TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

Amnesty International: la verità sui diritti negati

Di Giorgio Bongiovanni con la collaborazione di Dora Quaranta
 

 

La protezione e la promozione dei diritti umani sono la base della libertà, della giustizia, della pace. (P. Sané, Segretario generale di Amnesty International)

Insignita del premio Nobel per la pace nel 1977 Amnesty International denuncia ogni anno pubblicamente storie di abusi e violenze contro uomini, donne e bambini innocenti.

La redazione di "Terzo Millennio", sempre a fianco di chi lotta contro ogni forma di ingiustizia rischiando la propria vita, ha deciso di pubblicare parte dell’importante Rapporto Amnesty 1998, affinché le gravi inadempienze dei governi e gli attacchi continui ai diritti ed alle libertà fondamentali di ogni uomo non rimangano nel silenzio, ma suscitino una profonda e concreta riflessione da parte di tutti.

Sono ormai trascorsi cinquant’anni da quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione Universale dei diritti umani (DUDU). Elaborata in risposta alle atrocità della seconda guerra mondiale, la Dichiarazione rappresentava la determinazione collettiva a non voler rivivere mai più quei tetri giorni. Fu una pietra miliare nel dibattito cominciato migliaia di anni prima nella storia dell’umanità: quali sono le qualità che ci rendono umani e quali sono i diritti, gli obblighi e le responsabilità che discendono da queste qualità nei nostri rapporti con gli altri? La Dichiarazione sancisce i diritti umani fondamentali necessari per la dignità e lo sviluppo di ogni essere umano. Essi vanno dai diritti economici, come il diritto al lavoro e ad un adeguato tenore di vita, ai diritti politici, come la libertà di opinione, di espressione e di associazione; comprendono i diritti civili, come l’uguaglianza di fronte alla legge, e quelli sociali e culturali, come ad esempio il diritto all’istruzione e alla partecipazione alla vita culturale della comunità. La Dichiarazione proclama solennemente che tutti questi diritti appartengono a tutti gli individui. In pratica, con la Dichiarazione i governi promisero di lavorare per un mondo senza più crudeltà e ingiustizia, senza più fame e ignoranza. Cinquant’anni più tardi, quanto i governi hanno tenuto fede a quella promessa? In quale misura i diritti sanciti dalla Dichiarazione sono divenuti realtà in tutto il mondo?

Purtroppo per la maggioranza delle persone i diritti sanciti dalla Dichiarazione non sono altro che promesse ipotetiche. Promesse che non sono state mantenute per il miliardo e trecentomila persone che lottano per sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, per i 35.000 bambini che ogni anno muoiono di malnutrizione e malattie prevenibili, per il miliardo di adulti, soprattutto donne, che non sanno leggere né scrivere, per i prigionieri di coscienza che languiscono in carcere in ogni parte del mondo o per le vittime della tortura in un terzo dei paesi del pianeta. La garanzia della Dichiarazione sul diritto alla vita è stata di poco conforto per Lidiya Morozvona Puchayeva, la cui figlia sedicenne e il suo bambino di tre mesi sono stati uccisi dalle truppe russe quando la famiglia fuggì terrorizzata per i combattimenti in Cecenia, la repubblica della Federazione Russa. La promessa della Dichiarazione sul diritto a cercare asilo e sulla libertà dalla detenzione arbitraria deve ancora concretizzarsi per i rifugiati che arrivano in Australia senza visto d’ingresso e che vengono automaticamente e arbitrariamente confinati in speciali centri di detenzione. In tutto il mondo i governi non sono riusciti a mantenere le promesse. Non è una novità. Spinti dall’opportunità politica e da interessi personali, i governi hanno a lungo calpestato i diritti dei propri cittadini per mantenere il potere e i privilegi di pochi. Costretti da condizioni economiche e sociali difficili, limitati da istituzioni nazionali deboli e corrotte, i governi non sono stati in grado di mantenere i propri impegni per i diritti umani. Ciò che, invece, è relativamente nuovo e profondamente preoccupante, è che i governi stanno preparando una sfida sempre più concertata al concetto che i diritti umani devono essere applicati universalmente e indivisibilmente.

Il cuore della Dichiarazione Universale dei diritti umani è racchiuso nel principio che i diritti umani sono universali e indivisibili e che il loro godimento spetta a tutti gli esseri umani. Nel preambolo la Dichiarazione riconosce la "dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana" e i "loro diritti uguali e inalienabili". L’articolo 1 afferma che "tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti", mentre l’articolo 2 precisa che "ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate dalla presente Dichiarazione senza distinzione alcuna". Raccogliendo insieme l’intera gamma dei diritti umani - civili, culturali, economici, politici e sociali - la Dichiarazione enuncia un corpus indivisibile e universale di diritti. Essa contiene il principio che i diritti umani sono correlati e interdipendenti tra loro e che si rafforzano reciprocamente. Riconosce, inoltre, che la libertà dalla paura e la libertà dal bisogno sono due aspetti del benessere umano inevitabilmente collegati.

Per molti anni, soprattutto all’apice della Guerra Fredda, alcuni governi avevano contestato l’intelaiatura dei diritti umani, sostenendo che era stata sviluppata e imposta per servire alla politica degli interessi occidentali. Tuttavia, la sfida concettuale ai diritti umani è cresciuta negli ultimi anni, con un gran numero di governi ed altri attori che ne contestano l’universalità, soprattutto con motivazioni culturali o religiose e che ne contestano l’indivisibilità per ragioni di opportunità economica.

La sfida all’universalità

Alcuni governi descrivono le proprie regole come derivanti dai precetti della fede islamica. Riferendosi alle sacre scritture dell’Islam, essi hanno cercato di giustificare la sistematica discriminazione nei confronti delle donne in paesi come l’Afghanistan, la persecuzione dei fedeli di altre religioni in nazioni come il Pakistan e le condanne alla fustigazione e alla mutilazione in Stati come l’Arabia Saudita. Il risultato di questa scelta è stata l’istituzionalizzazione delle violazioni dei diritti umani. In Arabia Saudita, ad esempio, nel febbraio 1997 un uomo condannato per appartenenza al cristianesimo è stato punito con 70 frustate: la sentenza è stata eseguita nel cortile della prigione, alla presenza degli altri detenuti. Al termine della punizione egli era a mala pena in grado di camminare. Le argomentazioni sulla particolarità delle culture e delle tradizioni spesso mascherano interessi politici ed economici. Gli Stati Uniti sono riluttanti a considerarsi vincolati dai trattati internazionali sui diritti umani che sanciscono i principi dell’universalità. Di fatto, gli USA sono l’unica nazione che non ha sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e uno dei pochi paesi che non ha ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Inoltre, pur avendo sottoscritto altre convenzioni internazionali sui diritti umani, le autorità statunitensi hanno spesso sollevato ampie eccezioni, rifiutando di attenersi a molte delle norme previste dalle convenzioni stesse.

Anche al proprio interno gli Stati - inclusi quelli che proclamano con orgoglio il loro impegno verso i diritti umani - non trattano in modo equo i propri cittadini. In molti paesi occidentali i delinquenti e gli emarginati sono spesso dipinti come individui di serie B, giustificando così il rifiuto di accordare loro diritti pari agli altri cittadini. I rifugiati, che fuggono dalle persecuzioni, vengono stigmatizzati come persone alla ricerca di immeritati vantaggi economici e, come tali, si nega loro il diritto a chiedere asilo.

Talvolta le consuetudini culturali non soltanto forniscono la giustificazione per gli abusi, ma sono esse stesse violazioni dei diritti umani. Nel caso delle donne, ad esempio, ciò che viene definito cultura o tradizione spesso nasconde pratiche che ne costringono e danneggiano l’esistenza. La mutilazione femminile è una delle manifestazioni più brutali della violenza contro le donne. Solitamente viene compiuta su bambine o ragazze da una praticante tradizionale con strumenti rozzi e senza anestesia. Gli effetti sulla salute fisica e psichica delle donne possono essere devastanti, persino rischiosi per la vita. Tale operazione è praticata in molti paesi africani, in diverse nazioni del Medio Oriente e tra alcune minoranze in altre parti del mondo. Dietro la mutilazione femminile vi è una complessa rete di fattori culturali correlati. Coloro che la praticano la considerano un rito necessario per l’iniziazione alla femminilità e per l’integrazione nella propria comunità: senza di essa, infatti, una donna non può sposarsi.

La salute e il benessere di milioni di ragazze e giovani donne dipende dalla riforma di pratiche profondamente radicate. Ciò non significa imporre valori culturali estranei od omologare la meravigliosa varietà dell’espressione umana collettiva. Universalità non vuol dire uniformità. Il contributo delle differenti culture, a livello locale e globale, arricchisce la nostra comprensione dei diritti umani. Senza alcun dubbio, garantendo la libertà di pensiero e di credenza e la libertà dalla discriminazione basata su razza, sesso, lingua o altre condizioni, la Dichiarazione Universale dei diritti umani è al servizio della protezione delle diversità culturali e religiose.

 La sfida all’indivisibilità

Molti governi dei paesi in via di sviluppo ritengono che una nazione può permettersi il lusso di concedere libertà civili e politiche soltanto quando ha raggiunto un certo grado di sviluppo economico. Ma la crescita economica non è garanzia certa di diritti economici e sociali. Molti governi dei paesi industrializzati hanno considerevolmente ridotto la possibilità di accedere gratuitamente all’istruzione, alle cure mediche e alla previdenza sociale, accrescendo così il numero dei senza casa e degli affamati. Ciò accade persino nelle nazioni più ricche. Sotto molti aspetti, l’attacco all’indivisibilità dei diritti richiama la sfida culturale all’universalità di cui si è detto in precedenza. Questa sfida dimostra che l’opposizione alla legittimità dei diritti umani è, in definitiva, frutto del potere politico ed economico e non della differenza dei valori culturali o religiosi. Essa sottolinea, inoltre, l’intrinseco legame tra l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani. Senza un certo grado di spazio politico e di libertà, i popoli non possono reclamare i propri diritti economici, sociali e culturali. Nella realtà lo sviluppo economico e sociale raramente va a beneficio dei più poveri e degli svantaggiati se questi non sono in grado di partecipare pienamente alla vita della società e di responsabilizzare i governi attraverso il pieno esercizio delle proprie libertà politiche e civili. E i popoli non possono esercitare i diritti politici e salvaguardare le libertà civili se sono tenuti al margine della società a causa della povertà o della posizione sociale. La povertà, in tutte le sue forme, è una grave violazione dei diritti economici e sociali sanciti dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani. Ma gli effetti della povertà non si fermano qui: essa rende i popoli vulnerabili ad altre violazioni dei diritti umani e limita le loro possibilità di risarcimento. L’articolo 7 della Dichiarazione, ad esempio, garantisce che "tutti sono uguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge", principio, questo, che appartiene alle costituzioni ed agli ordinamenti giuridici di tutto il mondo. Ma il godimento di questo fondamentale diritto civile e politico è compromesso quando i diritti economici e sociali sono negati e il sistema legislativo viene deviato a danno dei poveri e degli strati marginali della società.

In India l’ineguaglianza economica è spesso esacerbata da rigide gerarchie sociali per cui le caste inferiori o dalit patiscono discriminazioni sistematiche. Essi hanno un accesso ristretto all’istruzione, vivono in zone separate, fanno mestieri malpagati, socialmente riprovevoli e rappresentano la stragrande maggioranza dei braccianti schiavi senza terra. Invece di intervenire per applicare la legge in modo giusto ed equo, la polizia spesso agisce in collusione con i possidenti e commette abusi nelle comunità dalit. I loro beni vengono distrutti, essi vengono accusati falsamente, detenuti illegalmente e persino torturati; a ciò va aggiunto che spesso le vittime non hanno denaro, né posizione sociale o influenza politica che permetta loro di difendersi e ottenere risarcimenti. Nisha Devi, una ragazza dalit di 18 anni, alla presenza di molti testimoni, è stata parzialmente spogliata, immobilizzata al suolo, picchiata e presa a calci da quattro agenti di polizia che stavano cercando suo cognato. Il giorno successivo Nisha Devi ha sporto reclamo per l’aggressione subita, ma la polizia ha impiegato altre due settimane prima di registrare la denuncia e nel frattempo ha continuato a fare pressione su Nisha e la sua famiglia perché il reclamo fosse ritirato. E’ agghiacciante pensare come negli Stati Uniti la possibilità di essere condannati a morte dipenda dallo stato sociale ed economico dell’imputato. Dei 432 prigionieri "giustiziati" dal 1977, il 44% proveniva da minoranze etniche. Un nero che uccida un bianco ha molte più probabilità di essere condannato a morte. Da uno studio effettuato su diecimila casi di omicidio avvenuti in Florida è emerso che vi è una possibilità 15 volte maggiore che un nero venga condannato alla pena capitale per l’uccisione di un bianco, rispetto a un nero che abbia ucciso un altro nero. Molti detenuti nel braccio della morte appartenenti alle comunità afroamericane o ad altre minoranze etniche erano troppo poveri per permettersi un proprio legale ed erano stati rappresentati in modo inadeguato da difensori d’ufficio.

Come lo svantaggio economico e sociale impedisce agli individui di esercitare pienamente i propri diritti civili e politici, allo stesso modo la repressione politica li ostacola nella difesa dei propri interessi economici e sociali o di quelli della loro comunità. In molti paesi le persone che difendono i propri mezzi di sostentamento, terra e risorse hanno dovuto subire la violenta repressione dello Stato, spesso in nome dello sviluppo. Leticia Moctezuma Vargas, insegnante e attivista sociale nello stato messicano di Morelos, condusse una campagna contro l’ampliamento di un campo da golf su un terreno che la sua comunità Tepotzlan considerava sacro. Nell’aprile 1996 insieme alle sue figlie partecipò a un raduno che la polizia interruppe con la forza. Molte persone furono picchiate, compresa Leticia e le sue bambine. Da allora riceve continue minacce di morte che la esortano a "smettere di immischiarsi con la politica". In tutto il mondo i governi tentano di giustificare questo genere di violazioni in nome dello sviluppo e della competitività economica. Essi negano l’indivisibilità dei diritti umani, affermando che se ci si concentra innanzitutto sui diritti economici, gli altri diritti certamente arriveranno. Ma la crescita economica non necessariamente si trasforma in vero sviluppo umano. Lo sviluppo umano è un processo che riguarda il posto dei singoli nella società civile, la loro sicurezza e la loro capacità di determinare e realizzare il loro potenziale. Si tratta della realizzazione dei diritti umani - di tutti i diritti umani. Come ha concluso la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sullo sviluppo sociale, tenutasi a Copenaghen nel 1995, "al fine di promuovere lo sviluppo si deve dare pari attenzione ed urgente considerazione all’applicazione, alla promozione e alla protezione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali".

 Diritti delle donne

La Carta delle Nazioni Unite afferma la parità di diritti tra uomini e donne e la Dichiarazione universale dei diritti umani stabilisce che ognuno deve godere dei diritti umani senza alcuna discriminazione sulla base del sesso. Nonostante ciò la cecità sulla discriminante sesso della struttura internazionale di difesa dei diritti umani ha avuto come effetto che notevoli violazioni dei diritti della donna siano state ignorate e che non siano state affrontate le discriminazioni strutturali contro le donne. Molti abusi sono subiti solo o principalmente da donne o ragazze. Questi variano dall’infanticidio delle neonate femmine alla malnutrizione sproporzionata di cui soffrono le ragazze, dallo stupro alla mutilazione, dall’aggressione all’omicidio. Un numero indefinibile di donne e ragazze muore ogni giorno a causa di discriminazioni sessuali e violenza. Eppure, tradizionalmente, tali abusi dei diritti delle donne sono stati trattati come cosa a parte rispetto alle altre violazioni dei diritti umani e sono stati sottovalutati da governi e organizzazioni non governative. Il ruolo tradizionale della donna nella società spesso implica che le violazioni generalizzate dei diritti umani abbiano un impatto sproporzionato su di esse. La povertà e i conflitti colpiscono le donne non solo come individui, ma anche nella loro possibilità di accudire la propria famiglia. Le donne sono più vulnerabili agli attacchi armati contro bersagli civili proprio a causa della loro funzione all’interno della famiglia e della comunità. Per dare solo un esempio, le donne sono la maggior parte di coloro che si devono spostare a causa della violenza politica in Colombia. Decine di migliaia di contadine, molte delle quali di recente rimaste vedove, sono state forzate a lasciare le loro case, abbandonare i loro possessi e spesso anche i loro beni di prima necessità e trovare rifugi precari in baraccopoli intorno alle città della Colombia.

L’interpretazione della legislazione internazionale in materia di diritti umani ha tracciato una distinzione tra la sfera "pubblica" della società - istituzioni politiche, legali e sociali - e la sfera "privata" della casa e della famiglia. Ha concentrato la propria attenzione sui primi, ampiamente popolati dagli uomini e ha ignorato la cosiddetta "sfera privata" nella quale le donne erano tradizionalmente recluse. Questa distinzione ha condotto a uno dei più comuni equivoci nel campo dei diritti umani. Gli Stati sono stati ritenuti responsabili solo delle violazioni che avvengono nella sfera "pubblica", ma non degli abusi che si verificano nella sfera "privata". Il risultato è che molte violazioni dei diritti delle donne hanno ottenuto attenzione e mobilitazione insufficiente. Per esempio, l’interpretazione del diritto a non essere sottoposti a tortura non ha contemplato la violenza contro le donne nella famiglia (come la violenza domestica) e la violenza contro le donne nella comunità (come le mutilazioni femminili). Inoltre, il presupposto per cui la condizione delle donne nella società è un prodotto di tradizioni culturali e sociali inviolabili ha permesso agli Stati di respingere la responsabilità per le violazioni dei diritti delle donne. Amnesty International sta lavorando con gruppi di donne e associazioni in tutto il mondo per un incisivo Protocollo alla Convenzione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, che dovrebbe permettere alle donne di presentare proteste facendo riferimento a violazioni dei diritti contenuti in questo trattato.

 Le responsabilità dei governi e delle istituzioni economiche.

Non possiamo sperare di ottenere un mondo "libero dalla paura" (la promessa fatta dalla Dichiarazione universale dei diritti umani), fino a quando pratiche come il rogo delle vedove, la schiavitù dei bambini, le mutilazioni femminili, la violenza domestica e le aggressioni fisiche alle minoranze continueranno a verificarsi nell’impunità. Gli standard per i diritti umani recentemente elaborati sanciscono la responsabilità dei governi nel prevenire e punire tali abusi anche quando sono perpetrati da individui nella sfera "privata", in casa o nel contesto della comunità. Quando lo Stato non protegge i suoi cittadini dal torto subito da altri, esso condivide con questi ultimi la responsabilità del torto. Occorre concentrarsi non solo su ciò che il governo fa, ma anche su ciò che esso omette di fare per promuovere i diritti umani e prevenire le violazioni. I diritti umani non sono solo di competenza del governo. La ristrutturazione del mondo economico ha aumentato l’influenza delle istituzioni finanziarie internazionali e delle corporazioni globali. La Dichiarazione universale dei diritti umani si appella "ad ogni individuo e ad ogni organo della società" affinché svolga il proprio ruolo nell’assicurare il rispetto universale dei diritti umani. Le istituzioni finanziarie sono organi della società: esse hanno una parte importante da giocare nella promozione e protezione dei diritti umani. La loro forza-lavoro e i loro clienti devono poter godere di diritti quali la libertà dalle discriminazioni, il diritto alla vita e alla sicurezza, la libertà dalla schiavitù, la libertà di associazione, incluso il diritto a formare sindacati e ad eque condizioni di lavoro. Un’attenzione particolare deve essere prestata dalle compagnie che costruiscono armi o altri strumenti militari o di sicurezza, affinché assicurino che i loro prodotti non siano usati per violare i diritti umani. Inoltre, il mondo degli affari ha la responsabilità di usare la propria influenza per cercare di fermare, negli Stati con cui vi sono relazioni, le violazioni dei diritti umani da parte di governi o gruppi politici armati. Il silenzio dei potenti interessi economici in merito all’ingiustizia non è neutrale. Amnesty International sta sviluppando un programma di lobbying per fare appello sulla Banca Mondiale, sul Fondo Monetario Internazionale e sull’Organizzazione Mondiale del Commercio, affinché siano messe a punto politiche e programmi alla luce della protezione e della promozione di tutti i diritti umani, affinché siano sostenute le istituzioni della società civile che fanno da baluardo contro gli abusi di potere e affinché le violazioni dei diritti umani siano rese pubbliche con energia.

 I diritti umani nei conflitti armati

Uno degli aspetti più vergognosi dei conflitti armati contemporanei è l’uso dei bambini come soldati, principalmente (sebbene non esclusivamente) dai gruppi di opposizione armata. Il lavoro di Amnesty International sul reclutamento forzato di bambini da un gruppo di opposizione armata in Uganda, L’Esercito di Resistenza del Signore, illustra la devastazione fisica e psicologica causata. Molti bambini vengono uccisi o rimangono menomati durante i combattimenti. Altri sono soggetti a trattamenti brutalizzanti, inclusi gravi abusi fisici e sessuali, per renderli sottomessi all’autorità. In modo altrettanto traumatico, essi sono forzati a commettere a loro volta ulteriori abusi. Amnesty International ha deciso di sostenere gli sforzi internazionali per alzare a 18 anni il limite di età per il reclutamento militare, come un mezzo importante per prevenire il ciclo di orrore in cui i bambini sono intrappolati.

La brutalità dei conflitti in Algeria e in Africa centrale ha sconvolto il mondo. Un senso di impotenza di fronte alla ricorrenza di certe calamità ha spinto Amnesty International, insieme a molte organizzazioni, a rivedere la propria posizione nelle situazioni di conflitto armato e di cercare strategie creative per prevenirle e combatterle. Questa ricerca ha portato l’organizzazione ad effettuare modifiche al suo mandato. Queste includono l’impegno ad agire contro le mine anti-persona e contro altre armi i cui effetti sono indiscriminati.

 Responsabilità e realpolitik negli organismi politici dell’ONU

Di fronte alle continue e gravi violazioni dei diritti umani, sia l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sia la Commissione per i diritti umani hanno dimostrato tutta la loro inefficacia rispetto al compito della protezione delle vittime in Burundi, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. L’Assemblea Generale è stata silenziosa sulle vicende della Repubblica Democratica del Congo, perché nessuno Stato si è assunto il compito di guidare la preparazione di una risoluzione. L’Assemblea Generale avrebbe dovuto sostenere tematiche più ampie, come la necessità di investimenti a lungo termine per la ricostruzione di quelle istituzioni che potessero garantire il ripristino dello stato di diritto, una delle questioni chiave per una ricostruzione della pace in contesti post bellici. Non è nemmeno intervenuta - per il secondo anno consecutivo - sull’escalation di abusi in Burundi, nonostante la questione sia stata posta dagli esperti delle Nazioni Unite stesse per i diritti umani in quel paese. Nel 1997 alla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, Amnesty International ha fatto pressione sugli Stati affinché affrontassero le violazioni dei diritti umani gravi, persistenti e sistematiche in Algeria, Colombia, Indonesia e Timor Est, Nigeria e Turchia. Nonostante la Turchia abbia ancora una volta scampato il controllo internazionale, le forti pressioni esercitate sul governo turco hanno portato all’invito del governo a visitare il paese, invito rivolto al gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate o involontarie e al relatore speciale sulla tortura. Amnesty International è inorridita dal fatto che il gruppo di lavoro non abbia visitato la Turchia nel 1997. L’omissione ha solo aumentato sofferenze alle famiglie degli "scomparsi".

Il presidente della Commissione, in un discorso oculato e diplomatico, ha espresso soddisfazione per l’apertura di un ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani in Colombia, ma al tempo stesso ha espresso preoccupazione per il continuo aumentare delle violazioni dei diritti umani e per l’impunità che vige nel paese.

Valutazioni di tipo economico e le pressioni politiche di solidarietà regionale hanno fatto sì che la maggior parte degli Stati abbia evitato il confronto diretto con la Commissione. Il dialogo e una sobria diplomazia hanno dominato, ma troppo spesso si sono trasformate in una diplomazia che aveva poco da dire. L’occidente ha rivelato divisioni serie tra i suoi paesi. Un impegno verso gli ideali che la Commissione dovrebbe incarnare sono svaniti di fronte alle ragioni di lucrose prospettive di affari. Parecchie nazioni, come Australia, Canada, Francia, Germania, Grecia, Italia e Spagna hanno invertito la loro politica degli anni precedenti e rifiutato addirittura di appoggiare la bozza di risoluzione sulla Cina. Questa bozza di risoluzione, con la sua lieve censura sul tenore dei diritti umani in Cina, non è nemmeno stata votata dopo che la Cina aveva vinto una mozione d’ordine.

La Commissione ancora una volta ha completamente taciuto sulle gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza e gruppi politici armati in Algeria. E’ stato un altro "mattone nel muro di silenzio costruito dalla comunità internazionale", ha detto Amnesty International dopo la sessione. In ottobre, dopo che altre migliaia di civili erano stati massacrati, Amnesty International ha lanciato un appello congiunto insieme ad altre Organizzazioni Non Governative, affinché fosse indetta una sessione speciale della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani per istituire una inchiesta internazionale sulle responsabilità per le atrocità commesse in Algeria. Il Segretario generale di Amnesty International, parlando al lancio del rapporto dell’organizzazione sull’Algeria in novembre, ha detto ai diplomatici delle Nazioni Unite riunitisi a New York che per nessun altro paese in cui le violazioni sono così estreme c’è stata così poca attenzione (non c’è stato nessun esame, per non parlare di azione - nessuna visita, nessun osservatore, nemmeno una risoluzione votata). Ha continuato: "Una tale indifferenza di fronte alla carneficina quotidiana diventa sempre più insostenibile, perché è un’indifferenza che contribuisce a peggiorare la situazione permettendo all’impunità di prevalere. In assenza di una qualsiasi azione concreta, la condanna della violenza e l’espressione di rammarico per la perdita delle vite umane suonano sempre di più come vuota retorica". Alla fine dell’anno non era ancora stato fatto nessun passo per tenere una sessione speciale della Commissione o per dare inizio ad un’indagine internazionale. Con una nuova e inquietante presa di posizione, due Stati hanno denunciato i trattati sui diritti umani che essi avevano ratificato. La Giamaica ha annunciato che si sarebbe ritirata dal Protocollo opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (CIDCP). Questo ritiro, effettivo dal gennaio 1998, pone fine al diritto degli individui di appellarsi al Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani in merito alle violazioni della CIDCP. La Giamaica ha fatto questo passo senza precedenti per rendere più semplice l’esecuzione dei prigionieri nel braccio della morte. Anche la Corea del Nord ha dichiarato di essersi ritirata dalla CIDCP, nonostante un autorevole esponente del Comitato per i diritti umani abbia spiegato che la legge internazionale non permette agli Stati di ritirarsi una volta che hanno ratificato la CIDCP. Amnesty International nutre profonda preoccupazione per queste gravi sfide al sistema internazionale dei diritti umani che possono privare i cittadini di questi Stati della protezione e dei diritti di cui godono. L’organizzazione ha dichiarato che gli Stati, gli organismi delle Nazioni Unite per i diritti umani e gli alti funzionari delle Nazioni Unite devono fare sentire con tutta la loro forza la propria opposizione a tali passi e dissuadere altri stati dall’agire in maniera analoga.

 Diffondere il messaggio sui diritti umani

Una delle grandi sfide dei prossimi anni sarà quella di articolare e diffondere i valori della Dichiarazione Universale dei diritti umani, senza sminuire i concetti in essa insiti o l’universalità della loro applicazione. A livello più semplice, questo significa tradurre la Dichiarazione in tutte le lingue del mondo e renderla disponibile ai miliardi di persone che non sanno che essa esiste. E’ necessario ampliare la conoscenza e la consapevolezza dei diritti umani, avvicinandoci a tradizioni culturali, religiose e filosofiche diverse. I diritti umani potranno crescere ed essere fatti propri da una comunità solo se essi sono collegati alla lingua ed ai valori di tale comunità. L’universalità dovrebbe fare tesoro della diversità, non negarla.

Amnesty International è in una buona posizione per contribuire a questo sforzo poiché è un movimento internazionale con membri in più di 100 nazioni, in ogni regione del mondo. Il suo milione di iscritti sta facendo pressioni sui propri governi, appellandosi a essi affinché continuino a dedicarsi ai diritti racchiusi nella Dichiarazione e affinché traducano in realtà le loro promesse sulla protezione di tali diritti. Stanno chiedendo alla gente comune, ai leader delle comunità, ai gruppi religiosi, agli imprenditori di tutto il mondo di firmare un impegno al rispetto della Dichiarazione. Il più grande libro di firme sarà quindi presentato alle Nazioni Unite, a dimostrazione di come la gente tiene in considerazione i propri diritti umani. Dimostrando l’appoggio del mondo intero alla Dichiarazione universale dei diritti umani, Amnesty International spera di dare vita al documento, di impegnare i governi ad essere coscienti del modo in cui trattano i loro popoli e appoggiare il lavoro delle centinaia di difensori dei diritti umani. Molti hanno pagato con la libertà o con la propria vita la lotta coraggiosa per sostenere gli ideali della Dichiarazione. Amnesty International chiede alla gente in tutto il mondo di formulare questo impegno: "Prometto di fare qualsiasi cosa in mio potere per assicurare che i diritti enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti umani divengano realtà in tutto il pianeta". Da parte sua, Amnesty International farà qualsiasi cosa in suo potere per promuovere i diritti umani ovunque.

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Per tutti noi, per tutti i sei miliardi di abitanti della Terra, lo sviluppo sociale ed economico è sostenibile a lungo termine soltanto se aumenterà la dignità di tutti, se assicurerà uguali diritti a uomini e donne, se fornirà standard di vita soddisfacenti e libertà più ampie. Oggi il mondo possiede le risorse e le conoscenze per raggiungere questi risultati. Perciò il futuro non deve essere un futuro di caos e di miseria. Con la Dichiarazione stiamo andando nella giusta direzione: tutto quello che dobbiamo fare adesso è continuare a camminare. Ciò è esattamente quanto stanno facendo i difensori dei diritti umani in tutto il mondo e Amnesty International si è impegnata ad accompagnarli e a proteggerli. Qual è il tuo impegno? Un diritto umano negato ad una sola persona pone a rischio tutti quanti noi. Ricordiamo le parole del Mahatma Gandhi: "Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo".

(Pierre Sané)

       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli esseri di luce, tramite Eugenio Siragusa, hanno trasmesso un messaggio ad Amnesty International:

Osserviamo i vostri sforzi ed il vostro genuino, fraterno interesse verso il prossimo, verso coloro che sono costretti a subire la selvaggia violenza dei tiranni, dei boia del vostro tempo.

Sappiamo, altresì, quanto sia difficile modificare gli attuali stimoli di animalità sanguinaria, di odio, di ingiustificate vendette sempre più in fase crescente.

Noi stiamo lavorando per evitare il peggio nel senso globale, senza ignorare la possibilità di una vostra scelta tragica capace di determinare la scomparsa della vita sul vostro pianeta.

Affidiamo questo breve messaggio al nostro solerte emissario affinché vi giunga e vi porti la nostra ammirazione e la nostra fraterna benevolenza.

Pace a tutti voi.

Eugenio Siragusa, Nicolosi, 23 ottobre 1984

 

 

 

 

 

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"Tutti giù per terra!" Il 4 luglio a Roma, in Via dei Fori Imperiali, circa 5.000 persone hanno raccolto l’invito di Amnesty che ha chiesto l’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale Permanente equo. Otto intensi minuti di silenzio, sdraiati per terra, per ricordare i milioni di vittime di abusi e di violazioni dei diritti umani che ancora oggi attendono giustizia. Poi un applauso, ritmato e forte, ripetuto con ostinazione, un segnale chiaro ai rappresentanti dei governi presenti alla conferenza diplomatica.

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