NEOREALISMO

 

(O TEMPORAS O MORES - no negri)

 

Machemminchia …scusasse don Patron… vogghiono ‘sti mussulmani del cazzo?
Quanno siamo vvenuti nel Nnodd nuiauci anche a nnui la casa nun ci la vvolivano dari.
Pefforza…cu’ la storia du banditu ggiulianu, bonanima…da mafia...di figghi come conigghi…scusasse don Patron, dueavemmarrie in più.
Ma noi ci siamo mmessi nella bbarracca e nunn abbiamo rotto la minchia al ssinnaco e all’arcivescovo
Sti cazzi di marrocchini puzzano e nun si lavano…fanno figghi come conigghi…scusasse don patron…nun parlano ‘taliano…nun se capisce ‘na minchia quanno parlano…e levano il lavoro a nuiauci…e che ngi devo pure pagare la casa e le mmedicine e la pensione coi ssoldi mia? Sta minchia…scusasse don patron…e poi so’ mmezzi ni-uri oppure tutti quanti ni-uri…e se si fottono le nostre figghie…scusasse don patron…e che mmiscamo le razze? e che nci tenimmo, i figghi ‘e buttana?…scusasse don patron…manniamoli a casa loro a cauci dint’u culo, a sti mussulmani della minchia…anzi, quanno s’avvicinano a casa nosta pigghiamoli a cannunati e ca vacano a pigghiarselo int’o culu sti ni-uri di mmedda.

 

LO STRUZZO

 

Non ho mai avuto confidenza con la conclusione della vita.
A maggior ragione della mia.
Ho sempre evitato i funerali e scantonato le chiacchiere
sui cari estinti.
Quando mi si dice che a un amico si è spaccato il cuore, faccio
in modo da richiamare alla memoria le barzellette più sconce
che conosco.
Quando mi si rivela che purtroppo, improvvisamente e in modo
del tutto inaspettato, la carissima Evelina, o chi per essa,
ha imboccato la strada del non ritorno, sollecito immediatamente
il ricordo dell’ultimo incontro d’amore.
Quando mi hanno detto che il mio stomaco non riusciva a digerire un cancro, ho cominciato a cantare a squarciagola “o sole mio”.
Quando mi hanno comunicato che avevo poco da cantare, e non
per il disturbo arrecato agli altri ammalati, ma perché mi
restavano tre mesi di cielo, ho toccato le cosce alla
dottoressa che ha scommesso con i colleghi sul mio tempo residuo.
Quando mi hanno portato in camera la lavagnetta ordinata per
marcare il conto alla rovescia, ho preso a recitare l’orazione
di marco antonio “non sono qui per lodare cesare, ma per seppellirlo”.
Quando ho scazzottato il compagno di camera perché non si
lavava sotto le ascelle e l’infermiere mi ha sussurrato in un
orecchio di star tranquillo, tanto sarebbe durato meno di me,
mi sono immaginato novello orlando alla ricerca del senno
smarrito sulla luna.
Quando mi sono procurato l’oggettino per sfuggire alle cosucce
dolorose che mi fanno sempre più compagnia, mi sono guardato
allo specchio.
E sono scoppiato a ridere.
E non perché sono buffo in quella calvizie spuria, lanuginosa.
Il motivo è il solito: nonostante quel che a poco mi toccherà
fare, continuo a non aver confidenza con la conclusione della vita.
A maggior ragione della mia.
Vita.