IL SUICIDIO

 

Sono Ivan Gontcharov , capitano pluridecorato dell’Armata Rossa. Sono insegnante di letteratura in un liceo di Mosca e nel mio reparto tutti mi chiamano Federico, perché dal luglio del 1936, da quando alla Fontana delle lacrime di Viznar uccisero Garcia Lorca, porto sempre con me Bodas de sangre. Non riesco a distaccarmene. Oggi conquistiamo definitivamente Berlino e proprio a me tocca violare l’appartamento del bunker riservato al fuhrer. Entrato nella stanza vedo sangue rappreso e grumi di materia cerebrale sul tavolino. Ma nessun corpo. Raggiungo il cortile con i miei uomini. All’ingresso avverto un puzzo di carne bruciata. In una fossa appena abbozzata il suo cadavere, raggrinzito, con le mani contratte verso l’alto, in un gesto d’involontaria richiesta di pietà. Si è sparato in testa. Ha provato a marcare la differenza anche nel gesto finale. Non se l’è sentita di appendersi con il fil di ferro o a un gancio da macellaio direttamente infilato in gola. Troppo complicata l’iniezione del fenolo nel cuore. Non ha voluto respirare il gas. Non è riuscito neanche a farsi cremare. Gli mancava la sua gente d’esperienza. Quasi automaticamente tiro fuori dalla tasca il mio libro e estraggo la pistola dalla fondina. Con una spinta giro il cadavere, mi avvicino per non sbagliar mira e gli sparo l’intero caricatore nel culo. Nella fossa, con tenerezza, appoggio le mie amate Nozze di sangue. Mi giro e mi accorgo della presenza dei miei soldati. Non capiscono, ma con lo sguardo mi approvano.

A Federico Garcia Lorca, poeta
Ucciso da nazifasciti in una giornata di luglio del 1936.
In quanto omosessuale, gli spararono nel culo.