Una voce nera.
Nera come la fame di donne che m’accompagna. Un appetito che s’arrampica su per
le viscere, occupa la gola, mozza il respiro, annebbia la vista. Acceca.
Intriga quella voce; solletica, stimola, riempie. Insinua e si ritrae. Allude e
lascia intendere.
Mi gonfia, mi eleva, mi costringe a correre con lo sguardo lungo le colonnine
tortili, sostegno della nicchia che mi occulta e mi offusca. Cavità nera
anch’essa, torbida.
Voce nera, adatta al rifugio. Perfetti entrambi per le inconoscibilità che
m’affliggono: trascendenze profane, laide.
E intorno, costoloni neri, pilieri neri, volte nere. Tutto nero, come inchiostro
di seppia.
E il mio pensiero è senza stelle e senza luna. Notturno.
Una voce nera, che contagia di nero. E’ solo salvo il mio abito talare, nero per
vocazione.
Stupito, ascolto le mie parole, ammorbate, ormai nere, anch’esse.
Le solite domande, utili a setacciare il vero dal vero per poi scoprire il tutto
falso, abbandonano l’ombra per immergersi nel nero. Neanche cupo, solo cieco,
assolutamente cieco, naturalmente cieco questo nero.
Ma le risposte si presentano di luce, indicano iridi, accendono il rosso,
s’immergono nel verde, s’innalzano nel cobalto, si beano nel turchese.
Voce nera, parole splendenti. Luminose. Solari.
E più si presentano, più mi tingono. In modo irreversibile. Oltre ogni possibile
confine. S’infilano sotto la veste, filtrano, inarrestabili. Screpolano, rendono
diga d’argilla le mie mani. M’invadono. Non mi danno scampo.
Cerco di sottrarmi e abbandono precipitosamente la mia tana, non più sicura.
Di corsa percorro la navata, via verso la canonica.
Nel galoppante incedere, sotto gli occhi delle pinzochere, appollaiate sui
banchi delle litanie e interessate a una sommessa stima delle mie nascoste
qualità, semino già gli abiti per un controllo immediato, per una salvaguardia
rapida dell’epidermide, per il fulmineo recupero della pristina condizione.
Man mano che ritorna alla luce, quasi in rinnovata genesi, il mio corpo si
manifesta come una pagina segnata, graffita da multicolore scrittura.
Un "mon amour" porpora fiammante spicca sulla spalla mancina e, alla lettura, si
prende i miei occhi un angolo di bruno crespato, venato di rosa scuro, fesso.
Il superbo "ti voglio" tinto d’arancio mi presidia i pettorali, accompagnato
dalla sensazione di moto continuo, di ottusa pendolarità.
Un aggraziato, smeraldino "piegata, quasi raddoppiata" si è preso una coscia,
trascinando nella mia immaginazione l’invadente comparsa di profondità attigue,
in soddisfatto equilibrio. Mozzafiato.
E poi, attorcigliato alla caviglia, quasi avvinghiato, un "mi chinai" chiazzato
di topazio, scortato dall’apparizione di dune rosa incarnato, carezzate da un
ondeggiare costante.
Un ceruleo accarezzata con sempre maggiore sfrontatezza, con incipit
nell’ombelico e coda nella sconcezza, induce nel mio naso un profumo di spezie
macchiato di calore.
E ancora frasi, inutili ricerche d’ammicchi, colorate da incubi e allucinazioni,
tumulano il corpo e ammantano la pelle, senza lasciarle molte opportunità di
respiro. Lo stesso respiro che comincia a difettarmi quando le continue
frizioni, a cui sottopongo l’invadente diario passionale, non ottengono altro
scopo che rendere più vivo il colore di quei gradini verso l’inferno.
Indelebili.
In preda allo sconforto mi chiedo se mai potrò tornare al mio magnifico candore.