Santa Giuseppina Bakhita
Notizie da “Il quarto libro dei Ritratti dei Santi”, A. Sicari, ed. Jaca Book
Bakhita nacque intorno al 1869 in un piccolo villaggio del Darfur (oggi provincia del Sudan occidentale). Era nipote del capotribù. La sua famiglia era benestante dedita all’agricoltura e alla pastorizia; i genitori le volevano bene, aveva tre fratelli, una sorella gemella e una già sposata. Un giorno la sorella maggiore fu rapita dai razziatori arabi, e pochi anni anche lei subì la stessa sorte. Fu rinchiusa in un porcile dove trascorse giorni e giorni, aveva 6 anni, e in breve tempo dimenticò il nome dei genitori, dei fratelli e persino il suo. Così i rapitori la chiamarono Bakhita che significa “felice”, “fortunata”. Fino a diciassette anni fu venduta più volte al mercato degli schiavi. Gli schiavi sono proprietà del padrone ed è lui a decidere sulla loro vita e morte. Inizialmente fu una dama di compagnia per le padroncine, al primo errore però fu malmenata e venduta a un generale. Qui moglie e madre le rendevano la vita impossibile. Quando il padrone non sapeva su chi sfogarsi faceva frustare le schiave. Un giorno, la padrona decise di far decorare indelebilmente il corpo delle schiave più giovani: venivano disegnati lunghi segni sul petto, sul ventre e sulle braccia, poi erano incisi con un rasoio e successivamente le ferite erano cosparse di sale. Spesso le ragazze non sopportavano il dolore e morivano di stenti: Bakhita si riprese dopo due mesi.
Un anno dopo il generale decise di tornare in Turchia e la ragazza fu venduta al console italiano. In casa fu accolta, per la prima volta, umanamente e poté indossare una tunica. La paternità del console suscitò in lei domande che non si era mai posta, come: “Chi è che accende in cielo tutti quei puntini luminosi?” Quando il console dovette tornare in Italia, lei insistette per partire con lui. In Italia fu regalata ad alcuni amici del console, i De Michieli, che avevano una bambina che si affezionò a Bakhita come una mamma. I nuovi padroni erano atei ma avevano insegnato alla bambina il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria al Padre, lei li insegnò alla sua “mammina negra”. Dopo tre anni i padroni decisero di tornare in Africa e per dieci mesi (il tempo dei preparativi) Bakhita e la bambina furono ospitate nell’istituto dei Catecumeni tenuto dalle suore canonissime a Venezia. Nel cuore della ragazza si incisero le parole della padrona: “Questa ora è la tua casa: resta”. Quando sentì che Dio aveva visto tutte le sue sofferenze, che l’amava e che lei, orfana e schiava, era figlia di Dio, le si spalancò il cuore e si sentì finalmente voluta bene. Quando la padrona tornò a Venezia per riprendersi figlia e schiava, Bakhita rifiutò. Sapeva che il suo dovere era quello di obbedire al padrone ma la paura di perdere quella fede, che aveva appena conosciuto, la rese irremovibile. Dovettero intervenire il Regio Prefetto e il Cardinale Patriarca di Venezia per ricordare alla padrona che in Italia non sono riconosciute le leggi di schiavitù. Così rimase in Italia in attesa del suo Battesimo. La chiamarono Giuseppina Bakhita. Desiderava consacrarsi al Signore come quelle suore che le avevano fatto conoscere “il Buon Dio” come diceva sempre. Al termine del noviziato fu esaminata dal Cardinale Giuseppe Sarto (il futuro San Pio X). Fu soprannominata Madre Moretta. Quando raccontava la sua vita da schiava chiunque disprezzava i suoi aguzzini, ma Bakhita li fermava subito dicendo: “Non erano cattivi non conoscevano il Buon Dio”. Il giudizio che sviluppò nel ripensare alla sua vita è che “c’era un solo male al mondo: non conoscere l’esistenza di un Padrone così buono”. Tutta quell’obbedienza imparata con molta sofferenza da schiava adesso era mutata in un obbedienza e dedizione al Padrone Iddio o “Paron”, in veneziano, come diceva solitamente la ragazza. Non si commiserò mai Bakhita, ma si preoccupò soltanto di appartenere completamente a Gesù che aveva finalmente conosciuto, il resto era in sovrappiù. Essere una suora negra in Italia, in quel periodo, era cosa un insolita e che destava stupore sia nei grandi che nei piccoli. Bakhita era portinaia nell’asilo della sua casa. I piccoli, alcuni impauriti, rifiutavano la suora, altri erano incuriositi e la stuzzicavano credendola di cioccolata. Alla fine però “Madre Moretta” fu sempre amata da tutti. Dalla coscienza di schiava passò alla gioia di sentirsi figlia, per questo tutta la sua vita non fu altro che una povertà arricchita dall’incontro con Dio. Oggi Santa Giuseppina Bakhita è la Santa protettrice degli schiavi.
E’ nella cattedrale di El Obeid in Sudan che si trova il dipinto dela suora canossiana BAKHITA- SUOR FORTUNATA. Nata musulmana, rapita bambina e venduta schiava da alcuni negrieri attraverso una serie ininterrotta e provvidenziale di avvenimenti si trovò ad entrare nella Chiesa cattolica, a farsi suora, a morire santa.
Beatificata da Giovanni Paolo II in S. Pietro il 17 Maggio 1992 e canonizzata il 1 ottobre 2000.
Oggi i cristiani sudanesi che ancora soffrono persecuzione e morte la invocano come loro protettrice in cielo.
Questa schiava sudanese è passata attraverso indicibili sofferenze dalla schiavitù alla libertà umana e a quella della fede, fino a consacrare la propria vita a Dio nell’Istituto delle Figlie della Carità fondate da Matilde di Canossa. Morì a Schio, provincia di Vicenza il 1947. |
Abbiamo potuto raccogliere qualche dato particolare sul personaggio anche da padre Amorth il quale ci racconta come, essendo egli ragazzo nella sua Emilia, si trovò con tutti i ragazzi della parrocchia ad ascoltare dalla stessa voce di Giuseppina Bakhita le vicende vissute dalla santa nell’infanzia e poi negli altri passi della vita a servizio del console italiano e poi in Italia ed infine in congregazione…. Ciò che colpì il giovane Amorth fu la giovialità e l’esuberanza del personaggio, allora coinvolto a percorrere comunità e parrocchie per parlare di Gesù e di come si può amare Gesù anche provenendo da un'altra religione quando si cerchi veramente la verità con coraggio e con umiltà. Essere entrata nella fede cattolica infatti, spiegava Bakhita significa aver trovato il nome di Colui che "io già amavo e sentivo in me senza ancora conoscerlo".
Rapita agli affetti dei genitori e del villaggio mentre estirpava erbacce in un campo vicino. E’ singolare questo fatto: le erbe estirpate quasi si vendicano ed"estirpano l’erba buona" perché trascinata nel fango dell’abbadono e della desolazione possa rigenerare il campo….
Per ironia i suoi rapitori le danno il nome BAKHITA che significa –FORTUNATA:
Viene venduta e rivenduta più volte ,conosce le sofferenze fisiche e morali legate alla perdita totale della libertà ; viene anche sottoposta al tatuaggio fin quasi a morirne. Viene comperata al mercato di Kartum dal Console Italiano ed è stupefatta che con Lei non si usi più lo staffile, ma che anzi Le si voglia bene .Nella gioia del nuovo ambiente resta però lo sconforto di aver perso per sempre la sua famiglia di origine.
Viene in Italia al seguito del Console Callisto Legnani e del suo amico Augusto Michieli. A Genova, pressato dalle richieste della moglie del Michieli il Console affida loro Bakhita e con loro raggiunge Zianigo dove la schiava liberata fa da bambinaia alla piccola Mimmina.
Anche quando la famiglia Michieli si sposta sul Mar Rosso Bakhita resta con Mimmina presso le Suore Canossiane dell’Istituto dei Catecumeni in Venezia. Non a caso l’iniziativa di rimanere parte da un certo "Illuminato Checchini.
Bakhita qui richiede il battesimo e le viene posto il nome di GIUSEPPINA.il 9 Gennaio 1890.Al ritorno della signora Michieli dal Mar Rosso a seguirla nel Viaggio è soltanto più Mimmina perché Giuseppina ha deciso di farsi suorae di servire un Dio che Le ha dato così tante e grandi prove del suo amore.
Per cinquant’anni ricoprì compiti umili e semplici offerti con generosità e virtù eroiche;
Le consorelle la stimano molto per la sua bontà e carità .Dopo una vecchiaia e una malattia lunga e dolorosa tornò al suo "PARON"
Ricordano le parole che accompagnano il testo che fa da sfondo a queste note ad opera dell’Istituto canossiano di Verona che nei momenti di agonia supplicava l’infermiera che l’assisteva dìcendo : " Mi allarghi le catene"!
Ma venne Maria Santissima a liberarla e le Sue ultime parole furono:" LA MADONNA! LA MADONNA!"
La sua fama di santità si è ormai diffusa in tutti i continenti…-le grazie che ottiene dal Signore sono sorprendenti e stupefacenti….
Un modello femminile di santità
Bakhita: dalle catene all'altare
Fin dai tempi in cui era schiava in Africa, Bakhita, nei piccoli gesti, nelle parole, mostrava di essere vicina a Dio. Mai aveva preso per sé il cibo altrui, nemmeno quando era stretta dai morsi della fame. Lo confessava ricordando a Schio, già suora canossiana, quegli anni lontani: "Io non conoscevo Dio, facevo così perché sentivo dentro di me che dovevo comportarmi a quel modo". Questa naturalezza del cuore rimase uno dei tratti distintivi del suo carattere. Chi l'ha conosciuta lo conferma: "Madre Moretta" - così la chiamavano in Italia - si conservò semplice e schietta fino alla morte avvenuta nel 1947. Ne abbiamo parlato con suor Giulia Pozza, delle canossiane di Schio, attenta conoscitrice della figura e della spiritualità della futura santa sudanese.
Qual era il carattere di Bakhita? Quanto influì
la sua storia personale?
Suor Bakhita era di grande bontà e rettitudine, due qualità forse ereditate
dalla sua gente. Così pure la sua schiettezza e semplicità dovevano essere il
retaggio della vita serena e libera dei campi, e le permettevano di esprimersi
liberamente con tutti. Era già ammalata e seduta su una carrozzella quando un
vescovo le chiese cosa stesse facendo. Lei senza esitazione rispose:
"Quello che sta facendo lei: la volontà di Dio". E alla sua
superiora, che a fine guerra le confidava alcune preoccupazioni che
l'assillavano, Bakhita con calma rispondeva: "Lei madre si meraviglia che
nostro Signore la triboli? Se non viene da noi con un po' di patire, da chi deve
andare? Sì, madre, pregherò e tanto, ma perché si faccia la sua volontà".
Un'altra caratteristica del suo animo era l'umile sottomissione. Nella domanda
di ammissione all'Istituto dichiarò che desiderava "fare tutto ciò che le
fosse stato richiesto". Si prodigava con prontezza di cuore e grande
impegno nei vari uffici domestici, passando con disinvolta serenità dalla
cucina alla sagrestia, dalla portineria al laboratorio di ricamo (nel quale era
molto esperta). È diventato celebre un suo motto: "Come vól el Paron",
e cioè "Come desidera il Signore", padrone infinitamente buono,
meritevole di essere servito con tutto l'amore possibile. La sua totale
disponibilità al Padre sarebbe continuata anche dopo la morte. A chi si
raccomandava alle sue preghiere mentre era ammalata rispondeva: "Se el
Paron me lo permetterà, lassù mi occuperò di tutti". Un sacerdote per
metterla alla prova un giorno le chiese: "Se nostro Signore non la volesse
in paradiso che cosa farebbe?" E lei tranquillamente: "Mi metta dove
vuole. Quando sono con Lui e dove vuole Lui, io sto bene dappertutto. Lui è il
padrone, io sono la sua povera creatura".
Quali erano le sue occupazioni a Schio? Come
la ricorda la gente?
Per 45 anni praticò a Schio la carità e tutti la ricordano ancora con tanta
tenerezza e riconoscenza. Dapprima erano colpiti dalla sua provenienza
geografica, poi quando la conoscenza si approfondiva, avvicinandola in chiesa o
in portineria, dove svolgeva le sue mansioni, nascevano la stima e l'ammirazione
per la sua bontà. Era notevole anche il senso di responsabile carità che
dimostrava verso le consorelle ammalate. Non solo preparava i cibi prescritti
dai medici, ma presentava le portate in modo che ogni paziente fosse oggetto del
suo amore. Noncurante di sé, non si lamentava mai. Quando si ammalò la sua
unica preoccupazione era di non recare disturbo a nessuno. Inferma ormai da mesi
le fu chiesto se soffrisse. Ammise: "Un pochetto sì, ma ho tanti peccati
da scontare e poi ci sono gli africani da salvare, i peccatori da
aiutare...".
Quale il senso della sua vocazione?
Bakhita aveva capito il vero valore della vita, perciò aveva sempre saputo fare
le scelte giuste. Come quando già catecumena, non volle più tornare in Africa
perché non avrebbe più potuto professare la fede nel Signore. Perciò, temendo
di perdere Dio che aveva iniziato a conoscere e ad amare, non seguì i suoi
ultimi padroni. "Li lasciai piangendo - ricorderà nelle sue memorie - e mi
ritirai contenta di non aver ceduto. Era il 29 novembre 1889". Quella data
memorabile segnò il suo ritorno alla libertà. Sette anni dopo fece la
professione solenne di suora canossiana.
Bakhita, nata in Africa, compì la sua
missione in Italia, terra evangelizzata da secoli. Sembra un paradosso.
È stato veramente così, perché Bakhita, pur essendo africana, fu vera
evangelizzatrice con la sua testimonianza di fede semplice ma sempre coerente
con i principi del Vangelo, attraverso una preghiera intensa per quanti aveva
lasciato in Africa e per quanti incontrava sul suo cammino, specialmente i
piccoli, i poveri, i sofferenti.
Quale l'attualità della sua testimonianza?
Per il Sudan, per il Veneto, per l'Italia...
Oggi, che si è perso il senso del futuro, Bakhita evangelizza il mondo con la
sua speranza, che è certezza delle "cose migliori" nella vita che non
muore. Infatti lei, che non rivide più nessuno della sua famiglia, era certa
che avrebbe ritrovato i propri cari nell'aldilà, dove eterna è la vita. Amava
la vera libertà, quella dello spirito. Di fronte al mondo di oggi, mai
soddisfatto, sempre alla ricerca del potere, del possesso, dei piaceri, Bakhita
mette in guardia da ciò che allontana da Dio e rende schiavi del proprio io e
delle proprie passioni. In quest'anno giubilare poi il suo insegnamento più
forte è la capacità di perdono, di "purificazione della memoria".
Riferendosi alla sua condizione di schiava, riguardo a coloro che l'avevano
rapita e trattata barbaramente, diceva: "Mi inginocchierei a baciar loro le
mani, perché se ciò non fosse accaduto non sarei ora cristiana e
religiosa".
Madre Giuseppina Bakhita, prima beata adesso
santa. Quali sono i miracoli attribuiti alla sua intercessione?
Sembrerà singolare, ma pare che il Signore abbia avuto fretta di elevare alla
santità la sua piccola schiava. Le ha concesso il miracolo per la
beatificazione l'anno stesso della morte, nel 1947, e quello per la
canonizzazione l'anno della beatificazione. Infatti il 22 ottobre 1947 - Bakhita
era morta quasi otto mesi prima - la canossiana suor Mari Silla di Pavia, veniva
istantaneamente guarita da "ostoartrite e sinovite specifica al ginocchio
sinistro". Invece il 27 maggio 1992, a Santos in Brasile, Eva da Costa
Onishi guariva miracolosamente da "ulcerazioni infette negli arti inferiori
prodotte da insufficienza cronica del circolo venoso, diabete mellito, obesità
e ipertensione".
Le canossiane come stanno vivendo la prossima
canonizzazione di suor Giuseppina Bakhita?
Per noi canossiane la canonizzazione di Bakhita pone forti interrogativi, una
richiesta di verifica sull'oggi, poiché viviamo in una realtà in cui sembra
impossibile essere come lei dono e gratuità. Dal punto di vista dei preparativi
per onorare l'evento, organizzeremo percorsi per i pellegrini e verranno
effettuati lavori di ristrutturazione della residenza di Schio.