porta si apra e che ne compaia una bara, seguita dai familiari vestiti a lutto, in un ripetersi delle vicende che sono avvenute a casa sua, con sua madre.
Lothar è legato fuori, il muso tra le zampe. Le orecchie sono alzate. Lo sta osservando con curiosità e stupore. Aaron si avvicina e il cane si alza in piedi, contento di vederlo. Sventaglia la coda nell’aria, come fosse un pittore che dà lunghe pennate di colore. Aaron si sofferma ad accarezzarlo, un po’ perché gli fa piacere rivederlo e un po’ perché è contento di dilatare il tempo che lo divide dall’incontro con Natalie ancora di qualche attimo. Poi, come se voglia fargli capire che non può più esitare, Lothar si abbassa di nuovo a terra e rimane ad osservarlo. Così lui si alza e si avvicina alla porta chiusa. Bussa. Ma nessuno risponde. Bussa di nuovo. Uno scalpiccio sommesso si avvicina alla porta. Poco dopo l’uscio si dischiude e una figura si affaccia alla fessura. È la madre di Natalie. Indossa un vestito elegante. Lo osserva per alcuni istanti. Aaron ha amato quella donna quasi come la figlia. Un lampo le corre negli occhi. Si porta la mano alla bocca e si tira indietro.
Aaron l’abbraccia e lei fa lo stesso. Oh, quanto può essere soave un abbraccio, talvolta. Come un balsamo di letizia che scivola lento portandosi via tanto dolore, trascinandoselo via con sé, lentamente. Non si dicono niente i due, entrambi sanno che ci sarà il tempo per raccontarsi e scusarsi.
"Simone, Dov’è Natalie?"
La donna ha le lacrime agli occhi. Anche lei lo ama. Sa bene che se fosse nata solo dieci anni prima ci sarebbe stato l’innamoramento; ma i tempi spesso sono burloni.
"Naty è... in ospedale."
Quelle parole rimangono sospese come cristalli di gelo nell’aria. Aaron rimane pietrificato.
"In ospedale? E perché? Che cosa le è successo?"
"Lei... non vuole fartelo sapere."
Il ragazzo rimane disorientato dalle parole della donna. "Non vuole farmelo sapere? E come faceva a sapere che sarei tornato?"
"Lei ti ha sempre aspettato, Aaron. Dal giorno in cui sei partito ha atteso. Sapeva che saresti tornato. Ne ha sempre avuto la sicurezza..."
"In quale ospedale è?"
"Aosta", è la risposta.
Solo ora si accorge che la donna ha tra le mani un cappotto. "Stavi andando da lei, vero? Ti prego, portami da lei."
La donna sorride, poi si scosta quella lacrima dall’occhio. È sempre stata una di quelle persone che si commuovono davanti alle scene dolci, davanti ai film sentimentali. Una di quelle donne che leggono Harmony prima di addormentarsi e che riempiono la casa di ninnoli. Ad Aaron piaceva abbracciarla e sentire il profumo della sua crema per la pelle, la morbidezza del suoi capelli. E una delle cose che più gli sono mancate durante la sua assenza sono proprio quegli abbracci, se non il sapore delle piadine che preparava quando facevano qualche escursione, o il fresco delle lenzuola quando le cambiava.
Salgono in macchina, sempre la solita 4x4 che riposa nel box. Quando sono in viaggio Aaron la osserva mentre guida, poi finalmente le fa quella domanda che tanto preme. "E lei ha...", quella domanda è come un sasso in bocca. "Ha un altro amore?"
"Ti ha sempre atteso. Sapeva che saresti tornato. Ogni domenica..." la voce le si incrina nel ricordo, "...si affacciava alla finestra e guardava fuori, aspettando che tornassi. Continuava a ripetere che avresti mantenuto la promessa e che saresti tornato."
Simone accosta e si volta ad osservarlo. "Oh Aaron... quando te ne sei andato, così, mi è sembrato quasi che lei non smettesse mai più di piangere. Era come se avesse perduto il desiderio di vivere. Poi, un giorno è andata su, in montagna. Quando è tornata mi sono resa conto che non era la stessa." Simone prese fiato. "Credimi, è una cosa che solo una madre può notare. Ma la ragazza che è tornata giù... non era quella che era salita. Non smise di aspettare. Era sempre taciturna, ma sapeva per certo che saresti tornato... e..."
Aaron la osserva. Lei ha gli occhi perduti nel ricordo. Fissa un punto al di fuori dell’auto. "...e?", chiede lui.
"...sapeva anche quando saresti tornato. Aveva predetto... in qualche modo... aveva predetto che saresti arrivato oggi. E mi aveva chiesto... di rimanere in casa e... e di aspettarti...", non riesce a finire la frase perché è spazzata dall’emozione. Aaron l’abbraccia. Il suo desiderio di vedere Natalie è così intenso che si accosta al bisogno di respirare, come se fosse sott’acqua, e lei fosse la luce del sole, che tende i suoi raggi anche sotto la superficie. Ancora poche bracciate, e riuscirà ad averla...
"Mi dispiace...", si scura Simone con voce rotta. "Non riesco mai a trattenermi." Poi sorride. "Nel profondo del mio cuore, Aaron... devi sapere che anche io ero certa che non l’avresti mai abbandonata."
Aaron sorride. Un sorriso un po’ amaro, sbilenco. "Come può un cuore battere... se non ha un caldo corpo che lo ospita?"
Si abbracciano ancora, e questa volta lei lo abbraccia come una madre, non più come un’amica. Una madre che tiene il suo amore al petto. Un amore che ha ferito, ma che ha saputo come sanare.
Ripartono, nel silenzio dell’abitacolo. Aaron ha strani pensieri. Visioni fugaci del paesaggio, della scomodità di viaggiare seduti, della stanchezza della sua anima, del moto così rapido. Ma più di ogni altra cosa pensa a Natalie, alla ragazza per cui è tornato, che è in un ospedale, magari in fin di vita.
Così, quando arrivano nel parcheggio, e non c’è neanche un posto libero, lui costringe Simone a parcheggiare in divieto di sosta e poi si precipita dentro spalancando le porte. Non sa nemmeno dove la troverà, ma se sarà costretto ribalterà l’ospedale.
Un’infermiera lo ferma. Gli chiede chi cerca e lo prega di stare calmo. "Natalie Gerard", afferma lui. La ragazza lo fissa e un po’ rimane sorpresa da quegli occhi. Il sorriso le si addolcisce.
"Vieni con me, Aaron. So io dove la troveremo", afferma Simone.
Così lo conduce, come se fosse cieco, attraverso un cortile, lui non capisce nemmeno cosa succede finché non si trova in un corridoio. Davanti a lui c’è una lunga vetrata. La luce del pomeriggio entra dai finestroni e illumina interamente la stanza. Aaron non capisce. Si volta verso Simone, che ha le lacrime agli occhi. A fianco a lui compare il padre di Natalie. Nota il suo sguardo e così, seguendolo vede che si posa su una culla, una delle tante dentro la stanza. Una figurina al suo interno, avvolta nelle coperte, sta dormendo bocconi il dolce sonno dei neonati. Sulla testa ha un piccolo cappellino di lana, bianco; la pelle è così sottile e trasparente che riesce a vedere la struttura venosa. È così piccolo che potrebbe tenerla in una mano. Sopra la culla, una scritta: "Irvine Gerard".
Aaron rimane ad osservare quella scritta. Nero su bianco. Caratteri stampati, come fuoco sulla pelle. E poi torna ad osservare quel bimbo che dorme. Il vetro si appanna con il suo respiro. Ha le mani attaccate alla superficie trasparente. "Che... che significa?", riesce a chiedere.
Una voce familiare. Una voce che ha sognato la notte, che ha sentito anche di giorno, quando camminava avvolto dalla solitudine, fasciato dalla nostalgia di un posto dove restare e guardare il sole sorgere, spezza il respiro del silenzio. Si volta e la vede. Ed è in quel momento che sa che è valsa la pena aspettare. È valsa la pena viaggiare per tutto questo tempo. Quella visione è così estatica che gli può bastare. Se lei volesse, lui ne andrebbe così, con dentro il cuore quell’immagine di lei, vestita di bianco, e quel pancione che sforma la camicia da notte. È una visione così bella, così libera da false maschere, così dolce nella sua innocenza, tale da indurre Aaron a capire che se la porterà con sé per sempre. Per un attimo assomiglia a sua madre; quel po’ di forza negli occhi, la passione di poter smontare montagne, abbeverarsi dei mari.
Aaron vorrebbe dire qualcosa, ma ad un tratto è come se si fosse dimenticato il copione, ed improvvisare non è il suo forte. O forse il respiro mozzato del mondo che sta a guardare lo lascia talmente senza fiato che anche se urlasse non riuscirebbe ad emettere alcun suono.
"Forza..." dice lei, spezzando il silenzio. "...hai ancora pochi secondi di tempo per ripensarci, poi mi devi abbracciare."
Lui sorride e si lancia contro di lei e la stringe. Così forte da rischiare di spezzarla. Lei piange sulla sua spalla, poi si stacca e singhiozza: "Bastardo..."
"Non potevo stare senza di te", confessa lui, ed è tutto quello che le dirà, ne è sicuro.
Lei lo abbraccia ancora. "Questa volta non ti permetteremo di andare via."
"Questa volta non me lo permetterò nemmeno io", le fa coro lui. Non gli è sfuggito il "permetteremo".
Dopo alcuni minuti d’estasi, abbracciati, si voltano, insieme, ad osservare il loro piccolo che dorme. Sembra una stella nel suo lettino.
"Perché non me lo hai detto?", chiede lui, ubriaco di quella vista.
"Non era mia intenzione trattenerti contro il tuo volere..."
E poi rimangono abbracciati lì, ad osservarlo dormire, come un pezzo di cielo staccatosi dalla volta.
Due mesi dopo, tornano al Lauson. Ormai in molti lo hanno scoperto ed è stato aggiunto alle cartine e agli itinerari, così che ha perso molto della sua magia. A vederlo si nota. Non ci sono cartacce o cartelli, è stato rispettato, ma è come se un fragile equilibrio sia stato spezzato e ormai è solo un laghetto di montagna come un altro. Anche i picchi li osservano con cipiglio, e il sole lì non splende come una volta. 
Aaron vi si specchia, come tanto tempo prima, e nel momento in cui i suoi occhi si guardano con quelli sulla superficie, sente che qualcosa che una volta dimorava in quel lago ora non c’è più; forse se ne è andata, magari disturbata dalle troppe visite... e forse non tornerà. O magari semplicemente si è esaurita, lasciando solo il ricordo di ciò che un tempo era, come visitare le rovine di una vecchia città e sapere che tra le colonne diroccate una volta fioriva la vita.
Un velo di tristezza si stende sul cuore di Aaron. Sentirà la mancanza di quel potere, ne è sicuro. Un po’ se l’è portato dentro, in giro per il mondo, spargendolo come la parola di un dio, ma adesso si è spento, come una fiamma nella notte, e a testimoniare il suo passato ardere ci sono loro due e c’è anche Irvine, frutto del loro incontro in quel luogo.
Aaron rimane alla sua riva con Natalie per lunghi minuti, poi confessa quella sua premonizione alla ragazza: "Non è più lo stesso, vero?"
Lei scuote la testa. "No. Sembra aver perso il suo potere. Chissà che un giorno non lo riacquisterà."
Lui sfiora la superficie del lago con un dito. Subito i cerchi concentrici si aprono a distendersi. "No... credo che non tornerà mai più quello di un tempo."
Rimangono ad osservare le montagne specchiarsi lassù a lungo, in silenzio, poi Aaron osserva: "Penso che sia un po’ colpa nostra."
"Di cosa?"
"Perché il suo potere è svanito. Penso che sia a causa nostra."
"Nostra? E perché mai?"
"Forse aveva un potere che noi non capivamo... e lo abbiamo usato male. E adesso si è estinto", spiega lui con un po’ di amarezza nella voce. "Avverava i desideri, Naty."
Lei vaga con lo sguardo sulla superficie, come attendendo un presagio. "Forse no. Mi piace credere invece che sia stato capace solo di renderci capaci di capire che cosa sia veramente importante. E di questo io lo ringrazio."
"Cosa intendi dire?"
"In un certo senso ha avverato anche il mio desiderio. E forse è proprio per questo che adesso il suo potere non c’è più."
"Che desiderio?", le chiede lui, osservandola.
Lei lo guarda, sorride. "Riaverti qui, Aaron. Solo riaverti qui..."
Il ragazzo allora le si avvicina, e le prende le mani tra le sue. "Sai che cosa penso?", chiede lui.
"A cosa pensi?", la voce di lei è soffocata dall’abbraccio.
"Penso che finalmente sono a casa. Il tempo di viaggiare è finito."
La risposta è in quelle parole. Se credi che la tua casa sia il mondo, allora arreda il mondo per renderlo confortevole, e se una persona che ami ti rende felice, allora dividi con quella persona gli istanti più importanti della tua vita. 
...e se quello spirito, o quel potere che dimorava in quel lago li sta guardando, magari da dietro gli occhi di un neonato... di sicuro sta sorridendo.

Danny Glick: 2 giugno 2001 - 27 novembre 2001
e-mail : danny.glick@libero.it