TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

Totalitarismo storico: ideologia della violenza

Di Giorgio Bongiovanni

 

 

La trattazione degli aspetti emergenti della crisi sociale e spirituale dell’età contemporanea offre il panorama buio e sconfortante di una cultura, la nostra, basata su una violenza che ha profonde radici storiche. Guardando retrospettivamente al nostro passato non potremmo che scorgervi un susseguirsi di guerre, stermini, deportazioni e assassinii di massa perpetrati, a seconda dei casi, dall’uno o dall’altro popolo. E purtroppo non possiamo esimerci dal constatare che il millenovecento è da considerare il secolo peggiore in quanto alle catastrofi umane, poiché testimone di due guerre mondiali, di genocidi in Armenia, Biafra, Ruanda, Jugoslavia, Etiopia, Vietnam nonché nel concretizzarsi di grandi ideologie politiche sfociate nelle più crudeli forme di dittatura. Lo stesso sviluppo in campo tecnologico, principale conquista dei nostri tempi, viene impiegato essenzialmente nella creazione di materiale bellico dalla sempre più raffinata potenza devastatrice. Ci troviamo quindi di fronte al ciclico e sconfortante ripetersi di eventi diversi ma sostanzialmente uguali. L’antico Egitto, l’impero romano, le varie monarchie o, per chi ha conoscenze esoteriche, la stessa Atlantide sono esempi che confermano in modo eloquente la formula di R. Queneau “la storia è la scienza dell’infelicità degli uomini”. Le grandi ideologie politiche, filosofiche o spirituali succedutesi nell’arco dell’evoluzione umana, sono state quasi sempre usate dal potere per ingannare e manipolare le masse, soccombenti di una realtà culturalmente debole. L’esempio a noi più prossimo è sicuramente quello del comunismo nato, come filosofia politica, migliaia di anni fa. Platone o Tommaso Campanella non sono stati forse i precursori del concetto di una città ideale dominata dalla giustizia, dall’intelletto e dalla sapienza? E non sono forse questi i valori ai quali si appellarono i primi socialisti nella loro lotta contro il capitalismo? Nel XIX secolo essi individuavano nel “modo di produzione” capitalista la radice delle ingiustizie sociali e la proprietà privata dei mezzi di produzione era considerata la premessa dello sfruttamento da parte di pochi delle grandi masse dei proletari che, per vivere, si trovavano costretti a vendere se stessi e il proprio lavoro. La rivoluzione socialista intendeva quindi raggiungere l’abolizione della divisione di classe e creare le condizioni per una società nella quale non ci fossero più sfruttati né sfruttatori bensì uomini liberi. Ma si può parlare di libertà nel regime comunista? In seguito alla caduta del regime zarista, travolto dalle manifestazioni operaie, le forze di opposizione si dimostrarono piuttosto impreparate all’evento poiché suddivise in differenti correnti politiche, da quella liberale del Partito costituzionaldemocratico fino alla socialdemocrazia. I tre governi provvisori protagonisti della scena politica tra il 2 marzo e il 25 ottobre del 1917 si trovarono impreparati di fronte ai problemi del vecchio regime ma sorpresero per l’aspetto pacifico della loro rivoluzione. Il principe L’vov, capo dei primi due governi provvisori, nei quali i liberali del Partito costituzionaldemocratico rappresentavano la maggioranza (nel terzo la maggioranza era composta dai socialisti rivoluzionari), dichiarò in occasione di uno dei suoi primi discorsi pubblici: “Lo spirito del popolo russo ha rivelato la sua natura universalmente democratica, e appare pronto non soltanto a fondersi nella democrazia universale, ma a mettersi alla guida di essa, lungo il cammino del progresso segnato dai grandi principi della Rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Fraternità”. Ma la guerra, la conseguente crisi economica, l’aumento della disoccupazione, problemi, per citarne alcuni, che il governo provvisorio non riuscì a risolvere nell’arco della sua breve vita, indussero il popolo ad organizzarsi in soviet, comitati di fabbrica, di quartiere, di contadini, di casalinghe alla ricerca di una diversa forma di governo. La loro lotta divenne sempre più incisiva tanto che giunsero a pretendere il “controllo operaio” sulla produzione. Nell’autunno del 1917, quando lo stato aveva ormai perso la sua autorità e un numero incalcolabile di piccoli comitati la faceva da padrone, il Partito bolscevico, su pressione di Lenin, che non intendeva aspettare la convocazione del II Congresso panrusso dei soviet per paura che questo avrebbe portato alla nascita di un governo di coalizione nel quale i bolscevichi avrebbero dovuto dividere il potere con altri gruppi socialisti, organizzò il colpo di stato che lo portò al governo. Gli scontri che ben presto nacquero tra il nuovo potere e grandi settori della società portarono all’instaurazione di un regime di violenza e terrore. Oggi sappiamo che il numero delle vittime di tale sistema politico si avvicina ai 100 milioni tra le quali, solo per citare un caso, annoveriamo un quarto dell’intera popolazione cambogiana che Pol Pot ha eliminato mediante tortura e carestia generalizzata. Lo stesso Stalin ha ordinato o permesso un’enorme quantità di crimini di guerra che, in riferimento all’articolo 6b dello statuto del tribunale di Norimberga, includono le “violazioni delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi, l’assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l’assassinio o i maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l’esecuzione capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da esigenze militari”. Quanti di questi delitti ha commesso la dittatura di Stalin? Nel 1939 la quasi totalità degli ufficiali polacchi fatti prigionieri venne assassinata (solo a Katin’ si parla di 4500 persone) e la stessa sorte toccò, tra il 1943 e il ‘45, a centinaia di migliaia di militari tedeschi. Questo per non parlare dei saccheggi alle strutture industriali e degli stupri di massa. Ma fin dal principio il comunismo di Lenin manifestò la sua natura violenta e a suo modo razzista in quanto intraprese una spietata lotta di classe nella quale i nemici erano i “borghesi”. Nel libro “La Terreur rouge en Russie”, Sergej Mel’gunov, storico russo, riportava le direttive imposte il 1° novembre 1918 da Lacis, allora capo della polizia politica sovietica, ai suoi uomini: “Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che l’accusato ha fatto, in atti e parole, contro l’autorità sovietica. Chiedetegli subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione, la sua istruzione e la sua professione”. Venne in questo modo messo in atto lo sterminio dei cosacchi e, con la stessa cinica freddezza, Stalin massacrò tutti i kulak (contadini benestanti) che resistevano alla collettivizzazione. In quanto ai crimini commessi dal leninismo e dallo stalinismo ne “Il libro nero del comunismo” leggiamo un primo bilancio globale:
fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone (le riserve alimentari erano controllate dal regime ndr.);
deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;
assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;
eliminazione di quasi 690.000 persone durante la Grande purga del 1937-1938;
deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;
sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;
deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;
deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;
deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943;
deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;
deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;
deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;
lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 ecc.”.
La violenza sistematica, le deportazioni di massa, i campi di sterminio, i lavori forzati richiamano alla memoria i crimini nazisti, quegli stessi che il mondo comunista aveva combattuto e contribuito ad eliminare durante la seconda guerra mondiale. Quegli stessi che i sovietici sono riusciti a nascondere all’opinione pubblica internazionale per più di settant’anni nonostante il fenomeno non si fosse limitato all’Unione Sovietica ma avesse riguardato, e in alcuni casi ancora riguarda, la Cina, la Corea del Nord, Cuba, la Cambogia, Laos e il Vietnam. Ancora oggi in Cina, nonostante questa non si possa paragonare all’ex-URSS, i prigionieri dei campi di concentramento sono detti “studenti”, poiché impegnati a studiare il pensiero del partito e a correggere il proprio.
Questa è, in estrema sintesi, la storia del fallimento di un’ideologia che si era proposta, nei secoli XIX e XX come sistema politico deciso a neutralizzare le tensioni distruttrici della grande divisione sociale derivata dallo sviluppo capitalista.
E questo a ragione poiché lo stesso capitalismo, nonostante in seguito alla caduta del muro di Berlino e al definitivo crollo del comunismo sovietico si sia eretto a portatore della pace nel mondo, poiché da sempre impegnato nella battaglia contro la dittatura dei paesi dell’est, il capitalismo, dicevo, non è certo estraneo a quelli che vengono definiti crimini contro l’umanità. Nel suo senso politico - ideologico tale voce viene utilizzata sostanzialmente per indicare un regime ed un modo di vita caratterizzati dalla libera espressione delle qualità personali, dalla rapida accumulazione della ricchezza sociale, dal progresso in campo tecnico, dallo sviluppo delle istituzioni politiche di democrazia formale, dalla ricerca di un più armonioso equilibrio tra valori pratici e valori spirituali. La sua nascita risale ai secoli XVI, XVII e XVIII, che Marx definiva l’epoca dell’”accumulazione primitiva” e che in economia viene detta “accumulazione originaria”. Le ingenti somme di denaro necessarie a conseguire una migliore organizzazione del lavoro, la costruzione di edifici adibiti alla produzione, l’acquisto di una migliore attrezzatura, la divisione in più mansioni di un processo lavorativo prima affidato ad un solo lavoratore (in modo da aumentare la produzione per lavoratore e quindi i guadagni), vennero raccolte grazie:
ai guadagni ricavati dallo sfruttamento delle risorse dei territori scoperti durante le esplorazioni del XV e XVI secolo;
alla colonizzazione dell’Africa, dell’Asia e del Nuovo Continente;
ai profitti ottenuti, nei paesi europei dall’appropriazione e dallo sfruttamento, dei grandi proprietari, delle terre comuni;
ai profitti ottenuti grazie alle tradizionali forme di commercio e manifattura.
Come è riportato ne “Il libro nero del capitalismo”, “In un pamphlet apparso nel 1814, Vastey, segretario di re Christophe (Henri Christophe, effimero ‘re’ nero di Haiti dal 1811 al 1820) enumera i supplizi inflitti dai coloni agli schiavi, in particolare all’epoca della loro insurrezione: schiavi bruciati vivi o impalati, membra segate, lingua, orecchie, denti, labbra tagliati o cavati; schiavi impiccati a testa in giù, affogati, crocifissi, sepolti vivi, legati a formicai; schiavi gettati vivi dentro caldaie da zucchero, fatti precipitare da pendii dentro botti irte di chiodi, infine fatti divorare vivi da cani addestrati a tale scopo”. A criticare le tratte, la schiavitù, i monopoli, gli ordinamenti corporativi penserà poi il capitalismo industriale, la cui nascita fu accompagnata dall’avvento dell’ideologia “liberale”. “Tuttavia questa ideologia liberale - come leggiamo nel libro precedentemente citato - è geometria variabile: trionfa nel Regno Unito del XIX secolo con l’abrogazione, nel 1846, delle leggi protezionistiche sul grano, che rispondevano agli interessi dei landlords, ma disturbavano gli industriali rincarando il prezzo del pane e aumentando il livello dei salari. Ma, in contraddizione con i principi del ‘libero scambio’, lo stesso Regno Unito impose all’India una politica doganale discriminatoria, penalizzando le esportazioni indiane di prodotti finiti e incoraggiando le importazioni di prodotti industriali britannici. Combatté la tratta degli schiavi con la sua squadra navale, ma sostenne i sudisti schiavisti, e fornitori di cotone, durante la guerra di Secessione. Gli USA e la Germania realizzeranno la loro industrializzazione al riparo di una politica protezionistica e la fine del XIX secolo vedrà il trionfo, anche nel Regno Unito, dal protezionismo imperiale. […] Sistema coloniale, esazioni fiscali, debito pubblico, depauperamento ed espropriazione dei contadini, prepararono a diverso titolo l’avvento del capitalismo industriale”. E con l’avvento del capitalismo industriale migliaia di bambini, di un’età compresa tra i sette e i quattordici anni, venivano e purtroppo ancora oggi vengono, costretti a lavorare nelle fabbriche, frustati, incatenati, malnutriti, insomma nuovamente schiavizzati. Alla base del capitalismo vi è inoltre la corsa agli armamenti, la stessa che ha accompagnato la rivoluzione francese, la guerra di secessione statunitense o gli attuali conflitti. Nel 1827 il generale e pensatore prussiano Karl von Clausewitz scriveva in “Della guerra” che la guerra “è un conflitto di grandi interessi che si risolve soltanto con l’effusione del sangue e che differisce precisamente in questo da tutti gli altri conflitti che sorgono fra gli uomini. Essa ha molto meno rapporti con le arti e le scienze che con il commercio, che costituisce ugualmente un conflitto di grossi interessi, ma si avvicina ancora di più alla politica, essa stessa una sorta di commercio dalle dimensioni allargate, nella quale la guerra si sviluppa come il bambino nel seno della madre”. Era l’epoca di sviluppo del capitalismo europeo e von Clausewitz già presagiva il collegamento tra l’industria bellica e questo regime economico, ed è proprio la corsa agli armamenti che, da sempre, alimenta il capitalismo. Durante la pericolosa crisi del 1929 i Krupp, i Thyssen, gli Hugenberg e gli Schacht favorirono l’ascesa al potere di Hitler e beneficiarono del riarmo. Testarono poi l’efficacia delle armi, dei carri armati e degli aerei di loro produzione nel corso della guerra di Spagna (1936 —1939). Durante il secondo conflitto mondiale le industrie statunitensi fornirono le armi a tutti i paesi alleati e le due opposte fazioni si ingegnarono nella costruzione di materiale bellico sempre più sofisticato fino ad arrivare, alla fine della guerra, alla bomba atomica e quindi all’inizio dell’era nucleare. Al termine del conflitto cominciò la corsa agli armamenti della guerra fredda. Nel 1975 si spendevano, a fini militari, risorse maggiori alla totalità della produzione mondiale del 1900. Alla fine degli anni settanta 500 mila, tra scienziati, ingegneri e ricercatori lavoravano al progetto di ricerca a scopi bellici e di questi, 350 mila nei paesi capitalisti. Furono inventati armamenti sempre nuovi tra i quali i missili a testate multiple indipendenti, i missili da crociera, le armi a neutroni e se nel 1948 le spese militari mondiali annue ammontavano a 146,3 miliardi di dollari statunitensi (quotazione del 1980), nel 1987 i miliardi erano 701,4. Con la caduta del comunismo e quindi con la fine delle tensioni tra est e ovest molti pensarono che le spese dedicate agli armamenti sarebbero progressivamente sparite ma ciò non è accaduto: sebbene siano notevolmente diminuite, nel 1996, solo gli Stati Uniti, hanno speso la bellezza di 226 miliardi di dollari nell’industria bellica; il totale delle spese Nato ammonta a 395 miliardi di dollari. “… nel gennaio 1993 è stata firmata a Parigi la convenzione che vieta le armi chimiche, nel maggio 1995 è stato prorogato indefinitamente il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e nel settembre 1996 è stato approvato il trattato sulla proibizione totale degli esperimenti nucleari (CTBT). Questi trattati hanno la duplice caratteristica di adottare provvedimenti auspicabili sulla via del disarmo che uomini di pace non possono che approvare, e di costituire limitazioni imposte dalle potenze capitalistiche che possiedono armi nucleari a quelle del Terzo mondo che ne sono sprovviste, mentre queste stesse potenze non applicano l’articolo VI del TNP sul disarmo nucleare. Inoltre, sette paesi capitalisti (Usa, Regno Unito, Francia, Germania Federale, Italia, Canada, Giappone) si sono accordati fra loro fondando nel 1987 il Missile Technology Control Regime (MTRC) per impedire agli altri paesi di accedere alle tecnologie che consentirebbero loro di dotarsi di missili strategici (attualmente aderiscono all’MCTR 25 stati)”.1
Le esportazioni di armi dei paesi capitalisti ha inoltre raggiunto punte massime dal 1982 al 1984 e nel 1987. Con la guerra del Golfo si è addirittura pensato di “moralizzare il commercio delle armi”, cosa che è avvenuta anche nell’ultima “guerra umanitaria” combattuta contro il regime di Milosevic. Il capitalismo, quindi, continua la corsa agli armamenti e l’attuale sistema mondiale farà in modo che non manchino mai gli acquirenti delle industrie belliche. Dove scoppieranno le prossime guerre? Quanto sangue dovrà ancora essere versato? Quanti martiri andranno ad arricchire le casse dei mercanti di morte? Perché i popoli non fanno nulla per opporsi a questa finta democrazia nel quale il sistema economico esercita una forma di atroce dittatura?
“A somiglianza di quelle bombe moderne che uccidono tutto quello che vive preservando i fabbricati e le attrezzature, la pubblicità uccide ogni attività intellettuale e cittadina lasciando vivere nell’individuo i soli riflessi del consumo, come i cani di Pavlov. Dubbio, pensiero, idee, disinteresse, sviluppo spirituale e personale, interesse pubblico, senso collettivo e solidarietà, tutto viene spazzato via in quanto ostacolo al pensiero unico: acquistare. La cultura mercantile non si distingue più dalla cultura tuot court, come uno spot pubblicitario non si distingue più da un cortometraggio o da un videoclip musicale: stessi personaggi, stessi riferimenti, stessa messinscena, stesso montaggio, stessi cliché, stessa estetica, stesso contesto da sitcom: e naturalmente anche i registi sono gli stessi”.2
Questa è la risposta. La televisione, oggi, è l’unica fonte di verità: è lei che separa i buoni dai cattivi, è lei che alle immagini atroci di una guerra fa seguire quelle del corpo perfetto e attraente di Naomi Campbell o di Claudia Schiffer, simboli dei veri valori della vita: la bellezza, il successo, la ricchezza. Il fine ultimo della nostra esistenza deve essere quello di eguagliare gli eroi senza macchia delle sale cinematografiche e, se ciò non è possibile, limitarsi ad adorarli poiché loro sono ormai l’unica verità rimasta. E mentre il mondo occidentale si scandalizza di fronte alle denunce di Monica Lewinsky, un terzo della popolazione mondiale vive in condizioni paragonabili al medioevo europeo, in costante lotta per la sopravvivenza. Le favelas, le bidonvilles, lo sfruttamento del lavoro minorile, i genocidi in Ruanda, le guerre non sono le scene di quel commovente sceneggiato che chiamiamo telegiornale, sono le vittime di un processo di colonizzazione dell’intera popolazione mondiale ormai schiava di un potere economico che deforesta, inquina, distrugge, uccide nascondendosi dietro il viso sorridente impresso su un manifesto pubblicitario.
A questo punto sorge spontanea una domanda: c’è differenza tra il regime comunista e il regime capitalista? Non sono entrambe forme di dittatura pronte a tutto per conquistare e mantenere il proprio potere? I recenti scandali scoppiati in Russia hanno evidenziato le profonde carenze di un sistema politico mondiale che coopera con le organizzazioni della malavita organizzata. In più di un’occasione i servizi segreti governativi hanno chiesto aiuto alla mafia per raggiungere determinati obiettivi “antiterroristici” (vedi caso Moro) o hanno semplicemente stretto rapporti di collaborazione commerciale o si sono coalizzati con lei per eliminare dalla scena politica personaggi scomodi quali John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King, Robert Kennedy (vedi “Terzomillennio” n. 5). La verità è che ancora una volta, anche e soprattutto oggi, il desiderio di potere ha superato qualsiasi credo ideologico. Non sono le ideologie comunista o capitalista ad essere sbagliate, è sbagliato il modo in cui l’uomo le ha sfruttate allo scopo di sottomettere il prossimo. E tutto questo nella quasi totale indifferenza delle religioni, conniventi o apatiche. Ai tempi del fascismo si determinò una commistione tra stato e Chiesa per cui l’erede di Pietro si assicurò l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di stato, il valore civile del matrimonio religioso, il trattamento tributario di favore per i beni della Chiesa, il finanziamento dei parroci da parte dello stato, come funzionari e chissà quant’altro. Ed è forse per non perdere questa tranquillità economica che il Vaticano non si pronunciò mai, in modo incisivo, contro i regimi totalitari, nazismo compreso, i quali hanno falciato l’esistenza di milioni di figli di Dio. E questo piccolo esempio può essere esteso a tutte le religioni del mondo e a tutte le epoche storiche. Il silenzio dei vari culti di fronte alle sempre attuali stragi degli innocenti non può che far rabbrividire e fornire la giusta dimensione di una realtà squallida e opprimente, sintomo del definitivo crollo di ogni principio morale. Ma per quanto ancora potremo continuare così? Quali altri capri espiatori troverà il capitalismo per coprire le proprie mancanze ora che il comunismo è quasi definitivamente scomparso? Personalmente credo che questo sistema di cose sia destinato a finire poiché non opera nel rispetto delle leggi universali e non potrà quindi sfuggire all’inesorabile legge di causa - effetto.
L’esempio di quanti hanno sacrificato o stanno sacrificando la propria vita per riportare le masse sulla via della spiritualità non è bastato a cambiare la storia. Il sogno di Martin Luther King, la battaglia non violenta di Gandhi, l’amore di Madre Teresa di Calcutta, la lotta di Nelson Mandela però, hanno rappresentato e rappresentano la speranza che esiste ancora chi è capace di lottare per gli ideali che l’uomo crocifisse con Cristo. E perché la speranza sopravviva a tutte le guerre è necessario non dimenticare il sacrificio di Isac Rabin, di Mons. Conedera, del cardinal Romero, di Padre Pio, dei vari “missionari di frontiera”. Personaggi come Steiner, Tolstoij, Yogananda, padre Zanotelli, incarnati all’interno di quegli stessi sistemi politici divenuti macchine di morte, sono riusciti a mantenere vivi gli insegnamenti di Cristo, quegli stessi per i quali tutti dovremmo lottare. Perdonatemi l’ardire, ma sono convinto che solamente sulla base dei valori spirituali sia possibile costruire una società in cui il liberalismo e il comunismo si possano fondere per creare quella che io definisco antropocrazia, ossia il governo dell’uomo. Il diritto alla libertà, alla proprietà privata intesa come coordinamento e gestione delle risorse nel pieno rispetto della legge di Dio, la meritocrazia, l’individualità, la giustizia, la pace, la fratellanza, la solidarietà, l’amore, sono valori ai quali l’uomo nuovo dovrà aspirare. I grandi maestri spirituali che si sono avvicendati nel corso della storia hanno cercato di riportare l’unione in un mondo basato sulla formula dividi et impera. “Non dimenticate che abbiamo bisogno gli uni degli altri- diceva Madre Teresa -. Ogni essere umano ha una coscienza naturale che lo aiuta a distinguere il bene dal male. Ho a che fare con migliaia di cristiani e non cristiani e vi assicuro che in loro è possibile vedere come funziona questa coscienza, che li avvicina a Dio. Ogni uomo ha un’immensa fame di Dio. Se tutti fossero capaci di scoprire la Sua immagine negli altri pensate che generali e carri armati servirebbero ancora?”3
Io credo che nel terzo millennio si verificherà un grande evento umano e spirituale: la seconda venuta di Cristo. Ciò comporterà l’instaurazione sulla terra di una nuova generazione che perseguirà i valori della giustizia, della pace e dell’amore. Ma quale sarà il prezzo da pagare per essere testimoni di questo evento? Dipende da noi. Dovremo lottare anche a costo della vita. Giuseppe Fava, un grande giornalista, un martire per la libertà diceva: “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”
Mai più un mondo di dolore di guerre, di fame, di razzismi.
Mai più un mondo di mafia e di crimini…
ma un mondo migliore.

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