Era un
giorno di pioggia, uno di quei giorni in cui il cielo stesso sembra partecipare
del tuo stato d’animo, ricordandoti con disprezzo chi sei e dove stai andando;
come nel peggior inverno della mia vita.
Farsi largo nella vita, quando la solitudine divora i giorni. Voler affermare il
nostro diritto ad essere adulti, quando tutto sembra prendersi gioco di noi. Non
lasciavo dietro di me nessuno che potesse piangermi, ma non potevo lasciare
indietro anche i ricordi, la mia sola compagnia, il bagaglio più pesante, le
valigie più usate, i sacchi più pieni.
Niente da fare, non riuscii a prendere sonno quella notte. Uscii …e chissà
che l’oscurità non fosse popolata da angeli notturni. Rimasi sulla cima del
faro fino all’alba, fino a quando i gabbiani cominciarono i loro voli, i loro
giochi..i loro viaggi; li osservai invidioso di non poterne partecipare, ogni
volta che li osservavo sapevo che niente poteva impedirmi di avvertire un unico
e solo modo di sentire.Incominciai a viaggiare in me stesso e ad aprirmi
all’universo. Io estensione dell’universo, estensione del mio stesso essere.
Il mondo ero io.
Quel gabbiano volava sempre da solo, chissà perché non si avvicinava mai a
nessuno; sempre più in alto degli altri, sempre più veloce degli altri, sempre
più solo degli altri. I solitari possono capire, solo quelli che fuggono e tu
sei un fuggiasco, vero guardiano? L’uomo? Fa quasi tutto per istinto animale,
ma se ne vergogna ed inventa leggi morali per giustificarsi.
Cercai qualcosa che sapevo di non poter possedere. Cosa ti spinse a compiere i
tuoi viaggi guardiano? I tuoi viaggi che sono sempre stati all’insegna di una
maggiore conoscenza, ma poi improvvisamente qualcosa ti venne a mancare ed il
tuo interesse si spostò su qualcos’altro che non può essere spiegato, ma è
così chiaro dentro di noi. Ora tutti i tuoi viaggi non riescono a darti una
risposta, ma anzi, amplificano l’intensità delle tue domande.
Al mio amico gabbiano spettava l’oneroso compito di tradurre in gesti l’eco
d’immagini e suoni che sembravano giungere da mondi lontani. A lui l’ardua
fatica di descrivere con efficacia una realtà che avremmo voluto non ci
appartenesse, ma di cui la solitudine era parte integrante, …sì la
solitudine. E ci riuscì, eccome se ci riuscì!
Lo lasciai fare, gli permisi questa intromissione nell’anima mia, che
tacitamente chiedeva aiuto, gli permisi di apporre il segno del suo passaggio,
la mia saggezza avrebbe fatto il resto.
Non so dopo quanto, non so neppure come,
la nebbia che si alzava dall’acqua mi circondò, mi penetrò, regalandomi quel
freddo che non si può allontanare, forse sognai, o forse la realtà fu più
forte del sogno…ma come sussurrate da vento udii distintamente quelle parole:
“Gli altri sono la tua estensione. Abbatti i muri che ci impediscono di
avvertire l’esistenza dell’altro, che ci limitano nel provare e trasmettere
sensazioni, che ci rinchiudono le emozioni, il sentire. Distruggi questi muri
che sono dentro di te. Noi non siamo entità distinte ed ognuno di noi è
composto da una piccola parte dell’altro”.
Trattenni il respiro per sentire meglio quel sussurro, sentendolo sembrava di
percepirne la vita che lo alimentava.
Come se il tempo non fosse mai esistito la nebbia si dissolse e fu allora che lo
vidi; riuscii a vederlo, miei occhi incrociarono i suoi, mi perforarono e mi
scavalcarono, il suo sguardo era immobile come l’abisso dell’oceano…in
quegli occhi vidi la disperazione, la tragedia del dubbio, dell’indecisione,
dell’entropia.
Anche lui mi guardò, ma fu un solo istante, quasi sollevato dal vento lo vidi
allontanarsi, ne distinguevo ancora la forma, lo osservai fino a quando fu solo
un piccolo puntino, sempre più in alto degli altri, sempre più veloce degli
altri, sempre più solo degli altri.
Lui lontano in cielo, io…vicino, sulla sommità di un faro, ma viaggiatori
sulla stessa nave, quasi due gocce d’acqua del medesimo mare… quel mare che
ha generato entrambi e che ora ci rinnega perché colpiti dalla stessa follia.
Quelli che sanno quel che dicono, i vecchi che hanno vissuto, i veri saggi,
affermano che ci sono desideri tanto sporchi e maligni, miserabili e dementi da
essere più forti della realtà; cercai ancora nel vento che mi muoveva i
capelli quella voce appena sussurrata, quel bisbiglio potente, ma non arrivò
risposta. Sollevai il bavero della mia giacca, cercando, in quei pochi
centimetri di stoffa, un calore mai provato, mi accesi un’altra sigaretta,
mentre chiudevo nuovamente le sbarre che mi isolano, che mi impediscono la vista
e che non ti permettono di lasciarti andare al tuo sentire. Rientrai esausto,
lasciandomi cadere su quel letto vuoto, cercando ancora una volta il conforto di
quel sussurro…ma udii solo il mare…il mare che a volte mi ama ed a volte mi
ferisce, quando non si fa capire nella sua essenza, quando mi sfugge e poi si fa
afferrare e mi porta con sé nel suo mistero.