autore: Danny Glick 
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. : p e r . l ' u l t i m a . v o l t a : .
"Prima dell’alba, ti sento sussurrare, e il tuo sonno non si lascia toccare dal mattino."

Judas Priest: "Before the Dawn"

La notte giunge come una fredda coperta che si stende lentamente sui tetti e i comignoli delle case. Un’ombra arranca nel buio, trascinandosi dietro il magro corpo, reduce di notti insonni senza un Dio cui pregare. Le labbra sono due pezzi di carne color fegato, cosparsi di piaghe; il sangue si è coagulato agli angoli della bocca, là dove due piccole ferite testimoniano il tentativo di allargare il proprio sorriso. Troppo tempo passato nella fredda sofferenza, con la faccia stanca di sorridere per aggiudicarsi qualche soldo, e con la schiena spezzata dai calci subiti. Troppi giorni passati con la pioggia che batte sulla faccia, senza una casa, senza una vita: solo con la notte nel cuore e con la pigrizia di vivere per un altro giorno.
L’ombra barcolla alla luce di un lampione; è estate e c’è bruma in giro per la cittadina marittima questa sera, una nebbiolina triste che avvolge ogni cosa in un abbraccio freddo. La birra che tiene in una mano sembra pesare quintali, e l’eroina che tiene nell’altra non ha più quel significato così eroico che ha trovato in un primo momento, e che gli è stato così facile associare al nome stesso. Già, non c’è nessun eroismo dietro il lungo ago della siringa: solamente un baratro ricolmo d’incubi urlanti.
La figura fa ancora un paio di passi prima di stramazzare al suolo come una statua senza piedistallo. La bottiglia di birra per poco non esplode a terra; rotola su se stessa per pochi centimetri, riversando il dorato contenuto sulla pavimentazione corrosa dalla salsedine, come una bava bianca che niente sembrava avere a che fare con quello che era prima.
L’ombra non sente più la forza di rialzarsi da quella posizione dolorante. Ha il pugno stretto intorno al biglietto di sola andata per un altro mondo e nient’altro importa. La mano non sembra intenzionata ad aprirsi, come se avesse, lei sola, la coscienza di quello che tiene nel suo incavo, al riparo dalla prigione delle dita, e non vuole lasciare il suo tesoro. La Bianca Signora gli ha proprio rubato tutto, anche la dignità. Mentre rimane a terra, a rimirare il mondo da quel nuovo punto di vista, una coppia di settuagenari, bofonchiando commenti e considerando solo per alcuni momenti l’ipotesi di chiamare un’ambulanza, gli passa affianco. Le loro voci si perdono nella nebbia, e con loro anche le opinioni che hanno su quel ragazzo appena diciottenne ridotto in quello stato. Allora, lentamente, ma con uno zelo che quasi non riconosce più, ma che gli ricorda qualcosa della sua vita passata, come se volesse dimostrare a quei due che c’è ancora vita in lui, il ragazzo si alza. Non bada alla bottiglia di birra stesa a terra, che ricorda un ubriaco addormentato nel suo stesso vomito; si trascina verso la distesa di sabbia che porta al mare. Questa sera sembra quasi chiamarlo: la luna si riflette sulle onde in un gaio gioco d’argento in movimento, vi posa il suo sguardo pallido. La figura barcolla fino ad una delle tante sdraio disposte una vicina all’altra e vi si abbandona sopra, sospirando. Rimane così per qualche attimo, con lo sguardo rivolto al disco, lassù nel cielo. Sembra quasi di trovarsi nella platea di un cinema vuoto: le sdraio come tante poltroncine rivolte al telone; un cinema vuoto che attende l’arrivo degli spettatori che chiacchierano, fischiano e applaudiscono, lanciano carte e gridano esaltati, gustando ciò che viene loro offerto: la storia di un ragazzo che danza per l’ultima volta con la Morte, lasciva, prosaica, impietosa.
Le membra gli dolgono molto, e al ragazzo torna in mente quella notte in cui lo hanno fermato quattro ragazzi di poco più grandi di lui, con l’intenzione di derubarlo di ciò che non aveva. L’avevano minacciato con un coltello, si ricorda. Quella volta aveva corso come se avesse avuto le ali ai piedi: le gambe si muovevano da sole, avevano vita propria e sapevano esattamente dove andare. Quando l’avevano preso e l’avevano riempito di botte, non aveva potuto fare a meno di guardare la luna e di maledire quel suo sguardo indifferente al dolore che lui provava e a tutto quello che accadeva in giro per il mondo, sotto il suo naso. Da quella notte l’aveva odiata. Aveva smesso di ritenerla qualche cosa di divino, di poetico, e aveva cominciato a reputarla come una creatura infernale.
La figura estrae un cucchiaino di metallo da una tasca della giacca ridotta a brandelli che indossa. Lo porta sempre con sé, insieme alla siringa, al fazzoletto di stoffa che usa come laccio emostatico e ad una boccetta d’acqua. Il cucchiaino sul lato convesso è completamente nero; a dimostrazione dell’enorme uso che ne è stato fatto. L’eroina depositata nell’incavo della posata, sembra veramente una quantità inutile, ma il ragazzo sa già che è anche troppa. L’acqua scioglie per bene la polvere, e la fiamma dell’accendino, scaldando il metallo, le dà man forte. Quell’accendisigaro gli era stato regalato da una ragazzina che, un tempo, si era invaghita di lui; si ricorda ancora il momento in cui aveva alzato fino ai gomiti le maniche del maglione color ocra che indossava, poi aveva voltato i polsi all’infuori, le aveva mostrato le decine di buchi che collezionava negli incavi lividi delle braccia e aveva detto: "Sono due anni che mi buco." Quando è successo? Almeno due anni fa. Due anni. Il tempo, in fin dei conti non ha più molta importanza.
Il ragazzo si lega abilmente il fazzoletto all’altezza del bicipite e passa due dita sui buchi, in modo da far affluire il sangue alla vena. Ed ecco che preleva la sostanza disciolta nel cucchiaino con la sottile siringa da insulina e s’infila l’ago in quella grossa arteria che pulsa. Non sente più nemmeno il dolore della puntura, si abbandona soltanto alla sensazione dell’ago che entra in endovena, come una macchina che si immette nell’autostrada che porta dritta al cuore. L’ombrellone a fianco a lui sembra una torre di babele, alta fino al cielo. Una torre che tremola sotto la spinta della brezza di tramontana che ripulirà il mare. Quanti bagni che aveva fatto in quel miscuglio di onde in movimento; quante volte gli era sembrato di volare mentre era sott’acqua, circondato dal solo rumore dei sassi che rotolavano e da quello dei suoi pensieri, e quante volte aveva desiderato lasciarsi andare alla corrente, lasciarsi trasportare dalle onde come un naufrago fino ad una terra lontana. Un’isola dove avrebbe potuto ricominciare tutto daccapo; unici compagni lungo tutto il viaggio: i suoi pensieri, i suoi sensi di colpa, i suoi desideri inespressi.
Il dito assaggia l’idea di schiacciare lo stantuffo fino in fondo, pulsante trasparente per un’altra dimensione, ma tentenna, come se ne teme le conseguenze. Un gruppo di ragazzi gioca in cerchio vicino al bagnasciuga con schiamazzi e urla di gioia. Ignorano di far parte di quel grande spettacolo che è la vita, o forse lo sanno, ma pensano che sia bello così. Chi è che ha affermato che la vita è un grande spettacolo ma che non a tutti piace il modo di recitare degli attori? Non si ricorda più, i ricordi volano come ali di farfalla e i suoi sono inesorabilmente spariti sulla brezza marittima. Il mare stesso parla di loro strisciando subdolo sul bagnasciuga; parla di quei ricordi che se ne sono andati mano nella mano con i giorni felici, e così una preghiera gli sale alle labbra, talmente semplicemente che gli sembra quasi straordinario il solo fatto di poter ancora pensare lucidamente; un desiderio più che una preghiera, un desiderio espresso e rivolto alla mitica Orchidea Nera, di cui aveva sentito parlare da bambino.
Il cielo è dipinto da pennellate d’oscurità e le nuvole sono schizzi di colore più chiaro, così vicine da poterle mettere in tasca. Una di queste sembra proprio la Nuova Zelanda, e vicino c’è anche l’Australia, che il vento lentamente modella con le sue mani dall’arte invisibile. Il ragazzo le indica con un dito, come se potesse veramente prenderle; per poco non gli sembra di riuscirci davvero.
Ed ecco che la sua mano scende di nuovo al braccio, là dove il dolore sordo della siringa penzolante lo richiama alla realtà; il suo pollice scivola lentamente su quel piccolo pistoncino, e lo accarezza in lente e regolari circonvoluzioni. Il suo dito accarezza lo stantuffo della sua ultima spada; la sua ultima scommessa con la vita gli penzola dal braccio come un impiccato. E il ragazzo prega ancora, prega ancora la luna di aiutarlo a scappare da quell’esistenza, come già ha fatto centinaia di volte, arrancando per una risposta; ma nemmeno questa volta attende che il silenzio sia la sua unica replica. Si limita a maledirla, lei e suo fratello, il sole, che splendono sulla vita e sulla morte senza riserve, senza badare a chi gioisce e a chi, come lui, annega in se stesso. E' così. Mentre una lacrima di disperazione gli rotola sul volto, mentre la luce di questa luna maledetta (che osserva come l'occhio eternamente spalancato del cielo notturno), si riflette su quella stilla che scende lenta, soffermandosi talvolta a prendere fiato, il ragazzo prende la decisione più importante della sua vita: schiaccia il pulsante. Un controllore dal viso di morte timbra il suo nuovo biglietto per un altro mondo. Solo andata questa volta. Aspira un po’ di sangue e poi s’inietta il letale liquido in vena, il quale comincia la sua pazza corsa verso il cuore.
Inizia subito questa volta: una musica celestiale prende a suonare da un punto imprecisato alla sua destra e ascoltarla dà la sensazione che sia sempre stata nell’aria, ma che lui non sia mai riuscito, prima d’ora, a sentirla. Il ragazzo volta lo sguardo al rallentatore, e vede una piccola figura dalle orecchie a punta appollaiata sulla sdraio vicina; indossa un cappello da giullare che sembra un fiore appassito. Tra le piccole mani ha un flauto che emette note divine. Il ragazzo gli sorride, e il folletto gli restituisce la cortesia, senza però smettere di suonare.
Sorride, ma sa che non c’è niente che può fermare questa tristezza interiore che sente, non finché lo spettacolo continuerà, non finché la vita e la morte continueranno a danzare abbracciate. Rimane a guardare quel folletto suonare, e d’un tratto, gli viene voglia di alzarsi, correre, ridere, come se al posto della sabbia ci fosse una distesa infinita di fiori. Come se potesse dimenticarsi quanto lui stesso è stato crudele con la sua anima; una crudeltà senza perdono. Lunghi minuti passano, riempiti soltanto da quella musica così soave, così dolce. Poi il ragazzo ha davvero la sensazione di essersi alzato, di essersi messo a correre, di essere finalmente vivo, dopo anni passati a morire un giorno dopo l’altro. Quale consolazione ci può essere ormai? Nessuna. Solo l’attesa che lo spettacolo sia finito, che giunga il momento in cui si possa chiudere gli occhi per sempre si rivela come unica consolazione.
...e lo spettacolo termina ora: gli applausi scrosciano come tante risate argentine di ragazze adolescenti. Questi applausi sono per lui.
Volta la testa lentamente, come se si fosse svegliato solo ora da un sonno lungo millenni. È sorpreso di essere ancora seduto sulla sdraio, la sensazione di essersi messo a correre è stata intensa. Il ragazzo ha un sorriso ebete sulle labbra, ma è commosso mentre si accorge di quello che lo circonda: le sdraio che prima gli hanno dato l’impressione di attendere l’arrivo degli spettatori che le avrebbero occupate, adesso sono ricolme di gente che applaudisce con estasi, soddisfatta da ciò che è stato loro offerto. La luna sorride. Davanti a lui compare d’un tratto l’amico perduto, quello sepolto sotto due metri di ricordi sbiaditi. Troncato dalla burattinaia che ha deciso di tagliare i suoi fili e ritrovato in un bagno alla stazione, con l’ago della siringa ancora infilato nel braccio: se n’è andato così. La mano è tesa verso di lui, come un invito che non si può rifiutare, gli occhi languidi e una pallida ombra di sorriso sul volto. "Ce l’hai fatta", dice, e in quell’istante, con gli occhi commossi, tra il rombo degli applausi che scrosciano indefessi intorno a loro, il ragazzo trova la forza di alzarsi ed abbracciare l’amico perduto, piangendo. "Siamo morti... vero?", chiede, ma non riceve risposta, e il silenzio parla più di qualsiasi parola. Un ultimo desiderio per l’Orchidea Nera: un desiderio di morte.



Danny Glick: 19 agosto 1997
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