PERIODO
1880-1918
Il
rapporto italo-sloveno nella regione adriatica ha la sua origine nella fase di
crisi successiva al crollo dell'impero romano, quando da una parte sul tronco
della romanità si sviluppa l'italianità e dall'altra si verifica
l'insediamento della popolazione slovena. Di questo secolare rapporto di
vicinanza e di convivenza s'intende qui trattare il periodo, che si apre intorno
al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di un contrasto
nazionale italo-sloveno.
Questo
conflitto si sviluppa all'interno di una realtà politico-statale, la monarchia
asburgica, della quale le diverse zone costituenti il Litorale austriaco erano
entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nella seconda metà
del XIV secolo e conclusosi, con l'Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale
monarchia asburgica nella seconda metà del XIX secolo appare incapace di dare
vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente nella struttura
statale la multinazionalità della società, ed è scossa pertanto da una
questione delle nazionalità che essa non sarà in grado di risolvere.
All'interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto
italo-sloveno, sul quale si riflettono anche i processi di modernizzazione e di
trasformazione economica, che toccano tutta l'Europa centrale e la stessa area
adriatica.
Il
rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si
ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto
tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand)
politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano
invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente. Il problema è reso
ancora più complesso dall'indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non
sempre politico, che l'avvenuta proclamazione del Regno d'Italia e forse più
ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli
esercitano sulle popolazioni italiane d'Austria. Allo sguardo che gli italiani
rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena
di rompere i confini politico-amministrativi, che in Austria li dividono tra
diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale, la Carniola, la Carinzia e la
Stiria), limitandone i rapporti reciproci e la collaborazione
politico-nazionale.
L'unione
del Veneto al Regno d'Italia aveva determinato anche la nascita di una questione
che tocca direttamente le relazioni italo-slovene: con il 1866 la Valle del
Natisone, la Slavia veneta, entra a fare parte dello stato italiano, la cui
politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente la differenza tra
un vecchio stato regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato
nazionale. Il Regno d'Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo
linguistico, che ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice che non tiene
in alcun conto neppure l'atteggiamento lealistico della popolazione che è
oggetto di queste misure.
Intorno
all'anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide
per un'autonoma vita politica ed economica in tutte le unità
politico-amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale
austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e
dell'Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel
loro complesso. Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei
decenni successivi, l'assimilazione della popolazione slovena (e anche croata)
trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste.
La
più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono
alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una
politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della
regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due
gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e
italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali.
In
tutte e tre le componenti territoriali del Litorale austriaco (Trieste, Contea
di Gorizia e di Gradisca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto
agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con
una separazione longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la
città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da
far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il
raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai
imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario era
sloveno.
Anche
in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni
erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario
delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l'Istria il movimento
politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora
difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà
slavo-meridionale della penisola.
Il
carattere peculiare degli insediamenti italiano e sloveno nel Litorale è
rappresentato dalla fisionomia prevalentemente urbana di quello italiano ed
eminentemente rurale di quello sloveno. Questa distinzione non va però
assolutizzata, non devono essere dimenticati gli insediamenti rurali italiani in
Istria e in quella parte del Goriziano detta allora Friuli Orientale e quelli
urbani sloveni - oltre a tutto in espansione, come si è già detto - a Trieste
e a Gorizia.
Ma
anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata,
il rapporto città-campagna rappresenta effettivamente un momento fondamentale
della lotta politica nel Litorale, determinando anche un intersecarsi di motivi
nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile
una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base
di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull'autentica
fisionomia nazionale della regione Giulia.
Da
parte slovena si afferma l'appartenenza delle città alla campagna, sia perché
nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta, non alterata dal sovrapporsi di
processi culturali e sociali, l'identità originale di un territorio, sia perché
il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di
assimilazione che hanno impoverito la nazione slovena. La perdita dell'identità
nazionale attraverso l'assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora
decenni dopo, come un'esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi.
Da parte italiana si replica con il richiamo al principio dell'appartenenza
nazionale come frutto di una scelta culturale e morale liberamente compiuta e
non di un'origine etnico-linguistica.
Tornando
al nesso città-campagna, secondo l'interpretazione italiana è invece la
tradizione culturale e civile delle città che dà la propria impronta alla
fisionomia e al volto di un territorio. Da questa differenza di impostazione
deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul
significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità delle popolazioni in
aree di frontiera, alterati - a parere degli sloveni - dall'esistenza di polmoni
urbani prevalentemente italiani.
Benché
la questione nazionale all'interno della monarchia asburgica presenti alcuni
denominatori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi
anche nel Litorale presentano peculiarità specifiche. La rapida crescita del
movimento politico ed economico sloveno e l'espansione demografica degli sloveni
nelle città sono ricondotte da parte italiana anche all'azione dell'autorità
governativa che avrebbe attuato una politica di sostegno all'elemento sloveno
(ritenuto indubbiamente più leale di quello italiano, come risulta da
dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare l'autonomismo
e il nazionalismo italiano.
L'attribuzione
di una fisionomia esclusivamente artificiale all'espansione slovena non tiene
però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da
centri urbani verso le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata da
una grande città in crescita dinamica come Trieste verso il suo circondario.
Questo rapporto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo
Vivante e Scipio Slataper, e non solo a un disegno politico.
Anche
alla Chiesa cattolica, come all'autorità governativa, gli ambienti nazionali e
liberali italiani rimproverano frequentemente di svolgere una funzione
filo-slovena, affermazione questa suffragata dall'attiva partecipazione di
sacerdoti al movimento politico sloveno.
Su
un piano politico-amministrativo l'asprezza della questione nazionale impedisce
o rende incompleto l'adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai
principi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali
locali si mantengono nell'ambito del sistema censitario: in tal modo la
composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni
numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale
di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano
i 2/3 della popolazione di quel territorio). L'evoluzione delle disposizioni in
materia linguistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate
sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una
piena parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di
Gorizia e a Trieste e tre in Istria.
Nei
decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non
strinsero legami politici. Costituisce un'eccezione la Dieta goriziana, nella
quale si verificarono inconsuete alleanze tra i cattolici sloveni e i liberali
sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti.
I
cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella
campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti
furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad
associazioni cattoliche slovene-italiane, fallì, né suscitò più tardi legami
tra i due popoli il movimento cristiano-sociale. Appare dunque evidente come le
ragioni dell'appartenenza nazionale facessero premio su quelle ideologiche.
Questa
tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è
più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica è imperniata su una
contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la
prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel sistema scolastico, e un
blocco croato-sloveno, che cerca invece di modificare l'equilibrio esistente. In
campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in
tutto il Litorale da parte di partiti "nazionali" distinti e
contrapposti.
Si
instaurarono invece legami più solidi nell'ambito del movimento socialista
improntato all'internazionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse
dato un'organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio
l'affermazione di questo principio a contenere l'assimilazione dei lavoratori
sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti delle due nazionalità e
divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successivamente, verso
la fine della prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sulla
appartenenza statale di Trieste e sulla sua identità nazionale.
Un
progetto croato, che contemplava una comune resistenza a un'asserita
germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare vita ad un
"patto adriatico" tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso
avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così
estese da danneggiare gli interessi sloveni.
Il
mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione italo-sloveni incide
profondamente sull'atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore, anche di
Gorizia e dell'Istria alla vigilia del 1915. Italiani e sloveni guardano
prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente capaci
di sviluppare un senso di appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i
gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono l'idea di una Trieste
capace di alimentare l'attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il
ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena
sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione
della diversa consistenza demografica delle due città.
La
loro espansione demografica li portava a ritenere imminente il momento della
conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabile, sia pure
in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste. La maggioranza della
popolazione italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigente
difesa nazionale, tesa a salvaguardare un'immutabile fisionomia italiana della
città. Se gli sloveni guardano a un retroterra vicino, gli italiani si
rivolgono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e
anche al Regno d'Italia.
In
campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale
minoritario che è fondato sull'idea di una missione civilizzatrice in senso
culturale e nazionale della città e sull'imperativo di un'espansione economica
dell'italianità nell'Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli
italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive
una minoranza legata all'ispirazione mazziniana mentre la maggioranza vede il
compito immediato dell'irredentismo nella difesa dell'identità italiana della
città e delle sue istituzioni.
In
questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del
mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della
rivista "La Favilla" nella fervida atmosfera del 1848. Si trattò del
gruppo che si raccolse intorno alla rivista fiorentina "La Voce",
resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché
alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del
suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini, tra i
quali Slataper e i fratelli Carlo e Giani Stuparich.
In
opposizione all'irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con il
termine di irredentismo culturale e intendono sviluppare la cultura italiana nel
confronto e nel dialogo con quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume
quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi;
la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del
socialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni de "La Voce"
viene pubblicato il più maturo risultato del pensiero socialista, e cioè il
volume di Vivante sull'irredentismo adriatico. Dal versante sloveno non si
ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono reazioni a questo libro.
Gli
sloveni apparivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e
incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i
quali riuscirono a ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano
ad esempio alcuni giudizi della fondazione dell'università a Trieste. Le
tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata
di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava la
monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale. Con
la prima guerra mondiale il programma dell'irredentismo diventa parte integrante
della politica italiana, sia pure nella convinzione - che durerò almeno sino
alla primavera del 1918 - che l'Austria-Ungheria, anche se profondamente
ridimensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta al
conflitto.
Prima
ancora dell'entrata in guerra dell'Italia il diplomatico italiano Carlo Galli
nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo,
esponenti sloveni.
Per
la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato
straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un
programma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano
presenti ragioni geografiche e strategiche. Il già diffuso lealismo sloveno nei
confronti dello stato austriaco trasse ulteriore alimento dalle prime voci sugli
aspetti imperialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in
merito al confine orientale del Regno d'Italia nonché dall'atteggiamento delle
autorità militari italiane nelle prime zone occupate.
Un
parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando
luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette d'Austria-Ungheria
che culminò nel congresso di Roma dell'aprile 1918 e in un'intesa con il
comitato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai
contraddittorio di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo
stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono l'idea del diritto
all'autodeterminazione e quella della solidarietà jugoslava. Nella fase finale
della guerra e all'inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il
contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine
"etnico", che affonda le sue radici nella concezione dell'appartenenza
della città alla campagna e che sostanzialmente coincide con il confine
italo-austriaco del 1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e
strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più
radicali e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera
sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente italiane, e di offrire
all'opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali, che
compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra.
L'Italia,
vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di
unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti
nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti
interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed
estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato
elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse
componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi:
gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per
gli sloveni, che si erano impegnati per l'unità nazionale e si erano già alla
fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo,
l'inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma.
Il
nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di
Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e
l'Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del popolo sloveno (327.230
unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento
italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita
del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di
quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921)
già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non
venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale.
L'amministrazione
italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad
affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove
si riscontravano consistenti insediamenti - in ampie zone maggioritari - di
popolazioni non italiane che aspiravano all'unione con la propria
"madrepatria" (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia
Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto
per lo più la loro acculturazione politica nell'ambito dello stato
plurinazionale asburgico.
Tale
impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa - in cui gli
slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati
dell'oppressione austriaca - provocò da parte delle autorità italiane
comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando
il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione,
influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano
pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria
volontà di annessione alla Jugoslavia.
Furono
così assunti numerosi provvedimenti restrittivi - sospensione di
amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della
libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di
militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali - che
penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente
slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le
manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la
definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni.
D'altra
parte, i governi liberali italiani, pur all'interno di un disegno generale di
nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei
confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue
rappresentanze nazionali, il riavvio dell'istruzione scolastica in lingua
slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo
sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto - sostenuto da
esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi prefascisti presero in
seria considerazione - di conservare ai territori annessi forme di autonomia non
lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore
rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento
italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza
slava.
L'irremovibilità
delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema
della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei
territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il
formarsi del mito della "vittoria mutilata" e l'impresa dannunziana di
Fiume, pur non riguardando direttamente l'area abitata da sloveni, accesero
ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l'affermarsi
precoce del "fascismo di frontiera", che si erse a tutore degli
interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali
forze nazionaliste italiane attorno all'asse dell'antislavismo combinato con
l'antibolscevismo.
Il
movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni - fiduciosi
nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale - che
contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche
da ciò in seguito derivò la coniazione da parte fascista del neologismo "slavocomunista"
che alimentò ulteriormente l'estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920,
l'incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste -
che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono
vittime sia italiane sia jugoslave - non fu così che il primo, clamoroso atto
di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come altrove in Italia la
crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all'aggressività
fascista, che si giovò di aperte collusioni con l'apparato dello stato, qui
ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità
antislava.
Le
"nuove province" d'Italia nascevano così con pesanti contraddizioni
tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che
minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali
diversi.
Il
trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d'Italia e
quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e
amputò un quarto abbondante dell'area considerata dagli sloveni come proprio
"territorio etnico". Tale esito era dovuto alla favorevole posizione
negoziale dell'Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e
riconfermata nel suo status di "grande potenza". Il trattato, che non
vincolò l'Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece
la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un
trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno
d'Italia.
Clausole
riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse
nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da
parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi
negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre
le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così
invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo
la via dell'egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati
anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici,
non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano
e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia.
Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo
momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che
sembrarono per breve tempo preludere all'ingresso della Jugoslavia nell'orbita
italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in
un preciso disegno di aggressione.
Nonostante
la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli
esponenti sloveni e croati - tra cui i loro rappresentanti al parlamento - fu
improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l'avvento
del fascismo; tra l'altro, essi non aderirono all'opposizione legale quando nel
1924 essa si ritirò sull'Aventino in segno di protesta contro il delitto
Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei
diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati
della minoranza tedesca dell'Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il
regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella
snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali.
Così
nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni
nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole
furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti
all'interno del regno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti
all'accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di
associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di
cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche,
ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu
la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito
l'uso pubblico della lingua.
Le
minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica e i
loro rappresentanti fuoriusciti continuarono a operare tramite il Congresso
delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così
all'impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche
minoritarie.
L'impeto
snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica,
nell'intento di arrivare alla "bonifica etnica" della Venezia Giulia.
Così, l'italianizzazione dei toponimi sloveni o l'uso esclusivo della loro
forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione
dell'emigrazione, all'impiego di elementi sloveni nell'interno del paese e nelle
colonie, all'avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di
elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare
drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati
superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e
campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla "superiore" civiltà
italiana.
A
tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai
brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei
mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro
territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò
non toglie che la politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo
sia risultata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale,
talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure
totalitarie del regime.
L'azione
snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal
momento che fra gli sloveni - dispersi e in esilio quadri dirigenti e
intellettuali - fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la
coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca
asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero,
oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero
condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui
l'alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti
italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo.
Tappe
fondamentali dell'addomesticamento della Chiesa di confine - il cui esito va
inserito nell'ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo
- furono la rimozione dell'arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del
vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive
"romanizzatrici" del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche
nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità "alloglotte",
come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni
simili: tali direttive infatti miravano a offrire il minimo di occasioni di
ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare
i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede
riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti comportavano in
via di principio l'abolizione dell'uso della lingua slovena nella liturgia e
nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in
ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano
sociale.
Tale
situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato,
e i nuovi vescovi dall'altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo
d'intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione
prioritaria nella difesa dell'identità nazionale, che appariva invece agli
ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni
e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica
stesse di fatto collaborando con il regime a un'opera di italianizzazione che
investiva ogni campo della vita sociale.
Gli
anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi
economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle
difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si
sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione
dell'area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre
giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non
riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue
cause profonde - vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra -
sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali sia della stessa
Italia. Ciò dimostrò l'assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai
nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia
la base per la penetrazione italiana nell'Europa centro-orientale e balcanica,
ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del
tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più
numerosi erano gli sloveni.
Difficoltà
economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un
robusto flusso migratorio della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di
quantificare con precisione l'apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse
anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell'ordine presumibile
delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono
complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione
transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche
e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto
giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche
del fascismo è ben evidente.
Ciò
che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e
proprio programma di distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e
croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di
volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi,
rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica
snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popolazione slovena a Trieste e
Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a
proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase
compattamente insediata sulla propria terra.
Il
risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di
consolidare, agli occhi degli sloveni, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di
condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che
aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano.
Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia,
anche se, alla metà degli anni Trenta, l'ideologia corporativa del fascismo
attirò alcuni ambienti politici cattolici.
Un
certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena
specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori
italiani, mentre assai limitata fu l'attenzione degli italiani verso la
letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo
delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato,
come pure in campo culturale e artistico, continuarono a sussistere ambiti in
cui la convivenza e la collaborazione erano normali, e ciò avrebbe mantenuto
preziosi germi che l'antifascismo e l'aspirazione alla democrazia avrebbero
sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si
approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza
contro l'oppressione fascista.
In
particolare la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta
nell'organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia
della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la
violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono
repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressione fascista, le
organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in
Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le
rivendicazioni di autonomia culturale nell'ambito dello stato italiano per porsi
invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati
etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il
Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene
detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.
Da
parte sua, il partito comunista d'Italia maturò lentamente il riconoscimento
come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno
borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l'influenza
dell'Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo
prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la
costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd'I riconobbe agli sloveni e
ai croati residenti entro i confini d'Italia il diritto all'autodeterminazione e
alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio
dell'autodecisione doveva valere anche per gli italiani.
Nel
1934 poi il PCd'I sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e
dell'Austria un'apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale
slovena, impegnandosi altresì in favore dell'unificazione del popolo sloveno
entro uno stato proprio. L'interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe
risultata particolarmente controversa durante la seconda guerra mondiale, quando
il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella
prassi il proprio programma irredentista. A ogni modo, il patto d'azione
stipulato nel 1936 fra il PCd'I e il movimento rivoluzionario nazionale degli
sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista,
mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell'antifascismo
italiano d'impronta liberale e risorgimentale.
Va
comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti
fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste
democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e
Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l'attività
antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati
venne riconosciuto il diritto all'autonomia e, in alcuni casi, alla revisione
dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse
la linea secessionista.
Dopo
l'attacco tedesco contro l'Urss la guerra in Europa, specie in quella orientale,
divenne totale e diretta alla completa eliminazione degli avversari. Il diritto
internazionale ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni
violate dai contendenti con impressionante frequenza ed anche le terre a nord
dell'Adriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza.
La
seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell'Asse introdusse nei rapporti
sloveno-italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti.
Se infatti per un verso l'attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva
occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due
popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche
nelle relazioni fra italiani e sloveni. L'occupazione del 1941 rappresentò così
per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli
sloveni toccarono con l'occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio;
la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase
trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia
Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.
La
distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della
compagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria:
la divisione del paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di
fronte alla prospettiva dell'annientamento della loro esistenza come nazione di
un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli
invasori.
L'aggressione
dell'Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale
imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano.
In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori
occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di
pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d'Italia. Alla popolazione
della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno
statuto di autonomia etnica e culturale; tuttavia le autorità di occupazione
italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto prima la regione
nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni
a quelle omologhe italiane.
L'attrazione
politica, culturale ed economica dell'Italia avrebbe dovuto condurre
gradualmente alla fascistizzazione ed all'italianizzazione della popolazione
locale. Sulle prime l'aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare
gli sloveni grazie ad un'asserita superiorità della civiltà italiana, perciò
il regime d'occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu
piuttosto moderato.
A
fonte di quello nazista, esso apparve perciò agli occhi degli sloveni un male
minore, ed ottenne per questo alcune forme di collaborazione, anche se le stesse
forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di
orientamenti filofascisti: gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un
periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il
futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste.
Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo
sulla strategia da seguire. La prima, propugnata dal Fronte di Liberazione (OF),
sosteneva la necessità di avviare immediatamente la resistenza contro
l'occupatore: vennero perciò formate le prime unità partigiane che condussero
azioni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di
avvicinamento culturale il movimento di liberazione rispose con il
"silenzio culturale".
Aderirono
al Fronte di Liberazione appartenenti a tutti i ceti della popolazione senza
distinzione di credo politico ed ideale. L'altra opzione, maturata in seno agli
esponenti delle forze liberal-conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di
prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei
conti con l'occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di
Liberazione che lo schieramento opposto, facente capo al governo monarchico
jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull'obiettivo della Slovenia Unita,
comprendente tutti i territori considerati sloveni nel quadro di una Jugoslavia
federativa.
Al
crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della
contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose
trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono
drastiche misure repressive. Il regime d'occupazione fece leva sulla violenza
che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con
le deportazioni e l'internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i
quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi
alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l'incendio
di case e villaggi.
Migliaia
furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi
fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo
più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure
disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La
violenza raggiunse il suo apice nel corso dell'offensiva italiana del 1942,
durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su
tutta la Provincia di Lubiana.
Improntando
la propria politica al motto "divide et impera" le autorità italiane
sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d'ispirazione
cattolica, le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel
momento individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore, e si erano
rese perciò disponibili alla collaborazione. Esse avevano così creato delle
formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono
nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta
antipartigiana.
La
lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla
popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo entro
il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell'appartenenza statale
di buona parte di questo territorio e rese manifesti non solo l'assoluta
inefficacia della politica del regime fascista nei confronti degli sloveni, bensì
pure il fallimento generale della politica italiana sul confine orientale.
Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere
preventivo sin dall'inizio della guerra: l'internamento ed il confino dei
personaggi di punta, l'assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali,
l'evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale
nel quadro del secondo processo del tribunale speciale svoltosi a Trieste.
Fra
gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal partito
comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie
le loro tradizionali istanze nazionali tese all'annessione alla Jugoslavia di
tutti i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una
maggioranza italiana. Il Pcs si era così assicurato l'assoluta egemonia sul
movimento di massa e grazie alla lotta armata anche l'opportunità di attuare
sia la liberazione nazionale che la rivoluzione sociale. Nell'opera di
repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai
metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli
incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente
creati l'Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi
d'armata dell'esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto
anche sul territorio dello stato italiano.
Nei
giorni successivi all'8 settembre 1943 le forze armate ed elementi
dell'amministrazione civile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza
contrasto e giovandosi anche dell'aiuto della popolazione locale. Le conseguenze
dell'armistizio comunque rappresentarono una svolta chiave nei rapporti
sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora,
che vedeva gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante e gli
sloveni-occupati ovvero popolo oppresso, si fece più complessa. Sotto il
profilo psicologico ed anche in termini reali la bilancia s'inclinò a favore
degli sloveni.
L'adesione
della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le
azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero
testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio
appartenesse alla Slovenia Unita. Tale determinazione fu sancita nell'autunno
del 1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente fatta propria
anche a livello jugoslavo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero
così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche
le autorità tedesche che, prendendo atto dell'assetto etnico e reale del
territorio, cercarono di interporsi strumentalmente come mediatrici fra italiani
e slavi.
I
tedeschi comunque, per mantenere il controllo del territorio fecero ricorso
all'esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della
collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma
anche slovene. Essi inoltre utilizzarono gli apparati amministrativi italiani
ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di
collaborazione istituite appositamente, e, nella logica del "divide et
impera", sempre strumentalmente accolsero alcune richieste slovene nel
campo dell'istruzione e dell'uso della lingua, concedendo pure ad elementi
sloveni limitate responsabilità amministrative. La condivisione degli obiettivi
anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste non poté
però superare le reciproche diffidenze d'ordine nazionale, e ciò portò anche
a scontri armati.
Più
ampi furono i movimenti di opposizione all'occupazione germanica tanto che i
nazisti sentirono il bisogno di adibire all'eliminazione su larga scala degli
antifascisti, in primo luogo sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura
specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche come centro di raccolta per
gli ebrei da deportare nei campi di sterminio. Particolarmente vasta fu la
partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena,
mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse
egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano
accettate dalla maggioranza della popolazione italiana.
Influì
anche negativamente l'eco degli eccidi di italiani dell'autunno del 1943 (le
cosiddette "foibe istriane") nei territori istriani ove era attivo il
movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e
sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che
spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro
sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità.
Nel
corso della seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al
culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero contestualmente
sviluppandosi anche forme di collaborazione su basi antifasciste, in
prosecuzione di una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale
collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti
comunisti, tra le formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati di
unità operaia e, fin ad un certo momento, anche fra l'OF e il CLN. Sotto il
profilo generale, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed
italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi.
Nonostante
le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di
liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione,
consistenza ed influenza e non superarono la diversità di obiettivi e di
tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti
comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell'OF, nonostante
avessero stipulato alcuni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza
si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto che internazionale, dal momento
che entrambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori
dell'internazionalismo, risultarono fortemente condizionati dell'esigenza di
difendere i rispettivi interessi nazionali.
Il
movimento di liberazione sloveno reputò di importanza centrale l'annessione
alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti storici
sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale, bensì
- dato il carattere del movimento - anche implicazioni inerenti agli obiettivi
rivoluzionari che si era preposto. Il possesso di Trieste infatti era
considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica
rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia,
nonché come base sia per la difesa del mondo comunista dall'influenza
occidentale sia per un'ulteriore espansione del comunismo verso Ovest, ed in
particolare verso l'Italia del Nord.
Il
PCI, a livello sia locale che nazionale, fino all'estate del 1944 non accettò
l'idea dell'annessione alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a
prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione del problema al
dopoguerra. Più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il
PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della
federazione triestina del PCI, i comunisti giuliani aderirono all'impostazione
dell'OF, mentre in campo nazionale la linea del PCI si fece più oscillante: le
rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno
respinte, e Togliatti propose una distinzione tattica fra annessione di Trieste
alla Jugoslavia - di cui non bisognava parlare - ed occupazione del territorio
giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani.
Sulla
linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al
dibattito interno sugli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia,
influì anche l'atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano
di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in chiave
internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del
quale si ergeva l'Unione Sovietica. Tale scelta provocò pesanti conseguenze
all'interno della resistenza italiana, portando tra l'altro all'eccidio delle
malghe di Porzus, perpetrato da un formazione partigiana comunista nei confronti
di partigiani osovani.
Diversa
era la posizione del CLN giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i
comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava i
sentimenti della popolazione italiana di orientamento antifascista che
desiderava il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Il CLN
tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-americani come rappresentante della
maggioranza della popolazione italiana, anche al fine di ottenerne l'appoggio
per la definizione dei confini. Il CLN e l'OF esprimevano orientamenti in
materia di confini opposti e incompatibili, perciò quando il problema della
futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica
divenne impossibile.
Sul
piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell'insurrezione
finale svanirono di fronte all'impossibilità di raggiungere un'intesa su chi
avrebbe avuto il controllo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu
così che al termine della guerra ciascuna componente della Venezia Giulia
attese i propri liberatori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo
operante in Slovenia o l'Ottava armata britannica, e scorse in quelli dell'altra
l'invasore.
Alla
fine di aprile CLN e Unità operaia organizzarono a Trieste due insurrezioni
parallele e concorrenziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi dalla
Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari
jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre le loro aree
operative in maniera non concordata: il problema della transizione fra guerra e
dopoguerra divenne così una questione che travalicava i rapporti fra italiani e
sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l'Italia e la
Jugoslavia, per diventare un nodo, seppur minore della politica europea del
tempo. L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente
liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia
Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli
italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice
liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato Italiano. Al contrario, i
giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il
momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella
zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che
trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali
venne in più riprese rilasciata - in larga maggioranza italiani, ma anche
sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo - in centinaia di
esecuzioni sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle
" foibe ", e nella deportazione di un gran numero di militari e
civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei
trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato
quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti
si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di
guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico
preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti
e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al
fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano,
assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o
presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione
della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione
partì da un movimento rivoluzionario, che si stava trasformando in regime,
convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica
diffusa nei quadri partigiani.
L'area
della Venezia Giulia e delle valli del Natisone (Slavia Veneta) che vede
l'incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già
frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio del
dopoguerra. Dal maggio 1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due
amministrazioni militari anglo-americane (con sede a Trieste e Udine) e il
governo militare jugoslavo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di
occupazione: la zona A amministrata da un governo militare alleato (Gma) e la
zona B amministrata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le valli del
Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine.
Dopo
il 1945 la situazione internazionale procedette rapidamente verso la
contrapposizione globale fra Est e Ovest, e anche se nei rapporti diplomatici
fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di
scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici delle
popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel
primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la
controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale
dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento degli
equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali
della regione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia,
aggredita dall'Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle
aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della
Venezia Giulia contro il fascismo e per l'emancipazione nazionale.
Il
tentativo di far coincidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia
impossibile, non solo per il prevalere delle politiche di potenza, ma per le
caratteristiche stesse del popolamento nella regione Giulia e per il diverso
modo d'intendere l'appartenenza nazionale dei residenti nell'area: ancora una
volta quindi, com'era già avvenuto dopo il 1918 e com'è del resto tipico
dell'età dei nazionalismi, il coronamento (seppur nel caso degli sloveni non
integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella
penalizzazione di quelle dell'altro.
Dopo
l'entrata in vigore del Trattato di pace - che istituiva quale soluzione di
compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) - le relazioni italo-jugoslave
vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di
tale fase si ebbe nel 1948, quando l'imminenza delle elezioni politiche italiane
indusse i governi occidentali ad emanare la Nota tripartita del 20 marzo in
favore della restituzione all'Italia dell'intero TLT.
A
seguito del dissidio con l'Urss del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi
politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la
neutralità con concessioni economiche e politiche, pur rimanendo essa retta da
un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista
l'inconcludenza dei negoziati bilaterali sulla sorte del TLT, superata la crisi
originata dalla Nota Bipartita dell'8 ottobre 1953, si pervenne il 5 ottobre
1954 alla stipula del Memorandum di Londra.
L'assetto
imposto dal Trattato di Pace e successivamente completato dal Memorandum riuscì
complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei
territori rivendicati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona
A del mai realizzato Territorio Libero di Trieste, che pur vedevano la presenza
di sloveni. Le valli del Natisone, la val Canale e la val di Resia, sebbene
rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative.
Diversa
fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la
maggior parte dell'opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno
all'Italia di Trieste, che era divenuta il simbolo della lunga contesa
diplomatica per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani della Venezia
Giulia vissero la perdita dell'Istria come un evento traumatico, che sedimentò
nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione per il recupero
delle vaste aree rurali del Carso e dell'alto Isonzo, si accompagnò alla
delusione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri
urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall'annessione della fascia
costiera del Capodistriano - che vedeva una consistente presenza italiana - che
fornì alla Slovenia lo sbocco al mare.
A
conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia
Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione
jugoslava, rimasero comunità slovene in Italia, nelle province di Trieste,
Gorizia ed Udine, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all'atto della
stipula del Memorandum d'Intesa queste ultime erano già state falcidiate
dall'esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di pace.
Nelle
zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata l'amministrazione italiana, il
ritorno alla normalità fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti
nazionalisti, anche come conseguenza dei rancori suscitati dall'occupazione
jugoslava del 1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine statuale
italiana fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e
contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono
in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti
individuali, non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità slovena, e in
alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La
divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano, perché
l'entroterra montano del bacino dell'Isonzo restò privo del suo sbocco nella
pianura, e in particolare la popolazione slovena, che rimase separata dai propri
connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di Nova
Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando,
anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto in Italia,
la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni
Cinquanta.
Più
precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone
e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza
nazionale e rimasero quindi privi dell'insegnamento nella madre lingua e del
diritto ad usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il
rifiorire, a partire dagli ultimi anni di guerra, di forme di coscienza
nazionale slovena, ma la comparsa di orientamenti politici filo-jugoslavi presso
popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano,
venne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della
guerra fredda, frutto non di un'evoluzione autonoma ma di agitazione politica
proveniente da oltre confine.
I
loro assertori furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti, e in alcuni casi
di atti di violenza, da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari.
Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con
quelle religiose diocesane nell'affermare il proprio ruolo di riferimento per
l'identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall'esercizio dei suoi
compiti pastorali in lingua slovena. Vi è certo stato in tali zone un
persistente ritardo da parte italiana nell'attuazione di una politica di tutela
corrispondente allo spirito della Costituzione democratica. Su tale ritardo
vennero a pesare l'inasprirsi della situazione internazionale e le
corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi
nell'istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe
comunque consentito, secondo il disegno della Costituente, una maggiore
attenzione alle regioni minoritarie.
Nelle
zone A e B della Venezia Giulia e dal 1947 del TLT, entrambi i governi militari
operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differivano fra loro per
alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un'autorità
di occupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che
rivendicava a sé l'area in questione, e ciò ne condizionò l'opera. Gli
angloamericani introdussero nella zona A ordinamenti ispirati ai principi
liberal-democratici, e, pur mantenendo sempre il completo controllo militare e
politico nella zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere nell'amministrazione
civile tutte le correnti politiche.
Poi
però, per il diniego della componente filo-jugoslava e anche in virtù del peso
crescente della guerra fredda - che fino al 1948 trovò nell'area giuliana uno
dei suoi luoghi di frizione - si servirono soltanto della collaborazione delle
forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque provvedimenti volti
ad assicurare alla popolazione slovena i suoi diritti nell'uso pubblico della
lingua nazionale ed in campo scolastico, cercando però nel contempo di
ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre,
l'attivazione - sia pure tardiva - degli istituti di autogoverno locale, permise
agli sloveni, con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere i propri
rappresentanti dopo più di due decenni di esclusione dalla vita pubblica. In
quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni
fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai
ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e
politico.
Fino
al 1954 la priorità attribuita alla questione dell'appartenenza statuale della
zona, sommandosi alle tensioni della guerra fredda, determinò una
polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l'avvio della nuova
vita democratica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello
filo-jugoslavo non era né esclusivamente nazionale né solo di classe o
ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al 1947
all'interno dei due blocchi le distinzioni politiche si attenuarono e trovarono
ampio spazio le pulsioni nazionaliste.
Più
tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello sconto
nazionale rimase assai forte, le componenti democratiche filo-italiane, che
assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a distinguere la loro
azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestarono
pubblicamente anche le distinzioni ideologiche, prima offuscate, fra gli
sloveni, i quali formarono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità
jugoslave.
Presero
corpo anche tendenze indipendentiste, che videro una certa convergenza di
elementi italiani e sloveni attorno all'idea dell'entrata in vigore dello
statuto definitivo del TLT.
Oltre
ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva sullo stesso territorio e che non
furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform una stretta
collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata
soprattutto all'appartenenza di classe e cementata dalla comune esperienza della
lotta partigiana, che in determinati ambienti era valsa a infrangere alcuni
miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in
favore dell'annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva
edificando il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza del proletariato
locale di lingua italiana, soprattutto nella zona A, fece sì che fino alla
frattura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo si mantenesse la
solidarietà fra comunisti italiani e sloveni, nonostante le crescenti
divergenze sul modo d'intendere l'internazionalismo e sulla concezione del
partito, oltre che su questioni chiave come quella dell'appartenenza statale
della Venezia Giulia.
Stretta
fu pure la collaborazione fra il Pci e il Pcj (Pcs), consolidata dalla lotta
comune contro l'invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su
alcune questioni. Le tensioni esplosero all'atto della risoluzione del Cominform,
sostenuta dalla maggioranza dei comunisti italiani, sicché si ebbe per
parecchio tempo non solo l'interruzione di ogni contatto ma anche una vera e
propria ostilità tra "cominformisti" e "titini". A seguito
di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli residenti in
Istria che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad "edificare il
socialismo", subirono il carcere, la deportazione e l'esilio. Si creò pure
una frattura tra gli sloveni, essendosi schierata a favore dell'Unione Sovietica
e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati
a sinistra.
Da
allora per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e
spesso ostili: i democratici, i "cominformisti" ed i "titini".
Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area
compresa tra il confine di Rapallo e la linea Morgan, l'area amministrata dalle
autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia
costiera, mentre la popolazione dell'entroterra era in larga prevalenza slovena.
Nel 1947 tale area costiera concorse, assieme al Buiese amministrato dalle
autorità croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la Vuja, che aveva
trasferito parte delle proprie competenze agli organi civili del potere
popolare, cercò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista,
irrispettoso del diritto delle persone.
Le
autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola
amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua
destinazione statuale, cercarono di forzare l'annessione con una politica di
fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti
nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli
italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso
dell'intimidazione e della violenza.
Nel
contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora
egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall'interruzione
dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero
rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe
dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di
riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse
l'attivazione di nuove istituzioni culturali - come l'emittente radiofonica in
lingua italiana - strettamente controllate dal regime, di fronte alla
progressiva espulsione degli insegnanti e - dopo il 1948 - al ridimensionamento
del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all'orientamento complessivo
dell'insegnamento verso l'attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano
con l'Italia e verso la denigrazione dell'Italia. Allo stesso modo, la
persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che
costituiva un elemento chiave per la difesa dell'identità nazionale,
un'oggettiva valenza snazionalizzatrice.
Se
nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano
sull'elemento italiano l'animosità per i trascorsi del fascismo istriano, è
palese sin dall'immediato dopoguerra l'intento di liberarsi degli italiani in
quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale
delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli
di parte jugoslava - sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da
parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo
la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948; questa spinse i comunisti
italiani che vivevano nella zona, e che pur avevano inizialmente collaborato,
anche se con crescenti riserve, con le autorità jugoslave, a schierarsi nella
loro stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse le autorità
popolari ad abbandonare la linea della "fratellanza italo-slava", che
consentiva al mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di una componente
italiana politicamente e socialmente epurata al fine di renderla conformista
rispetto agli orientamenti ideologici e alla politica nazionale del regime.
Da
parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l'abbandono da parte
degli italiani della loro terra d'origine, mentre il trattamento riservato al
Gruppo Nazionale Italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati
sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle
elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti
forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere
fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre
rimaneggiamenti anche a causa dell'immissione di jugoslavi in città che erano
state quasi esclusivamente italiane.
In
conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria si registrò un flusso
costante, anche se numericamente limitato, di partenze e di fughe, che divenne
particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a
coinvolgere l'intero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum di
Londra, quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione
potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum
l'atteggiamento delle autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo
atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza
italiana entro un tempo limitato.
Complessivamente
nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani soggetti oggi alla
sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone - vale a dire la quasi
totalità della popolazione italiana ivi residente, oltre ad alcune migliaia di
sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima
maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300
mila unità), provenienti dalle aree dell'Istria e della Dalmazia oggi
appartenenti alla Croazia. Gli italiani rimasti (l'8% della popolazione
complessiva) furono in maggioranza operai e contadini, specie quelli più
anziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati politici del dopoguerra ed alcuni
intellettuali di sinistra.
Fra
le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata
da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione
dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e
sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali
trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale
italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di
agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del
governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni
perseguitate ed impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più
riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l'esodo. A ciò si
aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi
socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste -
che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere
definitivamente dalla parte sbagliata della "cortina di ferro". In
definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità
di mantenere la loro identità nazionale - intesa come complesso di modi di
vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica - nelle
condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne
vissuta come una scelta di libertà.
In
una prospettiva più ampia, l'esodo degli italiani dall'Istria si configura come
aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in
territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà
plurilinguistica e multiculturale esistente nell'Europa centro-orientale e
sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato
federale e fondato su di un'ideologia internazionalista, mostra come nell'ambito
stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a
condizionare massicciamente le dinamiche politiche.
La
stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a
cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel
complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e
l'inizio di un'epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione
di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo
sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici. Nonostante i loro
contrasti, già a partire dalla stipula del Trattato di Pace, i due paesi,
l'Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da
rendere a partire dagli anni Sessanta tardi il loro confine il più aperto fra
due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L'apporto delle due minoranze
fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni di
accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee ricadute, i due popoli
verso una più feconda collaborazione.
Il
documento prodotto in questi giorni dalla commissione storica italo-slovena,
incaricata di indagare sulle vicende e sulle conflittualità nazionali che hanno
devastato l'attuale Venezia Giulia e quella parte dell'Istria oggi sotto
sovranità slovena, ha innescato delle polemiche che dimostrano chiaramente
quanto negativa sia e a quali situazioni paradossali possa portare la
commistione tra l'interesse politico e la riflessione storiografica. Un
arroventato dibattito scatenato da un documento che era stato pensato proprio
per sopire i contrasti non solo tra due stati confinanti divisi da un tragico
destino vissuto su fronti contrapposti ma anche per mettere una buona volta la
parola fine ad un interminabile dopoguerra che avvelena ancora la memoria
storica del popolo italiano.
Caduto
il muro di Berlino, avviata verso la liberazione dal comunismo l'Europa
orientale, da più parti si era colta l'occasione per chiedere che venisse
finalmente fatta luce sulle gravi questioni accadute al confine orientale
d'Italia. Tale fu il significato della mozione approvata il 24 settembre del
1990 dal consiglio comunale di Trieste per costituire una commissione di storici
capace di dare risposte soddisfacenti. I governi d'Italia e di Slovenia si
attivarono, dunque, in tal senso e tre anni dopo essa fu varata.
Analoga
iniziativa venne avviata con la Croazia, ma dopo poche sedute tutto si arenò;
sintomo di un rapporto difficile da instaurare con un paese fortemente
nazionalista e tuttora impegnato in questioni balcaniche che non permettono
alcun cedimento sul piano dell'orgoglio nazionale. Con la Slovenia, invece, il
dialogo cominciò e, da parte italiana, l'incarico fu affidato a storici e ad
esperti di diritto internazionale di chiara fama quali Sergio Bartole (poi
sostituito da Giorgio Conetti), Fulvio Tomizza (al quale, alla sua morte,
subentrò Raul Pupo), Elio Apih (sostituito da Marina Cattaruzza), Fulvio
Salimbeni, Angelo Ara, Lucio Toth e, mai presente, Maria Paola Pagnini.
Nella
controparte slovena un ruolo di primo piano ebbero Milica Kacin Wohinz e Nevenka
Troha. Il risultato finale dei vari incontri, che data al luglio del 2000, ha
richiesto più di otto mesi, segnati da indiscrezioni, mugugni e dietrologie
varie, perché fosse reso pubblico dopo un'azione di forza compiuta dal giornale
sloveno "Primorske Novice" che ne ha pubblicato le bozze non
definitive. A quel punto si è resa necessaria la diffusione del documento
ufficiale e, in tale frangente, il ministero degli esteri italiano ha
manifestato tutta la sua imperizia dando adito a una situazione paradossale per
cui scaricava sugli storici della commissione l'onere di pubblicare in proprio
un documento di cui il governo italiano è stato il committente.
Vero
è che ufficializzare una risultanza storica da parte di un organo governativo
significa dare l'impressione che esista una versione imposta dallo Stato, cosa
ovviamente non compatibile con un paese democratico, dove dovrebbe vigere
l'assoluta libertà di ricerca e d'interpretazione. Ma allora, perché istituire
una commissione storica nominata dai rispettivi governi? Non era già evidente
nel 1993 il paradosso a cui si andava incontro? Il risultato che si voleva
ottenere era, in realtà, soprattutto politico, ma il modo in cui la vicenda è
stata gestita rischia di peggiorare le cose.
Ciò
che premeva era di trovare un punto d'incontro, una piattaforma su cui avviare
un dialogo tra Italia e Slovenia in vista del comune futuro europeo. E' palese,
allora, che i contenuti del testo contano ben poco. Parlare di un documento di
estrema sinteticità, localizzato unicamente nell'ambito territoriale attuale
dei due stati confinanti - di modo che gli avvenimenti e le stime numeriche si
riducono a una minima parte di quanto realmente accaduto - e che affronta i
rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956 in modo da riconoscere i torti e le
ragioni dell'una e dell'altra parte, scontentando così gli ultras di entrambi i
popoli convinti che le ingiustizie siano state compiute tutte dalla controparte,
appare, per chi fa della seria riflessione storiografica, tempo perso.
Anche
perché chi professionalmente studia l'argomento conosceva già tutte le
posizioni emerse dal testo in questione. Ciò che appare sconcertante è come si
sia potuto credere di dare una risposta istituzionale a problemi che, come tutti
i fatti storici, sono soggetti alle più svariate interpretazioni.
Certamente,
nonostante le critiche cui sono sottoposti oggi i componenti italiani della
commissione, aver fatto ammettere agli studiosi sloveni la corresponsabilità
slava nella secolare conflittualità nazionale, il collaborazionismo con il
fascismo, la realtà delle foibe e delle persecuzioni che provocarono l'esodo è
stato un risultato impensabile fino a pochissimo tempo fa. Che poi, invece, si
affermi, tra le altre cose che scontentano gli italiani, che quella jugoslava fu
"violenza di stato" d'ispirazione comunista piuttosto che
"pulizia etnica" rientra in quella contrapposizione dialettica che
sembra non finire mai e che, ci pare, sia del tutto indifferente alle vittime di
quella violenza.
Ma
non a uno dei committenti della commissione storica, il governo italiano, che
per motivi presumibilmente elettorali ha dovuto smentire lo stesso organo da lui
voluto dichiarando che quella slava fu una vera "pulizia etnica".
Rendendo in tal modo ancor più palese quanto poco valore abbia una ricerca
storica finalizzata a motivazioni politiche e riducendo, con il proprio
paradossale comportamento, tutta la questione ad una farsa.
Di
storia si parlerà un'altra volta. Il risultato della commissione è stato, in
sostanza, un accordo fra gentiluomini speranzosi in un dialogo proficuo tra i
due popoli ma dal punto di vista storiografico esso sarà dimenticato non appena
si saranno placate le polemiche e ognuno darà, come è sempre avvenuto, la
propria versione al di fuori di inaccettabili verità ufficiali.
DIEGO
REDIVO