UNA  STORIA  QUASI  ETICA

 

PROLOGO

Quattro e mezza: l’ora canonica. Il piccolo mattino s’arrampica lungo le muraglie brune. La macchina, le cui lunghe braccia accolgono il terrore e spingono nell’ignoto, attende nell’angolo più buio del cortile d’onore, il più oscuro, ma anche il più prossimo alla sala della toilette definitiva. Essi dormono ancora, provvisoriamente liberi dall’ossessione dell’attesa, ma avvinti comunque dall’incubo del risveglio improvviso, il segnale definitivo dell’inizio del viaggio senza ritorno. I dodici uomini in corteo, sacerdoti celebranti la Messa Rossa, apostoli di una novella di morte, giuda di poveri cristi e deità senza notizia di perdono, si avvicinano. I loro passi sono agevolati da tappeti stesi per evitare allarmi e i sorveglianti sono a piedi nudi. La porta è aperta senza più riguardi. I tre guardiani sono addosso alla preda che viene spinta, accompagnata, tirata, convinta ad entrare nell’anticamera dell’addio definitivo. Gli danno anche abiti più acconci alla cerimonia, con una bella camicia bianca. Il prete cerca di raccontargli quanto sia bello l’aldilà e consola con l’azzurro del paradiso il terrore di avere la testa staccata dal collo eppur viva per tempi indefiniti. “Tranquillo, non si soffre!” e alla tavola trova carta e penna per le retoriche finali. Poi il bicchiere di rum, succedaneo di un coraggio che neanche un’intera botte potrebbe regalare, una sigaretta strappata a un pacchetto semivuoto, ma pieno quanto basta per dare l’illusione che se ne potranno fumare altre, mani strettamente avvinte dietro la schiena, piedi legati il necessario per impedire scalcianti rivolte e consentire l’autonomo raggiungimento del patibolo, il collo della camicia mutilato, la nuca rasata per un più agevole transito della lama, la domanda del giudice per l’ultima dichiarazione e infine l’attenzione al cenno del boia che lo instrada all’ultimo percorso. Sei secondi, dall’uscita nella corte al tonfo nel paniere.
 

Scena

Stanza spoglia e anche sporca, pareti incrostate di umidità rappresa nell’intonaco fiorito, un vecchio calendario accostato arbitrariamente ad una riproduzione mignon dell’autoritratto di Van Gogh, un tavolino con due sedie, opposte lungo i lati corti , eguali nell’incertezza del sostegno, una lampada da lettura che piscia luce ottusa, uno scaffale con pochi libri. Due uomini, seduti, si fronteggiano. Lungo una parete, alle spalle di uno dei due, altre 4 persone, attente a quel che accade.

UNO
Pur essendo ormai giunto l’autunno, Parigi era ancora luminosa in quell’ottobre del 1941. E il giallo del sole, non si sa il perché, era particolarmente invadente e fastidioso in Place des Vosges, in quello splendido edificio tardo barocco, dalla facciata non particolarmente intaccata dalle attività di rappresaglia delle divise nere.
In quell’appartamento all’ultimo piano, la porta si aprì.
E accompagnato da una lama di luce viva André Lemoine entrò. Autorevole, nonostante l’aspetto dimesso, accentuato dall’abito doppiopetto stazzonato, ancor più della sua lobbia, e dalle scarpe stinte e impolverate. Il suo solo ingresso fece alzare in piedi i due uomini seduti, uno di scatto e l’altro trascinato dal movimento del primo. I quattro appoggiati alla parete, con orgoglioso ossequio, si allinearono perfettamente all’ortogonalità del muro.
André, con un cenno della testa fece segno a Georges di lasciargli libera la sedia, mentre un altro gesto scioglieva dall’impegno di rigidità i sorveglianti.
Si sedette al posto lasciatogli libero ed ignorò la mano tesagli, impegnando la sua destra nell’opera di riordino della fascia tricolore che portava al braccio del cuore.
“Si segga”, intimò gelido, più che brusco André.
A disagio, Henry obbedì e sedette. E senza soluzione di continuità parlò.
“Mi spiega cosa volete da me?”, e con le mani seguiva nervosamente i confini della sua porzione di tavolo.
“Le sue generalità, prego. Non voglio errori d’identità”, sibilò André.
“A che titolo mi fa questa domanda? Non son tenuto a risponderle!”
Georges, che si era posto alle sue spalle, con naturalezza, gli afferrò i capelli e li tirò in modo brutale, anche se solo per un attimo.
Non fece in tempo ad emettere l’urlo, Henry. Restò con la persistenza del dolore che lentamente si andava allontanando, quasi non fosse più suo.
“ La invito a rispondere” disse André. “Il vice commissario politico Georges Hammany potrebbe prenderci gusto con la sua capigliatura. A proposito, le teste come le tirate su dal paniere?”
“Ma cosa diavolo vuole? Ma chi è?”
“Mi sembra giusto che anche lei sappia con chi ha a che fare. Sono André Lemoine”
« Ne so quanto prima. Non s’offenda, ma non ho mai sentito parlar di lei. »
“ Fesso, quest’uomo è il capo delle cellule resistenti di Parigi”, sospirò Georges, con un sogghigno condiviso dagli altri quattro uomini.
“Allora, si decide a dichiarare le generalità?” ,disse André, con aria al limite dell’assenza.
“ Sono Henry Desfourneaux, esecutore in capo delle alte opere di giustizia.”
“ Il boia, per dirla com’è” fece sprezzante Georges.
Henry, quasi in atto di ribellione, ruotò su se stesso e, con aria di promessa, rivolto a Georges continuò “ E le teste dal paniere le tiro su per un orecchio”.

DUE

Dall’appartamento di fronte cominciarono a filtrare voci e suoni. C’era qualcuno che aveva ancora voglia di far festa. La guerra non è mai definitiva, come i dolori non riescono ad annullare del tutto la voglia di ridere. Mai.
“Plaisir d’amour ne dure qu’un moment, chagrin d’amour dure toute la vie».
Querulamente e senza ritegno melodico una voce maschile faceva il verso al timbro di Yvonne Printemps. Eppure catalizzò l’attenzione di tutti. I dolori dell’amore, passati e presenti, avevano unito tutti.
André fu il primo ad incrinare quell'atmosfera sospesa con un colpo metallico dell’accendino che entrava in funzione, anticipando solo di un attimo la risata sguaiata, palesemente fasulla, proveniente dalle stanze vicine.
Stavano scegliendo l’attimo, per il dolore c’era tutto il tempo necessario.
Il fumo acre della sigaretta prese possesso dello spazio tra André e l’altro.
“Lei in data 28 agosto di quest’anno ha ghigliottinato, nel carcere di Fresnes, Abraham Trézbucki, Anatole Brichet ed Emile Bastard, e dopo 20 giorni circa, sempre a Fresnes, ha compiuto la stessa opera su Jacques Hoog, Adolphe Guyot e Jean Cathelas. Le risulta sia vero quanto dico? “
Henry, per nulla a disagio, confermò “Erano sei condannati a morte, giudicati da un tribunale francese, ed affidati alle mie incombenze di esecutore.”
“Signor Desfourneaux, quei sei uomini avevano commesso un solo delitto, erano patrioti francesi e antinazisti. Non avevano sparato un sol colpo, nessuno era stato ferito o ucciso da loro.”
“Non so cosa dirle. A me vengono affidati criminali incalliti o assassini feroci, pericolosi per gli altri e per l’ordine pubblico. Persone coraggiose, poche. Molti, i miei aiuti, li portano alla macchina in orizzontale. Non ci vogliono arrivare con i loro piedi.“
“ Stai dicendo che sono morti così anche loro?”
“Qualcuno sì, altri no!” Non erano diversi dagli altri. E non mi facevano pena. Forse il ragazzo, ecco, il ragazzo sì, non ricordo il nome, ho pensato che era giovane, troppo giovane per morire. Per fortuna che la lama è veloce e recide in un attimo testa e paura. Poi, Dio giudicherà.”
André si alzò, andò verso la finestra, fingendo di spingere lo sguardo tra le fessure degli scuri accuratamente serrati. E senza girarsi “Immagino che per fare il boia si debba essere fortemente favorevoli alla pena di morte. Vero?”
“Mai mi sono posto il problema. La pena di morte esiste. E quando è il momento sono semplicemente la molla che fa scattare l’ingranaggio. In quegli attimi sono una parte della macchina e neanche la più importante. Il lavoro vero, come qualsiasi idiota può capire, è della mannaia.”

 

TUTTO SI TIENE

(FOR MR. BARETTA)

 

Introduzione

in vacanza ho visto un penoso servizio (omaggio al nuovo corso?)con intervista al costruttore d'armi Beretta o Berretta(da qui la dedica del mio pezzo e non c'è refuso,correttore:-))in cui, nel celebrare il primo elefante che ha ammazzato in safari, alla domanda idiota di cosa prova un cacciatore per un animale ucciso ha risposto con altrettanta idiozia "rispetto"...ho pensato anche a tante prede umane e ho deciso di scrivere un pezzo grottesco sull'argomento
 

E’ indubbia l’esistenza di una stretta relazione tra cacciatore e cacciato.
Forse si stabilisce per pura casualità.
Oppure si configura come accumulo di eventi voluti e razionalmente costruiti.
Oppure si definisce geneticamente:si nasce predatori o prede.
Oppure si crea per violazione innaturale della propria natura.
Comunque sia, esiste una relazione profonda che definisce ruoli ed esiti.
L’appartenenza alla categoria dei predatori è data dalla propensione, dalla volontà, dalla costruzione.
Ed è definitiva: lo si è e lo si sarà.
Questa condizione non può considerarsi condanna o trasgressione. E’ una missione:analoga, per opposizione, al ruolo di preda:entrambi utili e necessari, cacciatore e vittima, all’ordinato svolgersi delle vite e della storia.
Altrettanto utile e necessario è l’esito. Oltre che scontato.
E il predatore è ben conscio dell’alta funzione della preda, la cui mancanza renderebbe turbolento l’ordine sociale.
E’ indubbia l’esistenza di una stretta relazione tra predatore e preda.
Improntata al rispetto. Al limite della deferenza.