Ventuno novembre;
giornata infame.
La cappa di umidità ha la stessa liquida spessezza del mercurio che nel
termometro segnala l’urgenza dell’eskimo, ormai emblema di ruderi di
appartenenze e di rampicanti ambizioni.
Nell’uscire levo lo sguardo nostalgico alla torre coronata di lecci. Stamane,
però, non sono in strada per l’offerta alla noia del quotidiano obolo di
esistenza.
Come ogni ventuno novembre della mia vita , difatti, andrò in S. Martino. Nella
sagrestia.
Ho un appuntamento con Ilaria. Con la sua immutabile, intangibile bellezza.
Passo svelto per giungere puntuale. Sosta per ciclamini e primizie di bucaneve.
Alfine, la piazza.
La consuetudine non riesce ancora a offuscare l’emozione creata dal magico
intreccio di marmi, forme e colori della facciata. Ma oggi l’opulenta incombenza
della tessitura è spoglia di magnetismo. La genialità in filigrana non intralcia
il presto ingresso.
Ultima traversata della navata, ed eccola nella sua finale dimora.
Putti celebranti il commiato. La facile fedeltà accucciata ai piedi. L’elegante
mazzocco incorniciante il volto liscio, fissato da perlaceo calcare , fermato
dall’abile tenerezza di Jacopo.
Fotogramma di bellezza.
Corpo modellato da velluto di pietra, morbido, avvolgente. Velato di impalpabile
durezza.
Ho persino timore a sfiorare le tue mani, Ilaria del Carretto. Signora di Lucca.
Riverberano il dolore dell’abbandono, la brulla angoscia, la caliginosa
malinconia.
Si insinua nella memoria, insostenibile intrusione, il cerimoniale dell’addio.
L’algido rituale. La voragine aperta.
Respiro ora l’urgenza di un’anodina fuga.
Prima di confondermi nel brulichìo delle altrui attenzioni, ti bacio sulle
labbra gelide.
Come ti baciai quel ventuno novembre.
Giornata infame.