CHE MESTIERE!

Amo Dante. Anzi l’Inferno.

Conservo ancora il mio testo di liceo. Commento di Sapegno. Mitico.

Studente modello a scuola. Poi i soldi mi hanno portato fuori.

Ed eccomi qui, operatore ecologico, addetto allo smaltimento. Di persone. Per denaro.

Prima una necessità, ora un vizio.

Con i suoi lati piacevoli, però.

Stavolta un contratto ben pagato per carne persa. Una puttana consumata.

Certo l’alberghetto è indecente, ottava  categoria honoris causa.

Classico tugurio da noir americano blockbuster.

Cesso in corridoio con incrostazioni neutralizzate da litri di deodorante. 

Puzzolente anch’esso.

Bidet di plastica in camera. Pieghevole. Piedini traballanti. Arma impropria.

Parati tenuti attaccati alla parete dalla sporcizia.

Specchio annebbiato, cornice di plastica marrone, sopra un lavandino invaso dagli scarafaggi

Saponetta già lercia di proprio, zampettata dagli schifosi e per di più usata da qualche decina di precedenti clienti.

Armadio di laminato celeste cucina economica anni sessanta.

Un solo appendiabiti. Pure rotto.

Lenzuola rigorosamente nere. Per il lerciume e non per suggestioni decadenti.

Lampada al neon schizoide, doppia personalità, ora accesa, ora spenta, senza ragione , con esplosione periodica di follia, tutto giallo abiezione o tutto nero.

Altalena d’ombre.

Impegnata nella ginnastica più gradita, la sua testa accompagna fino alle fauci la voglia.

Accelera o rallenta, secondo l’estro. Comunque mai doma.

Non si sottrae al previsto finale.

Breve pausa.

Alza il capo.

Si lecca le labbra.

“La bocca sollevò dal fiero pasto”.

Rido.

Non capisce.

L’attraggo.

La guardo

Mi avvicino

Lingua in bocca.

Si scioglie.

Mi distacco.

“La bocca le baciò tutta tremante”.

Sghignazzo.

Perplessa si chiede cosa, come, perché.

Revolver alla tempia.

Occhi sbarrati.

Sorpresa, prima ancora che terrore.

“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.

Ammicco.

Sangue e cervello in faccia.

Prima ancora del rumore sordo dello sparo e del crocchiare delle ossa.

Sospiro.

Soddisfatto.

“E più non dimandare”.

Uno straccio per ripulirmi della poltiglia rossogrigia, traccia appiccicosa della sua esistenza.

Ricontrollo il peso del mio lavoro e della sua vita. Cento grammi di cartamoneta, lurida, stropicciata.

Che mestiere, il mio.

Con qualche lato piacevole.

Mi levo quella goccia appiccicosa dalle labbra.

Piacevole, sì.

Talvolta.

Quasi sempre.

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”.