UNA QUESTIONE DI STATO

 

Campanile di San Rocco.
Solitario superstite della chiesa eretta dagli scampati a una delle tante pestilenze che ammorbarono il seicento, copia gentile dell’altro campanile, tozzamente normanno, eretto qualche secolo prima in segno di riconoscenza dai sopravvissuti ad un’altra pestilenza.
Misteri dello spirito popolare: si ringrazia comunque.
Barocco elementare, scarno, sterile. Più che biancone, sporco nell’aspetto. Prossimo al colore dell’anima e della camicia di chi comanda in paese, i salutoalduce eia eia alalà, impiattolati al petto e fra le cosce, impestati dal distintivo di regime e dai parassiti di bordello.
Una volta campanile, ora quasi torre di città, dotato d’orologio con campana a doppia tonalità: suono spiccio, cristallino, per i quarti d’ora, pigro, opaco, per le ore intere.
Maledetti rintocchi.
Almeno per il segretario politico, uomo tuttodunpezzo, reduce, volontario, guerradilibia, primaguerramondiale, guerradispagnad’albaniaescaramucce varie, uomo di alti pensieri e, nei letti, almeno così ventila, di valenti azioni; bisognoso, pertanto, del giusto riposo, notturno e diurno. Impedito da quel molesto rumore, per la prossimità dell’abitazione alla strepitante clessidra.
Una cilecca al casino potrebbe mettere in ridicolo il governo, il popolo, la nazione, il regime, il partito.
Richiamo al podestà ed emerge la necessità di ricavare spazio per un monumento a un emerito sconosciuto, pioniere ante litteram del novello impero italico.
Non c’è area a sufficienza? E allora si celebri la personalità con un’erma, purché quell’ossessionante mementocopulae vada giù.
E l’orologio? In omaggio ai Patti Lateranensi lo si regali al Vaticano. Scandirà i tempi della penitenza a compensazione di un peccare più agevole.
Il cerchio è quadrato. Come il mascellone.
Campanile di San Rocco.
Innalzato per ringraziamento. Abbattuto per necessità.
Ragion di stato.

 

L'ARCO DEI TREDICI

 

Non nel cuore, ma nell’osceno, per sporcizia e per abiezione, nel ventre lurido del centro antico di questo antico luogo, c’era l’arco dei tredici, piccolo ponte gettato tra due palazzi gentilizi, per sostenere e non certo per unire case e casati.
I vicoli, segnati dal basalto, sfuggivano all’ intricato arbitrio dei percorsi e i lastroni, come filo d’arianna, inesorabilmente conducevano alla volta, quasi fosse stata eretta per essere cardine della vita di tutti e del tutto.
Il tracciato dei basoli, butterato per opera di scalpellino, livido, figurava il senso del morbo secolare di quella gente, la miseria.
Traguardato da sguardi sbiechi per penuria, avvolto dall’onda dell’odio affamato di chi aveva affilato la roncola con le umiliazioni, l’arco aveva avvolto d’indifferenza lo scempio dei maggiorenti, delle prime firme.
Dodici teste rotolate nella sporcizia dell’indigenza, rimbalzate nella brama da esiguità.
Dodici nobili, pezzenti tra i nobili del viceregno, uccisi da altri pezzenti, non nobili.
L’inutile orpello delle architetture rozzamente barocche, pretenziose e sfacciate, erano state degne quinte del palcoscenico sulle cui tavole si era svolta la recita finale della stracciona arroganza dei signorotti. L’incombenza degli edifici non aveva intimidito chi li aveva convocato per la rinuncia all’ultimo privilegio, la vita.
L’arbitrio protetto aveva seminato.
Tommaso Aniello, pescivendolo, aveva mietuto.
Dodici però erano i morti.
Alla tradizione e alla memoria l’arco ne dichiarava tredici.
La tredicesima testa non era saltata in quella notte dell’estate del 1647.
La tredicesima testa era saltata da sempre. E per sempre sarebbe saltata.
La testa di Masaniello
La testa del miserabile.

io so' pazzo
e nun 'ce scassat'o cazzo

 

BUDAPEST

 

Era un magnifico settembre
avevamo danzato sul battello in disarmo sulla Duna
era bellissima
avevo continuato a ballare nel suo letto
sfuggito alle minacce di finire nella Duna
poco attendibili i digrigni dell'autoctono
insufficienti a scalfire il desiderio
nostro
era bellissima
non ricordo il nome
e non so perché
o forse lo so e lo sottraggo al conscio
meglio la memoria dell'ante
mi scrissero porco sulla macchina
Budapest
ero a casa di un amico
insegnava non so cosa all'ateneo
non m'interessava molto
bastava che mi desse da mangiare e dormire
parlava del '56 con pudore
quasi temeva il mio ringhio contro i soviet
quasi sperava che ringhiassi contro i soviet
era un dolcissimo settembre
il sole calava e lei mi aspettava
affrontavo volentieri il rischio di annegare nella Duna
rientrò agitato
mi disse di Allende
lo hanno ucciso
non ci credevo
lo ha detto la radio
ed ero obbligato alla fiducia
vado in Cile dissi
a far che? disse
e poi, come ci vai in Cile?
non lo so, ma vado
partii senza addii mascherati con scambi di indirizzi
mi fermai a Zagabria
avevo un obbligo con Svetlana
mi aveva promesso l'amore se tornavo da Budapest
di Svetlana ricordo il nome
e il profumo
e l'odore
e il sapore
e credo di saper perché
mi disse che in Cile non ci sarei mai arrivato
che ero anacronistico
che facevo il rivoluzionario quando le rivoluzioni non le facevano neanche in centrafrica
le diedi ragione
forse non per convinzione
ma per il profumo
e l'odore
e il sapore
di lei
ricordo il suo nome
Svetlana
raggio di luna, mi disse
ricordo anche di Allende
ma con un senso di colpa
vago