IL PARTIGIANO  -  ERA

 

IL PARTIGIANO

Era un distinto signore.
Oltre gli ottanta, dichiarava con malinconica civetteria
Dritto, per quanto gli era concesso dai suoi anni.
E quel che l’età gli sottraeva, veniva restituito dal portamento.
Sempre elegante e fine nell’abbigliamento, curato come persona che non cede all’indifferenza verso il proprio aspetto , che rifugge a quella noncuranza inevitabilmente portata dall’incalzar del tempo. Lucido, di tale brillantezza intellettiva da oscurare con l’arguzia i balbettii fisici, i tremuli cedimenti al proprio cumulo di mezzodì, non precisamente piccolo.
Puntuale conoscitore di tutte le strade, i sentieri, i viottoli, le mulattiere delle montagne circostanti.
Conoscenza prima obbligata - era stato partigiano in formazioni di Giustizia e Libertà e, a vent’anni o poco più, si era giocato la vita con la sorte, che per l’occasione indossava divise interamente o preponderantemente nere -, poi coltivata per il vezzo di mostrare sapere ed esperienza.
Falsamente cinico nell’approccio alla patria, che ti leva la vita in gioventù, così diceva, e nella maturità i denari; salvo poi, con nonchalance, contraddirsi nell’orgogliosa rivendicazione della sua scelta giovanile di darsi alla macchia per ideali.
Ormai scettico: per necessità, per l’impellenza di sottrarsi ai dubbi procurati dall’ormai prevedibile ultimo appuntamento.

E non era una bella conclusione che lo attendeva: Halzeimer, morbo di Halzeimer: questa era la malattia che gli avevano diagnosticato
Per sfuggire alla malattia stava pesando l’utilità della vecchia Luger, sottratta allo stesso ufficiale delle SS che aveva comandato il plotone di esecuzione dei compagni della sua formazione.
Li avevano presi tutti, nel sonno: e avevano fucilato tutti. Meno lui.
Lo avevano lasciato in vita per testimoniare l’inflessibile vendetta del Reich. O per stupido esibizionismo.
Ricordava gli sguardi degli altri e la fatica con cui aveva sostenuto i loro occhi amari.
E l’invidia.
Se era vivo lo doveva ad essi.
E nei loro confronti avvertiva la responsabilità del suo essere vivo.

Li rivide tutti.
Uno per uno.
Mentre gli passavano davanti, le mani legate dietro la schiena.
Ricordò tutti i loro nomi.
Quasi lo avessero stampato sul volto

E decise di diventare imbecille.

 

ERA

era un ragazzo
aveva ventidue anni
credeva nella vita
credeva nella bontà innata degli uomini
al di là delle sue scritture
al di là delle sue letture
i tamburi di latta del sessantotto lo chiamarono
i mitra a gesso sul nero dei muri di scienza lo affascinarono
nella notte apparvero le stelle rosse dell'utopia
si chiese se valesse la pena versare il suo sangue
si rispose

si chiese se valesse la pena di versare il sangue degli altri
si rispose

si chiese che speranza c'era di vincere
si rispose
nessuna
la logica vinse
il cuore perse
si nascose nelle pieghe del marciume sociale
oggi è vivo
ma paga ancora quell'errore