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Venticinque anni dopo, chissà come e perché, forse
perché sono scomparsi due grandi maestri del cinema mondiale, forse perché si
verificano delle circostanze analoghe, mi torna alla mente quella decina di
giovani che aveva allora più o meno trent’anni ed assisteva, certo senza saperlo
del tutto, a un cambiamento, come s’usa dire, epocale.
Una tempesta violentissima di mezzo agosto, come un segno del destino, aveva
stracciato lo schermo, che pendeva per metà, di sghembo, dal suo traliccio. La
grandine aveva bucherellato le
tapparelle della scuola. Il vento abbattuto le sedie disposte nel cortile.
Se l’erano procurate a Milano, in un cinema che aveva cambiato tutto l’arredo,
tre anni prima. Qualcuno di loro era riuscito a rimediare un camion per
caricarle e trasportarle.
Il ponteggio per lo schermo glielo prestava la Cooperativa di costruzioni,
praticamente gratis. Era accatastato in un angolo di un’antica chiesa
sconsacrata, adibita a magazzino. Lo montavano pazientemente inerpicandosi fin
lassù.
Io, che ero uno di loro, avevo le vertigini solo a guardarli e non salivo sulle
travi, lungo i pioli metallici. Sentivo i loro richiami, ormai invisibili dietro
lo schermo che si stava stendendo, dall’aula trasformata in sala di proiezione.
Mi ero specializzato nel montare il proiettore e metterlo a punto. Era un
vecchio modello ad arco voltaico con una meccanica quasi perfetta. Tre di noi
avevano anche fatto l’esame da proiezionisti, conseguendo il “patentino” per far
funzionare quella specie di meravigliosa “lanterna magica” che sembrava uscita
dall’atelier di Méliès.
Era nato così il circolo del cinema.
Ma ancor prima di quell’estate di venticinque anni fa c’erano stati altri eventi
inquietanti, segni di un destino che ci avrebbe cambiati, volenti o nolenti.
L’anno precedente fummo denunciati per esercizio abusivo di attività
commerciale. Eravamo un’associazione culturale senza scopo di lucro, ma qualcuno
trovò un piccolo vizio di forma in quel che facevamo.
Un solerte maresciallo prese la cosa molto sul serio e fummo sottoposti, un po’
spaesati e increduli, ad un vero e proprio interrogatorio. Chi ce l’aveva con
noi? A chi davamo fastidio? Forse a qualche esercente preoccupato per la nostra
concorrenza? Ma in luglio e agosto le sale erano chiuse e fin dagli anni ’60 non
esisteva più un’arena estiva!
Gli amministratori locali si disinteressarono della faccenda e riguardo al
servizio che fornivamo gratis alla cittadinanza non mostrarono segni di
apprezzamento. Avevamo tutti o quasi una provenienza politica extraparlamentare,
o almeno così essi ritennero, e ciò bastava.
Il presidente fu incredibilmente condannato. Ma che razza di avvocato aveva? E
in che giudice era incappato? Per fortuna, dopo diverse e preoccupanti
traversie, tutto si concluse senza danni.
Noi, comunque, non volevamo far concorrenza a nessuno, ma pieni di entusiasmo e
passione per il cinema, rendere più vive le sere della calda estate in
provincia. Ci eravamo persino tassati per acquistare tutta l’attrezzatura.
Fu per noi una grande emozione vedere accendersi lo schermo di luci e colori in
una sera di luglio. Le bobine giravano, la pellicola scorreva trascinata dalle
ruote dentate, la Croce di Malta apriva e chiudeva l’otturatore e il fascio di
luce proiettava sul telo bianco il dettaglio degli occhi di De Niro che
riflettevano i colori della notte di New York in Taxi driver.
Per tre successive edizioni celebrammo il rito che i fratelli Lumière avevano ideato nel 1895 e rinnovammo la magia del cinématographe con una trentina di film per ogni stagione. La gente accorreva e certe sere le sedie non bastavano. Dovevamo ricorrere a quelle del teatrino della scuola.
Ma al terzo anno gli incassi cominciarono a calare e ad erodere gli utili. Non
ce la sentimmo di rischiare una quarta rassegna.
Nel 1981, l’anno prima della fine di questa storia, uno di noi aveva svolto
un’inchiesta molto documentata sulla situazione del consumo di cinema in
provincia, pubblicata sul mensile dell’associazionismo di impegno sociale.
Esaminava la progressiva flessione dell’esercizio cinematografico e lo
spostamento del consumo di film dalla sala al piccolo schermo della Tv. I canali
della Rai e, soprattutto, quelli commerciali, ormai numerosi, trasmettevano dai
40 ai 50 film al giorno, in ogni fascia oraria e per tutti i gusti, pescando a
piene mani dai listini dei distributori.
Avevamo capito appena in tempo che qualcosa di nuovo stava per accadere. Nasceva
la società dello spettacolo che ancora oggi è nel suo pieno splendore. Il
virtuale stava per sostituirsi al reale. Un filosofo francese che quasi nessuno
conosceva l’aveva scritto già da più di un decennio.
Cominciavano tempi difficili per chi voleva proiettare film sul grande schermo.
Ma non erano solo gli esercenti dei cinematografi a trovarsi in difficoltà.
Su quel che è accaduto negli anni successivi ci sarebbe un vasto romanzo da
scrivere, una saga fitta di intrighi e scandali, un vero “giallo” complesso e in
parte irrisolto.
Chi era il colpevole?
Come in un noir californiano, ci sarebbe voluto un Philip Marlowe per scoprirlo,
per smascherare il magnate che manipolava gli eventi, nella sua villa con parco
di alberi secolari, dove si respira l’odore inebriante del lusso sfrenato.
Non eravamo certo noi a far concorrenza al cinema nelle sale. Il colpevole non
poteva essere il nostro povero presidente, perseguitato da un cinematografaro
vendicativo, dall’indifferenza degli amministratori, dall’eccessivo zelo di un
maresciallo, da un giudice giustizialista, da un avvocato inefficiente.
Anche noi eravamo vittime predestinate. La nostra attività, che non era affatto
imprenditoriale, dovette cambiare allora in modo drastico.
Del resto, gli esercenti lo sapevano benissimo. Il loro periodico di categoria
pubblicava dati inequivocabili e gridava alla “concorrenza sleale” delle
televisioni private, dei tre network che riunivano tante piccole emittenti
locali e offrivano gratuitamente cinema a tutte le ore del giorno e della notte.
Non so se intrapresero azioni legali, ma certo, se lo fecero, tutto cadde
nell’indifferenza dei politici che, proprio come i nostri amministratori,
lasciavano fare e, in apparenza almeno, non si preoccupavano del problema.
Neppure si trovarono, nell’immediato, giudici altrettanto pronti ad applicare le
leggi.
In seguito, le cose precipitarono in modo molto rapido e forse imprevedibile.
L’uomo delle televisioni era all’opera da tempo per trasformare tutto lo
spettacolo in merce e tutta la merce in spettacolo (proprio come diceva quel
francese), ma forse non c’era ancora un detective che l’avesse scoperto.
La sua finanziaria controllava, tra l’altro, una società di produzione
televisiva, una concessionaria di pubblicità e un network televisivo. Ma in poco
tempo, negli anni successivi, quel magnate avrebbe ampliato il suo controllo
sull’emittenza televisiva acquistando le altre due grandi reti private.
Era solo “concorrenza sleale”? Non c’erano vizi di forma più gravi nella sua
attività?
Altro che se c’erano! Ad esempio, le trasmissioni venivano irradiate
illegalmente in interconnessione nazionale. Le tante emittenti locali acquistate
negli anni trasmettevano lo stesso programma a pochi secondi di distanza,
costituendo un’audience a livello nazionale e raccogliendo sempre più elevate
quote di pubblicità, in barba alle sentenze della Corte suprema.
A quel punto, alcuni magistrati si resero conto dell’inganno e cercarono di
smantellare questo sistema illegittimo. Ma i politici, che facevan finta di
dormire, si svegliarono di colpo e fu lo stesso capo del governo a bloccare i
provvedimenti di oscuramento dei tre network emesso dai magistrati. Il 20
ottobre 1984 l’uomo delle televisioni fu ricevuto a Palazzo Chigi, poco prima
che venisse annullato, con un decreto speciale, l’operato delle procure di Roma,
Torino e Pescara.
All’epoca, noi stavamo già facendo ben altro, portavamo il cinema nelle scuole,
e cercavamo di trasmettere ai giovani il gusto della narrazione per immagini. Il
secolo del cinema non si sarebbe concluso in anticipo. Non sarebbe stato un
secolo breve.
Dopo la tempesta di due anni prima, avevamo noleggiato un altro schermo per
onorare la programmazione. Passato da poco il 20 di agosto ci fu l’ultima
affollata proiezione: Quadrophenia, in una stupenda serata dell’estate che si
avviava al tramonto. Era una copia che, oltre alla pista ottica del sonoro,
aveva due piste magnetiche per la proiezione in stereo. A causa dello spessore
del nastro magnetico la pellicola ci stava appena nelle bobine. E quella fu
un’emozione supplementare.
Festeggiammo la chiusura dell’arena estiva con una cena in un buon ristorante
sul fiume e, tornando, con un tasso alcolemico che oggi ci porterebbe dritti in
galera, una 500 rossa ed una R4 gareggiarono in velocità lungo le curve di una
tortuosa strada padana.
Alla memoria di un amico (quello della R4) che ha
percorso un tratto di strada con noi e poi ha preferito abbandonare tutto, ma
proprio tutto…
Post scriptum.
I fatti narrati sono realmente accaduti. I riferimenti a personaggi esistenti
non è affatto casuale.
Prendendo come riferimento la tabella del 1981, pubblicata da Il margine,
i segnali di crisi erano evidenti, ma 29 sale esistevano ancora e l’eco di
Massenzio e delle idee dell’assessore Nicolini era arrivata fino a questa plaga
lontana, instillando in un gruppo di cinefili il desiderio folle di imitarlo.
Oggi di sale in provincia ne sono rimaste una quindicina, la metà delle quali
riunite in multiplex.
I tre network privati di diffusione nazionale erano già molto forti, ma non
ancora tanto quanto lo diverranno dopo il 1983, quando entrarono a far parte di
una sola azienda, che godette dei vantaggi di un decreto ad hoc, nel 1984, per
poter trasmettere di fatto in interconnessione su scala nazionale.
Il filosofo francese era Guy Débord che nel 1967 pubblicò La società dello
spettacolo, lettura più che mai attuale ed istruttiva.
Angelo Conforti, agosto 2007