autore: Danny Glick 
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. : c e n e r e . a l l a . c e n e r e : .
“O Fati, sapremo le vostre volontà; che noi morremmo lo sappiamo; non è che dell’ora e del prolungare dei giorni che gli uomini si curano.”

William Shakespeare: “Giulio Cesare”


Un tetro rumore rotolante come la corsa pazza di tanti cavalli in miniatura.
La claustrofobica sensazione di non sapersi più svegliare.
Lo spazio è troppo stretto anche per trarre un lungo respiro; le pareti così vicine non ti consentono di distendere le braccia e il buio è così profondo che hai la sensazione di non poter aprire gli occhi.
Ed ecco ancora quello schianto che ha significato la fine, l’impatto immenso e indolore contro la morte di vetro e lamiera. Ed ecco di nuovo le urla che presagiscono dolore e gli occhi rossi e blu che con queste giungono a scandagliare i dintorni con il loro sguardo.
Nuvole di panna montata si rincorrono in un gaio girotondo nel cielo che, appeso sopra al mondo con resistenti chiodi invisibili minaccia di cadere sui nostri capi con tutto il suo bagaglio di rilucenti stelle di cartone dipinto.
Nascere è vedere le stelle nel cielo e credere che siano i nostri cari estinti divenuti parte dell’eterno etere.
Crescere è sapere che le stelle sono solamente anonime sfere incandescenti e sterili pianeti.
Morire è constatare che le stelle sono solamente lampadine e che l’interruttore generale si è inevitabilmente abbassato.
Coltivando giardini dove la luce lunare vi posa sovente riesci a scoprire cosa ti spinge a scrivere il tuo testamento ad una tenera età. Innalzi inni di gloria alla vita scorgendo con occhio arcigno quel freddo necrologio gettato a caso su carta riciclata e sai che ogni cosa al fine è riciclata: vivi sull’impuro e obbligato sacrificio di altre forme di vita. E sai che tu stesso infine lo diverrai. Il nulla ti circonda da quando la luce ha ferito i tuoi occhi per il primo sconvolgente istante; dal primo momento in cui ti venne donato il primo schiaffeggio, il primo della lunga serie che segna la tua vita come tante tacche sullo stipite della porta. Fratello Nulla con le Sorelle tenebre hanno intessuto il mondo nel capriccio in cui sei capitato senza che ti sia stato chiesto il parere a riguardo.
Non è altro che un epitaffio la nostra effimera esistenza: un raccapricciante ricamo sulla fredda lapide che porta il nostro nome inciso sopra. Il tuo nome è stato scritto da tempo sopra quella pietra tombale, e sotto quel nome è stata scolpita una data seguita da uno spazio che attende anni per essere riempito. E quello spazio diviene la nemesi con la quale devi combattere orni istante della tua vita.
Riconosci la vita, rifiuti la morte, l’unica musa prosaica che sia mai esistita dall’inizio dei tempi. Davanti a lei la poesia del mondo si infrange proprio per il fatto che non puoi evitare di andarle incontro; qualsiasi strada intraprendi nella tua vita, qualsiasi ceto sociale ospiti la tua persona, qualsiasi mestiere, che sia questo probo e ingrato o generoso e corrotto alla fine della tua gelida odissea ti aspetta sempre il medesimo destino. Un fato inevitabile, ma l’unico senza macchia.
E lo spazio è sempre più stretto e il buio si fa sempre più fitto, gli arti sono come congelati, le braccia incrociate sul petto, il corpo cucito nell’abito della domenica. E allora sai che sei rinchiuso in un incubo palpitante e senza ritorno, un’onirica ricerca di se stessi nel baratro che ti attende come fauci spalancate. E sai che non puoi ridere perché la tua espressione è eternamente solenne e non puoi urlare perché non c’è nessuno che ti possa sentire.
E allora dibattiti, scalcia, distruggi questa porta che si è sigillata sul mondo inaccessibile che prosegue la sua incerta e cupa danza senza di te! Inutile piangere, inutile disperarsi.
Dolore: quando le schegge di mogano penetrano nella carne sotto le unghie ormai rotte e sanguinanti
Cecità: quando il buio si fa completo e indescrivibile e l’unico rumore è il sordo tonfo della terra che rotola sul coperchio inchiodato.
Soffocamento: non parlare, l’aria è poca.
Odore di muffa tra le pareti della tua nuova accogliente dimora. Non l’avevi mai immaginata così vicina a te, vero? Picchi i pugni contro il legno quando altra terra cade sopra il coperchio e urli e scalci, m sai bene che è inutile. Quando riapriranno la tomba saranno loro ad urlare trovandoti girato su un fianco, nel vano tentativo di cercare di morire in una posizione più comoda, di accogliere la sospirata morte come se stessi dormendo. È una macabra realtà: nessuno dà retta alla parola dei morti. Loro sono venuti ad onorare il patto preso con la vita e sono venuti a darti il loro estremo omaggio; saranno loro gli ultimi a vederti, ma sarai tu il primo a dar loro il tuo più caloroso benvenuto. Così sorridi, perché alla morte piace giocare, e quel gioco sei tu, chi l’avrebbe mai detto? La fossa è ormai scavata, le lacrime versate si asciugano su visi di gesso… terra alla terra… polvere alla polvere… cenere alla cenere… la bara è ormai chiusa, ma tu sei ancora vivo.

Danny Glick: 6 febbraio 1997
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