TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

L'arcivescovo deve morire

Di Monica Centofante

 

 

L'assassinio di Monsignor Romero, amico dei poveri

E’ opinione diffusa che la sua conversione risalga alla notte del 12 aprile 1977, giorno dell’assassinio di Padre Rutilio Grande, un gesuita, un suo grande amico. Ma a una domanda di Grazia Gaspari, giornalista del “Manifesto”, Monsignor Oscar Arnulfo Romero rispose: “Se volete, potete anche chiamarla conversione, ma io penso che sarebbe più esatto definirla uno sviluppo del processo della conoscenza. Ho sempre voluto seguire il Vangelo anche se non sospettavo dove il Vangelo mi avrebbe condotto”. Era il 1979, un anno prima della sua morte, quasi cinquant’anni dopo la sua entrata in seminario. Allora aveva tredici anni e il suo paese, situato al confine con l’Honduras, a 900 metri d’altitudine, si chiama Ciudad Barrios. Frequentò poi un seminario a San Miguel e in seguito la Gregoriana di Roma, gestita dai gesuiti. All’epoca abitava nel Pio Collegio latinoamericano fondato da Pio IX (vanterà in seguito la possibilità di averlo conosciuto). Il 4 aprile del 1942 viene ordinato sacerdote e il 15 agosto del 1943, insieme al confratello don Valladares, parte da Roma con l’intenzione di tornare in patria, a El Salvador. Ma una volta raggiunta l’Avana viene fatto prigioniero dagli uomini di Fulgencio Batista, l’ex- sergente golpista che “ha dichiarato guerra alle potenze dell’Asse. All’estero nessuno se n’è accorto, che almeno nell’isola qualcuno lo sappia: i due preti arrivano dall’Italia? Dentro, dentro”1. Quando i due vengono liberati, grazie all’intercessione dei padri redentoristi dell’Avana, San Miguel offre loro l’accoglienza degna di un martire e per questo nessuno si opporrà alla scelta di monsignor Machado di nominare il giovane Oscar suo segretario particolare e don Valladares responsabile del vicariato generale della diocesi. Quando riceve il titolo di monsignore e la nomina a segretario della Conferenza episcopale del Salvador è costretto a trasferirsi nella capitale, per il dispiacere dei poveri di San Miguel, verso i quali la sua mano era sempre tesa. Giunge a San Salvador nel giugno del 1967 e sceglie come residenza il seminario di San José de la Montaña, gestito da gesuiti. Tuttavia, solo con uno di questi, il prefetto degli studi e professore Rutilio Grande, riuscì ad intrattenere un rapporto di amicizia. Romero, infatti, giudicava non ecclesiale la battaglia sociale intrapresa da tale ordine religioso il cui impegno era direttamente proporzionale alla crescita delle lotte sindacali. In poco tempo alla sua carica si aggiunge quella di segretario episcopale dell’America centrale e, tre anni dopo, quella di vescovo ausiliare nella capitale. A valergli tale nomina l’intervento dei nunzi apostolici, personaggi ambigui che frequentano i dittatori, combattono i cattolici comunisti e si fidano di monsignor Oscar Arnulfo Romero Galdámez il quale vede in loro gli ambasciatori dello stato Vaticano. Impegnato nella sua lotta contro il comunismo anticlericale, il monsignore non riesce a guardare con obiettività alla scena politica, sulla quale il Partido de conciliación nacional (PCN), fondato dal colonnello Julio Adalberto Rivera che rovesciò i militari riformisti il 23 gennaio del 1961, la faceva da padrone. Alle elezioni del 1972, dopo aver perso la battaglia elettorale contro l’UNO (Unión nacional de oposición, della quale fanno parte la Democrazia cristiana, la Unión democrática nacionalista, comunista, e il Movimiento nacional revolucionario) organizza una specie di golpe bianco, grazie al quale il candidato dell’ONU José Napoleón Duarte viene sostituito dal rappresentante del PCN Arturo Armando Molina. Il tentativo di un controgolpe ad opera di giovani ufficiali costituzionalisti vale l’arresto, la tortura e l’esilio in Venezuela di Duarte. La repressione si fa sempre più forte tanto che l’esercito irrompe nell’università Nazionale, considerata “covo di comunisti” alla ricerca di armi che non riesce a trovare. La scuola viene comunque chiusa e 19 insegnanti allontanati dal paese. Romero giudicherà corretta tale decisione poiché, a parer suo, l’università è “nient’altro che un centro di attività comuniste”. Come riporta J. Simeón Cañas in “La fe de un pueblo. Historia de una comunidad cristiana en El Salvador”, il monsignore fu invitato da una comunità ad un’eucarestia organizzata per discutere l’accaduto: “Basandoci sui documenti di Medellín, respingemmo il comunicato dei vescovi. Monsignor Romero si difese con la lettera pastorale di un vescovo cileno del quale non sapevamo neppure il nome. Ci accusò di disobbedienza alle autorità ecclesiastiche e di mescolare la politica con l’eucarestia […]. L’ambiente era tesissimo. Alla fine, Monsignore (tale appellativo serviva a distinguerlo dal dittatore che succederà a Molina e che porta il suo stesso nome: Romero ndr.) disse che quella non era un’eucarestia ma un comizio politico…”. Nel 1974 viene mandato a Santiago de María, in qualità di vescovo “effettivo”; non è tipo da “dar fastidio” a nessuno e quindi il suo nome spicca presto tra quelli degli “amici” del colonnello Molina e tra i pupilli dell’oligarchia (poche decine di famiglie si dividono tutte le terre dello stato). In realtà è proprio in quel periodo che Romero comincia a porsi delle domande. Quando il 21 giugno del 1975 la Guardia nacional trucida cinque campesinos del villaggio Las Tres Calles, nella sua diocesi, il vescovo rivendica il diritto alla giustizia. Tuttavia la sua formazione culturale avrà la meglio e abbandonata l’idea di sporgere una pubblica denuncia si limiterà a scrivere una lettera al presidente Molina. Questi sono i motivi che gli valsero la nomina, il 22 febbraio del 1977 ad arcivescovo della capitale, e sono questi i motivi per cui solo venti giorni più tardi il suo atteggiamento era destinato a sorprendere, e non poco, chi lo aveva appoggiato. Nel Salvador, intanto, la repressione si fa sempre più dura, uccide, e nel modo più atroce. Il 4% dell’intera popolazione è parte attiva dei vari schieramenti militari, “legali” e non, dipendenti dall’oligarchia e che vedono, tra i loro obiettivi, l’eliminazione fisica dei preti “medellinisti” o “terzomondialisti”. I pochi impegnati nella battaglia a favore della liberazione del popolo oppresso.
La sera del 12 marzo di quello stesso anno un prete, un gesuita, viene barbaramente assassinato. Alle ore 20 il presidente Molina (che nel mese di luglio cederà il potere al generale Romero) telefona all’arcivescovo per dargli “l’orribile notizia”: Rutilio Grande era stato ucciso da estremisti di sinistra; insieme a lui due persone che lo stavano accompagnando. In realtà le pallottole rinvenute sui corpi dei cadaveri appartenevano alle armi utilizzate dai “corpi di sicurezza”: era la prima volta che veniva assassinato un prete. Monsignor Rivera Damas, che durante la messa d’addio era con Romero, scrive: “Un martire diede vita a un altro martire. Davanti al cadavere del padre Rutilio Grande, monsignor Romero, nel suo ventesimo giorno da arcivescovo, sentì la chiamata di Cristo a vincere la sua naturale timidezza umana e a riempirsi della intrepidezza dell’apostolo. Da quel momento, monsignor Romero abbandonò le terre pagane di Tiro e Sidone, e camminò liberamente verso Gerusalemme”.
Il 13 marzo l’arcivescovo annuncia che non parteciperà ai colloqui privati fra vescovi e presidente finché non sarà fatta luce sul caso dell’omicidio, finché non torneranno a casa i preti espulsi, finché non avrà fine la repressione.
E’ così che monsignor Romero imboccò “la strada del non ritorno” e quando una delle persone a lui più vicine glielo fece notare egli rispose: “Dottore, io sono l’arcivescovo. Stanno ammazzando i miei sacerdoti. Come posso accordarmi con persone tanto ciniche da telefonarmi per essere le prime a farmi le condoglianze per crimini di cui hanno la responsabilità?”. Il giorno 15, sfidando lo stato d’assedio proclamato dal generale Molina, che impedisce le manifestazioni di massa, ordina che la domenica successiva vengano sospese le funzioni in tutte le chiese dell’arcidiocesi e che si organizzi una sola grande messa nella cattedrale. A celebrarla sarà lui. Le intimidazioni del nunzio non valgono le approvazioni del clero e Romero non ritratta la sua decisione: “Il paese sta vivendo una situazione eccezionale e la Chiesa deve porre un segno eccezionale di denunzia e di evangelizzazione. Io sono il responsabile dell’arcidiocesi. Celebreremo la messa unica”. Di fronte a decine di migliaia di persone, quella fatidica domenica, l’arcivescovo annuncia la sua decisione a non trattare più con il governo finché gli assassini dei tre martiri non verranno arrestati. Tra il 20 e il 24 marzo centinaia furono le vittime di una tremenda ondata di repressione attuata dal governo e che vide innocenti barbaramente torturati e uccisi.
Ma la conversione di monsignor Romero non è cosa gradita in Vaticano. Quando, accompagnato da monsignor Urioste, Romero si reca in Italia, a Roma, a cercare conforto, la Congregazione dei vescovi non gli da certo il benvenuto. “Sembrava che volessero litigare con lui - ricorda Urioste -. Un monsignore, soprattutto. Ascoltai il loro dialogo stando in corridoio:
‘Lei deve ricordare - lo ammoniva in italiano - che Gesù Cristo fu molto prudente in tutta la sua vita pubblica!’
‘Prudente?’ domandò sbigottito Monsignore.
‘Ma certo! Un modello di prudenza!’
‘E se fu tanto prudente come mai lo uccisero?’
‘Lo avrebbero ucciso prima se non fosse stato così prudente!’ “.
Il prefetto della Congregazione, il cardinale Baggio, tamburellando con le dita su un libro dei gesuiti Ellacuría e Sobrino gli dice: “Lei è in pessima compagnia”, e lo minaccia di sollevarlo dall’incarico.
Ma l’arcivescovo non si lascia intimidire, è convinto che solo uscendo dalla violenza si possa raggiungere la “realizzazione del regno di Dio”. Pubblica questo messaggio il 23 aprile del 1977, insieme alla lista delle varie persecuzioni alla Chiesa imposte dal dittatore. La stessa denuncia raggiunge i fedeli attraverso i microfoni di Radio YSAX, l’emittente dell’arcivescovado. La stessa Radio punterà il dito contro il FARO e l’ANEP, spietati corpi militari gestiti dall’oligarchia più conservatrice. Il 5 maggio una bomba provoca danni ingenti alla stamperia Criterio, di proprietà della circoscrizione vescovile.
La sua lotta contro il potere, la lotta del suo popolo è cominciata. Quando incontra due giornalisti della rivista di protesta guatemalteca “Dialogo”, conosciuti e combattuti nel 1972, li abbraccia dicendo: “E’ stato il sangue di padre Grande. Altre forze mi avevano separato da voi. Ma adesso siamo di nuovo insieme”. D’ora in poi, le messe di Monsignore, oltre che alla celebrazione del Vangelo, sono dedicate alla lotta contro la violazione dei diritti umani. In occasione dei funerali di don Alfonso Navarro, parroco di San Juan de Opico, ucciso dagli organi di repressione (i giornali scissero che era un gesuita ma in realtà si trattava di un sacerdote diocesano), Romero dice:
“Anche coloro che semplicemente non fanno quanto è il loro potere per scoprire le origini della violenza. Essi sono peccatori quanto quelli che puntano le armi per uccidere […]. E la scomunica non è soltanto una pena spirituale. E’ il ripudio da parte di tutto un popolo che grida al criminale: ‘Tu, adesso, non hai più niente a che vedere con questo popolo che cammina nella speranza, che chiede amore, chiede pace, chiede riconciliazione. […] Questo è il momento di sentirsi una sola Chiesa, che porta la redenzione non solo oltre la morte, ma qui su questa terra: è il momento di lottare per un mondo più giusto, più umano, di lottare contro la violenza, contro il crimine. […] In queste ore la violenza sembra sventolare la sua bandiera. Ieri sera un fedele mi ha detto: ‘Stia molto attento, Monsignore, perché la belva è scatenata e assetata di sangue’. Allora fratelli, diciamo a quelli di voi che non sono in pericolo: ‘Lavorate, siete Chiesa’. […] Stiamo vivendo un’ora solenne, l’ora delle conferme; un’ora che ratifica la nostra consacrazione sacerdotale”.
Il 1° luglio del 1977 sale alla presidenza della Repubblica il generale Carlos Humberto Romero. Tra coloro che gli danno il caloroso benvenuto il nunzio apostolico e monsignor Alvarez Ramirez, colonnello - vescovo di San Miguel, il quale afferma che non esiste una Chiesa perseguitata ma uomini che allontanatisi dalla Chiesa agiscono contro la legge.
E mentre il presidente Jimmy Carter offre il suo appoggio alla campagna anti-terrorismo del Salvador proseguono le mattanze di innocenti, fra i quali ricordiamo Felipe Jesús Chacón, un contadino, il segretario generale dei contadini del Bloque popular, un amico di Monsignore. Il suo cadavere viene ritrovato straziato e orrendamente mutilato accanto ai corpi di altri due uomini, Serafín Vasquez e un certo Pablo, dilaniati da colpi di machete. Ufficialmente accusati di essere ladri di bestiame. Ed è a queste persone, a chi già se ne è andato e a chi resta che l’arcivescovo dedica la sua vita. Rinuncia alle ricchezze del palazzo arcivescovile, alla Cadillac, ai quartieri eleganti e si trasferisce alla “Divina Providencia”, un ospedale per malati terminali di cancro gestito dalle suore carmelitane di Santa Teresa. E’ qui che ascolta, dalla voce dei fedeli, le più orrende storie di sparizioni, omicidi, violenze carnali, torture, è qui che per alleviare le sofferenze degli oppressi dice che sono loro “l’immagine del Crocifisso”, che sono loro “il Cristo che soffre nella storia”.
La sua storia, intanto, oltrepassa i confini di El Salvador e gira il mondo. Raggiunge anche Maurizio Chierici, inviato speciale del “Corriere della sera”, che così descrive una delle messe di Monsignore: “Quando manca mezz’ora la chiesa è già piena, e per raggiungere l’altare Oscar Arnulfo Romero attraversa il corridoio che si apre con fatica davanti ai suoi passi. E’ piccolo, occhi vivaci, la pelle scura. Sono i passi di un uomo deciso: agitano l’abito talare troppo corto, mostra calzoni e scarpe impolverate. Le 8 del mattino. Alle 8 del mattino […] agli angoli della piazza i militari della guardia nazionale scendono dai camion. […] Quest’uomo minuto si serve del pulpito per svelare i delitti di stato. Lo fa con una durezza che supera ogni immaginazione. La sua voce ampliata dagli altoparlanti attraversa la piazza e insegue i militari nelle loro stanze. […] Il vescovo finisce la predica. Deve leggere qualche informazione […]: ‘Uomini fortemente armati, scesi da auto senza targa. Vetri abbrunati…’; portano via insegnanti, studenti, sindacalisti, avvocati, contadini […]. Il vescovo ha aperto un ufficio per il soccorso giuridico. Volontari rischiano la vita per compilare denunce o per riconoscere i corpi disfatti che al mattino riappaiono fra l’immondizia della periferia. I giornali non scrivono niente. Le sole notizie le distribuisce Romero. ‘Gonzáles Secundo Martin. Ha sedici anni. I militari lo sono andati a cercare a scuola. Hanno risposto alla madre di non avere fermato nessuno. Il presidente della Corte di giustizia riceverà la nostra denuncia. Mi auguro non faccia finta di niente. La scorsa domenica abbiamo annunciato che il dottor Carlos Ivan Burgos si trovava in un carcere della guardia nazionale. Mancava da casa da due settimane. Ho il dolore di farvi sapere che il suo corpo è stato scoperto due giorni fa…’. L’elenco è lungo. Il vescovo parla mentre le facce scoppiano nella paura di trovare fra i condannati un nome amico. Ogni nome suscita qualche grido, pianti silenziosi. La messa finisce”.
Le cosiddette “famiglie principali” non tollerano a lungo l’atteggiamento del monsignore e, indignate, si rivolgono al nunzio. Tentano poi la via del discredito, ma le campagne di disinformazione non trovano terreno fertile nel popolo sofferente del Salvador che vede in Romero la fiamma della speranza. Anche il Santo Padre, Giovanni Paolo II, tenta di dissuaderlo dal proseguire la sua battaglia: “Sia prudente nel fare denunce circostanziate. Non mi porti troppe carte, non ho tempo per leggerle, e poi, cerchi di andare d’accordo col governo”. Ma questo non accadrà. Anzi. Nel febbraio del 1980, poche settimane prima di essere ammazzato, scrive una lettera al presidente Carter, nella quale supplica la sua amministrazione a non inviare aiuti militari al governo del Salvador impegnato nella battaglia contro i “sovversivi”. L’invio di armi intensificherebbe soltanto le azioni di repressione contro il popolo, scrive, e sarebbe ingiusto che questi, per la intromissione di potenze straniere, non potesse decidere quale corrente economica e politica seguire. La lettera commuove il mondo intero e mentre la Casa Bianca cerca di correre ai ripari il Vaticano si indigna di fronte a quell’arcivescovo “esaltato”. In un’intervista concessa a Giancarlo Zizola il cardinale Baggio dirà che “Romero era un uomo poco intelligente, debole… Si faceva trascinare da un gruppo di gesuiti, i quali gli preparavano le omelie che egli poi leggeva pari pari…”.
Il 19 febbraio una bomba distrugge la sede di Radio YSAX. Domenica 24 una radio del Costa Rica, Radio Noticias, decide di diffondere le messe di Monsignore in Colombia, in Venezuela, in Brasile, in Nicaragua, in Argentina e in Uruguay. Quel giorno Romero lancia un appello ai membri dell’oligarchia: “Condividano ciò che sono e hanno. Non continuino a far tacere con la violenza la voce di quelli di noi che rivolgono questo invito. Non continuino a uccidere quelli di noi che stanno cercando di ottenere che vi sia una più giusta distribuzione del potere e delle ricchezze del nostro paese. Parlo in prima persona perché questa settimana mi è arrivato un avviso che il mio nome compare nella lista delle persone che devono essere eliminate la prossima settimana. Ma si sappia che nessuno può uccidere la voce della giustizia”.
Domenica 23 marzo la messa è trasmessa da Radio Noticias e da Radio YSAX, di nuovo in funzione. L’elenco delle vittime della repressione, recitato da Monsignore, sembra non finire mai e alla sua supplica affinché tale strazio abbia fine la folla si scioglie in lunghissimo applauso, l’ultimo prima della sua morte. Il giorno seguente, infatti, durante la messa delle 18, un sicario entra in chiesa, il fucile di precisione nascosto dietro la schiena. Monsignore lo vede. Si rivolge poi ai fedeli e dice: “Nessuno è potente per sempre e quelli che hanno posto nel loro lavoro un sentimento grande di fede, di amore per Dio, di speranza negli uomini… tutto questo sta traboccando adesso, in splendori di una corona che sarà la ricompensa di tutti quelli che lavorano così, irrigando la terra con verità, giustizia, amore, bontà… e non rimane qui, ma purificato dallo spirito di Dio, si raccoglie intorno a noi e ci ricompensa.
Questa santa messa, allora, questa eucarestia è un atto di fede. Attraverso la fede cristiana vediamo che in questo momento la voce delle controversie si converte nel corpo del Signore, il quale si offrì per la redenzione del mondo e che in questo calice il vino si trasforma nel sangue che fu prezzo della salvezza […]. Alle 18,26 si ode lo sparo, uno solo. La pallottola colpisce in pieno il cuore dell’arcivescovo che cade all’indietro. Un altro nome si aggiunge alla lunga lista dei martiri, di coloro che si sono dimostrati pronti a sacrificare la propria vita per amore del prossimo e per amore di Cristo. In quel momento i potenti gioiscono ma non sanno che non apparterrà a loro il regno dei cieli.

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Monsignor Conedera: il sacrificio di un giusto.

C’è una cosa che accomuna monsignor Oscar Romero a monsignor Juan Gerardi Conedera, e a tutti i martiri della storia: lo spirito di sacrificio. Parlo di sacrificio vero, quello che non si ferma di fronte alla minaccia della morte. E per Juan Gerardi Conedera la morte è stata crudele: domenica 26 aprile 1998, alle ore 22 circa, uno sconosciuto lo colpiva con un pezzo di cemento al capo, dopodiché infieriva violentemente sul volto. Solo due giorni prima il vescovo e alcuni suoi collaboratori avevano presentato, alla Cattedrale Metropolitana di Città del Guatemala, la relazione denominata “Guatemala Nunca mas”, Guatemala mai più. Si tratta di un documento che certifica le migliaia di violazioni dei diritti umani subite dal popolo del Guatemala e operate dall’esercito durante la guerra del 1960 - 1996 (si è potuto dimostrare che l’esercito è responsabile di 43.580 casi di violazioni su 55.000). Mentre il corteo funebre avanza lento per le strade della città altrove si festeggia il buon esito dell’omicidio. Ma chi ha ucciso il monsignore? La risposta non è difficile. Tutti conoscevano la sua battaglia contro gli abusi di potere del governo del Guatemala e tutti conoscevano il progetto REMHI, “una denuncia legittima, dolorosa che dobbiamo ascoltare con profondo rispetto e spirito solidale”. Sono le parole di Conedera, che continua: “Il nostro progetto si divide in quattro punti. Nel primo abbiamo analizzato l’impatto della violenza a livello personale, familiare e comunitario […] In questo stesso punto abbiamo trattato le diverse strategie della gente di affrontare queste situazioni limite e le loro richieste affinché questa violenza non si ripeta mai più. Nel secondo punto abbiamo trattato i meccanismi dell’orrore, come furono pianificati ed eseguiti i massacri, le torture, le deportazioni forzate, come hanno funzionato gli apparati del terrore, i servizi di Intelligence militare, le forze speciali della rivolta, l’addestramento degli uomini trasformati in macchine per uccidere e i metodi impiegati. Il terzo punto è un’ampia veduta storica della guerra, i cicli politici ed economici e i personaggi fondamentali del processo politico, fra i quali la Chiesa. Il quarto punto presenta i nomi e tutti i minimi dati di identificazione delle vittime, così come delle statistiche generali di raccomandazioni allo stato, alle forze politiche del Paese, alla Chiesa e alla comunità internazionale. In tutto questo la parola primaria è la Verità, l’azione seria e matura che ci dà la possibilità di rompere questo ciclo di violenza e di morte per avviarci verso un futuro di speranza e di luce per tutti”.
Due giorni dopo, 30 minuti prima dell’assassinio il capo della Polizia di Città del Guatemala ordina personalmente a tutte le pattuglie che si trovano nel raggio di 500 metri dalla canonica di Conedera di allontanarsi immediatamente (fonte MISNA Missionary Service News Agency). Lui sapeva che prima o poi sarebbe successo, che il potere avrebbe fatto qualunque cosa per soffocare il suo grido di giustizia, ma non ebbe mai paura. Ad un amico che gli chiese di non presentare la sua relazione perché temeva per la sua incolumità rispose: “Amico mio, chi testimonia Cristo e il Vangelo non può avere paura della Verità. Ed è da lì, dalla Verità che bisogna ripartire per costruire una cultura di pace”.

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