TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

Sulle guerre politicamente corrette

di Sandro Portelli

 

 

Malgrado la guerra in Kosovo sia apparentemente conclusa il contenuto di questo articolo storico è drammaticamente attuale.

Sono strane le vie del “portically correct”. La stessa gente che, quando eravamo rivoluzionari, ci faceva solennemente la morale accusandoci di essere violenti, adesso ci fa solennemente la morale accusandoci di essere non violenti e fa capire che non si ha diritto di parola se non si comincia con: “premesso che non sono pacifista…”. L’Italia è piena di gandhiani che inneggiano alla non violenza salvo che quando a sparare siamo noi, e che sono contro tutte le violenze possibili e contro quasi nessuna di quelle reali. Da Clinton al nostro ex vicino di collettivo, siamo circondati da oneste persone che per farsi perdonare di essere stati contro una guerra applaudono tutte le altre da allora in poi. E allora, tanto per non perdere il gusto di stare dalla parte del torto, premetto: sono contro la guerra, questa e tutte le altre. Lo dico perché riconosco che essere contro una cosa non significa che delle volte non si venga costretti a farla. Alle aggressioni e alle invasioni è necessario rispondere con tutti i mezzi necessari (certi editorialisti con l’elmetto sono gli stessi che criminalizzano i partigiani per avere usato la violenza contro i nazisti…). Dico necessario - non dico giusto. Perché le cose necessarie si fanno a malincuore, a quelle giuste si rischia di prenderci gusto: fare la guerra “giusta” significa cominciare a convincersi che può essere giusto uccidere, ed è una gran brutta china su cui mettersi. Per questo, non mi convince l’argomento secondo cui l’esistenza di guerre “giuste” sarebbe dimostrata dalla guerra “antinazista”, cioè la seconda guerra mondiale. Vale la pena di ricordare che quella guerra non è cominciata perché i paesi democratici e comunisti hanno deciso di punire la Germania per le violazioni dei diritti umani al suo interno, ma perché Germania, Italia e Giappone hanno aggredito e invaso la Polonia, la Francia, gli Stati Uniti, ecc.., costringendoli a difendersi. Altrimenti, nessuno sarebbe intervenuto in Germania, come nessuno era intervenuto in Spagna, dove pure sarebbe stato “giusto”. Gli alleati dunque non si mossero spinti da desiderio di giustizia, ma perché costretti. Sarebbe stato meglio se gli Stati Uniti avessero bombardato Tokyo prima che il Giappone bombardasse Pearl Harbour? Chissà. Certo è che la coscienza di stare rispondendo a un’aggressione rinforzò nei combattenti e nei resistenti il senso di essere nella ragione e nel diritto (Beniamino Placido ha scritto pagine bellissime sulla “scena primaria” del western, dall’Ultimo dei Mohicani in poi, in cui il “buono” spara solo dopo che il “cattivo” ha messo per primo mano alla pistola). Ora, anche se Milosevic è un criminale, la Serbia stavolta non ha invaso nessuno né sembra in grado di farlo in un prossimo futuro. Ci spiegano tuttavia che, grazie al progresso, oggi il concetto di aggressione viene ridefinito in modo da includere anche le violazioni dei diritti umani all’interno dei singoli Stati. Moralmente, ci sono buone ragioni: Milosevic e i fascisti turchi si meritano ogni male possibile. Ma in termini di storia, di politica, di diritto qualche problema resta. Intanto, perché adesso? Non mi sembra che oggi le violazioni dei diritti umani su scala mondiale siano maggiori che cinquanta o cento anni fa né che il senso umanitario abbia fatto chissà quali progressi… Solo che adesso esiste una potenza che è in grado di intervenire discrezionalmente, con una sproporzione di volume di fuoco inusitata, tralasciandosi appresso altri paesi. A molti commentatori, la quasi onnipotenza degli Stati Uniti sembra una variante del monopolio statale della violenza, e quindi un principio di legalità e di ordine: non si tratterrebbe di guerre ma di “azioni di polizia” volte a ricostituire l’ordine e la giustizia violati, ponendo fine al “feticcio” della sovranità statale in vista di un governo mondiale. Chi pensa questo dimentica però che la legittimità delle azioni di polizia non si fonda sul mero possesso della forza: altrimenti, chi ha più armi detta legge agli altri e basta (anche Milosevic ha il potere di imporre una legge con le sue milizie e dice di farlo per il bene della nazione; ma ciò non lo rende legittimo né giusto). Il potere statale di polizia si fonda invece sulla delega della violenza necessaria a un’entità terza e sopra le parti, che si impegna ad applicare regole certe e ad applicarle egualmente verso tutti: oggi, si vuole anche che questa entità sia democraticamente eletta e sia essa stessa sottoposta alle stesse regole. Quello a cui assistiamo invece non è l’erosione del concetto di sovranità statuale, ma la concentrazione della sovranità in uno stato solo non sottoposto a nessuna regola che non sia autogenerata. Per esempio: possiamo pensare come matrice di legalità mondiale condivisa gli Stati Uniti proprio nel momento in cui rifiutano di firmare la maggior parte dei patti regolatori internazionali, dalle emissioni tossiche alle mine antiuomo, fino al trattato internazionale sui crimini di guerra? Ci sono profonde radici storiche per questo atteggiamento: l’idea che tutti i patti siano legacci e impedimenti (“entangling alliannces”) risale a George Washington; l’abitudine a non ritenere vincolanti i trattati (come quello che gli imporrebbe di restituirci Silvia Baraldini) rimonta alla sistematica violazione dei trattati con gli indiani. Non si tratta di ipocrisia o malvagità, imperialistica ma di un’autentica, radicata difficoltà culturale, generata dalla lontananza geografica, dall’espansione continentale, dalla persuasione della propria eccezionalità, e riconoscere la sovranità altrui se non come un intralcio alla propria.. l’idea americana di libertà infatti è paurosa e affascinante proprio perché è pensata come assenza di limite: è la faccia da incubo del sogno americano di libertà che tanti di noi amano (la strada, il deserto, la prateria, tutti luoghi liberi anche perché non c’è nessuno…). In perfetta buona fede, il parlamento degli Stati Uniti ha discusso procedure e regole che rendono legittima l’uccisione da parte dei loro servizi segreti dei capi di stato stranieri. Ovviamente, senza reciprocità. E infatti non c’è niente di democratico né di interamente nuovo nell’idea di “intervenire” per il bene di popoli non in grado di governarsi da soli (come secondo alcuni commentatori sono oggi quelli dei Balcani) e per far cessare turbolenze e scontri interni, offrendo civilizzazione e imponendo una protezione fondata sull’occupazione militare e la limitazione della sovranità (“protettorato”): era già al centro di molte guerre coloniali di uno o due secoli fa. Tutte le guerre infatti contengono un principio di autogiustificazione. Perciò vorrei rilanciare la proposta che suggeriva un mio amico prima che cominciasse tutto questo: non aboliamo tutte le guerre; aboliamo solo le guerre giuste. E vivremo in pace. Questa guerra, cominciata abolendo l’Onu, è la fine, non l’inizio, dell’idea di un ordine mondiale legittimato a eventuali e necessarie “operazioni di polizia”. A questo principio di governo sostituisce infatti un potere unilaterale e ingovernabile. Anche questo si rappresenta come incarnazione dell’interesse generale, motivato da alti ideali e dall’interesse dell’umanità. Sarebbe bello se oggi queste cose il nuovo potere mondiale le facesse ipocritamente. Nella misura in cui ci crede davvero, e in cui noi lo aiutiamo a crederci, è infinitamente più pericoloso. Gli elicotteri americani dispiegati dalla Nato in Kosovo si chiamano “Apache”. Un paio di settimane fa ero a Carlisle, storica cittadina della Pennsylvania. Fu qui che nel 1751 Benjamin Franklin venne per la firma di un trattato con gli indiani, credo Delaware. Racconta nella sua autobiografia che, a firma avvenuta, fu autorizzata la vendita libera di liquore agli indiani, che si ubriacarono indecorosamente. E conclude: “E in effetti, se è desiderio della Divina Provvidenza estirpare questi Selvaggi per fare spazio ai Coltivatori della Terra, non è improbabile che Rum sia lo Strumento designato. Ha già fatto scomparire tutte le Tribù che un tempo abitavano lungo la Costa”. Ora che l’ex comunista Milosevic estirpa gli albanesi dal Kosovo, media e istituzioni continuano a descriverlo, come già Saddam, come un Hitler. Mi sembra un errore che ci impedisce di capire sia Hitler, sia Milosevic, sia noi stessi; infatti (a parte il conto dei numeri e dimensioni dei rispettivi crimini) non c’è bisogno di essere “Hitler” per essere un criminale. Milosevic non prepara l’estinzione scientifica di popoli interi, ma la loro espulsione da un territorio dove, una volta cacciata l’altra “razza”, si possa “far posto” alla propria (e se poi questo ha per conseguenza di “farli scomparire” del tutto, lo tratterà come un effetto collaterale). L’accostamento a “Hitler” ha dunque una funzione non tanto conoscitiva, quanto esorcistica: si riportano a questo ricettacolo del non-umano, del non-noi, tutti i mali e tutti i delitti per poter dire che non abbiamo niente in comune, che fra noi e loro esiste un abisso incommensurabile come quello che separa l’umano dall’alieno - il Bene dal Demonio, come dice Blair.. e’ un atteggiamento in parte contraddittorio, che fa di “Hitler” un’entità aliena, e poi lo dà come riproducibile; che assume giustamente il genocidio nazista come paradigma di tutti gli orrori, e lo banalizza facendone un crimine come un altro. Ma che va messo in relazione con tre aspetti di questa guerra: l’impulso a dividere buoni e cattivi, e quindi a polarizzare i conflitti, in una situazione come quella jugoslava dove, per quanto capisco, di innocenti non ne esistono; l’assunzione di un atteggiamento non tanto di superiorità morale, quanto di monopolio della moralità, esclusiva dell’umano: l’elusione della domanda se il comportamento di Milosevic e quello che lui rappresenta non abbia piuttosto precedenti interni alla memoria del campo stesso che lo combatte. Nel 1835, il presidente Andrew Jackson spiegava al Congresso la decisione di deportare l’intera nazione dei Cherokee (fra l’altro, la più assimilata e “civilizzata” di tutte) dai suoi territori in Georgia e North Carolina, fino a oltre il Mississippi, in Oklahoma: “Il progetto di trasferire le popolazioni aborigene che ancora rimangono nelle zone abitate degli Stati Uniti, verso territori a ovest del Mississippi sta infine per giungere a compimento. E’ stato adottato dopo matura considerazione delle condizioni di questa razza, e deve essere portato avanti fino in fondo, e perseguito con tutta l’energia che le circostanze permetteranno. Tutti i tentativi precedenti di far progredire gli indiani sono falliti. Sembra ormai un fatto accertato che non possono vivere prosperamente in contatto con una comunità civilizzata”. E proseguiva: “Indipendentemente dai trattati stipulati con le varie tribù… nessuno può dubitare che sia dovere morale del governo degli Stati Uniti proteggere, e se possibile preservare e perpetuare i resti dispersi di questa razza che ancora rimangono nei nostri confini” ne seguì una marcia sanguinosa di migliaia di chilometri, sotto la sorveglianza delle truppe, tra fame, sete e malattie, che provocò migliaia di morti. E’ passata alla storia col nome di Trail of Tears, sentiero delle lacrime. Se allora ci fosse stata la televisione, avrebbe mostrato lungo tutto il continente americano le stesse scene che vediamo oggi alla frontiera della Macedonia e dell’Albania. Con una differenza: la deportazione dei kosovani è un esplicito e brutale atto di violenza, quella dei Cherokee (e altre tribù prima e dopo) è invece un “dovere morale” fatto per “proteggere” i deportati. Jackson agiva come Milosevic, e parlava come la Nato: “Questo abbiamo fatto per il benessere fisico e il progresso morale degli indiani”. Una deportazione umanitaria. Ora, non mi sogno nemmeno di equiparare crimini, massacri, deportazioni che avvengono adesso con delitti analoghi avvenuti un secolo e mezzo fa. Voglio solo riflettere sul modo in cui la mancata memoria di quelle deportazioni (sostituita dal feticcio hitleriano) dia forma al comportamento dell’America e dei suoi alleati nei confronti di queste. In primo luogo (come ha mostrato la rivista Acoma, n. 11, estate-autunno 1997,dedicato a “immigrati e deportati”), il paradigma della deportazione ha continuato a operare nella storia americana: le espulsioni e i massacri degli indiani sono continuati fino al nostro secolo “indipendentemente dai trattati”; la deportazione è stata usata contro scioperanti, sovversivi, “alieni nemici” fino alla seconda guerra mondiale. In secondo luogo, la deportazione costituisce il modello di tutte le soluzioni semplificate che consistono nell’isolare il male ed espellerlo: la pena di morte; la “tolleranza zero”; l’impossibilità di intravedere altra soluzione che la distruzione totale del nemico; il bisogno di costituire a ogni costo, anche in situazioni intricatissime e ambigue, la semplice coppia amico-nemico (c’entra il western, dove i buoni e i cattivi si riconoscono dal colore dei cappelli?), il bombardamento umanitario. Infine: Jackson e Franklin non sono Hitler, anzi sono fondatori di quelle libertà democratiche di cui noi oggi godiamo. Nell’ultimo romanzo di Thomas Pynchon, Mason & Dixon, ambientato nella Pennsylvania del 700, un personaggio parla delle coperte infette di vaiolo vendute agli indiani per sterminarli, e di un massacro di donne e bambini avvenuto a Lancaster, vicino a Carlisle, poco dopo la visita di Franklin: “Purtroppo, la parola libertà, che ci suona così irriflessivamente sacra oggi, a quel tempo comprendeva anche i più cupi dei diritti degli uomini - far del male a chi vogliamo - fino allo sterminio, se possibile senza badare al consiglio del re o alle linee di confine. Questa è ahimè, una delle libertà per le quali si è combattuta la recente guerra (d’indipendenza)”. La deportazione, il massacro, la pulizia etnica stanno dunque dentro il DNA stesso delle nostre libertà, che sembrano incapaci di costituirsi e di vivere senza individuare un altro da sé, un non umano da distruggere ed espellere - e purtroppo non hanno difficoltà a trovarlo. Ma se in questo presunto non-noi non-umano riconoscessimo invece i nostri stessi germi, forse riusciremmo anche a trovare modi di affrontarlo e combatterlo senza riprodurre dentro noi stessi il suo stesso impulso alla distruzione dell’altro. Se capissimo quanto gli somigliamo, forse riusciremmo a somigliargli di meno. Credo che qui i comunisti occidentali abbiano un ruolo cruciale. In quanto occidentali, per ricordare la sua storia all’Occidente armato e smontarne la falsa buona coscienza. In quanto comunisti, per ricordare a noi stessi che Milosevic e quello che rappresenta vengono dal nostro campo, sono in esilio dalla nostra sconfitta non solo politica, ma anche morale, ci appartengono due volte. Come hanno fatto persone e paesi che erano stati “comunisti” a diventare così, non ce l’ha davvero spiegato ancora nessuno e non li possiamo esorcizzare neanche noi né prendendo le distanze, né tanto meno rovesciando la dicotomia del cattivo e del buono. Gli elicotteri si chiamano Apache; i fuoristrada si chiamano Cherokee. E Milosevic l’abbiamo chiamato compagno.

 

IO CHE SONO SOLO UN SELVAGGIO...

Nel 1854, il “Gran Capo Bianco di Washington” cioè il presidente Franklin Pierce, fece un’ offerta per una grande area di territorio indiano e promise una “riserva” per il popolo indiano. La risposta del Capo Seattle, qui pubblicata, è considerata la più bella e profonda dichiarazione sull’ambiente mai fatta da un uomo.


Quando il Gran Capo di Washington manda a dire che desidera acquistare la nostra terra, egli chiede molto da noi. Il Gran Capo manda a dire che ci riserverà un’area in modo che noi possiamo vivere comodamente. Egli sarà il nostro padre e noi saremo i suoi figli. Così noi considereremo la Vostra offerta di comprare la nostra terra.
Ma non sarà facile.
Perché questa terra è sacra per noi. Questa acqua scintillante, che scende nei fiumi non è solo acqua ma il sangue dei nostri antenati. Se vi vendiamo la terra, dovrete ricordare che è sacra, dovrete insegnare ai vostri figli che è sacra e che ogni immagine spirituale riflessa nella chiara acqua dei laghi parla di avvenimenti e ricordi nella vita del mio popolo. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, spengono la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe, e alimentano i nostri figli. Se vi vendiamo la nostra terra, dovrete ricordarvi e insegnare ai vostri bambini che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri, e che dovrete, d’ora innanzi, riservare ai fiumi tutte le gentilezze che riservereste a ogni fratello.
Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro modo di pensare. Un pezzo di terra è per lui uguale a quello del vicino perché egli è lo straniero che viene di notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha bisogno.
La sua avidità divorerà la terra e lascerà dietro a sè solo il deserto. Io non lo so. I nostri modi di pensare sono diversi dai vostri.
La vista delle vostre città fa male agli occhi dell’uomo rosso, forse perché l’uomo rosso è un selvaggio e non capisce. Non c’è luogo tranquillo nelle città dell’uomo bianco. Nessun luogo per ascoltare l’aprirsi delle foglie in primavera, o il fruscio delle ali di un insetto. Ma può darsi che questo sia perché io sono un selvaggio e non capisco. Già il solo fracasso sembra un insulto alle orecchie. E come si può chiamare vita se non si riescono ad ascoltare il grido solitario del caprimulgo o le discussioni delle rane di notte attorno ad uno stagno?
Io sono un uomo rosso e non capisco. L’indiano preferisce il sommesso suono del vento che increspa la superficie dello stagno e l’odore del vento stesso, purificato da una pioggia di mezzogiorno e profumato dai pini.
L’aria è preziosa per l’uomo rosso, perché tutte le cose dividono lo stesso respiro, la bestia, l’albero, l’uomo, tutti dividono lo stesso respiro. L’uomo bianco non sembra notare l’aria che respira. Come un uomo in agonia da molti giorni egli è insensibile alla puzza.
Ma se vi vendiamo la nostra terra, dovrete ricordare che l’aria per noi è preziosa, che l’aria divide il suo spirito con tutta la vita che sostiene. Il vento che diede al nostro avo il suo primo respiro, riceve, anche il suo ultimo sospiro. E se vi venderemo la nostra terra dovete tenerlo separato e considerarlo come un posto dove persino l’uomo bianco possa andare a sentire il vento addolcito dai fiori di prateria.
Così considereremo la Vostra offerta di acquistare la nostra terra. Se decideremo di accettare, io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà trattare le bestie come sue sorelle.
Io sono un selvaggio e non capisco altri modi.
Cos’è un uomo senza le bestie? Se tutte le bestie se ne fossero andate, l’uomo morirebbe di grande solitudine di spirito perché qualunque cosa succeda alle bestie, presto succede all’uomo.
Tutte le cose sono collegate.
Dovrete insegnare ai vostri bambini che la terra sotto i loro piedi è la cenere dei nostri avi. Affinché essi rispettino la terra, dite ai vostri bambini che la terra è ricca delle vite della nostra razza. Insegnate ai vostri bambini ciò che noi abbiamo insegnato ai nostri bambini: che la terra è nostra madre.
Qualunque cosa succeda alla terra, succede ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su sè stessi.
Questo noi sappiamo; la terra non appartiene all’uomo ma l’uomo appartiene alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate come il sangue che unisce una famiglia.
Tutte le cose sono collegate.
L’uomo non ha tessuto la trama della vita: egli è un filo.
Qualunque cosa egli faccia alla trama egli lo fa a sè stesso.
Anche l’uomo bianco, il cui Dio cammina e parla con lui da amico, non può essere esonerato dal destino comune.
Potremmo essere fratelli, dopo tutto.
Vedremo.
Noi sappiamo una cosa che l’uomo bianco potrebbe scoprire un giorno: il nostro Dio è lo stesso Dio. Ora potreste pensare che voi lo possediate come desiderate possedere la nostra terra, ma non potete.
Egli è il Dio dell’uomo, e la Sua misericordia è uguale per l’uomo rosso come per l’uomo bianco. Questa terra è per lui preziosa e trattarla male è accumulare disprezzo sul suo Creatore. Anche i bianchi dovranno passare, forse prima di tutte le altre tribù. Contaminate il Vostro letto e una notte soffocherete nei vostri rifiuti. Ma nel vostro perire voi splenderete, incendiati dalla forza del Dio che vi ha portato su questa terra e per qualche speciale scopo vi ha dato dominio su questa terra e sull’uomo rosso.
Questo destino è per noi un mistero, perché noi non sappiamo quando i bufali saranno tutti massacrati, i cavalli domati, gli angoli segreti della foresta appesantiti con l’odore di molti uomini, e la vista delle colline opulenti deturpata dai cavi.
Dov’è il boschetto? Sparito. Dov’è l’aquila? Sparita.
La fine della vita è l’inizio della sopravvivenza.

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