Non so
perché accettai quell’incarico, diventare il guardiano del faro, il guardiano
di un “inferno”, ci trovavo una sottile ironia in tutto ciò; mi avrebbe
fatto più paura la solitudine dei lunghi mesi chiuso là dentro, costretto per
forza a pensare, oppure mi avrebbe fatto più paura l’affrontare ancora la
vita dei lunghi anni già trascorsi, costretto per forza a vivere?
Chi cazzo lo saprà mai? Ci sono delle volte in cui sembra così facile prendere
decisioni, senza nessuna cognizione, senza nessuna certezza, senza aspettative,
forse basta solo dire sì od essere disperato abbastanza da dire sì.
Amavo passare le ore sulla sommità del faro, amavo il trascorrere del tempo
osservando lo spettacolo che mi circondava, non ne ero mai sazio; di solito
osservavo la luna che si rifletteva nel mare; luna luna, la Tanit dei
cartaginesi. Opale di cimitero. Voce di ghiaccio dei Carpazi. Luna luna. Il più
antico mistero del mondo.
C’è un momento magico nell’esistenza di ogni individuo. Un momento in cui
la mente si libera dal pesante giogo della realtà, per volare senza costrizioni
nell’atmosfera rarefatta del sogno.
Fu durante uno di quei momenti che mi accorsi di quei due gabbiani, li vedevo
rincorrersi, giocare, complici nello stesso sottile meccanismo che li portava a
librarsi nell’aria quasi fossero immobili, per poi allontanarsi,
riavvicinarsi, rincorrersi.
Godevo anch’io dei loro giochi, quasi fossi lassù con loro, quasi ad un certo
punto toccasse a me scartare di lato e farmi rincorrere…ma ne ero escluso.
Fu tristezza quella che mi colse quel mattino, quando il gabbiano più anziano
non si alzò in volo, lo trovai immobile sulla cima del faro, insensibile ai
richiami del più giovane che lo cercava per giocare, per volare, per aprirsi
alla vita. Ne sono certo, pensammo la stessa cosa: è ferito! Ma si sa, le
ferite dell’anima non si vedono.
Non seppe mai il giovane quanto fu triste per quel gabbiano perdere la volontà
di giocare, il desiderio di volare, lasciare che il ghiaccio della solitudine
coprisse il suo cuore, ma non era più tempo….era giunto il momento di dare
significato alla sua vita e a quella dell’altro. Il più giovane si allontanò,
lontano, in cerca di nuove emozioni ed al mio nuovo amico non rimase altro che
l’avvelenato dono di continuare a vivere.
Nacque tra noi un’amicizia aspra, brutale, senza troppe concessioni ai
sentimenti, regolata dalla sua sottile diffidenza verso ciò che era umano,
talvolta lo nutrivo e ci si limitava a dividere un certo periodo di tempo, senza
analizzarlo. Ma soffriva, cazzo come soffriva! Il distacco dal suo compagno gli
tagliava l’anima in quattro, la separazione da suo figlio lo uccideva, ma il
più giovane non capiva.
Non successe lo stesso anche a te guardiano del faro?
Stai
odiando la realtà vero guardiano? Così solida, costante, simmetrica,
inappellabile, inaccessibile, lontana. La stai odiando. La realtà che,
puntuale, si ripresenta. Quanti mesi passarono? Non so, l’inverno arrivò e
poi, come d’incanto lasciò spazio a giornate sempre più terse, sempre più
lunghe.
Quella notte non riuscii a prendere sonno, andai in cima al faro, dove solitario
il mio amico mi accolse; quanto aspettammo l’alba? Dipende da come si misura
il tempo..se in secondi, minuti, giorni, mesi, anni o ricordi. Il tempo della
memoria è un altro. Ma l’alba ci trovò insieme, come se l’avesse deciso il
destino, ma il destino non è la creta nella quale modelliamo i nostri
fallimenti?
Quella mattina accadde, il giovane gabbiano tornò, grande, maestoso, si diresse
verso l’anziano genitore, in compagnia della sua compagna non mi degnò di uno
sguardo, ma rivolse al mio amico tutte le attenzione di cui lo aveva privato in
questi mesi. Lo aiutò a sollevarsi e tutti e tre si allontanarono verso la
scogliera a monito della quale il mio faro era stato posto.
Fummo dei pazzi amico ad aspettare insieme? Io posso solo dire benedetta la
nostra pazzia fratello. Perché questa pazzia sconfigge la morte, la meschinità
e la paura…anche la nostra. Benedetti i pazzi di questo mondo e la loro
gloriosa stupidità.
Vidi il mio amico in volo, si fermò, tornò indietro e, librandosi a poca
distanza dal faro, lasciò cadere una piuma su di esso, che prontamente
raccolsi, prima che si allontanasse nuovamente.
Senza che me ne rendessi conto, la mia mano si chiuse a pugno di quella piuma…
sì, si chiuse con la feroce ansia di un avaro che stringe dell’oro ed
improvvisamente mi sentii piccolo, ma gli uomini non sono né grandi né
piccoli.. è ciò che si lasciano dietro.. è la loro impronta a segnare la loro
misura. Non lo rividi mai più.
Talvolta il giovane gabbiano e la sua compagna tornano a librarsi vicino al
faro, ma senza avvicinarsi troppo, portando con se il ricordo del mio vecchio
amico; è in quelle occasioni che bevo e mi ubriaco; sì, mi ubriaco, che
meraviglia e dalle mie mani fluisce la musica più gloriosa del mondo scritta da
altri ubriachi, sognatori, pazzi…. Gli eterni innamorati della bellezza..
quelli che la scorgono senza mai raggiungerla.